Antonio di Ciaccia, Il godimento il Lacan

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Antonio di Ciaccia, Il godimento il Lacan


 

Il termine jouissance è un termine corrente in francese, come godimento lo è in italiano. Il Littré (il dizionario usato da Lacan) dà questi significati:

 

1) Azione di godere, soddisfazione intelletuale e morale, ovvero sensuale (cit.: “Il godimento è il termine del desiderio”, Charles Bonnet, Essai analytique sur le faculté de l’âme, 1760);

 

2) Azione di godere di ciò che procura gradimento (La citazione è di Bossuet);

 

3) Possesso e uso di qualche cosa, come il godimento di un privilegio;

 

4) Termine giuridico: l’esazione dei frutti che una cosa produce;

 

5) Termine di borsa e di finanza;

 

6) Si dice di un amore soddisfatto (cit.: “Quello lì ha fatto un madrigale su un godimento…”, Molière), oppure si dice di un’opera poetica in cui si descrive un’avventura amorosa;

 

7) Aver godimento di una donna, termine volgare, per dire fare sesso con lei.

 

Rispetto a questi significati, il termine italiano, godimento, non se ne discosta affatto. Piuttosto ne aggiunge uno: il godimento come condizione di eterna felicità ultraterrena (S. Battaglia, Utet).

 

 

 

In Lacan non troviamo un seminario o un testo dedicato unicamente al godimento, mentre ne troviamo di dedicati al desiderio, all’angoscia, al sintomo. Parla del godimento tuttavia in molti seminari, quasi sempre come se non potesse, o non volesse, trattarlo se non a margine. Vedremo in che modo, variando di contesto, arriverà a situare il godimento in un punto chiave assolutamente imprescindibile. Infatti se quello che lui chiama il Campo freudiano, ovvero il campo inaugurato dalla scoperta freudiana, a suo dire ha le coordinate nel significante, la base del Campo lacaniano (di cui si era lamentato nel ’71 di non averlo sufficientemente assodato) è, per l’appunto, il godimento. In altri termini, se la chiave per entrare in quello che Freud aveva chiamato “inconscio” era il significante, come Freud dimostrava a ogni passo (e quindi senza significante la cassaforte dell’inconscio rimaneva chiusa, come era rimasta chiusa a persone del calibro di Aristotele, Platone e Tommaso d’Aquino), ciò che si ritrovava dentro la cassaforte era solo e unicamente il godimento. Per cui possiamo dire che se l’inconscio freudiano si riassume nell’aforisma: l’inconscio è strutturato come un linguaggio (ossia è inconoscibile, ma non è ineffabile e almeno sappiamo che funziona “come” un linguaggio, o per dirla con altri termini, è logico, ossia funziona come un sapere logico, anche se non è proprio la logica aristotelica, infatti non conosce negazione, eccetera), per contro possiamo dire che il suo è un apparato di godimento.

 

 

 

Sebbene Lacan sia stato un lettore di Spinoza fin dall’adolescenza, non ha accostato la questione che ci riguarda facendo ricorso a una qualche beatitudine trascendente, come sarebbe l’amor intellectualis Deispinoziano, sorgente di beatitudine, ossia di godimento infinito. Il godimento, in Lacan, è da leggersi nelle coordinate freudiane e a partire dalla sua pratica clinica. Vediamo i fili freudiani che Lacan prende.

 

Primo filo: l’edipo freudiano. Il piccolo umano si trova di fronte all’interdetto portato sulla madre: la madre, come oggetto primo e primordiale di godimento, è proibita. Il padre è colui che dice di no al piccolo che vuole la madre tutta per sé.

 

Secondo filo: allo stato di indigenza e sconforto (Hilflosigkeit) del piccolo umano risponde un’esperienza di soddisfacimento (Befriedigungserlebnis) che è legata, tramite un intervento di una persona esterna, all’oggetto (per esempio il seno materno). L’oggetto, reale o allucinato, costituisce il fondamento del desiderio.

 

Terzo filo: Freud si rende conto che il sintomo stesso comporta uno strano godimento che investe il soggetto. Nel caso dell’Uomo dei topi Freud constata un “orrore di un proprio piacere a lui stesso ignoto” (Grausen von seiner ihr selbst unbekannten Lust).

 

Quarto filo: il sintomo comporta una ripetizione, come se quel soddisfacimento vuole, di per sé, ripetersi: è la coazione a ripetere (Wiederholungszwang). Senza questo filo, logico, si brancolerebbe nelle elucubrazioni più o meno deliranti.

 

Quinto filo: alla fine di un’analisi, e alla fine della sua vita, Freud constata la permanenza di resti sintomatici, refrattari alla significantizzazione: “è come parlare al vento”, dice Freud per indicare l’inanità dell’interpretazione a questo riguardo che egli traduce nell’espressione: rifiuto della femminilità (Ablehnung der Weiblichkeit).

 

Sesto filo: la clinica freudiana porta in primo piano uno strano personaggio, che, alternativamente, i pazienti (piccoli e grandi, maschi e femmine) attribuiscono al padre e alla madre: il fallo. Lacan capisce, non subito a dire il vero, che il fallo è il jolly della partita.

 

 

 

Premessa metodologica: Lacan non parte per costruire una teoria né tanto meno un sistema. Egli cerca di rendere chiaro ciò che è non-conosciuto. Per far questo egli parte dal dato clinico e dalla parola di Freud a cui attribuisce la stessa valenza della parola dell’isterica: Freud dice il vero ma non sa perché. Questo spiega degli apparentemente strani cambiamenti di posizione nella sua ricerca. Dato che il suo stile è sempre assertivo, Lacan non sottilinea i cambiamenti di rotta, anzi, sconcertandoci, li bypassa come se avesse detto sempre la stessa cosa.

 

Premessa sul metodo operativo di Lacan: Lacan riprende da Claude Lévy-Strauss una griglia a cui si atterrà lungo tutto il suo insegnamento: si tratta della triade immaginario-simbolico-reale.

 

In un primo tempo Lacan svalorizza l’immaginario: nei primi seminari egli mostra che la clinica postfreudiana gira in tondo poiché non riesce a uscire dalle secche dell’immaginario. Valorizza al massimo il simbolico, che è il modo tramite cui l’immaginario si articola. Non riesce tuttavia a centrare subito che cosa sia il reale. Il reale non è certo la realtà, ridotta a una variante dell’immaginario. In questo periodo del suo insegnamento Lacan svalorizza la libido freudiana e il godimento libidico riponendoli nel campo dell’immaginario. Abbacinato dai poteri della parola, Lacan considera che l’immaginario si piega al simbolico, che tutto l’immaginario si riorganizza secondo le linee del simbolico: abbiamo a che fare con un Wo Es war soll Ich werden trionfalistico.

 

Se si può fare una critica a Lacan è proprio questa: non già il fatto di affermare che l’inconscio è strutturato come un linguaggio, esperienza comune a ogni analista, ma il fatto di aver sottovalutato il valore della libido e la funzione della pulsione, riportandoli nell’alveolo dell’immaginario, con l’ipotesi, utopica, che il simbolico, ossia il funzionamento dell’inconscio, avrebbe riassorbito tutto, traumi compresi.

 

 

 

Dell’edipo Lacan ha sottolineato che esso è da intendere non solo nella diacronia, ma soprattutto nella sincronia. Il che vuol dire che ogni umano si iscrive nel mito edipico fin dalla sua venuta al mondo. In questo caso il mito edipico è una metafora del fatto che l’umano nasce nel simbolico. E la mancanza di godimento, a causa dell’interdizione prodotta dalla figura paterna, Lacan la legge come una metafora del fatto che l’umano, entrando nel linguaggio, perde il suo essere Cosa per essere elevato alla dignità del simbolico, secondo lo schema hegeliano dell’Aufhebung: il Simbolo è l’uccisione della Cosa. L’umano perde la sua supposta naturalità, rivela il suo essere simbolico (significante) che contemporaneamente lo rappresenta (“un significante rappresenta un soggetto per un altro significante”) ma lo mortifica pur eternizzandolo (noi non sappiamo se un significante - Beethoven per esempio – ci dice se il referente è vivo o morto).

 

Questo schema, che trae da Hegel via Kojève, Lacan lo utilizza a tutti i livelli, anche se lo esplicita in modo chiaro solo nella Signification du phallus (Scritti). In particolare egli lo applica al fallo e al desiderio.

 

Il desiderio si sprigiona proprio in questo circuito dell’Aufhebung: l’umano è preso dalla necessità di rispondere al bisogno, bisogno di quell’oggetto da cui avrebbe soddisfacimento. Ma l’umano non ha accesso all’oggetto del bisogno direttamente, deve passare per un altro (madre, padre etc), deve quindi annullare il bisogno in quanto tale ed elevarlo alla dignità del simbolico tramutandolo in domanda, che è un significante, ed è rivolta quindi all’Altro supposto soddisfarlo. La domanda produce nell’umano come significato il desiderio. A sua volta il desiderio, poiché non trova l’oggetto adeguato che lo soddisfi, si articola con il desiderio dell’Altro (“il desiderio dell’uomo è il desiderio dell’Altro”), in cui il genitivo è sia oggettivo che soggettivo: io desiderio ciò che l’Altro desidera e io desidero essere desiderato dall’Altro. Con questo circuito Lacan rende conto della libido e della pulsione. Non a caso la formula che egli dà della pulsione è proprio quella della domanda.

 

 

 

Qui si situa una grande intuizione di Lacan: la pulsione è sì muta, come diceva Freud, ma circola nelle “sfilate del significante”:[1] reperire come funziona la catena inconscia (cosa che avviene nell’applicazione della cosiddetta regola dell’associazione libera del paziente) permette di reperire il circuito della pulsione alla ricerca del suo soddisfacimento. In poche parole, Lacan tenta di imbrigliare il soddisfacimento pulsionale nella rete significante. Se ne capisce il motivo. Se per caso questo imbrigliamento non fosse possibile, la psicoanalisi come tale non avrebbe presa sul trauma.

 

Se in un primo momento Lacan aveva immaginarizzato il godimento, in un secondo tempo, interconnesso con il primo, Lacan opta dunque per la “significantizzazione del godimento”.[2] La libido viene così iscritta nel simbolico. Lacan spinge la significantizzazione del godimento sino al punto di dimostrare che il godimento è equivalente al significato di una catena significante inconscia, il cui vocabolario sarebbe costituito dalla pulsione. E’ questo che Lacan ha chiamato desiderio. In questo periodo Lacan fa l’ipotesi che il sintomo (che è l’effetto sull’umano della pulsione) possa essere diluito dai poteri della parola.

 

Qui viene a delinearsi il godimento edipico, frutto dell’accettazione da parte del soggetto della probizione del godimento incestuoso: la castrazione. “La castrazione vuol dire che bisogna che il godimento sia rifiutato perché possa essere raggiunto sulla scala rovesciata della Legge del desiderio”.[3] Si tratta ancora una volta dello schema dell’Aufhebung hegeliano: occorre che il godimento (incestuoso) sia proibito perché possa essere elevato alla dignità di un godimento permesso che si presenta sotto forma di desiderio. Per il riferimento alla Legge del desiderio, che crea il desiderio tramite l’interdizione, Lacan si basa su un passo dell’Epistola ai Romani di san Paolo.[4]

 

 

 

Qui, l’ottimismo di Lacan si stempera bruscamente scontrandosi con l’Entwurf di Freud, che era stato appena ritrovato con le lettere a Fliess. E’ la doccia scozzese, di cui rende conto nel Seminario VII, L’etica della psicoanalisi: la pulsione non cede ai poteri della parola. Freud chiama das Ding, la Cosa, quell’osso duro retrattario a ogni diluente dell’ordine significante. E’ la prima volta che il godimento, dopo essere passato dall’immaginario e transitato nel simbolico, si rivela reale. Il godimento allora è impossibile a significantizzare, è inaccessibile ai poteri della parola. Das Ding, la Cosa, vuol dire che il godimento, il soddisfacicmento pulsionale, non si incontra né nell’immaginario, né nel simbolico, vuol dire che è fuori da ciò che è simbolizzato, ed è questo che Lacan chiama “reale”. In questo contesto la madre, intesa come l’oggetto di godimento per eccellenza, viene a occupare il posto di das Ding. Non c’è quindi accesso al godimento se non tramite una forzatura, una trasgressione. Lacan si serve di Sade a questo scopo. Qui Lacan constata la profonda disgiunzione tra il significante e il godimento. Si vede che la libido freudiana scivola dallo statuto di desiderio allo statuto di das Ding, fuori significante e fuori significato.

 

Due notazioni: a questo punto diventa chiaro che il piacere (Lust) non è il godimento, anzi è una barriera contro il godimento: l’essere umano può avanzare senza farsi male nel piacere, ma si fa male se va nell’al di là del principio di piacere (Janseits des Lustprinzips) perché il godimento è eccesso, un-di-più che va oltre il limite del piacere e verso il dolore. Seconda notazione: ogni sintomo porta il marchio che Freud aveva scoperto sul volto dell’Uomo dei topi: la persona soffre, ma è invasa da uno strano godimento ripetitivo di cui non può fare a meno.

 

Chiamiamo le cose per nome: la definizione del godimento è ormai il nome dell’amalgama di libido e pulsione di morte. Ma se le cose stanno così, come trovare nelle maglie della struttura dell’inconscio una via d’uscita? Lacan la cerca nel Seminario VIII, Il transfert, dove Socrate dimostra, nel Simposio, che i poteri della parola hanno la loro efficacia.

 

 

 

A questo punto occorrerebbe aprire un capitolo, impossibile in questa occasione, sul personaggio più affascinante e più vanesio di tutta questa saga: il fallo.

 

Devo però dirne qualcosa, che farò, brevemente. Lacan mantiene il fallo nel primato in cui Freud lo aveva messo, ma lo scardina dal posto che i postfreudiani gli avevano dato o rifiutato (pensate alle battaglie tra le analiste di Vienna e di Londra), per concludere che il fallo non è né il pene né il clitoride, né un fantasma né un oggetto (parziale, interno, buono, cattivo ecc.) “giacché il fallo è un significante”.[5] Ora, dirlo significante, se giustifica la sua funzione per i due sessi, non rende conto del godimento. Lacan ha provato a innalzare il fallo a significante del desiderio, poi del godimento. Ma il povero fallo non ce l’ha fatta: se il desiderio era significantizzabile, il godimento rimeneva non significantizzabile.

 

Lacan (sempre a partire dalla clinica freudiana, di quella di Abraham e della propria) trova che la pratica clinica dà un’altra soluzione: il godimento in quanto tale rimane sì rifrattario a colui che parla, ma la pulsione si soddisfa con il suo percorso di andata e ritorno, senza trasgressioni né eroismi, ma girando intorno a un vuoto, ovvero a un incavo dove sono situati quelli che già Abraham aveva chiamato gli oggetti pregenitali. Lacan capisce che questi oggetti pregenitali non sono un gradino verso l’apoteosi della gloria fallica della genitalità, ma hanno un valore di per sé. Non già come stadi, ma come oggetti che si articolano gli uni con la domanda, gli altri con il desiderio: l’oggetto orale, in quanto collegato alla domanda indirizzata all’Altro (materno), e l’oggetto anale, in quanto collegato alla domanda che l’Altro (materno) indirizza al soggetto (bambino). A questi due oggetti Lacan aggiunge, a livello del desiderio, la voce e lo sguardo: ognuno di essi è un oggetto che è capace di causare il desiderio che egli chiama oggetto piccolo a. Lacan considerava che questo fosse il suo unico contributo alla teoria analitica.

 

Qual è il guadagno operativo di tutto ciò? Che se effettivamente il godimento è interdetto, l’umano non rimane a secco ma continua a desiderare. Anzi, questo oggetto a, che è causa del desiderio, ossia è a monte del desiderio, è un modo di procurarsi, a valle, un plusgodere inatteso: se da una parte la strada principale del godimento è barrata (il godimento della madre), il godimento lo si ottiene per una strada secondaria, come un surplus (il godimento procurato dagli oggetti della sublimazione, ma anche il godimento (mortifero, certo) degli oggetti dell’eccesso (sesso, droga, sostanze ecc).

 

Faccio notare che il godimento, da fuori portata del significante, rientra frantumato in quelli che Lacan chiama gli oggetti plusgodere, oggetti che entrano in circolazione provocando godimento nei vari discorsi (che si riassumono nei tre impossibili freudiani – governare, educare, curare-psicoanalizzare – e a cui Lacan aggiunge quello dell’isterica, ossia far desiderare).

 

Nota a margine: se a monte il desiderio viene causato dagli oggetti a (orale, anale, voce, sguardo), a valle del desiderio gli oggetti del plusgodere sono molti di più. E la società capitalistica si è adoperata a creane dei nuovi, anche se inutili, ma supposti far godere: basta andare in giro per negozi o guardare la pubblicità.

 

Si potrebbe pensare che la partita sul godimento sia chiusa qui, con il Seminario XVII, Il rovescio della psicoanalisi: il godimento è interdetto a colui che parla in quanto tale, ma briciole di godimento sono accessibili tramite il discorso che veicola il desiderio e cerca il soddisfacimento tramite la catena significante in modo metonimico (sempre alla ricerca di un oggetto fuori portata) o in modo metaforico (fissandosi su degli oggetti).

 

 

 

Invece Lacan riapre la partita da zero, o meglio dal fallo e dal godimento fallico. Sarà una cavalcata tale da togliere il respiro ma che darà – finalmente – posto e giustizia a quel godimento femminile, che era tanto richiesto dalle donne, sebbene anch’esse non rivelassero mai di che si trattasse. Questa cavalcata è ardua, e va al di là dei tre Seminari in cui è posta la questione - dal Seminario XVIII, Di un discorso che non sarebbe del sembiante (Einaudi), al XIX, …ou pire (Seuil), al magnifico Seminario XX, Ancora (Einaudi).

 

Questi tre seminari hanno, fondamentalmente, tre personaggi: l’uomo, la donna e il fallo. Lacan tende a oltrepassare i miti freudiani (l’edipo e il padre di Totem e tabù), mobilitando la logica, (Aristotele, Peirce, gli assiomi di Peano, la teoria della quantificazione), per tentare di scrivere il rapporto sessuale, cosa che comporterebbe il godimento tra l’uomo e la donna. In realtà se il rapporto sessuale si può dire (le parole d’amore sono già, di per sé, un godimento), tuttavia non si arriva a scriverlo, ossia non si arriva alla sua formula.

 

Schematizzerò la cavalcata lacaniana in tre tappe e una conclusione.

 

Prima tappa: l’uomo e la donna desiderano. La causa del desiderio si polarizza, versante maschile, sullo sguardo e, versante femminile, sulla voce.

 

Seconda tappa: l’impasse sessuale è causata proprio da quello che avrebbe dovuto esserne il facilitatore: il fallo. Il fallo, se è il terzo termine nel rapporto sessuale tra un uno e un una, non funziona però da medium. “Se lo si collega con uno dei due termini, con il termine uomo per esempio, si può essere certi che non comunicherà con l’altro, e inversamente”.[6]

 

Terza tappa: anche se c’è, l’atto sessuale non arriva mai a cogliere il rapporto sessuale: ognuno, se gode, gode solo dalla sua parte. Il godimento dell’Uno non gode del godimento dell’Altro, inteso qui come l’Altro sesso.

 

Conclusione: un uomo e una donna arrivano a fare “uno” solo fantasmaticamente o nei detti d’amore. Il godimento sessuale non conviene al rapporto sessuale poiché il corpo “si” gode come un Uno senza l’Altro, in modo autoerotico. Lacan definisce questa disgiunzione con l’aforisma: non c’è rapporto sessuale.

 

 

 

Lacan constata che il godimento è stato sempre considerato a partire dal versante maschile (dove ci si arena subito sul godimento dell’organo peniano, sulle faccende di potere etc), mentre scopre – tardi, bisogna dirlo – che le vere risorse si trovano sul versante femminile. Lacan non smentisce il godimento maschile, che gira intorno al fallo, sia per i maschi sia per le femmine, e il cui sacrificio viene chiamata nel gergo analitico “castrazione”, condizione per accedere al desiderio.

 

Tuttavia scopre che è proprio il godimento dell’organo a impedire il rapporto sessuale: “il godimento fallico è l’ostacolo per cui l’uomo non arriva a godere del corpo della donna, precisamente perché ciò di cui gode è il godimento dell’organo”.[7]

 

Da una parte dunque c’è il godimento collegato con il godimento fallico, che non si riduce solo al godimento dell’organo, poiché comporta anche il godimento della parola. E’ un godimento a cui tutti gli umani hanno accesso. D’altro canto egli isola un altro godimento, un godimento che non è complementare, ma supplementare al primo. E’ un godimento silenzioso, che sfugge alla simbolizzazione e che è affine all’infinito: è questo che egli chiama godimento femminile e il cui accesso è possibile alle donne (a cui è più consono) e agli uomini (a cui è meno consono poiché ingombrati dall’organo fallico). Tra coloro che ne danno prova Lacan annovera i mistici, maschi e femmine. In questo godimento ciò che è investito non è l’organo, ma il corpo intero.

 

Qui si situa un cambiamento radicale di rotta: questo godimento supplementare è concepito come il principio del regime stesso del godimento in quanto tale. C’è, certo, un godimento che è edipico (e quindi fallico), ma c’è un godimento che va al di là dell’edipo (e quindi al di là del fallo).

 

Lacan ci arriva a partire dalla dissimmetria che egli incontra tra gli uomini e le donne per quanto riguarda il fallo e il godimento fallico. Nota che qualcosa, nelle donne, non è mai preso nella dialettica della castrazione. Lacan ha generalizzato questo statuto inedito del godimento e ne fa il regime del godimento in quanto tale.

 

In fondo in Lacan si mettono in forma due sostanze, una esterna all’altra: la sostanza significante e la sostanza godente. La prima prende il suo statuto dall’inconscio freudiano e la seconda prende il suo statuto dal ça, ossia dall’Es freudiano.

 

C’è una congiunzione/disgiunione tra l’inconscio (che parla) e l’ Es (che è muto), ossia tra il desiderio e la pulsione. La disgiunzione è sottolineata dal fatto che il desiderio è sempre collegato con il desiderio dell’Altro, mentre la pulsione rimane sempre ancorata al corpo proprio: è il godimento dell’Uno. Mentre la congiunzione Lacan la scrive con il termine stesso di godimento: jouis-sens, ossia godi-senso. Parallelamente, Lacan sostituisce i due termini inconscio (ossia il versante significante) e Es (ossia il versante godimento) con il termine “parlessere”.

 

 

 

Il godimento è quindi collegato al corpo, ma quello che Lacan chiama “corpo” è l’incarnazione dell’Esfreudiano. Non è il corpo che gode, poiché si tratta del corpo che “si” gode: ossia non è il corpo che gode del rapporto sessuale, non è l’organo che gode di sé, ma è il corpo che gode di se stesso. Lacan la raffigura nella statua di santa Teresa d’Avila del Bernini.

 

D’altro canto il linguaggio stesso non è più valido per comunicare o equivocare (come è tipico del linguaggio umano), poiché c’è un linguaggio che ha effetti di godimento sul corpo, un linguaggio cioè che serve a godere, e che egli chiama la “lalingua”.

 

Finalmente è questa congiunzione di significante e godimento che Lacan chiama “reale”, che è quel reale che si racconta in analisi: si tratta dell’effetto degli incontri contingenti tra il significante e il godimento. Incontri che però, una volta avvenuti, diventano necessari, anche se impossibili da sopportare. Così come lo è il trauma in ogni destino soggettivo. E’ questo “reale” che viene portato in analisi.

 

 

 

Tutto ciò porta a uno spostamento rispetto al punto di applicazione della pratica analitica. Infatti nel primo Lacan la pratica clinica si basa sulla mancanza-a-essere e sul desiderio di essere. In questo contesto l’interpretazione analitica tende a riconoscere il desiderio del soggetto che è sottointeso e a portarlo alla luce. Ogni volta che si interpreta, un sogno per esempio, si interpreta nel regime dell’interpretazione di riconoscimento. Dirò che questa modalità rimane di grande efficacia soprattutto negli adolescenti. Abbiamo a che fare qui con un Lacan freudohegeliano. Ma quando Lacan diventa freudolacaniano l’interpretazione non sarà più centrata sul riconoscimento del desiderio, ma sulla causa del desiderio, che, come ho detto, prende forma nell’oggetto a. Ossia l’asse è spostato dal desiderio, il quale viene dall’Altro, al godimento, il quale è, sempre, dal lato della Cosa, in diretto contatto con il corpo pulsionale.

 

 

 

Fin dall’inizio la psicoanalisi ha considerato il godimento sotto forma negativa: che sia il godimento incestuoso interdetto, che sia l’accettazione della castrazione per poter accedere al desiderio, che sia l’impossibile che condensa il “non c’è rapporto sessuale”, che sia il fatto che il godimento è collegato con la pulsione di morte e che si presenta nelle varie patologie psicotiche, siamo sempre nel registro del godimento negativo. Eppure si impone anche un godimento positivo, sia quello ipotetico che sarebbe prima dell’interdetto (dell’Eden si direbbe in linguaggio biblico), sia quello che si elabora nel giro della pulsione. Già Freud l’aveva reperito nel godimento della sublimazione, poi sarà reperito negli oggetti a, sebbene l’eccesso che ogni plusgodere richiama punta al di là del principio di piacere per arrivare a volte fino al dolore o a rivelarsi in un vero e proprio godimento mortifero.

 

 

 

Tuttavia il passaggio fondamentale da godimento negativo a godimento positivo si sviluppa su tre piani. Il primo piano concerne il fatto che il godimento primario sarebbe dell’ordine del positivo. Possiamo ipotizzare, Lacan lo dice più volte, che sia lo statuto del corpo vivente il poter godere di sé: ogni corpo vivente sarebbe (notate il condizionale) autogodente, come i gigli del campo evangelici. I problemi sorgono però con l’iscrizione del corpo vivente nel linguaggio: qui la libido non è più diretta in modo univoco dall’istinto, ma, nella pulsione, trova più possibilità di soluzione, e sorgono quei problemi che si condensano nei sintomi che rivelano le difficoltà che l’umano ha a livello delle cose dell’amore e del lavoro (per dirla con Freud).

 

Lacan segna il passaggio da godimento mortifero a godimento non solo vivibile ma creativo variando il termine sintomo con “sinthomo”.[8] Il sintomo comporta un godimento mortifero di cui il soggetto non riesce a fare a meno: nella sua ripetizione si tratta di un godimento che è tale per l’apparato inconscio ma non per la persona. Il sinthomo (antica grafia del termine, anche in italiano) comporta invece che il corpo “si” gode nella ripetizione, la quale non comporta sofferenza per la persona, la quale, al contrario, ci trova spunto di creazione e d’invenzione.

 

Questo spostamento si precisa nel fatto che la pratica clinica, secondo Lacan, si prolunga al di là del punto che Freud considerava come la fine dell’analisi. Vale a dire che, se Freud si trova confrontato, alla fine di un’analisi, con un resto sintomatico, considerato invalicabile, Lacan considera questo resto come qualcosa che è alle origini stesse del soggetto e ne costituisce l’evento originario e al contempo permanente, ossia si reitera in modo incessante.

 

Un’immagine che lo rappresenta è “il frattale”:[9] l’oggetto frattale mostra che la reiterazione del medesimo tramite applicazioni successive dà forme molto complesse. L’interpretazione per Lacan tende a isolare in logica questo oggetto frattale iniziale, che è ciò per cui un individuo può dire: “io sono ciò che sono”.

 

Come dicevo, Lacan chiama tutto ciò sinthomo, e un parlessere vi scopre la sua singolare modalità di “godersi”.

 

 

 

 


 

 


 

[1] J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino, 2003, p. 145.

 

[2] J.-A. Miller, I paradigmi del godimento, Astrolabio, Roma, 2001, p. 13. (Si veda il capitolo “I sei paradigmi del godimento”).

 

[3] J. Lacan, “Sovversione del soggetto e dialttica del desiderio nell’inconscio freudiano” (1960) , Scritti, t. 2, Einaudi, Torino, 1974, p. 830.

 

[4] J. Lacan, Il seminario, Livro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), Einaudi, Torino, 2008, p. 98-99.

 

[5] J. Lacan, “La significazione del fallo” (1958), Scritti, Einaudi, Torino, 1974, p. 687.

 

[6] J. Lacan, Il seminario. Libro XVIII, Di un discorso che non sarebbe del sembiante (1971), Einaudi, Torino, 2010, p. 130.

 

[7] J. Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora (1972-1973), Einaudi, Torino, 2011, p. 8.

 

[8] J. Lacan, Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo (1975-1976), Astrolabio, Roma, 2006.

 

[9] J.-A. Miller, “Leggere un sintomo”, Attualità lacaniana, n. 14, Alpes, Roma, 2012, p. 27.

 

Da: www.lapsicoanalisi.it/psicoanalisi/index.php/per-voi/rubrica-di-antonio-di-ciaccia/132-il-godimento-in-lacan.html
 

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