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Antologia della
Pragmatica della comunicazione umana di Paul Watzlawick
Ridondanza: L’omeostato di Ashby e il
processo stocasico
Il congegno è costituito da quattro identici
sottosistemi autoregolantesi e tutti interconnessi in modo tale che una
perturbazione provocata in uno qualunque di essi influenza gli altri e a
sua volta ciascuno reagisce attraverso gli altri. Nessun sottosistema
può quindi ottenere il proprio equilibrio isolandosi dagli altri, e
Ashby ha potuto mostrare che questa macchina ha delle caratteristiche
‘comportamentali’ davvero degne di attenzione.
L’omeostato ottiene la stabilità mediante una
ricerca casuale delle sue combinazioni e continua finché non raggiunge
una configurazione interna adatta. E’ un comportamento identico alla
“prova ed errore” di molti organismi in stato di tensione. Nel caso
dell’omeostato il tempo di ricerca può andare da alcuni secondi a delle
ore.
Ashby osserva che i sistemi naturali conservano
l’adattamento, almeno parzialmente. Vale a dire che i vecchi adattamenti
non sono distrutti dal sopravvenire dei nuovi e che non occorre
cominciare da capo la ricerca come se prima non si fosse mai giunti a
una soluzione.
Nell’omeostato, ognuna delle 390.625
configurazioni interne ha in qualunque momento una eguale possibilità di
essere determinata dall’azione reciproca dei quattro sottosistemi. Il
verificarsi quindi di una data configurazione non ha assolutamente alcun
effetto sul verificarsi della successiva configurazione o sequenza di
configurazioni. Si dice che una catena di eventi mostra di comportarsi a
caso (randomness) se ogni elemento ha una eguale probabilità di
verificarsi in qualunque momento. Per, cui non si può trarne alcuna
conclusione, come non si può predire nulla sulla sua sequenza futura.
Che è un altro modo per dire che non reca informazione. Tuttavia, se un
sistema come l’omeostato ha la capacità di immagazzinare gli adattamenti
precedenti per usarli in futuro, la probabilità inerente alla sequenza
delle configurazioni interne subirà un drastico cambiamento nel senso
che certi raggruppamenti di configurazioni diventeranno ripetitivi e per
tale ragione più probabili di altri. Si noti a questo punto che non
occorre attribuire un significato a tali raggruppamenti: che esistano è
il fatto che meglio li spiega. A una catena del tipo che abbiamo appena
descritto si dà la definizione di processo stocasico, un
concetto fondamentale della teoria dell’informazione. Dunque, il
processo stocastico si riferisce alla legittimità inerente a una catena
di simboli o di eventi, sia che la sequenza si presenti semplice come i
risultati ottenuti estraendo palline bianche e nere da un’urna, sia
complessa come i modelli specifici di elementi timbrici e orchestrali
adoprati da un certo compositore, o l’uso particolare del linguaggio che
caratterizza lo stile di un autore, o lo schema grafico (che è assai
importante ai fini diagnostici) tracciato da un elettroencefalogramma.
Secondo la teoria dell’informazione i processi stocastici mostrano
ridondanza o vincolo, due termini il cui uso è
intercambiabile con quello di modello.
La ridondanza è stata studiata ampiamente in due
settori della comunicazione umana: in quello della sintassi e in quello
della semantica; e a questo proposito dovremmo ricordare il lavoro
pionieristico di Shannon, Carnap e Bar-Hillel. Una delle conclusioni che
si possono trarre da questi studi è che ognuno di noi ha moltissime
cognizioni sulla legittimità e sulla probabilità statistica inerente sia
alla sintassi che alla semantica della comunicazione umana. Da un punto
di vista psicologico queste cognizioni sono di un genere molto
interessante, perché sono cognizioni di cui non abbiamo quasi nessuna
consapevolezza. Forse solo un esperto dell’informazione può stabilire
con esattezza la probabilità di ricorrenza e i livelli di frequenza
delle lettere e delle parole di una data lingua, tuttavia tutti siamo in
grado di individuare e correggere un refuso, di sostituire una parola
mancante, e di esasperare un balbuziente finendo una frase per lui. Ma è
assai diverso sapere una lingua e sapere qualcosa su una lingua.
Una persona può essere in grado di usare la propria lingua madre
correttamente e fluentemente senza tuttavia conoscere la grammatica e la
sintassi, cioè le regole che egli osserva nel parlare la lingua.
Se costui dovesse imparare un’altra lingua — ma non nello stesso modo
empirico in cui ha acquisito la lingua madre — dovrebbe anche imparare
certe regole sul linguaggio.
Il grande linguista Benjarnin Whorf ha fatto
rilevare più volte questo fenomeno, ad es. nel capitolo Scienza e
linguistica:
I linguisti scientifici hanno da tempo capito
che la capacità di parlare correntemente una lingua non conferisce
necessariamente una conoscenza linguistica, cioè una comprensione dei
suoi fenomeni di sfondo, dei suoi processi sistematici e della sua
struttura, più di quanto la capacità di giocare una buona partita a
biliardo non richieda la conoscenza delle leggi della meccanica che
agiscono sul tavolo da biliardo.
E’ chiaro che la ridondanza pragmatica è
sostanzialmente simile alla ridondanza sintattica e semantica. Anche di
essa abbiamo moltissime cognizioni che ci danno la possibilità di
valutare, di influenzare e di predire il comportamento. In realtà, in
questo settore possiamo facilmente incorrere in molte incoerenze: i
comportamenti diversi (fuori del contesto), ‘ casuali ‘, o ‘non
vincolati’ ci colpiscono subito come se fossero molto più incompatibili
di errori di comunicazione puramente semantici o sintattici. E tuttavia
è proprio in questo settore che siamo più sprovveduti fino al punto di
ignorare le regole che vengono osservate nella comunicazione efficace o
violate in quella disturbata. Siamo continuamente influenzati dalla
comunicazione; come abbiamo accennato sopra, anche la nostra
autoconsapevolezza dipende dalla comunicazione. Hora è assai esplicito e
convincente su questo punto: “Per capire se stesso l’uomo ha bisogno di
essere capito dall’altro. Per essere capito dall’altro, ha bisogno di
capire l’altro “ (85, p. 237). Ma se la comprensione di una
lingua si basa sulle regole della grammatica, della sintassi, della
semantica, ecc. su quali regole si basa la comprensione di cui parla
Hora? Ancora una volta sembra che le sappiamo senza sapere di saperle.
Siamo in costante comunicazione e tuttavia non riusciamo quasi mai a
comunicare sulla comunicazione.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 30 |
Il modello degli scacchi
La ricerca di un modello è la base di ogni indagine
scientifica. Dove c’è un modello c’è un senso — questa massima
epistemologica vale anche per lo studio della interazione umana. Questo
studio sarebbe relativamente facile se ci limitassimo a interrogare
coloro che si trovano in un rapporto di interazione e ad apprendere
direttamente i modelli che essi di solito seguono o, in altre parole, le
regole di comportamento che hanno stabilito tra di loro. Una
applicazione d’uso comune di questa idea è il questionario tecnico.
Tuttavia, una volta che ci si sia resi conto che il valore nominale
delle dichiarazioni è spesso dubbio, soprattutto in psicopatologia — i
soggetti possono benissimo dire qualcosa e voler dire
qualcos’altro — e che, come abbiamo appena visto, ci sono domande che
ricevono risposte del tutto prive di consapevolezza, allora è chiaro che
occorrono altri metodi di indagine.
Bateson ha reso più sottile e penetrante questa
analogia con i livelli di consapevolezza enunciando il problema secondo
i nostri schemi concettuali presenti:
Quando saliamo la scala degli ordini di
apprendimento, entriamo in regioni di modellazione sempre più astratta,
che sono sempre meno soggette a un’analisi consapevole. Più sono
astratte — più sono generali e formali le premesse che rendono possibile
il montaggio dei nostri modelli — più esse sono profondamente inabissate
ai livelli neurologici e psicologici e tanto meno esse sono accessibili
a un controllo consapevole.
L’abitudine di dipendenza è molto meno
percettibile per l’individuo di quanto lo sia l’aver ottenuto aiuto in
una data circostanza. Può essere in grado di riconoscere questo modello,
ma riconoscere quello successivo, più complesso — che, cioè, dopo aver
cercato aiuto, in genere morde la mano che lo nutre — è una cosa che
forse trova troppo difficile da esaminare con piena consapevolezza.
Fortunatamente per noi (che vogliamo capire
l’interazione umana), il quadro appare diverso a un osservatore esterno,
il quale si trova in un certo senso nella posizione di chi, vedendo
giocare una partita a scacchi, non capisce quali siano le regole e
l’obiettivo del gioco. Assumiamo il gioco degli scacchi come un modello
concettuale e supponiamo di rappresentare la mancanza di consapevolezza
che i ‘giocatori’ manifestano nella vita reale con una ipotesi
assai semplice, e cioè che l’osservatore non parli né capisca la lingua
dei giocatori e non sia quindi in grado di chiedere spiegazioni.
L’osservatore noterà presto che il comportamento dei giocatori mostra
diversi gradi di ripetizione, di ridondanza, da cui si possono trarre
conclusioni abbastanza indicative: per esempio, che quasi sempre la
mossa di un giocatore è seguita dalla mossa di un altro giocatore. Si
può quindi dedurre subito da questo comportamento che i giocatori stanno
seguendo la regola di alternare le mosse. Non altrettanto facilmente si
possono dedurre le règole da seguire per muovere i pezzi, in parte per
la complessità delle mosse e in parte per l’irregolarità’ della
frequenza con cui si spostano i pezzi singoli. Ad esempio, è senz’altro
più facile dedurre la regola da seguire per muovere gli alfieri
piuttosto che per arroccare, che è certo una mossa più insolita e meno
frequente, tanto che accade che non vi si ricorra affatto nel corso di
una particolare partita. L’osservatore noterà anche che l’arroccare
comporta due mosse consecutive da parte dello stesso giocatore e quindi
la regola di alternare le mosse ne risulta invalidata. Ma l’alternare le
mosse ha una ridondanza di gran lunga maggiore dell’arroccare per cui si
impone come regola generale nèlla teoria che l’osservatore sta
elaborando. Che si debbano alternare le mosse è un’ipotesi che resta
valida per lui, anche se l’arroccare è una contraddizione palese che
rimane irrisolta. E’ dunque probabile che, dopo aver assistito a una
serie di partite, l’osservatore sia in grado di stabilire con molta
esattezza quali sono le regole e qual è l’obiettivo del gioco (cioè dare
scacco matto). Ci preme sottolineare che potrebbe giungere a formulare
queste regole senza avere la possibilità di chiedere alcuna
informazione.
Un risultato simile significa che l’osservatore
ha ‘spiegato ‘ il comportamento dei giocatori? Noi diremmo che ha
identificato un modello complesso di ridondanze. E’ chiaro
che se volesse potrebbe attribuire un significato ad ogni singolo
pezzo e ad ogni regola. Nulla gli vieta di creare anche una mitologia
complessa del gioco e del suo significato ‘più profondo’ o ‘reale’ che
includa anche una narrazione fantastica dell’origine del gioco, come in
realtà è stato fatto. Ma sono tutte cose che non servono a capire il
gioco; una spiegazione del genere o una mitologia avrebbe col gioco
degli scacchi lo stesso rapporto che ha l’astrologia con l’astronomia.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana” |
Siamo affascinati dalle spiegazioni che
sembrano brillanti e approfondite
Che non ci sia alcun rapporto necessario tra
fatto e spiegazione è stato dimostrato da Bavelas in un esperimento
recente: ad ogni soggetto è stato detto che stava partecipando a una
ricerca sperimentale sulla formazione del concetto e a ciascuno è stato
consegnato lo stesso cartoncino grigio zigrinato che era appunto
l’oggetto su cui doveva formulare i concetti’. I soggetti furono divisi
in gruppi di due e visti separatamente ma simultaneamente; ad uno dei
due si disse otto volte su dieci, del tutto a caso, che le sue
osservazioni sul cartoncino erano esatte; all’altro soggetto si disse
cinque volte su dieci, sempre a casaccio, che le sue osservazioni sul
cartoncino erano esatte. Le idee del soggetto che era stato
‘ricompensato’ con una frequenza dell’80% restarono a un livello
semplice, mentre il soggetto che era stato ricompensato con una
frequenza del 50% elaborò teorie sul cartoncino complesse, sottili,
astruse, senza trascurare il minimo dettaglio di fattura. Quando i due
soggetti furono messi in contatto e si disse loro di discutere le loro
scoperte, il soggetto con le idee più semplici soccombette subito
alla ‘brillantezza’ dei concetti dell’altro e riconobbe che era stato
l’altro quello che aveva analizzato il cartoncino con vera precisione.
Ci auguriamo che l’esempio che segue renda più
unitaria la nostra trattazione della ridondanza della pragmatica della
comunicazione umana. Come il lettore forse sa, per programmare un
calcolatore occorre immettervi in un dato ordine un certo numero di
regole specifiche (il programma); tali regole poi guidano il calcolatore
in un gran numero di operazioni abbastanza flessibili eseguite sulla
base di un modello. Abbiamo già accennato che si ha proprio la
situazione opposta quando si considera la ridondanza della interazione
umana. Dall’osservazione del particolare sistema in attività si cerca
poi di fissare le regole che sono alla base del suo funzionamento, del
suo ‘programma‘, per restare fedeli all’analogia col
calcolatore.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 31 |
Metacomunicazione e concetto di calcolo
Il nostro ipotetico osservatore, studiando la
ridondanza pragmatica di quel fenomeno comportamentale che è il ‘giocare
a scacchi ‘, ha acquisito delle cognizioni che hanno una
stimolante analogia con il concetto matematico di calcolo. Un
calcolo, secondo Boole, è “un metodo che si basa sull’impiego di
simboli, le cui leggi di combinazione sono note e generali, e i cui
risultati consentono una interpretazione coerente“. Riteniamo che
sia implicito in quanto abbiamo già detto che è senz’altro possibile
concepire una rappresentazione formale di. questo tipo nella
comunicazione umana, come del resto abbiamo già evidenziato che esistono
alcune difficoltà di ‘discorso’ su questo calcolo. Quando i
matematici non usano più la matematica come uno strumento di computo, ma
fanno di tale strumento l’oggetto del loro studio — ad esempio, quando
mettono in forse la coerenza dell’aritmetica in quanto sistema — usano
un linguaggio che è sulla matematica anziché farne parte.
Seguendo il suggerimento di David Hilbert, tale linguaggio è stato
chiamato: metamatematica. La struttura formale della matematica è un
calcolo; descrivere tale calcolo è metamatematica. Nagel e Newman hanno
definito la differenza tra i due concetti con chiarezza ammirevole:
L’importanza, nel nostro campo, di
comprendere a fondo la distinzione fra matematica e metamatematica non
sarà mai abbastanza sottolineata. Quando essa non è stata rispettata,
sono sorte delle confusioni e dei paradossi. Quando il suo
significato è stato rettamente inteso, è stato possibile mettere in
chiara evidenza la struttura logica del ragionamento. Il merito di
questa distinzione è di implicare una precisa codificazione dei vari
segni che intervengono nella costruzione di un calcolo formale, libero
da ipotesi nascoste e da associazioni di significati non pertinenti.
Inoltre, essa èsige le definizioni esatte delle operazioni e delle
regole logiche della costruzione e della deduzione matematica, le quali,
spesso, sono state applicate dai matematici senza una esplicita
coscienza della loro natura.
Quando non usiamo più la comunicazione per
comunicare ma per comunicare sulla comunicazione, come dobbiamo
inevitabilmente fare studiando la comunicazione, gli schemi concettuali
che adopriamo non fan parte della comunicazione ma vertono su di
essa. Definiamo quindi metacomunicazione, per analogia con la
metamatematica, la comunicazione sulla comunicazione. Rispetto alla
metamatematica, il lavoro di ricerca della metacomunicazione incontra
due grossi inconvenienti. Il primo svantaggio è che nel campo della
comunicazione umana non ci sia finora nulla di confrontabile al sistema
formale del calcolo. Come vedremo tra poco, questa difficoltà non
esclude però l’utilità del concetto. Il secondo svantaggio è
strettamente collegato al primo: mentre i matematici hanno - due
linguaggi (numeri e segni algebrici per esprimere fatti matematici e il
linguaggio naturale per la metamatematica), noi dobbiamo limitarci ad
usare il linguaggio naturale che resta per noi il veicolo sia della
comunicazione che della metacomunicazione.
Qual è dunque l’utilità della nozione di calcolo
della comunicazione umana, se si ammette che gli elementi specifici di
tale calcolo appartengono al futuro? A nostro parere è una nozione che
ci offre (e qui sta la sua utilità immediata) un modello potente della
natura e del grado di astrazione dei fenomeni che vogliamo identificare.
RicapitoliamO, dunque: stiamo cercando le ridondanze pragmatiche;
sappiamo che non saranno grandezze o qualità statiche e semplici ma
modelli di interazione analoghi al concetto matematico di funzione;
possiamo infine prevedere che tali modelli avranno le caratteristiche
tipiche dei sistemi con controllo d’errore e che per-seguono scopi. Se
una volta poste tali premesse esaminiamo con attenzione le catene di
comunicazione tra due o più comunicanti, i risultati a cui giungeremo
non possono certo pretendere di costituire un sistema formale, ma
avranno senz’altro natura di assiomi e di teoremi di un calcolo.
Nagel e Newman descrivono l’analogia tra un
gioco come quello degli scacchi e un calcolo matematico formalizzato.
Spiegano come:
i pezzi e i quadrati della scacchiera
corrispondono ai segni elementari del calcolo; le posizioni permesse dei
pezzi sulla scacchiera, alle formule del calcolo; le posizioni iniziali
dei pezzi, agli assiomi o alle formule iniziali del calcolo; le
posizioni successive dei pezzi, alle formule dedotte dagli assiomi
(cioè, ai teoremi); e le regole del gioco, alla regola di inferenza (o
deduzione) del calcolo.
Nagel e Newman proseguono mostrando che le
configurazioni dei pezzi sulla scacchiera come tali sono ‘ prive
di significato ‘, mentre le asserzioni su tali configurazioni
sono perfettamente dotate di significato. Gli autori descrivono anche
asserzioni che presentano questo tipo di astrazione:
teoremi generali dei ‘metascacchi’ possono
venire dimostrati con ragionamenti che implicano solo un numero finito
di configurazioni possibili sulla scacchiera. Il teorema dei
‘metascacchi’ sul numero di mosse iniziali del bianco può essere provato
secondo questa linea; e così pure il teorema che, se il bianco ha solo
due cavalli e il re, e il nero solo il re, è impossibile che il bianco
dia scacco matto al nero.
Abbiamo citato per esteso perché si tratta di
una analogia che illustra il concetto di calcolo che interessa non
soltanto la metamatematica ma anche la metacomunicazione. Perché se
estendiamo l’analogia fino a includervi i due giocatori non stiamo più
studiando un gioco astratto ma piuttosto sequenze d’interazione umana
che sono rigidamente governate da un complesso corpo di regole. L’unica
differenza sta nel fatto che noi preferiamo adoprare il termine ‘
formalmente indecidibile’ invece che ‘privo di significato ‘
quando ci riferiamo a un singolo comportamento (ad una ‘mossa’, per
mantenere l’analogia col gioco degli scacchi). Un tale comportamento,
a, può essere dovuto a un aumento di stipendio, al conflitto
edipico, all’alcool, o a una grandinata, ma ogni discussione sulla
ragione che ‘realmente‘ lo ha determinato sarà inevitabilmente una sorta
di disputa accademica sui sesso degli angeli. A meno che (o finché)
non si riesca a scoperchiare la scatola cranica per osservare la mente
dall’esterno, tutto il materiale di cui possiamo disporre ci proviene
dalle nostre inferenze e dai resoconti personali, ma è noto quanto siano
entrambi inattendibili. Tuttavia, se si nota che il comportamento a
sollecita il comportamento b, c, d, oppure e
nell’altro, mentre è evidente che esclude i comportamenti x, y e z,
allora si può postulare un teorema della metacomunicazione.
Riteniamo che si possa definire l’interazione, ricorrendo ancora
all’analogia col gioco degli scacchi, come sequenze di ‘mosse’
rigidamente governate da regole, ma è irrilevante che i comunicanti
siano perfettamente consapevoli delle regole oppure non ne abbiano
alcuna consapevolezza; è invece estremamente importante che su tali
regole sia possibile fare delle asserzioni di metacomunicazione
dotate tutte di significato. Il che significa che esiste un calcolo
(finora privo di interpretazione) della pragmatica della comunicazione
umana le cui regole vengono osservate nella comunicazione efficace e
violate nella comunicazione disturbata. Per le cognizioni che abbiamo
ora, questo calcolo si può
paragonare a una stella la cui esistenza e
posizione sono state postulate dalla astronomia teorica ma che ancora
gli osservatori non sono riusciti a scoprire.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 36 |
IL CONCETTO DI SCATOLA NERA
Solo pensatori molto radicali sono del parere
che la mente umana non esista, ma tutti coloro che studiano i fenomeni
mentali purtroppo sanno bene quali tremende difficoltà incontra la loro
ricerca per l’assenza di un punto archimedeo fuori della mente. Più di
ogni altra disciplina la psicologia e la psichiatria riflettono se
stesse:
soggetto e oggetto sono identici, la mente umana
studia se stessa, e ogni ipotesi tende inevitabilmente a
autoconvalidarsi. L’impossibilità di vedere la mente ‘al lavoro‘
ha fatto adottare negli ultimi anni un concetto elaborato nel
settore delle telecomunicazioni, cioè quello di ‘scatola nera’. La sua
prima applicazione è stata militare: si è deciso che non si potevano
aprire, per esaminarle, certe apparecchiature elettroniche catturate al
nemico perché era molto probabile che contenessero cariche distruttive.
In seguito il concetto è stato generalizzato e si è giunti alla
conclusione che l’hardware elettronico è così complesso che
talvolta conviene trascurare la struttura interna di un dispositivo e
studiare esclusivamente i suoi rapporti specifici di ingresso-uscita.
Anche se è vero che questi rapporti non escludono interferenze con
quanto si verifica ‘realmente’ all’interno della scatola, le cognizioni
che se ne possono trarre non sono indispensabili per studiare la
funzione del dispositivo nel sistema più grande di cui fa parte.
Se applichiamo il concetto a problemi psicologici e psichiatrici, si
vede subito il vantaggio euristico che presenta: non abbiamo bisogno di
ricorrere ad alcuna ipotesi intrapsichica (che è fondamentalmente
inverificabile) e possiamo limitarci ad osservare i rapporti di
ingresso-uscita, cioè la comunicazione. Riteniamo che questo modo
di accostarsi ai problemi psicologici caratterizzi in questi ultimi anni
tutta una tendenza importante della psichiatria che considera i sintomi
una sorta di ingresso nel sistema familiare piuttosto che l’espressione
di un conflitto intrapsichico.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 36 |
CONSAPEVOLEZZA E NON CONSAPEVOLEZZA
Lo studio del comportamento umano, sulla base
del concetto di ‘scatola nera ‘, ci porta a considerare l’uscita di una
‘scatola’ come l’ingresso di un’altra. Ma stabilire se tale scambio di
informazione sia consapevole oppure no è un quesito che non ha più
quella importanza che invece conserva in una struttura psicodinamica. Il
che non significa certo che non sia importante stabilire, (per quanto
riguarda le reazioni a un comportamento specifico) se tale comportamento
sia consapevole o inconsapevole, volontario, involontario o sintomatico.
Se a qualcuno viene pestato un piede, per lui è molto importante sapere
se il comportamento dell’altro è stato intenzionale o involontario. Ma
l’opinione che si fa in proposito si basa necessariamente sulla sua
valutazione dei motivi dell’altro e quindi su una ipotesi di ciò che
passa dentro la testa dell’altro. E se anche chiedesse all’altro i
motivi di quel gesto non potrebbe certo fidarsi della risposta che
riceverebbe, perché l’altro può dire che il suo comportamento è stato
inconsapevole, quando invece sa bene che è stato intenzionale, o magari
può dichiarare che è stato intenzionale quando in realtà è stato del
tutto accidentale. Questo ripropone il problema di come attribuire il
‘significato‘, che è senz’altro una nozione indispensabile
per l’esperienza soggettiva della comunicazione con gli altri; ma
abbiamo appreso dalle nostre ricerche che è una nozione oggettivamente
indecidibile e quindi esula dai fini che si prefigge lo studio della
comunicazione umana.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 37 |
Non si può non comunicare
L’attività o l’inattività, le parole o il
silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli
altri, a loro volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni e
in tal modo comunicano anche loro. Dovrebbe essere ben chiaro che il
semplice fatto che non si parli o che non ci si presti attenzione
reciproca non costituisce eccezione a quanto è stato appena asserito.
L’uomo che guarda fisso davanti a sé mentre fa colazione in una tavola
calda affollata, o il passeggero d’aereo che siede con gli occhi chiusi,
stanno entrambi comunicando che non vogliono parlare con nessuno né
vogliono che si rivolga loro la parola, e i vicini di solito ‘afferrano
il messaggio’ e rispondono in modo adeguato lasciandoli in pace. Questo,
ovviamente, è proprio uno scambio di comunicazione nella stessa
misura in cui lo è una discussione animata.
E neppure possiamo dite che la comunicazione ha
luogo soltanto quando è intenzionale, conscia, o efficace, cioè quando
si ha la comprensione reciproca. Che il messaggio emesso eguagli o meno
il messaggio ricevuto rientra in un ordine di analisi importante ma
diverso, in quanto in definitiva deve basarsi su valutazioni di dati
specifici, introspettivi, riferiti dal soggetto, cosa che abbiamo deciso
di trascurare nell’esposizione della teoria comportamentistica della
comunicazione. Sul problema della comunicazione fraintesa il nostro
interesse, date certe proprietà formali della comunicazione, è rivolto
allo sviluppo delle patologie attinenti, indipendentemente dalle
motivazioni o dalle intenzioni dei comunicanti (anzi, malgrado esse).
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 43 |
Livelli comunicativi di contenuto e di
relazione
Un altro assioma era sopra implicito quando si è
accennato che ogni comunicazione implica un impegno e perciò definisce
la relazione. E’ un altro modo per dire che una comunicazione non
soltanto trasmette informazione, ma al tempo stesso impone un
comportamento. Accettando l’impostazione di Bateson (132, p.
179-81), si è giunti a considerare queste due operazioni come l’aspetto
di ‘notizia’ (report) e di ‘comando’ (command) di ogni
comunicazione. Bateson esemplifica i due aspetti con una analogia
fisiologica: consideriamo che A, B e C rappresentino una
catena lineare
di neuroni. Allora lo scatto del neurone B
costituisce sia la ‘notizia‘ che il neurone A è
scattato sia il ‘comando’ per il neurone C di scattare a
sua volta.
L’aspetto di ‘notizia‘ di un messaggio
trasmette informazione ed è quindi sinonimo nella comunicazione umana
del contenuto del messaggio. Questo può riguardare qualunque cosa
comunicabile senza tener conto se l’informazione particolare sia vera o
falsa, valida, non valida, indecidibile. L’aspetto di ‘comando‘,
d’altra parte, si riferisce al tipo di messaggio che deve essere assunto
e perciò, in definitiva, alla relazione tra i comunicanti. Tutte queste
forme relazionali riguardano una o parecchie delle seguenti asserzioni:
“Ecco come mi vedo.., ecco come ti vedo.., ecco come ti vedo che mi vedi
“ e così di seguito in una catena regredente teoricamente
infinita. Così, ad esempio, i messaggi: “E’ importante togliere la
frizione gradatamente e dolcemente “ e “Togli di colpo la
frizione, rovinerai la trasmissione in un momento” recano più o meno lo
stesso contenuto di informazione (aspetto di ‘notizia‘), ma è
evidente che definiscono relazioni molto diverse. Per evitare ogni
equivoco su quanto abbiamo esposto, vogliamo chiarire che le relazioni
soltanto di rado sono definite deliberatamente o con piena
consapevolezza. In realtà, sembra che quanto più una relazione è
spontanea e sana, tanto più l’aspetto relazionale della comunicazione
recede sullo sfondo. Viceversa, le relazioni ‘malate‘ sono
caratterizzate da una lotta costante per definire la natura della
relazione, mentre l’aspetto di contenuto della comunicazione diventa
sempre meno importante.
C’è un fatto abbastanza interessante da
ricordare. Prima che gli studiosi del comportamento umano cominciassero
a porsi domande su questi aspetti della comunicazione umana, gli
ingegneri dei calcolatori si erano imbattuti nel loro lavoro nello
stesso problema. Si erano resi conto che quando comunicavano con un
organismo artificiale, le loro comunicazioni dovevano avere sia
l’aspetto di ‘notizia ‘ che di ‘comando ‘. Per esempio, se
un calcolatore deve moltiplicare due cifre, bisogna dargli questa
informazione (le due cifre) e l’informazione su tale informazione: il
comando ‘moltiplicale ‘.
Ora, quello che ci preme considerare è il
rapporto esistente tra l’aspetto di contenuto (‘notizia‘) e
l’aspetto di relazione (‘comando’) della comunicazione. Sostanzialmente
lo abbiamo già defluito nel paragrafo precedente quando si è accennato
che un calcolatore ha bisogno di informazione (dati) e di
informazione su tale informazione (istruzioni). E’ chiaro
dunque che le istruzioni sono di un tipo logico più elevato dei dati:
Sono metainformazione poiché sono informazione sull’informazione
e ogni confusione tra i due porterebbe a un risultato privo di
significato.
Se ora passiamo a considerare la comunicazione
umana, troviamo che esiste anche qui lo stesso rapporto tra l’aspetto di
‘ notizia ‘ e quello di ‘ comando ‘: il primo
trasmette i ‘ dati ‘ della comunicazione, il secondo il
modo con cui si deve assumere tale comunicazione. “Questo è un ordine”
oppure “Sto solo scherzando” sono esempi verbali di comunicazioni sulla
comunicazione, ma si può esprimere la relazione anche in modo non
verbale (gridando, sorridendo, ecc.). Il contesto in cui ha luogo la
comunicazione servirà a chiarire ulteriormente la relazione: ad es.,
possiamo capire meglio le frasi sopracitate se sappiamo che sono state
pronunciate tra soldati in uniforme o nell’arena di un circo.
Il lettore avrà notato che l’aspetto relazionale
della comunicazione (che è comunicazione sulla comunicazione) è
identico, naturalmente, al concetto di metacomunicazione che abbiamo
elaborato nel primo capitolo, contenendolo però entro i limiti della
struttura concettuale e del linguaggio che l’analista della
comunicazione deve impiegare quando sta comunicando sulla comunicazione.
Ora è evidente che non soltanto l’analista ma tutti si trovano di fronte
a questo problema. La capacità di metacomunicare in modo adeguato non
solo è la conditio sine qua non della comunicazione efficace, ma
è anche strettamente collegata con il grosso problema della
consapevolezza di sé e degli altri.
Un esempio è l’avviso che si può leggere sulla
parete di un ristorante:
“I clienti che credono che i nostri camerieri
siano scortesi dovrebbero vedere il direttore“, una frase che, almeno in
teoria, si può interpretare in due modi completamente diversi. Ambiguità
di questo tipo non sono le sole complicazioni che possono sorgere dalla
struttura di livello di ogni comunicazione. Si pensi, ad esempio, a un
cartello su cui è scritto: “Ignorate questa indicazione“. Come
vedremo nel capitolo sulla comunicazione paradossale, le confusioni e le
contaminazioni tra questi due livelli — comunicazione e
metacomunicazione — possono portare in vicoli ciechi identici nella
struttura a quelli dei famosi paradossi logici.
Per il momento cerchiamo semplicemente di
riassumere quanto abbiamo detto finora con un altro assioma del nostro
calcolo sperimentale: Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e
un aspetto di relazione di modo che il secondo classifica il primo ed è
quindi metacomunicazione.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 47 |
La punteggiatura della sequenza di eventi
C’è un’altra caratteristica fondamentale della
comunicazione che vogliamo subito esaminare: essa riguarda l’interazione
— scambi di messaggi — tra comunicanti. Un osservatore esterno può
considerare una serie di comunicazioni come una sequenza ininterrotta di
scambi. Tuttavia, coloro che partecipano alla interazione
introducono sempre qualcosa di importante che, sulle orme di Whorf,
Bateson e Jackson hanno definito ‘la punteggiatura della sequenza di
eventi’. Riportiamo la loro argomentazione.
Lo psicologo che studia il processo di
stimolo-risposta confina, tipicamente, la sua attenzione su sequenze di
scambio così brevi che è possibile etichettare un elemento (item)
in ingresso come ‘stimolo‘ e un altro elemento come ‘rinforzo‘ mentre
quel che il soggetto fa tra questi due eventi viene etichettato come
‘risposta‘. All’interno della breve sequenza così ritagliata, è
possibile parlare della ‘psicologia ‘ del soggetto. Ma le sequenze di
scambio di cui qui ci occupiamo sono molto più lunghe e la loro
caratteristica è dunque quella che ogni elemento della sequenza è
simultaneamente stimolo, risposta e rinforzo.
Un dato elemento del comportamento di A è uno
stimolo in quanto è seguito da un elemento fornito da B e questo da un
altro elemento fornito da A. Ma in quanto l’elemento di A è inserito tra
due elementi forniti da B, questo costituisce una risposta.
Analogamente, l’elemento di A è un rinforzo in quanto segue un elemento
fornito da B. Il succedersi degli scambi, poi, di cui qui ci occupiamo,
costituisce una catena di anelli triadici che si sovrappongono, ciascuno
dei quali è paragonabile alla sequenza stimolo-risposta-rinforzo.
Possiamo prendere ciascuna triade dello scambio e considerarla come una
prova singola di un esperimento di apprendimento che studi il processo
di stimolo-risposta.
Se consideriamo gli esperimenti
d’apprendimento convenzionali da questo punto di vista, notiamo subito
che le prove ripetute equivalgono alla differenziazione della relazione
tra i due organismi coinvolti nel rapporto — lo sperimentatore e il suo
soggetto. La sequenza delle prove è punteggiata in modo tale che sembra
che sia sempre lo sperimentatore a fornire gli ‘stimoli ‘ e i
‘rinforzi‘, e il soggetto a fornire le’ ‘risposte’. Abbiamo messo
intenzionalmente questi termini tra virgolette perché le definizioni del
ruolo sono prodotte soltanto dalla propensione che ha l’organismo ad
accettare il sistema di punteggiatura. Le definizioni del ruolo hanno la
stessa ‘ realtà che ha un pipistrello di una tavola di Rorschach — si
tratta di prodotti più o meno sovradeterminati del processo percettivo.
Il topo che ha detto: “Ho addestrato il mio sperimentatore. Ogni, volta
che premo la leva mi dà da mangiare “ stava cortesemente rifiutando di
accettare la punteggiatura della sequenza che lo sperimentatore cercava
di imporgli.
E’ anche vero però che in una lunga sequenza di
scambio, gli organismi coinvolti — soprattutto se si tratta di persone —
in effetti punteggeranno la sequenza in modo che sembrerà che l’uno o
l’altro abbia iniziativa, ascendente, che si trovi in posizione di
dipendenza e così via. In altre parole, stabiliranno tra di loro modelli
di scambio (su cui possono concordare o no) e questi modelli in realtà
saranno regole contingenti che concernono lo scambio di rinforzo. Mentre
i topi sono troppo buoni per etichettare di nuovo l’analista, alcuni
pazienti psichiatrici non lo sono e provocano nel terapeuta un trauma
psicologico!
Non si tratta qui di discutere se la
punteggiatura della sequenza di comunicazione è in genere buona o
cattiva, anche se dovrebbe essere subito evidente che la punteggiatura
organizza gli eventi comporta-mentali ed è quindi vitale per le
interazioni in corso. La nostra cultura ci fa condividere molte
convenzioni della punteggiatura che, pur non essendo più esatte né meno
esatte di altri modi di considerare gli stessi eventi, servono a
organizzare sequenze interattive comuni e importanti. Per esempio, diamo
il nome di ‘leader’ a una persona che si comporta in un certo modo in un
gruppo e chiamiamo ‘ seguace ‘ un’altra persona, sebbene a
pensarci bene è difficile dire quale dei due viene per primo o quale
sarebbe la posizione dell’uno se non ci fosse l’altro.
Si trova alla radice di innumerevoli conflitti
di relazione un disaccordo su come punteggiare la sequenza di eventi.
Supponiamo una coppia che abbia un problema coniugale di cui ciascun
coniuge è responsabile al 30%: lui chiudendosi passivamente in se
stesso e lei brontolando e criticando. Quando spiegano le loro
frustrazioni, l’uomo dichiara che chiudersi in se stesso è la sua unica
difesa contro il brontolare della moglie, mentre lei etichetta
questa spiegazione come una distorsione grossolana e volontaria di
quanto ‘realmente’ accade nel loro matrimonio: vale a dire che lei
critica il marito a causa della sua passività Se li sfrondiamo di
tutti gli elementi effimeri e fortuiti, i loro litigi si riducono allo
scambio monotono dei messaggi “Io mi chiudo in me stesso perché tu
brontoli” e “Io brontolo perché tu ti chiudi in te stessa”.
Possiamo dunque aggiungere un terzo assioma di
metacomunicazione: la natura di una relazione dipende dalla
punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i comunicanti.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 49 |
Comunicazione numerica e analogica
Nel sistema nervoso centrale le unità funzionali
(neuroni) ricevono i cosiddetti pacchetti quantici di informazione
tramite elementi di giunzione (sinapsi). Arrivando alle sinapsi questi
‘pacchetti’ producono potenziali postsinaptici eccitatori o inibitori
che il neurone accumula e che ne eccitano o inibiscono lo scatto. Questa
parte specifica dell’attività del neurone (che consiste nel verificarsi
o meno del suo scatto) trasmette quindi informazione numerica binaria.
D’altra parte, il sistema umorale non si basa sulla numerizzazione
dell’informazione: è un sistema che comunica liberando quantità discrete
di sostanze specifiche nella circolazione del sangue. E’ inoltre noto
che i moduli di comunicazione intraorganica umorali e neuronici non
soltanto coesistono, ma sono reciprocamente complementari e dipendono
l’uno dall’altro in modi spesso molto complessi.
C’è un fatto abbastanza curioso da
segnalare: sembra accertato che gli ingegneri dei calcolatori siano
giunti a questa conclusione del tutto indipendentemente dalle cognizioni
che a quel tempo i fisiologi già avevano in materia, un fatto che In se
stesso illustra stupendamente il postulato di Bertalanffy secondo
cui i sistemi complessi hanno una loro legittimità intrinseca che è
possibile riscontrare a tutti i diversi livelli dei sistemi, cioè
dell’atomo, della molecola, della cellula, dell’organismo,
dell’individuo, della società, ecc. Si racconta che durante una riunione
interdisciplinare di scienziati interessati ai fenomeni di retroazione
(probabilmente uno degli incontri organizzati dalla Josiah Macy
Foundation) mostrarono al grande istologo von Bonin il diagramma di
circuito di un apparato selettivo di lettura ed egli disse subito: “Ma
questo non è che un diagramma del terzo strato della corteccia visiva...
“. Non possiamo garantire l’autenticità di questa storia, ma ci fa
venire in mente un modo di dire che hanno gli italiani: “Se non è vero,
è ben trovato “.
Questi due moduli fondamentali di comunicazione
li troviamo operanti anche negli organismi artificiali: i calcolatori
numerici (così definiti in quanto fondamentalmente operano con
numeri) utilizzano il principio tutto-o-niente delle valvole a vuoto e
dei transistori, mentre i calcolatori analogici (così definiti
perché ciò che manipolano sono gli analoghi dei dati) operano appunto
con grandezze positive, discrete. Nei calcolatori numerici sia i dati
che le istruzioni sono elaborati in forma di cifre: è evidente dunque
che spesso, soprattutto per quanto riguarda le istruzioni, ci sia
soltanto una corrispondenza arbitraria tra una particolare informazione
e,la sua espressione numerica. In altre parole, questi numeri sono nomi
di codice assegnati arbitrariamente e la loro somiglianza con le
grandezze reali è davvero minima, la stessa — per intenderci — che i
numeri di telefono hanno con gli abbonati a cui sono stati assegnati.
D’altra parte, come abbiamo già visto, il principio di analogia è la
base indispensabile per ogni computo analogico. Proprio come nel sistema
umorale degli organismi naturali i veicoli d’informazione sono certe
sostanze e il loro tasso nella circolazione del sangue, nei calcolatori
analogici i dati assumono la forma di quantità discrete e quindi sempre
positive, quali possono essere, ad es., l’intensità degli impulsi di
corrente, il numero di rotazioni di una ruota, il grado di dislocazione
di certi componenti e cose del genere. Un esempio di calcolatore
analogico semplice è la cosiddetta macchina della marea (uno strumento
composto di leve, ruote dentate, bilancieri che si usa per misurare le
maree in un tempo dato); un paradigma di calcolatore analogico è — non
occorre spiegarlo — l’omeostato di Ashby, di cui abbiamo fatto cenno nel
primo capitolo, anche se è una macchina che non calcola nulla.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 54 |
Bateson: “Non c’è nulla di specificatamente
simile a cinque nel numero cinque; non c’è nulla di specificatamente
simile a un tavolo nella parola ‘tavolo’ “
Nella comunicazione umana si hanno due
possibilità del tutto diverse di far riferimento agli oggetti (in senso
esteso): o rappresentarli con una immagine (come quando si disegna)
oppure dar loro un nome. E’ possibile sostituire con delle immagini i
nomi di una frase scritta come, ad es., “Il gatto ha preso un topo”;
invece se la frase fosse orale, basterebbe indicare con un gesto il
gatto e il topo. Va da sé che sarebbe un modo di comunicare insolito e
difatti normalmente si usa il ‘nome’ parlato o scritto, cioè la parola.
Questi due modi di comunicare — quello mediante l’immagine esplicativa e
quello mediante la parola — sono rispettivamente equivalenti, come è
facile capire, ai concetti di analogico e di numerico. Ogni volta che si
usa una parola per nominare una cosa è evidente che il rapporto
tra il nome e la cosa nominata è un rapporto stabilito
arbitrariamente. Le parole sono segni arbitrari che vengono manipolati
secondo la sintassi logica della lingua. Non c’è alcuna ragione
particolare per cui la parola di cinque lettere g-a-t-t-o’ denoti un
particolare animale. In ultima analisi è soltanto una convenzione
semantica della lingua italiana e fuori di tale convenzione non esiste
nessun’altra correlazione tra una parola e la cosa che la parola
rappresenta (le parole onomatopeiche costituiscono una eccezione che
però non è certo importante). Bateson e Jackson hanno fatto rilevare che
“Non c’è nulla di specificatamente simile a cinque nel numero cinque;
non c’è nulla di specificatamente simile a un tavolo nella parola
‘tavolo’”.
D’altra parte, nella comunicazione analogica c’è
qualcosa che è specificatamente ‘simile alla cosa‘, vale a
dire ciò che si usa per esprimerla. Nella comunicazione analogica si può
far riferimento con maggiore facilità alla cosa che si rappresenta. Un
esempio chiarirà meglio la differenza tra questi due moduli di
comunicazione:
non arriveremo a capire una lingua straniera
ascoltandola alla radio (per quanto si possa prolungare il tempo di
ascolto), mentre è possibile dedurre con una certa facilità informazioni
fondamentali dall’osservazione del linguaggio dei segni e dei cosiddetti
‘movimenti di intenzione’ anche quando li osserviamo in una persona la
cui cultura è completamente diversa dalla nostra. La comunicazione
analogica, è bene ricordarlo, ha le sue radici in periodi molto più
arcaici della evoluzione e la sua validità è quindi molto più generale
del modulo numerico della comunicazione verbale, relativamente recente e
assai più astratto.
Cosa è dunque la comunicazione analogica? La
risposta è abbastanza semplice: praticamente è ogni comunicazione non
verbale. Che però è un termine ingannevole perché spesso se ne limita
l’uso al solo movimento del corpo, al comportamento noto come cinesica.
A nostro parere invece il termine deve includere le posizioni del corpo,
i gesti, l’espressione del viso, le inflessioni della voce, la sequenza
il ritmo e la cadenza delle stesse parole, e ogni altra espressione non
verbale di cui l’organismo sia capace, come pure i segni di
comunicazione immancabilmente presenti in ogni contesto in cui ha
luogo una interazione.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana” |
L’uomo è il solo organismo che si conosca che
usi moduli di comunicazione sia analogici che numerici.
L’uomo è il solo organismo che si conosca che
usi moduli di comunicazione sia analogici che numerici. Tuttora non ci
si rende conto, come si dovrebbe, dell’importanza di questo fatto, che
comunque non si sottolineerà mai abbastanza. D’altro canto non c e alcun
dubbio che l’uomo comunichi con un modulo numerico. In realtà, se l’uomo
non avesse sviluppato il linguaggio numerico, sarebbero impensabili
molte, se non tutte, le opere di civiltà che ha compiuto. Il linguaggio
numerico ha un’importanza particolare perché serve a scambiare
informazione sugli oggetti e anche perché ha la funzione di
trasmettere la conoscenza di epoca in epoca. C’è
però tutto un settore in cui facciamo
assegnamento quasi esclusivamente sulla comunicazione analogica, spesso
discostandoci assai poco dalla eredità che ci hanno trasmesso i nostri
antenati mammiferi. E’ questo il settore della relazione. Tenendo
conto delle ricerche di Tinbergen, di Lorenz e delle proprie,
Bateson ha dimostrato che le vocalizzazioni, i movimenti
d’intenzione e i segni di umore degli animali sono comunicazione
analogica mediante la quale definiscono la natura delle loro relazioni,
piuttosto che fare asserzioni denotative sugli oggetti. Riprendiamo uno
degli esempi di Bateson. Quando apriamo il frigorifero il gatto che
subito accorre e si strofina sulle nostre gambe miagolando non vuol dire
“Voglio il latte” (come farebbe un essere umano) ma piuttosto “Fammi da
madre “: si appella, in altre parole, a una relazione specifica; difatti
si può osservare un comportamento simile soltanto tra un gattino e un
gatto adulto e mai tra due animali adulti. Per contro, gli zoofili sono
convinti che gli animali ‘ capiscano’ il loro discorso. Ciò che
gli animali capiscono davvero, non occorre dirlo, non è certo il
significato delle parole, ma la ricchezza della comunicazione analogica
che si accompagna al discorso. Infatti ogni volta che la relazione è il
problema centrale della comunicazione, il linguaggio numerico è
pressoché privo di significato. E’ un fenomeno che non si verifica
soltanto tra animali e tra uomo e animale, ma in molte circostanze della
vita umana (per es., quando si corteggia, quando si ama, quando si reca
soccorso, quando si combatte) e naturalmente in tutti i rapporti con
bambini molto piccoli e con pazienti che presentino gravi disturbi
mentali. Si è sempre attribuito ai bambini, ai folli e agli animali una
intuizione particolare per quanto riguarda la sincerità o l’insincerità
delle attitudini umane: perché è facile dichiarare qualcosa verbalmente,
ma è difficile sostenere una bugia nel regno dell’analogico.
In breve, se si ricorda che ogni comunicazione
ha un aspetto di contenuto e uno di relazione, è lecito aspettarsi che i
due moduli di comunicazione non soltanto coesistano ma siano
reciprocamente complementari in ogni messaggio. E’ pure lecito dedurre
che l’aspetto di contenuto ha più probabilità di essere trasmesso con un
modulo numerico, mentre in natura il modulo analogico avrà una netta
predominanza nella trasmissione dell’aspetto di relazione.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana” |
L’uomo ha la necessità di combinare questi due
linguaggi numerici e analogici (come trasmettitore e come ricevitore) e
deve costantemente tradurre dall’uno all’altro
Vogliamo ora considerare alcune differenze
esistenti tra i moduli di comunicazione numerica e analogica la cui
importanza pragmatica sta tutta nella correlazione che abbiamo appena
indicato. Per meglio chiarire queste differenze, torniamo a esaminare i
moduli numerici e analogici come si presentano nei sistemi di
comunicazione artificiali.
Il rendimento, la precisione e la versatilità
dei due tipi di calcolatori — i numerici e gli analogici — sono molto
diversi. I dispositivi che si usano nei calcolatori analogici in
luogo delle grandezze reali non possono essere che approssimazioni dei
valori reali e questa inevitabile fonte d’imprecisione viene
ulteriormente amplificata mentre il calcolatore compie le operazioni.
Denti di ruote dentate, ingranaggi e trasmissioni non possono mai essere
costruiti in modo perfetto e anche quando le macchine analogiche
impiegano soltanto impulsi di corrente, resistenze elettriche, reostati,
ecc, questi eventi discreti sono sempre soggetti a fluttuazioni
praticamente incontrollabili. D’altro canto si può sostenere che una
macchina numerica lavorerebbe con la massima precisione. se non si
dovesse limitare lo spazio entro cui vengono immagazzinati i numeri, il
che rende necessario ‘ arrotondare ‘ tutti i risultati che
vengono ad avere più numeri di quelli che la macchina è in grado di
contenere.
Alcune caratteristiche dei calcolatori si
possono applicare anche alla comunicazione umana: il materiale del
messaggio numerico ha un grado di complessità, di versatilità e di
astrazione molto più elevato di quello analogico. Anzitutto occorre
precisare che la comunicazione analogica non ha nulla di confrontabile
alla sintassi logica del linguaggio numerico. Il che vuol dire che nel
linguaggio analogico non c’è nulla che equivalga agli elementi del
discorso (che hanno un’importanza vitale) come ‘se-allora‘, o-o
‘ e molti altri, e che l’espressione di concetti astratti è
difficile, se non impossibile, come lo era nella primitiva scrittura
ideografica, dove ogni concetto si può rappresentare soltanto con la sua
immagine fisica. Inoltre, sia nel linguaggio analogico che nel computo
analogico manca la semplice negazione, cioè una espressione che
sostituisca il noia.
Proviamo a fare qualche esempio. Ci sono lacrime
di dolore e lacrime di gioia; l’atto di serrare i pugni si può
interpretare come un segno di aggressività oppure di costrizione; con un
sorriso si può esprimere comprensione oppure disprezzo; la riservatezza
può essere una manifestazione di indifferenza oppure di tatto. Insomma,
arriviamo a chiederci se tutti i messaggi analogici hanno questa qualità
curiosamente ambigua, che ci fa venire in mente il freudiano
Gegensinn der Urworte (il significato opposto delle parole
primordiali). Nella comunicazione analogica non si trovano né
qualificatori che specifichino quale dei due significati discrepanti è
quello esatto, né indicatori che consentano di distinguere tra passato,
presente, o futuro, qualificatori e indicatori che invece si trovano
sempre nella comunicazione numerica, anche se a quest’ultima manca un
vocabolario adeguato agli accadimenti particolari della relazione.
L’uomo ha la necessità di combinare questi due
linguaggi (come trasmettitore e come ricevitore) e deve costantemente
tradurre dall’uno all’altro, operazione che lo pone di fronte a
dilemmi assai curiosi che considereremo più dettagliatamente nel
capitolo dedicato alla comunicazione patologica (sez. 3.5).
Infatti, nella comunicazione umana in entrambi i casi è difficile
‘tradurre’: non solo non si ha alcuna traduzione dal modulo numerico a
quello analogico senza una notevole perdita di informazione, ma anche il
caso contrario presenta enormi difficoltà (parlare sulla
relazione richiede una traduzione adeguata dal modulo di comunicazione
analogico in quello numerico). Infine, problemi di questo genere si
presentano anche quando i due moduli debbono coesistere, come fa notare
Haley in «Terapia del matrimonio“, un capitolo eccellente del suo
libro:
Quando un uomo e una donna decidono di
legalizzare la loro unione con una cerimonia matrimoniale, si pongono un
problema che continuerà a presentarsi per tutta la durata del
matrimonio: ora che sono sposati stanno insieme perché lo vogliono o
perché lo debbono?
Se si tiene conto di quanto abbiamo esposto
finora, diventa assai problematico definire in un modo che non sia
ambiguo il rapporto della coppia di cui sopra quando si aggiunge una
numerizzazione (il contratto matrimoniale) all’aspetto prevalentemente
analogico della relazione (il corteggiamento).
Per riassumere.
Gli esseri umani comunicano sia con il modulo
numerico che con quello analogico. Il linguaggio numerico ha una
sintassi logica assai complessa e di estrema efficacia ma manca di una
semantica adeguata nel settore della relazione, mentre il linguaggio
analogico ha la semantica ma non ha alcuna sintassi adeguata per
definire in un modo che non sia ambiguo la natura delle relazioni.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 59 |
Interazione complementare e simmetrica: la
scismogenesi
Nel 1935 Bateson riferì di un fenomeno di
interazione che aveva osservato nella tribù Iatmul nella Nuova Guinea e
di cui si occupò poi diffusamente nel suo libro Naven, pubblicato
l’anno successivo. Diede ai fenomeno il nome di scismogenesi e lo
definì come un processo di differenziazione delle norme del
comportamento individuale derivante dall’interazione cumulativa tra
individui. Nel 1939 Richardson applicò questo concetto
all’analisi della guerra e della politica estera; dal 1952 Bateson e
altri hanno dimostrato quanto esso possa essere utile nella ricerca
psichiatrica. Riportiamo l’elaborazione che Bateson ci ha dato di
questo concetto il cui valore euristico si estende, come si può
constatare, ben oltre i confini di una singola disciplina:
Quando definiamo la nostra disciplina nei
termini delle reazioni di un individuo alle reazioni di altri individui,
è subito evidente che dobbiamo tener conto che la relazione tra due
individui è soggetta a mutare di volta in volta anche senza l’intervento
di qualche perturbazione esterna. Ma non basta limitarsi a considerare
le reazioni di A al comportamento di B, occorre esaminare
subito dopo come queste reazioni influenzino il comportamento successivo
di B e l’effetto di questo comportamento su A.
E’ chiaro che molti sistemi di relazione, sia
tra individui che tra gruppi di individui, tendono a un progressivo
cambiamento. Ad esempio, se uno dei modelli del comportamento culturale,
che nell’individuo A si considera appropriato, viene
culturalmente classificato come un modello di imposizione, mentre ci
aspettiamo che B replichi a questo comportamento coi
comportamento che culturalmente classifichiamo di sottomissione, è
probabile che questa sottomissione incoraggi una ulteriore imposizione e
che tale imposizione richieda ancora una ulteriore sottomissione. Si ha
quindi uno stato di cose potenzialmente progressivo e — a meno che non
siano presenti altri
fattori che limitino gli eccessi del
comportamento di imposizione e di quello sottomesso — A deve
necessariamente imporsi sempre più mentre B diventerà sempre più
sottomesso. Va da sé che potremo assistere a tale progressivo
cambiamento, siano A e B individui separati o membri di
gruppi complementari.
Definiamo scismogenesi complementare i
cambiamenti progressivi di questo tipo. Ma c’è un altro modello di
relazioni tra individui e gruppi di individui che ha pure in sé i germi
del cambiamento progressivo. Ad esempio, se troviamo che la vanteria è
‘il modello culturale del comportamento di un gruppo e che l’altro
gruppo replica a questo comportamento con la vanteria, è possibile che
si sviluppi una situazione competitiva in cui l’atto di vantassi porta
sempre più a vantarsi, e così via. Questo tipo di cambiamento
progressivo lo definiamo scismogenesi simmetrica.
Si è giunti ad usare i due modelli appena
descritti senza far riferimento ai processo scismogenetico e di solito
ora si parla semplicemente di interazione simmetrica e complementare. Si
può anche descriverli come relazioni basate o sulla uguaglianza o sulla
differenza. Nei primo caso i modelli tendono a rispecchiare il
comportamento dell’altro (e quindi la loro interazione è simmetrica).
Debolezza o forza, bontà o cattiveria non sono qui pertinenti:
ovviamente si può mantenere l’uguaglianza in ciascuno di questi settori
particolari. Nel secondo caso il comportamento del partner completa
quello dell’altro e costituisce un tipo diverso di Gestalt
comportamentale (che definiamo complementare). L’interazione
simmetrica, dunque, è caratterizzata dall’uguaglianza e dalla ‘minimizzazione‘
della differenza, mentre il processo opposto caratterizza
l’interazione complementare.
Nella relazione complementare si hanno due
diverse posizioni. Un partner assume la posizione che è stata descritta
in vario modo come quella superiore, primaria o one-up, mentre
l’altro tiene la posizione corrispondente inferiore, secondaria o
one-down. Questi termini sono di grande utilità finché non vengono
equiparati a ‘buono’ o ‘cattivo‘, ‘forte‘ o ‘debole‘. Le
idiosincrasie dello stile di relazione di una particolare diade possono
costituire una relazione complementare, ma può anche essere il contesto
sociale e culturale a stabilire relazioni di questo tipo (si vedano ad
es. i rapporti madre-figlio, medico-paziente, o insegnante-allievo). In
entrambi i casi, ci preme sottolineare la natura interdipendente della
relazione, in cui comportamenti dissimili, ma che si sono adattati ai
rispettivi ruoli, si richiamano a vicenda. Un partner non impone
all’altro una relazione complementare, ma piuttosto ciascuno si comporta
in un modo che presuppone il comportamento dell’altro, mentre al tempo
stesso gliene fornisce le ragioni: sono quindi sempre calzanti le
definizioni che essi danno della relazione. |
Ci interessa come la coppia si comporta
senza lasciarci distrarre dalle motivazioni che la coppia presume
determinino il suo comportamento.
Ci occuperemo delle patologie potenziali
(escalation nel rapporto simmetrico, o rigidità in quello
complementare) di questi moduli di comunicazione. Per ora, ci limitiamo
a enunciare il nostro ultimo assioma sperimentale. Tutti gli scambi
di comunicazione sono simmetrici o complementari, a seconda che siano
basati sull’uguaglianza o sulla differenza.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 63 |
Un individuo non comunica: partecipa a una
comunicazione o diventa parte di essa
Birdwhistell è arrivato a sostenere che:
“Un individuo non comunica: partecipa a una
comunicazione o diventa parte di essa. Può muoversi o far rumore, ma non
comunicare. Parallelamente, può vedere sentire odorare gustare avere
delle sensazioni — ma non comunicare. In altre parole, un individuo non
produce comunicazione, ma vi partecipa.
Non si deve considerare la comunicazione, in
quanto sistema, sulla base di un semplice modello di azione e reazione
per quanto possa essere complesso e determinato. La comunicazione, in
quanto sistema, va considerata a livello transazionale.”
Dunque, l’impossibilità di non-comunicare rende
comunicative tutte le situazioni impersonali che coinvolgono due
o più persone; l’aspetto di relazione di tale comunicazione specifica
ulteriormente questo stesso punto. L’importanza pragmatica,
interpersonale, dei moduli numerici e analogici non sta solo
nell’isomorfismo (da noi ipotizzato) con il contenuto e la relazione, ma
anche nell’ambiguità, inevitabile e significativa, che sia il
trasmettitore che il ricevitore devono affrontare nei problemi di
traduzione da un modulo all’altro. La descrizione dei problemi di
punteggiatura si basa proprio sulla metamorfosi sottesa al modello
classico di azione-reazione. Infine, il paradigma
simmetria-complementarità è quello che si avvicina forse di più al
concetto matematico di funzione, poiché le posizioni individuali
sono delle semplici variabili con infiniti valori possibili il cui
significato non è assoluto ma piuttosto emerge nella reciprocità del
rapporto.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 62 |
LA
COMUNICAZIONE PATOLOGICA L’impossibilità di non-comunicare
Abbiamo già parlato del dilemma degli
schizofrenici, di come questi pazienti si comportano, dei loro tentativi
di negare di star comunicando e poi della necessità di negare che anche
il diniego è comunicazione. Ma si dà pure il caso del paziente che pare
che voglia comunicare senza però accettare l’impegno inerente a
ogni comunicazione. Per esempio, una giovane donna schizofrenica irruppe
nello studio dello psichiatra per la sua prima intervista e enunciò
allegramente: “Mia madre ha dovuto sposarsi ed ora eccomi qua “. Ci
vollero settimane per chiarire alcuni dei molti significati che aveva
condensato in questa dichiarazione, significati che erano
contemporaneamente squalificati sia dalla loro formulazione enigmatica
sia dall’ostentazione da parte della donna di uno humour e di una
energia che non erano affatto autentici. In seguito risultò che questa
sua mossa iniziale doveva informare il terapeuta che:
(1) era il frutto di una gravidanza
illegittima;
(2) il fatto aveva in qualche modo
provocato la sua psicosi;
(3) la frase “ha dovuto sposarsi”,
riferendosi alla natura del matrimonio imposto con la forza, poteva
voler dire due cose: che la Madre non era da biasimarsi perché le
pressioni sociali l’avevano costretta al matrimonio, oppure che la Madre
risentiva della natura coercitiva della situazione e per questa ragione
rimproverava alla paziente di essere in vita;
(4) ‘qua ‘ voleva dire
sia lo studio dello psichiatra che l’esistenza della paziente sulla
terra; era dunque implicito che la Madre l’aveva fatta impazzire ma lei
doveva esserle eternamente debitrice perché la madre aveva peccato e
sofferto per farla venire al mondo.
Lo “schizofrenese” è dunque una lingua
che lascia all’ascoltatore la scelta tra i molti significati possibili
(che non soltanto sono diversi ma possono anche essere incompatibili).
Diventa così possibile negare parzialmente o totalmente gli aspetti di
un messaggio.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 65 |
Tachistoscopio: per le parole critiche il
soggetto ne ‘vede’ di meno. Se commette più errori con le parole tabù è
evidente che prima ha dovuto identificarle e poi convincersi di non
essere in grado di leggerle, e si risparmia l’imbarazzo
Può sembrare che questa definizione (cioè che un
sintomo serve a comunicare) si basi su una ipotesi discutibile: vale a
dire, che il soggetto riesca a convincere se stesso di essere alla mercé
di forze che non controlla. Invece di discutere (senza magari arrivare a
una conclusione convincente) il fatto che questa ipotesi è confermata
dall’esperienza clinica quotidiana, preferiamo ricordare gli esperimenti
di McGinnies sulla ‘difesa percettiva‘ (perceptual defense).
Il soggetto è posto di fronte a un
tachistoscopio, un dispositivo che fa apparire le parole attraverso una
piccola apertura per periodi di tempo molto brevi. Con poche parole di
prova viene stabilito il valore di soglia del soggetto a cui poi si
chiede di riferire allo sperimentatore qualunque parola veda o creda di
vedere ogni volta che appare attraverso l’apertura. La lista delle
parole, usate nell’esperimento, è composta sia di parole neutre che di
parole ‘ critiche’ (che presuppongono una reazione emotiva, come ad
es.: violentare, lurido, puttana). Se si confronta il rendimento del
soggetto con le parole neutre e con quelle critiche si nota che le
soglie più elevate si riscontrano, in modo significativo, per le parole
critiche (il soggetto ne ‘vede’ di meno). Ma se il soggetto commette più
errori con le parole socialmente tabù è evidente che prima ha dovuto
identificarle come tali e poi convincersi di non essere in grado di
leggerle. In tal modo si risparmia l’imbarazzo di doverle leggere ad
alta voce allo sperimentatore.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 70 |
La persona P dà la definizione di sé ad
O. “Ecco come mi vedo”.
La comunicazione umana consente tre possibili
reazioni da parte di O alla definizione che P ha dato di
sé; Conferma; Rifiuto; Disconferma
Abbiamo visto che a livello di relazione gli
individui non comunicano su fatti esterni alla relazione, ma definiscono
la relazione e implicitamente se stessi. Tali definizioni si dispongono
gerarchicamente secondo il grado di complessità. Scegliamo, in modo del
tutto arbitrario, di iniziare il nostro discorso con questa ipotesi: la
persona P dà la definizione di sé ad O.
P può farlo in diversi modi, ma qualunque
cosa comunichi e comunque la comunichi a livello di contenuto, il
prototipo della sua comunicazione sarà:
“Ecco come mi vedo”.
La comunicazione umana consente tre possibili
reazioni da parte di O alla definizione che P ha dato di
sé; e tutte e tre sono di grande importanza per la pragmatica della
comunicazione umana.
Conferma
O può accettare (confermare) la definizione che
P ha dato di se. E’ emerso dalle ricerche che finora abbiamo
compiuto sulla comunicazione che la conferma del giudizio che P
ha dato di sé da parte di O è probabilmente il più grande fattore
singolo che garantisca lo sviluppo e la stabilità mentali. Per quanto
sorprendente possa sembrare, senza l’effetto che produce la conferma del
Sé è difficile che la comunicazione umana avrebbe potuto svilupparsi
oltre i confini assai limitati degli scambi indispensabili per la
difesa e la sopravvivenza; sarebbe mancata ogni ragione di comunicare
per il mero amore di comunicare. Tuttavia l’esperienza quotidiana non ci
lascia alcun dubbio al riguardo: gran parte delle nostre comunicazioni
hanno proprio questo scopo. Vivremmo in un mondo senza emozioni (quella
vastissima gamma di emozioni — dall’amore all’odio — che invece gli
individui provano l’uno per l’altro), un mondo privo di tutto fuorché di
sforzi tesi sempre a fini utilitaristici, un mondo privo di bellezza,
poesia, gioco, humour. Ma, del tutto indipendentemente dal mero scambio
di informazione, ci pare che l’uomo debba comunicare con gli
altri per avere la consapevolezza di sé. La verifica sperimentale di
questa ipotesi intuitiva ci viene sempre più fornita dalle ricerche
sulla privazione sensoriale che mostrano come l’uomo non riesca a
mantenere la propria stabilità emotiva per periodi prolungati
comunicando solo con se stesso. Riteniamo che qui possano trovare la
loro giusta collocazione situazioni come quella dell’incontro
(secondo la terminologia esistenzialista) e in genere ogni altra forma
di rapporto con gli altri che consenta di accrescere la consapevolezza
di sé. Scrive Martin Buber:
Praticamente, sia pure con diverse scale di
valori, i membri della società umana — a tutti i livelli — si confermano
reciprocamente le loro qualità e capacità personali; e una società si
può dire che è umana nella misura in cui i suoi membri si confermano tra
di loro...
E’ uno solo il principio su cui si basa la
vita associata degli uomini anche se sono due le forme in cui si
manifesta: il desiderio che ogni uomo ha che gli altri lo confermino per
quello che è, o magari per quello che può divenire; e la capacità (che è
innata nell’uomo) di poter confermare i suoi simili come essi
desiderano. L’aspetto discutibile e la vera debolezza della razza umana
è che questa capacità sia tanto poco coltivata: ma soltanto dove l’uomo
la mette in atto è giusto parlare di umanità. (52, pp. 101-2)
Rifiuto
La seconda possibile reazione di O alla
definizione che P ha dato di sé ~ quella di rifiutarla. Ma il
rifiuto — non importa quanto possa essere doloroso — presuppone il
riconoscimento, sia pure limitato, di quanto si rifiuta e quindi esso
non nega necessariamente la realtà del giudizio di P su di sé.
Anzi, certe forme di rifiuto possono essere costruttive, come ad es. il
rifiuto dello psichiatra di accettare la definizione che il paziente ha
dato di sé nella situazione di ‘transfert in cui è possibile che il
paziente cerchi di imporre il suo ‘gioco di relazione ‘ al terapeuta. Si
rinvia il lettore a due autori che, ognuno con un proprio metodo di
lavoro, hanno scritto ampiamente sull’argomento, Berne (23, 24) e
Haley (60).
Disconferma
La terza possibilità è probabilmente la più
importante sia per la pragmatica della comunicazione umana che per la
psicopatologia. E’ il fenomeno della disconferma che — come vedremo — è
del tutto diverso da quello del rifiuto totale delle definizioni che gli
altri danno di sé.
Non c’è il minimo dubbio che una situazione
simile porti alla ‘perdita del Sé’ che non è niente altro che la
traduzione del termine alienazione’. La disconferma (che osserviamo
nella comunicazione patologica) non si occupa più della verità o della
falsità — se ci fossero tali criteri — della definizione che P ha
dato di sé, ma piuttosto nega la realtà di P come emittente di
tale definizione. In altre parole, mentre il rifiuto equivale al
messaggio “Hai torto”, la disconferma in realtà dice “Tu non esisti “.
O, per usare termini più rigorosi, se
paragonassimo la conferma e il rifiuto del Sé altrui rispettivamente ai
concetti di verità e falsità (cioè ai termini che si usano in logica),
in tal caso dovremmo far corrispondere la disconferma al concetto di
indecidibilità che — come è noto — è di un ordine logico diverso.
Per citare Laing:
Si ricava dallo studio di famiglie di
schizofrenici un modello caratteristico: il figlio non è stato molto
trascurato né ha subito un forte trauma; è la sua autenticità che è
stata mutilata senza tregua anche se in modo indefinibile e spesso del
tutto involontario.. (p. 91)
Si compie l’atto conclusivo di questo processo
quando — trascurando completamente come il soggetto agisce, cosa prova,
che senso dà alla sua situazione — si denudano di ogni valore i suoi
sentimenti, si spogliano i suoi atti delle motivazioni, intenzioni e
conseguenze, si sottrae alla situazione il significato che ha per lui —
e così egli è totalmente mistificato e alienato. (pp. 135-6)
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 79 |
In una sequenza di comunicazione, ogni scambio
di messaggi restringe il numero delle possibili mosse successive.
In analogia con il gioco: in ogni gioco interpersonale una mossa cambia
la configurazione del gioco
In una sequenza di comunicazione, ogni scambio
di messaggi restringe il numero delle possibili mosse successive.
Il contesto, dunque, può essere più o
meno limitante, ma in qualche misura determina sempre le situazioni
contingenti. Ma il contesto non è costituito soltanto di fattori
istituzionali (esterni ai comunicanti). I messaggi palesi che sono stati
scambiati entrano a far parte del particolare contesto interpersonale e
pongono le loro limitazioni alla interazione successiva.
Ricorriamo ancora all’analogia con il gioco: in ogni gioco
interpersonale — non soltanto in quelli a ‘strategia mista ‘ che abbiamo
citato sopra — una mossa cambia la configurazione del gioco in quel
determinato stadio, influenzando le possibilità che si sono aperte a
cominciare da quel punto e quindi modificando il corso del gioco.
Definire una relazione come simmetrica o
complementare oppure imporre una punteggiatura particolare sono atti che
in linea di massima limitano la persona che ci sta di fronte. Vale a
dire non è soltanto il trasmettitore ma anche la relazione (che include
il ricevitore) a risentire di questo modo di considerare la
comunicazione. Anche non essere d’accordo con il messaggio precedente,
rifiutano o darne una nuova definizione non significa soltanto
rispondere ma produrre una complicazione che può non avere alcun altro
fondamento fuorché la definizione della relazione e l’impegno inerente a
qualunque comunicazione.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 127 |
Interdipendenza dei coniugi. La moglie viene ad
essere per lui una scusa assai ben congegnata. Il marito può evitare la
vita sociale con il pretesto che la paziente è ansiosa
Il modello interattivo e il problema
caratteristico di queste coppie Fry lo definisce ‘controllo duale ‘,
vale a dire: i sintomi della paziente là pongono nella posizione di
esigere che il partner sia sempre ai suoi ordini e faccia ciò che lei
dice (in quanto è lei il membro che soffre). Il partner non può fare una
mossa senza consultare la paziente e avere la sua approvazione. Ma al
tempo stesso la paziente è sorvegliata di continuo dal coniuge. Forse il
marito dovrà stare vicino a un telefono per permetterle di mettersi in
contatto con lui, ma lui contemporaneamente controlla tutte le attività
della moglie. Sia la paziente che il coniuge riferiscono spesso che
l’altro fa sempre di testa propria.
Le difficoltà della paziente adempiono alla
funzione di permettere al coniuge di evitare molte situazioni in cui
potrebbe provare angoscia o altre forme di disagio, senza che si sia
trovato di fronte alla possibilità di presentare certi sintomi. La
moglie viene ad essere per lui una scusa assai ben congegnata. Il marito
può evitare la vita sociale con il pretesto che la paziente è ansiosa.
Può ridurre il suo lavoro con il pretesto che deve assistere la paziente
malaticcia. Il modo con cui si occupa dei figli può non essere quello
più adatto data la tendenza che ha a chiudersi in se stesso e a reagire
in modo sproporzionato. Ma si risparmia di esaminarsi perché sospetta
che i problemi dei bambini sono provocati dai sintomi della paziente.
Può evitare i rapporti sessuali con la paziente con il pretesto che lei
è malata e non riuscirebbe a farcela. La solitudine può renderlo ansioso
ma poiché la paziente ha paura di restare sola, egli può sempre ‘tenerla
con sé senza che venga messo in luce che è lui ad avere questo
sintomo.
L’insoddisfazione può spingere la paziente a
desiderare qualche relazione extraconiugale, ma i sintomi della sua
fobia le impediscono di frequentare altri uomini. E’ pure estremamente
improbabile che sia il marito ad allacciare
una relazione proprio per quelle che sono le
caratteristiche della sua personalità e per il suo modo di reagire alla
malattia della moglie. Sono i sintomi della paziente a proteggere
entrambi i coniugi dai pericoli che una insoddisfazione del genere
comporta.
Di solito il matrimonio è infelice e i coniugi
freddi e insoddisfatti, ma i sintomi adempiono alla funzione di
mantenere unita la coppia. Si potrebbe definire coatto questo tipo di
matrimonio...
Finché persistono i sintomi non c’è via d’uscita
da questo dilemma. La paziente, che è angosciata perché non sa se il
marito vuole starle vicino, esige sempre di più che il marito stia con
lei — perché è malata. Il marito le sta vicino, ma questo non la
rassicura perché a quanto pare sta con la moglie perché è malata, non
perché vuole starle vicino. Poiché si sente costretto a tenerle
compagnia perché è malata, egli non può mai rassicurarla o rassicurarsi
che potrebbe volontariamente cercarne la compagnia.
E’ un problema che il coniuge non può risolvere.
Se sta con la paziente, sembra che lo faccia perché lei è così malata.
Se la lascia, è un mascalzone che non si cura della sfortuna della
moglie. Inoltre, se la lasciasse oppure se lei guarisse, egli dovrebbe
affrontare la propria ansia e i propri sintomi. Il rancore che ha per la
moglie non gli consente di mostrare comprensione, ma non può neanche
mostrare apertamente incomprensione. A sua volta, la paziente non può
apprezzare i sacrifici che il marito fa per lei, ma non può neanche non
apprezzarli apertamente. (52, pp. 250-52)
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 132 |
Il meccanismo di retroazione negativa
Questo cambiare la calibrazione, così come il
cambiare la messa a punto del termostato o le marce di un’automobile
sono ‘funzioni a gradino’.
Occorre rilevare che una funzione simile ha un
effetto stabilizzatore. Regolare un termostato per una temperatura più
bassa significa ridurre la necessità della retroazione negativa e quindi
alleggerire il lavoro e la spesa della caldaia. Inoltre, le funzioni a
gradino consentono di ottenere effetti che sono maggiormente adattativi.
Per il circuito di retroazione conducente-acceleratore-velocità della
macchina esistono precisi limiti per ciascuna marcia, il che rende
necessaria una ricalibrazione (un cambio di marcia) per accrescere la
velocità o per salire una collina. Sembra che anche nelle famiglie le
funzioni a gradino abbiano un effetto stabilizzatore: la psicosi è un
brusco cambiamento che ricalibra il sistema e può persino essere
adattativo (77; si noti anche il periodo catatonico nell’esempio
presentato sopra da Laing e Esterson). Cambiamenti interni che
praticamente sono inevitabili (l’età e la maturazione sia dei genitori
che dei figli) possono cambiare la messa a punto di un sistema, sia
gradatamente dall’interno sia drasticamente dall’esterno quando
l’ambiente sociale incide su questi cambiamenti (richieste di una
cultura più elevata, servizio militare, collocamento a riposo, e così
via).
Da questo punto di vista i meccanismi
omeostatici che Jackson (69, 70) ha notato in sede clinica in
realtà possono essere fenomeni anche più complessi di quelli che abbiamo
qui discusso. Se certi meccanismi omeostatici entrano in funzione in
risposta alla deviazione da certe regole della famiglia, è chiaro dunque
che questi costituiscono un modello di ordine più elevato che serve a
distruggere un modello e a ricostruirne un altro su unità di tempo più
grandi.
Se l’applicazione di questo modello alla vita
familiare o a strutture sociali più vaste ha il rigore di una
imposizione di legge, riteniamo che ci sia una calibrazione di quello
che è un comportamento abituale o accettabile, le regole di una famiglia
o le leggi di una società, entro cui per lo più operano gli individui o
i gruppi. Ad un livello, sono sistemi del tutto stabili, perché una
deviazione che assuma la forma di un comportamento fuori dell’ambito
approvato viene contrastata (e quindi disciplinata, ratificata, o magari
rimpiazzata da un sostituto, come nel caso in cui paziente lo diventa un
altro membro della famiglia). Ad un altro livello, il cambiamento si
verifica durante un certo periodo di tempo, un fatto che a nostro parere
è almeno in parte dovuto all’amplificazione di altre deviazioni, e alla
fine può portare a una nuova messa a punto del sistema (funzione a
gradino).
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 142 |
I TRE TIPI DI PARADOSSO: paradossi
logico-matematici (antinomie),
definizioni paradossali (antinomie semantiche),
paradossi pragmatici (ingiunzioni paradossali e predizioni paradossali)
Il termine ‘antinomie ‘, che si legge
nell’ultima frase del brano sopracitato, richiede una spiegazione.
Talvolta si usa ‘ antinomia invece di ‘ paradosso ‘ o viceversa, ma la
maggior parte degli autori preferisce limitare il suo uso ai paradossi
che si presentano nei sistemi formalizzati come la logica e la
matematica. (Il lettore può chiedersi quali sono gli altri campi in cui
è possibile che i paradossi si presentino; sono quelli della semantica e
della pragmatica come mostreremo in questo capitolo e in quello
successivo, mentre nell’ottavo capitolo considereremo come e dove i
paradossi possono entrare nell’esperienza esistenziale dell’uomo). Una
antinomia, secondo Quine (120, p. 85), “produce
un’autocontraddizione, in base alle regole accettate del ragionamento “.
C’è poi una seconda classe di paradossi che
differiscono dalle antinomie soltanto in un unico aspetto importante:
non si presentano nei sistemi logici e matematici — e quindi non si
fondano su termini come numero o classe formale — ma derivano piuttosto
da certe incoerenze nascoste nella struttura di livello del pensiero e
del linguaggio. Spesso ci si riferisce a questo secondo gruppo come alle
antinomie semantiche o definizioni paradossali.
Infine, c’è un terzo gruppo di paradossi che è
stato meno esplorato, ma che è anche quello che più ci interessa, perché
i paradossi che si presentano nelle interazioni in corso determinano il
comportamento. Definiremo questo gruppo paradossi pragmatici e in
seguito vedremo che si possono dividere in ingiunzioni paradossali
e in predizioni paradossali.
In compendio, ci sono tre tipi di paradossi:
(1) paradossi logico-matematici
(antinomie),
(2) definizioni paradossali (antinomie
semantiche),
(3) paradossi pragmatici (ingiunzioni
paradossali e predizioni paradossali),
che — entro la struttura della teoria della
comunicazione umana —corrispondono chiaramente ai tre settori principali
di questa teoria:
il primo tipo alla sintassi logica, il secondo
alla semantica, e il terzo alla pragmatica. Presenteremo ora esempi di
ciascun tipo e ci sforzeremo di mostrare come i paradossi pragmatici,
così poco noti, si sviluppano, per così dire, dalle altre due forme.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 187 |
Paradossi logico-matematici. Come dice Russell,
qualunque cosa presupponga tutti gli elementi di una collezione non deve
essere un termine della collezione.
Il più famoso paradosso di questo gruppo è sulla
“classe di tutte le classi che non sono membri di se stesse “.
Esso si basa sulle seguenti premesse. Una classe è la totalità di tutti
gli oggetti che hanno una certa proprietà. Quindi la classe dei gatti
contiene tutti i gatti passati, presenti e futuri. Avendo stabilito
questa classe, tutti gli altri oggetti che restano nell’universo si
possono considerare la classe dei non-gatti, perché tutti questi oggetti
hanno in comune una proprietà definita: essi non sono gatti. Ora
ogni asserzione che implichi che un oggetto appartiene ad entrambe
queste classi sarebbe una semplice contraddizione, perché nulla può
essere nello stesso tempo un gatto e un non-gatto.
In realtà, si tratta di una fallacia. Russell
l’ha resa evidente con la sua teoria dei tipi logici. Per dirla
assai in breve, questa teoria postula il principio fondamentale che,
come dice Russell, qualunque cosa presupponga tutti gli
elementi di una collezione non deve essere un termine della collezione.
In altre parole, il paradosso russelliano è dovuto alla confusione
dei tipi logici, o livelli. Una classe è di un tipo più elevato dei suoi
membri; per postulare questo, abbiamo dovuto salire di un livello nella
gerarchia dei tipi. Dire, dunque, come abbiamo detto, che la classe di
tutti i concetti è essa stessa un concetto non è falso ma privo di
significato, come vedremo tra poco. Questa distinzione è importante,
perché se l’asserzione fosse semplicemente falsa, allora la sua
negazione dovrebbe essere vera, ed è chiaro che non lo è. |
Definizioni paradossali. La più famosa delle
antinomie semantiche: “Io sto
mentendo“.
Questo esempio della classe di tutti i concetti
fornisce un ponte comodo per passare ora dai paradossi logici a quelli
semantici (le definizioni paradossali o antinomie semantiche). Abbiamo
visto che non sono identici il ‘concetto’ a un livello più basso
(membro) e il ‘concetto‘ al livello più elevato
immediatamente successivo (classe). Eppure si usa lo stesso nome,
‘concetto‘, sia per membro che per classe e in tal modo
l’identità linguistica crea un equivoco. Per evitare questa insidia, si
debbono usare indicatori di tipo logico — indici ‘nei sistemi
formalizzati, virgolette o corsivi negli altri casi — dovunque esista la
possibilità di una confusione dei livelli.
Forse la più famosa delle antinomie semantiche è
quella dell’uomo che dice di se stesso: “ Io sto mentendo “.
Se seguiamo questa asserzione fino alla conclusione logica, troviamo
ancora che è vera soltanto se non è vera; in altre parole, l’uomo mente
soltanto se dice la verità e viceversa dice la verità se mente. In
questo caso, non si può più usare la teoria dei tipi logici per
eliminare l’antinomia, perché le parole o le combinazioni di parole non
hanno una gerarchia di tipo logico. A quanto ne sappiamo è stato ancora
Bertrand Russell quello che per primo ha trovato una soluzione.
Nell’ultimo paragrafo della sua introduzione al Tractatus
LogicoPhilosophicus di Wittgenstein, suggerisce quasi per caso che
ogni linguaggio ha, come dice Wittgenstein, una struttura della quale
nulla può dirsi in quel linguaggio, ma che vi può essere un altro
linguaggio che tratti della struttura del primo linguaggio e possegga a
sua volta una nuova struttura, e che una tale gerarchia di linguaggi può
non avere alcun limite”. E’ una idea che è stata sviluppata,
soprattutto da Carnap e da Tarski, in una teoria che ora è nota come la
teoria dei livelli di linguaggio. Per analogia con la teoria dei tipi
logici, questa teoria salvaguarda dalla confusione dei livelli. Postula
che al livello più basso del linguaggio le asserzioni vengono fatte
sugli oggetti. Questo è il regno del linguaggio oggetto. Ma nel
momento in cui vogliamo dire qualcosa su questo linguaggio,
dobbiamo usare un metalinguaggio, e un metametalinguaggio se vogliamo
parlare su questo metalinguaggio, e così via in una catena
regredente teoricamente infinita.
Applicando questo concetto dei livelli di
linguaggio all’antinomia semantica del mentitore, ci si rende conto che
la sua asserzione, sebbene sia costituita soltanto di tre parole,
contiene due asserzioni. Una è al livello-oggetto, l’altra è al
metalivello e dice qualcosa su quella al livello-oggetto, cioè
che non è vera. Al tempo stesso, quasi
con un gioco di prestigio, si indica che questa
asserzione nel metalinguaggio è essa stessa una delle asserzioni su cui
s’è fatta la meta-asserzione, che è essa stessa una asserzione nel
linguaggio oggetto. Nella teoria dei livelli di linguaggio questo genere
di riflessività delle asserzioni che implicano la propria verità o
falsità (o proprietà analoghe come la dimostrabilità, la definibilità,
la decidibilità, e simili) sono l’equivalente del concetto di
self-membership di una classe nella teoria dei tipi logici; entrambe
sono asserzioni prive di significato.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 191 |
Giappone: una abiura paradossale. Giuramento.
Ogni apostata doveva ripetere le ragioni per cui rinnegava il
Cristianesimo, pronunciando una formula prestabilita in cui si appellava
ai propri Dei.
Quando intorno al 1616 le autorità giapponesi
cominciarono una persecuzione sistematica dei convertiti al
cristianesimo, diedero alle loro vittime la possibilità di scegliere tra
una sentenza di morte e una abiura che era tanto complessa quanto
paradossale. Questa abiura aveva la forma di un giuramento. Ce ne
riferisce Sansom in uno studio sull’interazione tra la cultura europea e
quella asiatica:
Ogni apostata doveva ripetere le ragioni per
cui rinnegava il Cristianesimo, pronunciando una formula prestabilita.
La formula è un tributo involontario alla potenza del Cristianesimo
perché i convertiti — che avevano abiurato la loro religione
generalmente costretti con la forza — venivano fatti giurare, per una
logica assai curiosa, chiamando a testimoni proprio le potenze che
avevano appena rinnegato: il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo, Santa
Maria e tutti gli angeli [...] se infrangerò questo giuramento possa io
perdere la grazia di Dio per sempre e cadere nello stato miserabile di
Giuda Iscariota. Ci si allontanava anche di più dalla logica col
giuramento agli dèi buddisti e scintoisti che costituiva la parte finale
della formula. (134, p. 176)
Vale la pena di analizzare dettagliatamente le
conseguenze di questo paradosso. I giapponesi si erano imposti l’onere
di cambiare la fede di tutto un gruppo di persone, uno sforzo
notoriamente arduo se si considera la potenza e l’intangibilità di ogni
fede. Devono essersi subito resi conto che i metodi di persuasione,
coercizione, o corruzione erano del tutto insufficienti perché tali
metodi possono imporre una devozione tutta a parole, lasciando il dubbio
che la mente dell’ex-convertito non sia ‘veramente’ cambiata. Ed è ovvio
che il dubbio si protrarrà anche & fronte alla profusione di
attestazioni di sincerità da parte degli apostati, non solo di quelli
che hanno abiurato con convinzione ma anche di tutti quelli che vogliono
salvare la pelle pèrché è chiaro che anche chi vuole conservare la fede
nel profondo del cuore non si comporterà diversamente.
Di fronte al problema di operare ‘veramente’
un cambiamento nella mente di qualcuno, i giapponesi ricorsero
all’espediente del giuramento. Ma capirono con chiarezza che un
giuramento simile — per quanto potesse coinvolgere i convertiti — li
avrebbe legati soltanto se lo avessero prestato ai Dio cristiano oltre
che alle divinità buddiste e scintoiste. Ma era una soluzione che li
metteva subito. alle prese con la indecidibilità delle asserzioni
riflessive. Si riteneva che la formula prescritta per il giuramento
derivasse il suo potere vincolante da una invocazione alla divinità
stessa che i convertiti dovevano abiurare proprio con il giuramento. In
altre parole, veniva fatta una asserzione entro uno schema di
riferimento chiaramente stabilito (la fede cristiana) che asseriva
qualcosa su questo schema e quindi su se stessa, vale a dire
negava lo schema di riferimento e negando lo schema negava il giuramento
stesso.
Anche se non esistono testimonianze — a quanto
ne sappiamo — degli effetti del giuramento sui convertiti o sulle
autorità che lo avevano fatto prestare, non è difficile congetturare
quali possano essere stati. Per i convertiti che hanno prestato il
giuramento il dilemma è abbastanza chiaro. Abiurando, restavano entro lo
schema di una formula paradossale e in tal modo venivano presi nel
paradosso. Naturalmente le loro possibilità di uscir fuori dallo schema
devono essere state assai scarse. Ma poiché erano stati costretti a
prestare il giuramento, i convertiti debbono essersi trovati in un
tremendo dilemma religioso e personale. Il problema della coercizione
lasciamolo da parte; poniamoci piuttosto la domanda: il loro giuramento
era valido o no? Se volevano restare cristiani un atto concreto come il
giurare non rendeva valido il giuramento e li scomunicava? Ma se erano
sinceri quando dicevano di voler abiurare il Cristianesimo, giurare in
nome di quella fede non li legava strettamente ad essa? In ultima
analisi qui il paradosso diventa un problema metafisico; un giuramento
lega di per sé non solo chi lo presta ma anche il dio in nome del quale
viene prestato. Nell’esperienza del convertito, non veniva dunque lo
stesso Dio a trovarsi in una posizione insostenibile e se Egli era in
una posizione insostenibile, dove era in tutto l’universo una speranza
di soluzione?
Ma il paradosso deve anche aver influenzato gli
stessi persecutori. E’ impossibile che non siano stati consapevoli di
aver posto con la loro formula il dio cristiano al di sopra della
propria divinità. In tal modo, invece di espurgare dalle anime dei
convertiti ‘il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo, Santa Maria e tutti
gli angeli‘, li hanno posti sui trono anche nella loro religione.
Per cui alla fine devono essersi trovati inviluppati dalla loro stessa
mistificazione, che negava ciò che asseriva e asseriva ciò che negava. |
Sigmund Freud e le autorità naziste, “Posso
vivamente raccomandare la Gestapo a chicchessia “.
Una situazione sostanzialmente simile a quella
dei convertiti giapponesi e dei loro persecutori è quella che venne a
crearsi nel 1938 tra Sigmund Freud e le autorità naziste, salvo che in
questo caso il paradosso fu imposto dalla vittima ai suoi persecutori e
per di più fu imposto in modo tale da permettergli di andarsene. I
nazisti avevano promesso a Freud un visto d’uscita dall’Austria a
condizione che sottoscrivesse una dichiarazione da cui risultasse che
era stato “ trattato dalle autorità tedesche e in particolare
dalla Gestapo con tutto il rispetto e la considerazione dovuti alla mia
fama di scienziato “, ecc. (81, p. 226). Anche se nel caso
personale di Freud la dichiarazione rispondeva a verità, nel contesto
più vasto della spaventosa persecuzione degli ebrei viennesi, il
documento veniva ad avallare una vergognosa pretesa di equità da parte
delle autorità, con lo scopo evidente di usare la fama internazionale di
Freud. per la propaganda nazista. La Gestapo aveva dunque interesse che
Freud sottoscrivesse il documento, mentre Freud deve essersi trovato di
fronte al dilemma di sottoscriverlo (e quindi di aiutare il nemico a
spese della propria integrità morale) o rifiutarsi (e patire qualunque
conseguenza avesse potuto derivarne). In termini di psicologia
sperimentale, doveva affrontare un conflitto di evitamento-evitamento
(sez. 6.434). Freud riuscì a rovesciare le posizioni intrappolando i
nazisti nella loro stessa mistificazione. Quando l’ufficiale della
Gestapo gli portò i documenti per la firma, Freud chiese se gli era
permesso aggiungere un’altra frase. L’ufficiale acconsentì, sicuro
com’era della sua posizione one-up, e Freud scrisse di suo pugno:
“Posso vivamente raccomandare la Gestapo a chicchessia “. Ora la
situazione era capovolta. La Gestapo, che in un primo momento aveva
costretto Freud a lodarla, non poteva certo fare obiezione per aver
ricevuto una lode supplementare. Ma per chiunque sapesse sia pure
confusamente cosa stava accadendo a Vienna in quei giorni (e il mondo
cominciava a saperlo ogni giorno di più) il sarcasmo di quella ‘lode era
così devastante da rendere il documento privo di ogni valore ai fini
della propaganda. In breve, Freud aveva invalidato il documento con una
asserzione che aderiva al contenuto della dichiarazione ma nello stesso
tempo lo negava con il sarcasmo. |
L’opinione della madre è che quando la ragazza
dice ‘no’ significa che vuol venire. Ma quando la ragazza dice
‘sì‘?
‘Sì‘
non vuol dire ‘sì‘,
vuol dire soltanto che la figlia non ha mai la forza di dire
‘no‘.
Una madre stava parlando al telefono con lo
psichiatra della figlia schizofrenica e si lamentava delle ricadute
della ragazza. Ma di solito quando diceva che la figlia era ricaduta
voleva dire che la ragazza si era mostrata più indipendente e che aveva
battibeccato con lei. Da qualche giorno, per esempio, la figlia era
andata a stare per conto suo in un appartamento, una decisione che aveva
abbastanza infastidito la madre. Il terapeuta le chiese di fare un
esempio di quello che lei definiva comportamento disturbato e la donna
rispose: “ Oggi, per esempio, volevo che venisse a pranzo da me e
abbiamo avuto da discorrere perché lei credeva di non aver voglia di
venire “. Quando il terapeuta le chiese come era andata a finire
la discussione, la madre disse con rabbia: “ Naturalmente l’ho
convinta a venire perché sapevo bene che in fondo voleva venire e che
non ha mai il coraggio di dirmi di no”. L’opinione della madre è che
quando la ragazza dice ‘no’ significa che vuol venire, perché lei sa
meglio della figlia quello che passa nella sua mente confusa. Ma quando
la ragazza dice ‘ sì ‘? ‘ Sì ‘ non vuol dire ‘
sì ‘, vuol dire soltanto che la figlia non ha mai la forza di
dire ‘ no ‘. Sia la madre che la figlia sono dunque legate
da questo modo paradossale di etichettare i messaggi.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 208 |
Bateson: LA TEORIA DEL DOPPIO LEGAME
Bateson, Jackson, Haley e Weakland hanno
descritto per primi gli effetti del paradosso nella interazione umana,
in un saggio intitolato “Toward a Theory of Schizophrenia”. (Per una
teoria della schizofrenia), (18), pubblicato nel 1936. Questo
gruppo di ricerca ha studiato il fenomeno della comunicazione
schizofrenica da un punto di vista che è radicalmente diverso da tutte
quelle ipotesi secondo cui la schizofrenia è anzitutto un disturbo
intrapsichico (disordine del pensiero, funzione debole dell’Io,
sommersione della coscienza ad opera del materiale del processo
primario, o fenomeni simili) che poi influenza anche le relazioni del
paziente con gli altri e infine le relazioni degli altri col paziente.
E’ sul versante opposto che Bateson e i suoi collaboratori compiono il
loro approccio: essi si chiedono quali sequenze di esperienza
interpersonale provocherebbero il comportamento (piuttosto che
essere causate da esso) che giustificherebbe la diagnosi di
schizofrenia. Lo schizofrenico, ipotizzano, “deve vivere in un
universo in cui le sequenze di eventi
sono tali che le sue abitudini di
comunicazione non convenzionali in qualche modo saranno appropriate”
(18, p. 253). E’ una ipotesi che li ha portati a postulare e
a identificare certe caratteristiche essenziali di tale interazione, per
cui hanno coniato il termine doppio legame. Queste
caratteristiche sono anche il minimo comune denominatore che sottende la
miscellanea di esempi — che altrimenti sarebbe forse sconcertante — che
abbiamo presentato nelle sezioni precedenti di questo capitolo.
Se ne ritocchiamo e allarghiamo un po’ la
definizione, è possibile descrivere gli elementi di un doppio legame
come segue:
(1) Due o più persone sono coinvolte in una
relazione intensa che ha un alto valore di sopravvivenza fisica e/o
psicologica per una di esse, per alcune, o per tutte. Le situazioni in
cui si hanno tipicamente queste relazioni intense includono (ma non sono
limitate ad esse) la vita familiare (soprattutto l’interazione
genitore-figlio); l’invalidità; la dipendenza materiale; la prigionia;
l’amicizia; l’amore; la fedeltà a una credenza religiosa, a una causa o
a una ideologia; i contesti influenzati da norme sociali o dalla
tradizione; e la situazione psicoterapeutica.
(2) In un simile contesto viene dato un
messaggio che è strutturato in modo tale che (a) asserisce qualcosa, (b)
asserisce qualcosa sulla propria asserzione e (c) queste due asserzioni
si escludono a vicenda. Quindi, se il messaggio è un’ingiunzione,
l’ingiunzione deve essere disobbedita per essere obbedita; se è una
definizione del Sé o dell’altro, la persona di cui si è data la
definizione è quel tipo di persona soltanto se non lo è, e non lo è se
lo è. Il significato del messaggio è perciò indecidibile.
(3) Infine, si impedisce al ricettore del
messaggio di uscir fuori dallo schema stabilito da questo messaggio, o
metacomunicando su esso (commentandolo) o chiudendosi in se stesso.
Dunque anche se il messaggio è da un punto di vista logico privo di
significato, è una realtà pragmatica; egli non può non reagire ad
esso, ma non può neppure reagire ad esso in modo adeguato (non
paradossale), perché il messaggio stesso è paradossale.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 209 |
Dostoevskij:
L’inerzia mi schiacciava.
Come farò per esempio io a esser tranquillo? Dove le ho io le
cause prime su cui poggiare, dove li ho i fondamenti?
Nel lavoro psicoterapeutico con pazienti
schizofrenici intelligenti si è più volte tentati di concludere che si
troverebbero molto meglio, che sarebbero molto più ‘normali‘,
soltanto se potessero un poco smussare l’acutezza del loro pensiero
e quindi attenuare l’effetto paralizzante che ha sulle loro azioni. A
modo loro sembra che discendano tutti dal protagonista trogloditico del
romanzo di Dostoevskij Ricordi dai sottosuolo, [F. Dostoevskij,
Ricordi dal sottosuolo, trad. it. di T. Landolfi, Firenze,
Vallecchi, 1964, p. 11.] il quale spiega:
Vi giuro, signori, che aver
coscienza di troppe cose è una malattia, una vera e propria malattia.
E qualche pagina più avanti:
«l’inerzia mi schiacciava.
Il logico, legittimo, immediato frutto della coscienza è infatti
l’inerzia, ossia un cosciente starsene colle braccia conserte. Ne ho già
accennato più sopra. Lo ripeto, e lo ripeterò finché avrò fiato: tutti
gli uomini immediati e d’azione se sono attivi è perché son stupidi e
limitati. Come si spiega ciò? Ecco come: essi, in conseguenza della loro
limitatezza, scambiano per cause prime quelle più prossime e appena
concomitanti, e in tal modo si convincono più presto e più facilmente
degli altri d’aver trovato alla loro attività un sicuro fondamento, e
così s’acquetano; e questo è l’importante. Giacché per cominciare ad
agire occorre essere preliminarmente tranquilli, e che dubbi non ne
rimangano punti. Be’, e come farò per esempio io a esser tranquillo?
Dove le ho io le cause prime su cui poggiare, dove li ho i fondamenti?
Dove li andrò a prendere? Io fo professione di pensiero, il che
significa che per me ogni causa originaria se ne tira dietro un’altra
ancora più originaria, e così via all’infinito. Questo è appunto il
succo d’ogni coscienza e d’ogni pensiero.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 219 |
L’illusione di alternative. Il segreto: “ Più
di tutto è il dominio che desiderano le donne, sopra i loro mariti e
nelle cose d’amore“
In The Wife of Bath’s Tale (Il racconto
della comare di Bath) Chaucer narra la storia di un cavaliere di Re Artù
che “ a spron battuto cavalcando un giorno verso casa di ritorno dalla
caccia col falcone” s’imbatte per strada in una fanciulla a cui usa
violenza. Il crimine, “che suscitò vivissimo scalpore “, quasi gli costa
la vita, se non fosse per la regina e le sue dame che vogliono
risparmiarlo, dal momento che Artù lascia decidere alla regina la sorte
del cavaliere. La regina dice al cavaliere che gli concederà la vita se
riuscirà a rispondere alla domanda “Che cosa desiderano di più le donne?
“. Il cavaliere, che ha come unica alternativa una sentenza di morte,
s’impegna di trovare la risposta e di ritornare al castello dopo un anno
e un giorno (il tempo che la regina gli ha dato). Come si può
immaginare, l’anno passa, arriva l’ultimo giorno, e il cavaliere è sulla
strada del ritorno al castello senza aver trovato la risposta. Questa
volta s’imbatte in una vecchia (“una strega tanto orrenda quanto può
esserlo una invenzione della fantasia “) che sta seduta in un prato e
gli dice una frase che suona come una profezia: “ Signor cavaliere, qui
non c’è strada che passi “.
Quando conosce la difficile situazione in cui il
cavaliere si trova, gli dice di sapere la risposta e di essere pronta a
svelargliela se egli giura che “qualunque cosa io poi vi chieda, la
farete se potrete farla “. Posto di nuovo di fronte a una scelta
tra due alternative (essere decapitato o accondiscendere al desiderio
della strega, qualunque possa essere), naturalmente il cavaliere sceglie
questa seconda alternativa e la strega gli rivela il segreto (“ Più di
tutto è il dominio che desiderano le donne, sopra i loro mariti e nelle
cose d’amore “). La risposta soddisfa pienamente le dame di corte
e la strega chiede al cavaliere di sposarla. Ha mantenuto la sua
promessa e il patto esige che il cavaliere mantenga la sua. Giunge la
notte del matrimonio e il cavaliere giace al fianco della strega
disperato e incapace di sopraffare la repulsione per la sua bruttezza.
Alla fine la strega gli offre ancora due alternative tra cui scegliere:
o lui l’accetta orrenda com’è (e lei per tutta la vita sarà una moglie
sottomessa e esemplare) oppure si trasformerà in una fanciulla
giovanissima e bellissima, ma non gli sarà mai fedele. A lungo il
cavaliere pondera le due alternative e alla fine non sceglie nessuna
delle due, ma rifiuta la scelta stessa. Il culmine del racconto è
tutto in una sola riga: “I do not fors the whether of the two” (Non
scelgo nessuna delle due). A questo punto la strega diventa una
fanciulla bellissima che sarà la più fedele e obbediente delle mogli.
Al cavaliere la donna appare come fanciulla
innocente, regina, strega, e puttana, ma sotto tutte queste sembianze
esercita su di lui lo stesso potere finché egli non si sente più
costretto a scegliere e ad essere trascinato in una ulteriore situazione
difficile; infatti alla fine contesta la stessa necessità di scegliere.
Si confronti questa situazione con quella di un
famoso koan Zen (una meditazione paradossale) imposto da Tai-hui
con una canna di bambù: “Se la chiamate canna affermate, se non la
chiamate canna, negate. Mettendo da parte ogni affermazione e negazione,
come la chiamereste?”
The Wife of Bath’s Tale è anche un
‘campione’ stupendo di psicologia femminile e sotto questo aspetto Stein
(148) gli ha dedicato un’analisi assai interessante. Se
applichiamo il nostro schema concettuale dobbiamo concludere che finché
questo tipo di donna è capace di ‘legare doppio’ il maschio con
l’illusione di alternative che non finiscono mai (e, naturalmente,
finché il maschio non riesce a districarsi da questa situazione) neppure
lei può essere libera e resta presa nell’illusione di alternative che
comportano bruttezza e promiscuità come uniche scelte. |
Illusione di alternative. Dall’interno
non si può provocare nessun cambiamento, può verificarsi un cambiamento
soltanto uscendo fuori dal modello
Weakland e Jackson (161) hanno usato per
primi il termine illusione di alternative in uno scritto sulle
circostanze interpersonali di un caso di schizofrenia. Notarono che, nel
tentativo di fare la scelta giusta tra due alternative, i pazienti
schizofrenici incontrano un dilemma tipico: non possono — per la natura
della situazione di comunicazione — prendere la decisione
giusta, perché entrambe le alternative sono parte integrante di un
doppio legame e quindi il paziente “è dannato se la prende ed è dannato
se non la prende “. Non ci sono alternative reali tra cui si ‘dovrebbe‘
scegliere quella ‘giusta‘ — è un’illusione l’intera ipotesi
che la scelta sia possibile e che si dovrebbe fare. Ma rendersi conto
dell’assenza di scelta equivarrebbe a riconoscere non solo quelle che
sono evidentemente le ‘alternative’ offerte, ma anche la vera natura del
doppio legame. In realtà il blocco di ogni via d’uscita dalla situazione
di doppio legame (e l’impossibilità che ne deriva di guardarla
dall’esterno) sono elementi fondamentali del doppio legame. Sono
situazioni simili a quella in cui si troverebbe l’imputato a cui si
chieda: “ Avete smesso di picchiare vostra moglie? Rispondete sì o no” e
lo si minacci con l’accusa di disprezzo della corte se tenta di
respingere entrambe le alternative (che sono inapplicabili perché lui la
moglie non l’ha mai picchiata).
Ma mentre qui si tratta di un esempio e chi fa
la domanda sa di usare un trucco perfido, nelle situazioni della vita
reale di solito mancano una consapevolezza e una intenzione del genere.
Le comunicazioni paradossali, come abbiamo già osservato, legano quasi
sempre tutti coloro che vi sono coinvolti: la strega è presa quanto il
cavaliere, il marito quanto la moglie, ecc.
Dall’esame di tutti questi modelli si può
trarre la stessa conclusione: dall’interno non si può provocare
nessun cambiamento, può verificarsi un cambiamento soltanto uscendo
fuori dal modello.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 229 |
Il ‘gioco senza fine. È evidente che i
giocatori non possono ritornare con facilità al loro primo, ‘normale
‘, modulo di comunicazione,
una volta che il gioco sia avviato
Cominciamo con un esempio puramente teorico. Si
immagini una situazione come la seguente.
Due persone decidono di fare un gioco che
consiste nel sostituire la negazione con l’affermazione, e viceversa, in
ogni frase che si comunicano. ‘Sì’ diventa ‘no’, ‘non voglio’ diventa
‘voglio’, e così via. E’ evidente che questa codificazione dei messaggi
è una convenzione semantica del tutto simile alla miriade di altre
convenzioni accettate da due persone che usano lo stesso linguaggio. Ma
non è invece subito evidente che i giocatori non possono ritornare con
facilità al loro primo, ‘normale ‘, modulo di comunicazione, una
volta che il gioco sia avviato. Se continuano ad applicare la regola
dell’inversione del significato, il messaggio “ Smettiamo di giocare”
significa “Continuiamo a giocare“. Per arrestare il gioco è
necessario uscir fuori dal gioco e comunicare su di esso. Un messaggio
simile dovrebbe essere chiaramente costruito come un metamessaggio, ma
qualunque qualificatore si adotti sarebbe esso stesso soggetto alla
regola d’inversione del significato e quindi inutile. Il messaggio “
Smettiamo di giocare” e indecidibile perché (1) ha un significato
sia al livello-oggetto (in quanto parte del gioco) sia al metalivello
(in quanto messaggio sul gioco); (2) i due significati sono
contraddittori; (3) la natura peculiare del gioco non fornisce una
procedura tale da mettere in grado i giocatori di decidere su un
significato o sull’altro. L’indecidibilità rende impossibile arrestare
il gioco una volta avviato. Etichettiamo situazioni simili giochi
senza fine.
Cosa avrebbero potuto fare i giocatori per
evitare il dilemma? Ci sono tre possibilità:
(1) I giocatori, prevedendo la necessità
di comunicare sul gioco una volta che fosse cominciato, avrebbero potuto
accordarsi di giocarlo in inglese ma di metacomunicare in francese. Ogni
asserzione in francese, come la proposta di arrestare il gioco,
resterebbe quindi chiaramente fuori del corpo di messaggi che sono
soggetti alla regola dell’inversione del significato, cioè fuori del
gioco stesso. Per questo gioco sarebbe una procedura di decisione di
grande efficacia, ma sarebbe inapplicabile nella comunicazione umana
perché non esiste un metalinguaggio che venga usato soltanto per le
comunicazioni sulla comunicazione. Infatti, il comportamento e, più
precisamente, il linguaggio naturale sono usati per comunicazioni sia al
livellooggetto che a livello di metalinguaggio, come risulta da certi
problemi che siamo venuti descrivendo.
(2) I giocatori avrebbero potuto fissare in
anticipo di comune accordo un limite di tempo, superato il quale
sarebbero tornati al loro modulo di comunicazione normale. Vale la pena
di notare che questa soluzione, che tra l’altro è inattuabile nella
comunicazione umana reale, implica il ricorso a un fattore esterno — il
tempo — che non rientra nel gioco.
(3) Questo ci porta alla terza possibilità,
che sembra essere la sola procedura efficace e che ha inoltre il
vantaggio che vi si può ricorrere dopo che il gioco è cominciato: i
giocatori potrebbero trasferire il loro dilemma su una terza persona con
la quale entrambi hanno mantenuto il loro modulo di comunicazione
normale e farle decidere la chiusura del gioco.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 231 |
I
pazienti in buona fede di solito hanno tentato senza successo
ogni tipo di autodisciplina e ogni esercizio di volontà molto tempo
prima di rivelare agli altri le loro difficoltà.
La comunicazione terapeutica deve dunque
necessariamente imporre prescrizioni ben diverse da quelle, sempre
inefficaci, che di solito danno gli stessi protagonisti e i loro parenti
e amici. Sarebbe assai sforzato definire terapeutiche raccomandazioni
come “ Siate gentili tra di voi “, “ Non mettetevi nei guai con
la polizia “ e simili, sebbene esprimano ingenuamente il
desiderio di un cambiamento. Questi messaggi si fondano sull’ipotesi che
‘con un po’ di volontà’ si potrebbero cambiare le cose e che quindi
tocca alla persona o alle persone che vengono a trovarsi in una data
situazione scegliere tra salute e sofferenza. Tuttavia questa ipotesi
non è niente altro che una illusione di alternative, almeno per quanto
riguarda il paziente che ogni volta può respingerla con la replica
irrefutabile:
“Non posso farci niente “. I pazienti in
buona fede — con questa espressione ci riferiamo alle persone che non
stanno simulando intenzionalmente — di solito hanno tentato senza
successo ogni tipo di autodisciplina e ogni esercizio di volontà molto
tempo prima di rivelare agli altri le loro difficoltà. |
IL PARADOSSO IN PSICOTERAPIA
Non soltanto quella psicoanalitica ma in genere
quasi tutte le situazioni psicoterapeutiche sono ricche di impliciti
doppi legami. A rendersi conto della natura paradossale della
psicoanalisi fu uno dei primi collaboratori di Freud, Hanns Sachs, a cui
si attribuisce la frase una analisi termina quando il paziente si
rende conto che potrebbe continuare per sempre, una
asserzione che in modo assai curioso richiama alla mente la credenza Zen
secondo cui l’illuminazione giunge quando l’allievo si rende conto
che non c’è nessun segreto, nessuna risposta ultima, e quindi
nessuna ragione di continuare a far domande. Per una trattazione
esauriente di questo argomento, si rimanda il lettore a Jackson e Haley
(76), il cui saggio riassumiamo qui molto brevemente.
L’ipotesi tradizionale era quella secondo cui in
una situazione di ‘transfert‘ il paziente ‘regrediva‘
verso modelli di comportamento precedenti e ‘non appropriati’.
Ancora una volta Jackson e Haley si accostarono al problema dal lato
opposto e si domandarono: quale sarebbe il comportamento appropriato
nella situazione psicoanalitica? Da questo punto di vista, sembra che
l’unica reazione adulta a tutto il rituale del divano, delle
associazioni libere, della spontaneità imposta, degli onorari,
dell’orario rigoroso, ecc., sarebbe quella di respingere l’intera
situazione. Ma questo è proprio quello che il paziente (che ha bisogno
di aiuto) non può fare. Viene quindi disposto un campo d’azione per un
contesto di comunicazione assai singolare. Alcuni dei paradossi più
rilevanti che il contesto comporta sono i seguenti.
(a) Il paziente si aspetta che l’analista sia un
esperto che gli dica cosa fare. L’analista risponde dando al paziente
l’incarico della cura, rendendolo responsabile del corso del
trattamento, chiedendo spontaneità nello stesso momento in cui pone le
regole che circo-scrivono completamente il comportamento del paziente.
In definitiva al paziente viene detto: “Sii spontaneo”.
(b) In questa situazione, qualunque cosa faccia,
il paziente si troverà di fronte a una risposta paradossale. Se fa
notare che non sta migliorando, gli si dice che questo è dovuto alla sua
resistenza, ma che è un bene perché gli offre un’occasione migliore di
capire il proprio problema. Se dichiara che crede di star migliorando,
gli si dice che sta resistendo al trattamento cercando di fuggire prima
che il suo vero problema sia stato analizzato.
(c) Il paziente è in una situazione che non gli
consente di comportarsi da adulto, ma quando non si comporta da adulto
l’analista interpreta il suo comportamento infantile come un residuo
dell’infanzia e quindi come un comportamento inappropriato.
(d) Un ulteriore paradosso si trova nel problema
assai delicato se la relazione analista-paziente è coercitiva o
volontaria. Da una parte, si dice continuamente al paziente che la sua
relazione è volontaria e perciò simmetrica. Tuttavia se il
paziente arriva in ritardo, non va a una seduta o viola in qualche modo
qualche regola, risulta evidente che la relazione è coercitiva,
complementare, con l’analista nella posizione one-up.
(e) La posizione one-up dell’analista
diventa particolarmente chiara ogni volta che ci si richiama al concetto
di inconscio. Se il paziente respinge una interpretazione, l’analista
può sempre spiegare di stare indicando qualcosa di cui il paziente per
definizione non deve aver consapevolezza perché si tratta di qualche
processo inconscio. Se d’altra parte il paziente cerca di appellarsi
all’inconscio per giustificare qualcosa, l’analista può respingere tale
rivendicazione dicendo che se si trattasse di qualche processo inconscio
il paziente non potrebbe farvi riferimento.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 248 |
È come se questi pazienti comunicassero tramite
i loro sintomi: “ Aiutami, ma io non te lo permetterò”
I medici dovrebbero guarire. Da un punto di
vista interattivo tale premessa li pone in una posizione assai curiosa:
occupano la posizione complementare one-up nella relazione
dottore-paziente finché il malato non è guarito. D’altra parte, quando
falliscono i loro sforzi le posizioni si rovesciano: la natura della
relazione dottore-paziente è allora dominata dalla refrattarietà della
condizione del paziente e il medico viene a trovarsi nella posizione
one-down. E’ allora probabile che venga ‘legato doppio’ da quei
pazienti che per ragioni spesso assai recondite non possono accettare di
migliorare o da quelli che trovano che essere one-up su ogni
partner (medico compreso) sia più importante del dolore e del disagio
che una scelta simile può procurare. In entrambi i casi è come se questi
pazienti comunicassero tramite i loro sintomi: “ Aiutami, ma io non te
lo permetterò”.
Un paziente di questo tipo, una donna di mezza
età, ricorse allo psichiatra per un’emicrania persistente e debilitante.
I dolori erano cominciati poco dopo aver subito in un incidente una
lesione occipitale. La lesione si era risolta senza complicazioni e
approfonditi esami medici non erano riusciti a rivelare nulla che
potesse essere la causa dell’emicrania. La paziente era stata risarcita
in modo adeguato da una società di assicurazioni e non pendevano
ulteriori rivendicazioni né alcuna azione legale. Molti specialisti di
una grande clinica l’avevano esaminata e curata prima che lei ricorresse
allo psichiatra. Tutti questi esami clinici avevano riempito uno
schedario di proporzioni impressionanti e la donna era diventata una
fonte di notevole frustrazione professionale per quei medici.
Studiando il caso, lo psichiatra si rese conto
che con questa anamnesi di ‘fallimenti’ medici qualunque supposizione (o
speranza) che la psicoterapia avrebbe potuto essere di aiuto
condannava il trattamento fin dall’inizio. Cominciò quindi informando la
paziente che dai risultati di tutti gli esami precedenti e in
considerazione del fatto che nessuna cura le aveva dato il minimo
sollievo, non c’era alcun dubbio che la sua condizione era
irreversibile. Il fatto era increscioso, ma la sola cosa che poteva fare
per lei era insegnarle a vivere con il dolore. Al terapeuta sembrò che
questa spiegazione piuttosto che sconvolgere la paziente la facesse
arrabbiare, tanto è vero che gli chiese in modo quasi polemico se era
tutto quello che la psichiatria aveva da offrire. Lo psichiatra per
controbattere questa osservazione fece ondeggiare nell’aria il pesante
dossier della sua anamnesi e tornò a ripeterle che di fronte a prove
come quelle non c’era proprio alcuna speranza di miglioramento e che
questo era un dato di fatto a cui doveva rassegnarsi. Quando la paziente
tornò una settimana dopo per la seconda intervista, annunciò che nel
frattempo l’emicrania l’aveva fatta soffrire molto meno. Lo psichiatra
dimostrò un grande interesse per questo fatto; si criticò per non averla
avvertita prima della possibilità di una simile diminuzione del dolore,
temporanea e puramente soggettiva, e manifestò il timore che l’emicrania
sarebbe inevitabilmente ricomparsa con l’intensità di una volta e lei
sarebbe stata anche più infelice per aver riposto una speranza cosi poco
realistica in una diminuzione solo temporanea della percezione del
dolore. Tirò fuori un’altra volta il dossier dell’anamnesi, le mostrò
quanto era esauriente e le disse ancora che prima abbandonava ogni
speranza di miglioramento, prima avrebbe accettato la sua condizione. Da
quel momento in poi la psicoterapia prese una svolta piuttosto
tempestosa; lo psichiatra diventava sempre più scettico sulle sue
possibilità di esserle utile poiché lei non voleva accettare l’
‘irreversibilità della sua condizione‘ e la paziente continuava a
dire, con rabbia e impazienza, che stava migliorando. Ma tra uno scontro
e l’altro fu possibile dedicare parte delle interviste all’esame di
altri aspetti importanti dei rapporti interpersonali di questa donna e
alla fine la paziente, che stava molto meglio, abbandonò il trattamento
di propria iniziativa, avendo evidentemente capito che il suo gioco con
lo psichiatra poteva continuare per sempre.
I casi di dolore psicogeno come quello
sopracitato di solito si prestano molto bene a una breve psicoterapia
basata sulla comunicazione paradossale. L’imposizione di un doppio
legame terapeutico può cominciare spesso anche dalla richiesta
telefonica di un appuntamento fatta da un nuovo paziente. Se il
terapeuta può essere abbastanza certo della psicogenesi del disturbo
(come nel caso, ad es., che ne abbia discusso prima con un medico che
gli ha riferito il caso) può avvertire il richiedente che abbastanza
spesso i pazienti hanno la sensazione di essere notevolmente migliorati
prima di presentarsi per la loro prima intervista, ma si tratta di un
miglioramento solo momentaneo in cui non bisogna riporre alcuna
speranza. Se il paziente non avverte alcuna diminuzione del dolore nel
periodo di tempo tra la telefonata e il primo appuntamento, non si è
fatto alcun danno, e il paziente apprezzerà l’interesse e la prudenza
del terapeuta. Ma se si è sentito meglio, si è superato il primo stadio
per l’ulteriore strutturazione del doppio legame terapeutico. Come passo
successivo si può spiegare che la psicoterapia non allevia il dolore, ma
che il paziente stesso di solito può ‘spostare il dolore nel
tempo‘ e ‘condensare la sua intensità‘. Si chiede al
paziente, ad es., di fissare un periodo di due ore al giorno in cui gli
sarebbe meno scomodo provare più dolore. Gli si dice poi di
accrescere il dolore durante queste due ore e anche se non viene
esplicitamente detto si dà per scontato che si sentirebbe meglio per il
resto della giornata. E’ straordinario che i pazienti di solito riescano
a sentirsi peggio nel periodo di tempo che hanno scelto, seguendo il
suggerimento del terapeuta, e subendo questa esperienza non possono fare
a meno di rendersi conto di avere un poco controllato il loro dolore.
Naturalmente, il terapeuta non suggerisce mai che dovrebbero cercare di
sentirsi meglio; piuttosto, egli mantiene lo stesso atteggiamento
scettico verso il miglioramento.
Il marito che beve (o la moglie che beve)
mantiene di solito con l’altro coniuge un modello di comunicazione
piuttosto stereotipato. Per semplicità, supporremo qui di seguito che il
bevitore sia il marito, ma i ruoli potrebbero essere invertiti senza che
si abbia un cambiamento significativo in tutto il modello.
La principale difficoltà è spesso una
discrepanza nella punteggiatura della sequenza di eventi. Il marito, ad
es., può asserire che la moglie lo domina e che lui si sente un po’ più
uomo soltanto dopo qualche bicchierino. La moglie controbatte
prontamente che rinuncerebbe volentieri a comandare se il marito
mostrasse un maggior senso di responsabilità, ma visto che si ubriaca
tutte le sere è costretta ad avere cura di lui. Può proseguire dicendo
che se non fosse stato per lei, il marito più di una volta avrebbe
potuto incendiare la casa addormentandosi a letto con la sigaretta
accesa; è allora probabile che lui ribatta che neanche si sognerebbe di
correre un rischio simile se fosse ancora scapolo. Forse può aggiungere
che questo è un esempio dell’influenza svirilizzante che la moglie ha su
di lui. Comunque sia, dopo alcuni Scontri di questo tipo, il loro gioco
senza fine diventa abbastanza evidente per l’estraneo che non vi è
coinvolto. Dietro la facciata di scontento, frustrazioni e accuse, si
stanno confermando a vicenda mediante un quid pro quo; il marito
dà alla moglie la possibilità di essere sobria, ragionevole e protettiva
e la moglie rende possibile a suo marito di essere irresponsabile,
infantile e in genere un fallito incompreso.
Uno dei possibili doppi legami terapeutici che
si potrebbe imporre a una coppia simile sarebbe quello di prescrivere ai
coniugi di bere insieme, a condizione però che la moglie beva sempre un
bicchierino più del marito. L’introduzione di questa nuova regola nella
loro interazione praticamente distrugge i vecchi modelli. Primo, il bere
ora è un compito e non più qualcosa di cui lui ‘non può fare a meno’.
Secondo, tutti e due devono controllare di continuo il numero dei
bicchierini bevuti. Terzo, la moglie che di solito è una bevitrice assai
moderata (ammesso che beva) raggiunge subito un grado di ubriachezza che
richiede che sia lui a prendersi cura di lei. Non si
tratta soltanto di un rovesciamento totale dei loro ruoli abituali;
questa situazione pone il marito in una posizione insostenibile: se
riesce a seguire le istruzioni del terapeuta o deve smettere di bere o
deve costringere la moglie a bere di più, con il rischio di renderla
ancor più vulnerabile, malata, ecc. Quando la moglie non vuol più bere,
se lui ha intenzione di violare la regola (che lei debba essere più
avanti di un bicchierino) continuando a bere da solo, deve affrontare la
situazione non certo familiare di restare senza il suo angelo custode e
di assumersi la responsabilità sia del suo comportamento che di quello
della moglie.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 248 |
Modo zen di cacciare i fantasmi
Che l’effetto terapeutico della comunicazione
paradossale non sia affatto una scoperta recente lo mostra il seguente
racconto Zen che contiene tutti gli elementi di un doppio legame
terapeutico:
Una giovane moglie si ammalò e sul punto di
morte disse al marito: “Ti amo tanto e non voglio lasciarti. Quando sarò
morta non andare con un’altra donna. Se lo farai, tornerà il mio
fantasma e ti procurerà guai a non finire”.
Ben presto la donna passò a miglior vita. Per
tre mesi il marito rispettò l’ultima volontà della moglie, ma poi
conobbe un’altra donna, s’innamorò di lei e si scambiarono promessa di
matrimonio.
Subito dopo il fidanzamento, un fantasma
comincio ad apparire all’uomo ogni notte e a biasimarla per non essere
restato fedele. Era un fantasma intelligente che sapeva per filo e per
segno quel che accadeva tra l’uomo e la sua bella. Ogni regalo che
l’uomo dava alla fidanzata, il fantasma sapeva descriverlo nei minimi
particolari. Ripeteva parola per parola i loro discorsi e tanto lo
molestava che egli non riusciva più a dormire. Gli consigliarono di
sottoporre il suo problema a un maestro Zen che viveva vicino al
villaggio. Alla fine, per disperazione, il pover’uomo andò dal maestro
per chiedergli aiuto.
“La tua prima moglie è ora un fantasma che sa
tutto quel che fai“, commentò il maestro. “Qualunque cosa tu
faccia o dica, qualunque cosa tu dia alla tua amata, lei lo sa. Deve
essere un fantasma molto saggio e tu dovresti ammirarlo. La prossima
volta che ti appare, cerca di venire a patti. Digli che sono tante le
cose che sa che tu non puoi nascondergli nulla, e che se risponderà a
una tua domanda gli prometti di rompere il fidanzamento e di restare
vedovo”.
“Qual è la domanda che devo fare?” domandò
l’uomo.
Il maestro rispose: “Prendi una bella manciata
di semi di soia e digli che ti dica senza sbagli quanti semi hai in
mano. Se non riesce a rispondere, saprai che è solo una invenzione della
tua fantasia e non t’importunerà mai più “.
La notte seguente, quando apparve il fantasma,
l’uomo non gli risparmiò le lusinghe e gli disse che era un fantasma che
sapeva ogni cosa.
“E’ vero “, rispose il fantasma, “ e so che oggi
sei andato dal maestro Zen
“Visto che sai tante cose “, disse l’uomo,
“perché non mi dici quanti semi ho in questa mano?
Ma non ci fu più nessun fantasma a rispondere a
quest’ultima domanda.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 248 |
Il paradosso nel gioco, nello humour e nella
creatività
Per quale ragione gli organismi, dagli
invertebrati ai vertebrati (uomini inclusi), siano tanto sensibili agli
effetti del paradosso non è una cosa ancora molto chiara, ma è evidente
che questi effetti vanno ben oltre i fattori meramente culturali o
specifici della specie. Come abbiamo cercato di mostrare in questo
capitolo, a livello umano si ha un supplemento di complessità per il
fatto che il paradosso può essere terapeutico e non solo patogeno. Ma
questo non esaurisce affatto gli aspetti positivi del paradosso, perché
è evidente che molte delle più nobili attività e conquiste della mente
umana sono intimamente legate con la capacità che ha l’uomo di vivere
l’esperienza del paradosso. La fantasia, il gioco, lo humour, l’amore,
il simbolismo, l’esperienza religiosa nel senso più esteso del termine
(dal rituale al misticismo) e soprattutto la creatività, sia
nelle arti che nelle scienze sembrano essere sostanzialmente
paradossali.
Tuttavia sono campi tanto vasti, estesi e così
lontani dagli scopi di questo libro che dovremo limitarci a ricordarli
di sfuggita. L’abbozzo di una teoria del gioco e della
fantasia fondata sulla teoria dei tipi logici (e dei suoi paradossi)
l’ha tracciato Bateson nel 1934. Riferendo le sue esperienze di
osservatore allo Zoo Fleishacker di San Francisco, accenna che
vide due giovani scimmie che giocavano,
che erano cioè impegnate in una sequenza interattiva le cui unità
d’azione (o segnali) erano simili ma non identiche a quelle di un
combattimento. Era evidente, anche per l’osservatore umano, che la
sequenza considerata come un tutto non era un combattimento, ed era
evidente all’osservatore umano che ‘non era un combattimento ‘ per le
scimmie che vi partecipavano.
Ora, tale fenomeno, il gioco, poteva
verificarsi soltanto se gli organismi partecipanti erano in grado di
metacomunicare sia pure in modo limitato, cioè di scambiare segnali che
recassero il messaggio ‘questo è un gioco‘. Il passo successivo fu
l’esame del messaggio ‘questo è un gioco’ che portò a prendere atto che
tale messaggio contiene quegli elementi che necessariamente producono un
paradosso di tipo russelliano o epimenidea — un’asserzione negativa che
contiene una implicita meta-asserzione negativa. Articolandola,
l’asserzione ‘ questa è un gioco si può approssimativamente formulare
così: “Le azioni in cui siamo ora impegnate non denotano ciò che
denoterebbero quelle azioni che esse rappresentano “. (8,
p. 41)
E’ una prospettiva che Fry, uno dei
collaboratori di Bateson, ha applicato al fenomeno dello humour.
In un ampio studio di molti tipi di barzellette riassume le conclusioni
a cui è giunta nel modo seguente:
Nella fase in cui lo humour si sviluppa, ci
si trova all’improvviso di fronte a un capovolgimento
implicito-esplicito quando viene liberata la battuta finale. E’ un
capovolgimento che aiuta a distinguere lo humour dal gioco, dai sogni,
ecc. I capovolgimenti improvvisi come quelli che nello humour
caratterizzano il momento della battuta finale sono dirompenti ed
estranei al gioco, ecc. (Solo in psicoterapia questa sarta d’operazione
di capovolgimento è compatibile con la struttura generale
dell’esperienza). Ma solo il capovolgimento può avere l’effetto di
costringere coloro che partecipano all’esperienza dello humour a dare
una nuova definizione interna della realtà. E’ inevitabile che la
battuta finale combini comunicazione e metacomunicazione. Anzitutto si
riceve la comunicazione esplicita della battuta finale; poi, a un
livello più elevato di astrazione, la battuta finale trasmette una
metacomunicazione implicita su se stessa e sulla realtà che viene
esemplificata dalla barzelletta E...] questo materiale della battuta
finale implicito-ora-esplicito diventa un messaggio di metacamunicazione
che riguarda il contenuto della barzelletta in generale (in quanto
campione di comunicazione). In questo capovolgimento del contenuto,
quello che sembra essere realtà si può presentare nei termini di quello
che sembra essere irrealtà. Il contenuto comunica il messaggio “Questo è
irreale”, e comunicando tale messaggio fa riferimento al tutto di cui è
parte. Siamo quindi ancora di fronte al paradosso della parte negativa
che definisce il tutto. Il reale è irreale, l’irreale è reale. La
battuta finale fa precipitare il paradosso interno specifico del
contenuto della barzelletta e stimola una riverberazione del
paradosso che lo schema del gioca ha generato.
La creatività, infine, è stata oggetto di
molti studi importanti di cui uno dei più recenti è The Act of
Creation (L’atto della creazione) di Koestler. In quest’opera
monumentale si avanza la pro-pasta che lo humour, la scoperta
scientifica e la creazione artistica siano il risultato di un processo
mentale a cui si dà il nome di ‘bisociazione’.
Questa è definita come “La percezione di
una situazione o di un’idea in due sistemi di riferimento internamente
coerenti ma abitualmente incompatibili“.
L’autore poi distingue tra il comune
ragionamento che opera su un solo ‘piano’ e l’atto creativo che opera
sempre su più di un piano. Nel primo caso, si può dire che il pensiero
vada in una sola direzione; nel secondo caso, invece, si tratta di uno
stato transitoria dall’equilibrio instabile, teso in due direzioni, il
cui squilibrio influenza al tempo stesso l’emozione e il pensiero.
Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione
umana”, Astrolabio, pag. 251 |
Da:
http://www.ilpalo.com/libri-scientifici-interessanti/libri/Watzlawick-Pragmatica-della-comunicazione-umana.htm
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