Antologia della Pragmatica della comunicazione umana di Paul Watzlawick

  in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

  home page   cerca nel sito   iscrizione newsletter   email   aggiungi ai preferiti   stampa questa pagina    
 

 

  SU DI ME
 Vita       
 Pubblicazioni

 Corsi, seminari, conferenze

 Prossimi eventi
 
  DISCIPLINE
 Filosofia antica       
 Mistica
 Sufismo
 Taoismo
 Vedanta              
 Buddhismo              
 Zen
 Filosofia Comparata
 Musica / Mistica
 Filosofia Critica
 Meditazione
 Alchimia
 Psiché
 Tantrismo
 Varia
 
  AUTORI
 Mircea Eliade       
 Raimon Panikkar
 S.Weil e C.Campo
 René Guénon, ecc.
 Elémire Zolla     
 G.I.Gurdjieff  
 Jiddu Krishnamurti
 Rudolf Steiner
 P. C. Bori       
 Silvano Agosti
 Alcuni maestri

 

Antologia della Pragmatica della comunicazione umana di Paul Watzlawick

 

Ridondanza: L’omeostato di Ashby e il processo stocasico

Il congegno è costituito da quattro identici sottosistemi autoregolantesi e tutti interconnessi in modo tale che una perturbazione provocata in uno qualunque di essi influenza gli altri e a sua volta ciascuno reagisce attraverso gli altri. Nessun sottosistema può quindi ottenere il proprio equilibrio isolandosi dagli altri, e Ashby ha potuto mostrare che questa macchina ha delle caratteristiche ‘comportamentali’ davvero degne di attenzione.

L’omeostato ottiene la stabilità mediante una ricerca casuale delle sue combinazioni e continua finché non raggiunge una configurazione interna adatta. E’ un comportamento identico alla “prova ed errore” di molti organismi in stato di tensione. Nel caso dell’omeostato il tempo di ricerca può andare da alcuni secondi a delle ore.

Ashby osserva che i sistemi naturali conservano l’adattamento, almeno parzialmente. Vale a dire che i vecchi adattamenti non sono distrutti dal sopravvenire dei nuovi e che non occorre cominciare da capo la ricerca come se prima non si fosse mai giunti a una soluzione.

Nell’omeostato, ognuna delle 390.625 configurazioni interne ha in qualunque momento una eguale possibilità di essere determinata dall’azione reciproca dei quattro sottosistemi. Il verificarsi quindi di una data configurazione non ha assolutamente alcun effetto sul verificarsi della successiva configurazione o sequenza di configurazioni. Si dice che una catena di eventi mostra di comportarsi a caso (randomness) se ogni elemento ha una eguale probabilità di verificarsi in qualunque momento. Per, cui non si può trarne alcuna conclusione, come non si può predire nulla sulla sua sequenza futura. Che è un altro modo per dire che non reca informazione. Tuttavia, se un sistema come l’omeostato ha la capacità di immagazzinare gli adattamenti precedenti per usarli in futuro, la probabilità inerente alla sequenza delle configurazioni interne subirà un drastico cambiamento nel senso che certi raggruppamenti di configurazioni diventeranno ripetitivi e per tale ragione più probabili di altri. Si noti a questo punto che non occorre attribuire un significato a tali raggruppamenti: che esistano è il fatto che meglio li spiega. A una catena del tipo che abbiamo appena descritto si dà la definizione di processo stocasico, un concetto fondamentale della teoria dell’informazione. Dunque, il processo stocastico si riferisce alla legittimità inerente a una catena di simboli o di eventi, sia che la sequenza si presenti semplice come i risultati ottenuti estraendo palline bianche e nere da un’urna, sia complessa come i modelli specifici di elementi timbrici e orchestrali adoprati da un certo compositore, o l’uso particolare del linguaggio che caratterizza lo stile di un autore, o lo schema grafico (che è assai importante ai fini diagnostici) tracciato da un elettroencefalogramma. Secondo la teoria dell’informazione i processi stocastici mostrano ridondanza o vincolo, due termini il cui uso è intercambiabile con quello di modello.

La ridondanza è stata studiata ampiamente in due settori della comunicazione umana: in quello della sintassi e in quello della semantica; e a questo proposito dovremmo ricordare il lavoro pionieristico di Shannon, Carnap e Bar-Hillel. Una delle conclusioni che si possono trarre da questi studi è che ognuno di noi ha moltissime cognizioni sulla legittimità e sulla probabilità statistica inerente sia alla sintassi che alla semantica della comunicazione umana. Da un punto di vista psicologico queste cognizioni sono di un genere molto interessante, perché sono cognizioni di cui non abbiamo quasi nessuna consapevolezza. Forse solo un esperto dell’informazione può stabilire con esattezza la probabilità di ricorrenza e i livelli di frequenza delle lettere e delle parole di una data lingua, tuttavia tutti siamo in grado di individuare e correggere un refuso, di sostituire una parola mancante, e di esasperare un balbuziente finendo una frase per lui. Ma è assai diverso sapere una lingua e sapere qualcosa su una lingua. Una persona può essere in grado di usare la propria lingua madre correttamente e fluentemente senza tuttavia conoscere la grammatica e la sintassi, cioè le regole che egli osserva nel parlare la lingua. Se costui dovesse imparare un’altra lingua — ma non nello stesso modo empirico in cui ha acquisito la lingua madre — dovrebbe anche imparare certe regole sul linguaggio.

Il grande linguista Benjarnin Whorf ha fatto rilevare più volte questo fenomeno, ad es. nel capitolo Scienza e linguistica:

I linguisti scientifici hanno da tempo capito che la capacità di parlare correntemente una lingua non conferisce necessariamente una conoscenza linguistica, cioè una comprensione dei suoi fenomeni di sfondo, dei suoi processi sistematici e della sua struttura, più di quanto la capacità di giocare una buona partita a biliardo non richieda la conoscenza delle leggi della meccanica che agiscono sul tavolo da biliardo.

E’ chiaro che la ridondanza pragmatica è sostanzialmente simile alla ridondanza sintattica e semantica. Anche di essa abbiamo moltissime cognizioni che ci danno la possibilità di valutare, di influenzare e di predire il comportamento. In realtà, in questo settore possiamo facilmente incorrere in molte incoerenze: i comportamenti diversi (fuori del contesto), casuali ‘, o ‘non vincolati’ ci colpiscono subito come se fossero molto più incompatibili di errori di comunicazione puramente semantici o sintattici. E tuttavia è proprio in questo settore che siamo più sprovveduti fino al punto di ignorare le regole che vengono osservate nella comunicazione efficace o violate in quella disturbata. Siamo continuamente influenzati dalla comunicazione; come abbiamo accennato sopra, anche la nostra autoconsapevolezza dipende dalla comunicazione. Hora è assai esplicito e convincente su questo punto: “Per capire se stesso l’uomo ha bisogno di essere capito dall’altro. Per essere capito dall’altro, ha bisogno di capire l’altro “ (85, p. 237). Ma se la comprensione di una lingua si basa sulle regole della grammatica, della sintassi, della semantica, ecc. su quali regole si basa la comprensione di cui parla Hora? Ancora una volta sembra che le sappiamo senza sapere di saperle. Siamo in costante comunicazione e tuttavia non riusciamo quasi mai a comunicare sulla comunicazione.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 30

Il modello degli scacchi

La ricerca di un modello è la base di ogni indagine scientifica. Dove c’è un modello c’è un senso — questa massima epistemologica vale anche per lo studio della interazione umana. Questo studio sarebbe relativamente facile se ci limitassimo a interrogare coloro che si trovano in un rapporto di interazione e ad apprendere direttamente i modelli che essi di solito seguono o, in altre parole, le regole di comportamento che hanno stabilito tra di loro. Una applicazione d’uso comune di questa idea è il questionario tecnico. Tuttavia, una volta che ci si sia resi conto che il valore nominale delle dichiarazioni è spesso dubbio, soprattutto in psicopatologia — i soggetti possono benissimo dire qualcosa e voler dire qualcos’altro — e che, come abbiamo appena visto, ci sono domande che ricevono risposte del tutto prive di consapevolezza, allora è chiaro che occorrono altri metodi di indagine.

Bateson ha reso più sottile e penetrante questa analogia con i livelli di consapevolezza enunciando il problema secondo i nostri schemi concettuali presenti:

Quando saliamo la scala degli ordini di apprendimento, entriamo in regioni di modellazione sempre più astratta, che sono sempre meno soggette a un’analisi consapevole. Più sono astratte — più sono generali e formali le premesse che rendono possibile il montaggio dei nostri modelli — più esse sono profondamente inabissate ai livelli neurologici e psicologici e tanto meno esse sono accessibili a un controllo consapevole.

L’abitudine di dipendenza è molto meno percettibile per l’individuo di quanto lo sia l’aver ottenuto aiuto in una data circostanza. Può essere in grado di riconoscere questo modello, ma riconoscere quello successivo, più complesso — che, cioè, dopo aver cercato aiuto, in genere morde la mano che lo nutre — è una cosa che forse trova troppo difficile da esaminare con piena consapevolezza.

Fortunatamente per noi (che vogliamo capire l’interazione umana), il quadro appare diverso a un osservatore esterno, il quale si trova in un certo senso nella posizione di chi, vedendo giocare una partita a scacchi, non capisce quali siano le regole e l’obiettivo del gioco. Assumiamo il gioco degli scacchi come un modello concettuale e supponiamo di rappresentare la mancanza di consapevolezza che i giocatori’ manifestano nella vita reale con una ipotesi assai semplice, e cioè che l’osservatore non parli né capisca la lingua dei giocatori e non sia quindi in grado di chiedere spiegazioni. L’osservatore noterà presto che il comportamento dei giocatori mostra diversi gradi di ripetizione, di ridondanza, da cui si possono trarre conclusioni abbastanza indicative: per esempio, che quasi sempre la mossa di un giocatore è seguita dalla mossa di un altro giocatore. Si può quindi dedurre subito da questo comportamento che i giocatori stanno seguendo la regola di alternare le mosse. Non altrettanto facilmente si possono dedurre le règole da seguire per muovere i pezzi, in parte per la complessità delle mosse e in parte per l’irregolarità’ della frequenza con cui si spostano i pezzi singoli. Ad esempio, è senz’altro più facile dedurre la regola da seguire per muovere gli alfieri piuttosto che per arroccare, che è certo una mossa più insolita e meno frequente, tanto che accade che non vi si ricorra affatto nel corso di una particolare partita. L’osservatore noterà anche che l’arroccare comporta due mosse consecutive da parte dello stesso giocatore e quindi la regola di alternare le mosse ne risulta invalidata. Ma l’alternare le mosse ha una ridondanza di gran lunga maggiore dell’arroccare per cui si impone come regola generale nèlla teoria che l’osservatore sta elaborando. Che si debbano alternare le mosse è un’ipotesi che resta valida per lui, anche se l’arroccare è una contraddizione palese che rimane irrisolta. E’ dunque probabile che, dopo aver assistito a una serie di partite, l’osservatore sia in grado di stabilire con molta esattezza quali sono le regole e qual è l’obiettivo del gioco (cioè dare scacco matto). Ci preme sottolineare che potrebbe giungere a formulare queste regole senza avere la possibilità di chiedere alcuna informazione.

Un risultato simile significa che l’osservatore ha spiegato ‘ il comportamento dei giocatori? Noi diremmo che ha identificato un modello complesso di ridondanze. E’ chiaro che se volesse potrebbe attribuire un significato ad ogni singolo pezzo e ad ogni regola. Nulla gli vieta di creare anche una mitologia complessa del gioco e del suo significato ‘più profondo’ o ‘reale’ che includa anche una narrazione fantastica dell’origine del gioco, come in realtà è stato fatto. Ma sono tutte cose che non servono a capire il gioco; una spiegazione del genere o una mitologia avrebbe col gioco degli scacchi lo stesso rapporto che ha l’astrologia con l’astronomia.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”

Siamo affascinati dalle spiegazioni che sembrano brillanti e approfondite

Che non ci sia alcun rapporto necessario tra fatto e spiegazione è stato dimostrato da Bavelas in un esperimento recente: ad ogni soggetto è stato detto che stava partecipando a una ricerca sperimentale sulla formazione del concetto e a ciascuno è stato consegnato lo stesso cartoncino grigio zigrinato che era appunto l’oggetto su cui doveva formulare i concetti’. I soggetti furono divisi in gruppi di due e visti separatamente ma simultaneamente; ad uno dei due si disse otto volte su dieci, del tutto a caso, che le sue osservazioni sul cartoncino erano esatte; all’altro soggetto si disse cinque volte su dieci, sempre a casaccio, che le sue osservazioni sul cartoncino erano esatte. Le idee del soggetto che era stato ‘ricompensato’ con una frequenza dell’80% restarono a un livello semplice, mentre il soggetto che era stato ricompensato con una frequenza del 50% elaborò teorie sul cartoncino complesse, sottili, astruse, senza trascurare il minimo dettaglio di fattura. Quando i due soggetti furono messi in contatto e si disse loro di discutere le loro scoperte, il soggetto con le idee più semplici soccombette subito alla ‘brillantezza’ dei concetti dell’altro e riconobbe che era stato l’altro quello che aveva analizzato il cartoncino con vera precisione.

Ci auguriamo che l’esempio che segue renda più unitaria la nostra trattazione della ridondanza della pragmatica della comunicazione umana. Come il lettore forse sa, per programmare un calcolatore occorre immettervi in un dato ordine un certo numero di regole specifiche (il programma); tali regole poi guidano il calcolatore in un gran numero di operazioni abbastanza flessibili eseguite sulla base di un modello. Abbiamo già accennato che si ha proprio la situazione opposta quando si considera la ridondanza della interazione umana. Dall’osservazione del particolare sistema in attività si cerca poi di fissare le regole che sono alla base del suo funzionamento, del suo programma‘, per restare fedeli all’analogia col calcolatore.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 31

Metacomunicazione e concetto di calcolo

Il nostro ipotetico osservatore, studiando la ridondanza pragmatica di quel fenomeno comportamentale che è il giocare a scacchi ‘, ha acquisito delle cognizioni che hanno una stimolante analogia con il concetto matematico di calcolo. Un calcolo, secondo Boole, è “un metodo che si basa sull’impiego di simboli, le cui leggi di combinazione sono note e generali, e i cui risultati consentono una interpretazione coerente“. Riteniamo che sia implicito in quanto abbiamo già detto che è senz’altro possibile concepire una rappresentazione formale di. questo tipo nella comunicazione umana, come del resto abbiamo già evidenziato che esistono alcune difficoltà di ‘discorso’ su questo calcolo. Quando i matematici non usano più la matematica come uno strumento di computo, ma fanno di tale strumento l’oggetto del loro studio — ad esempio, quando mettono in forse la coerenza dell’aritmetica in quanto sistema — usano un linguaggio che è sulla matematica anziché farne parte. Seguendo il suggerimento di David Hilbert, tale linguaggio è stato chiamato: metamatematica. La struttura formale della matematica è un calcolo; descrivere tale calcolo è metamatematica. Nagel e Newman hanno definito la differenza tra i due concetti con chiarezza ammirevole:

L’importanza, nel nostro campo, di comprendere a fondo la distinzione fra matematica e metamatematica non sarà mai abbastanza sottolineata. Quando essa non è stata rispettata, sono sorte delle confusioni e dei paradossi. Quando il suo significato è stato rettamente inteso, è stato possibile mettere in chiara evidenza la struttura logica del ragionamento. Il merito di questa distinzione è di implicare una precisa codificazione dei vari segni che intervengono nella costruzione di un calcolo formale, libero da ipotesi nascoste e da associazioni di significati non pertinenti. Inoltre, essa èsige le definizioni esatte delle operazioni e delle regole logiche della costruzione e della deduzione matematica, le quali, spesso, sono state applicate dai matematici senza una esplicita coscienza della loro natura.

Quando non usiamo più la comunicazione per comunicare ma per comunicare sulla comunicazione, come dobbiamo inevitabilmente fare studiando la comunicazione, gli schemi concettuali che adopriamo non fan parte della comunicazione ma vertono su di essa. Definiamo quindi metacomunicazione, per analogia con la metamatematica, la comunicazione sulla comunicazione. Rispetto alla metamatematica, il lavoro di ricerca della metacomunicazione incontra due grossi inconvenienti. Il primo svantaggio è che nel campo della comunicazione umana non ci sia finora nulla di confrontabile al sistema formale del calcolo. Come vedremo tra poco, questa difficoltà non esclude però l’utilità del concetto. Il secondo svantaggio è strettamente collegato al primo: mentre i matematici hanno - due linguaggi (numeri e segni algebrici per esprimere fatti matematici e il linguaggio naturale per la metamatematica), noi dobbiamo limitarci ad usare il linguaggio naturale che resta per noi il veicolo sia della comunicazione che della metacomunicazione.

Qual è dunque l’utilità della nozione di calcolo della comunicazione umana, se si ammette che gli elementi specifici di tale calcolo appartengono al futuro? A nostro parere è una nozione che ci offre (e qui sta la sua utilità immediata) un modello potente della natura e del grado di astrazione dei fenomeni che vogliamo identificare. RicapitoliamO, dunque: stiamo cercando le ridondanze pragmatiche; sappiamo che non saranno grandezze o qualità statiche e semplici ma modelli di interazione analoghi al concetto matematico di funzione; possiamo infine prevedere che tali modelli avranno le caratteristiche tipiche dei sistemi con controllo d’errore e che per-seguono scopi. Se una volta poste tali premesse esaminiamo con attenzione le catene di comunicazione tra due o più comunicanti, i risultati a cui giungeremo non possono certo pretendere di costituire un sistema formale, ma avranno senz’altro natura di assiomi e di teoremi di un calcolo.

Nagel e Newman descrivono l’analogia tra un gioco come quello degli scacchi e un calcolo matematico formalizzato. Spiegano come:

i pezzi e i quadrati della scacchiera corrispondono ai segni elementari del calcolo; le posizioni permesse dei pezzi sulla scacchiera, alle formule del calcolo; le posizioni iniziali dei pezzi, agli assiomi o alle formule iniziali del calcolo; le posizioni successive dei pezzi, alle formule dedotte dagli assiomi (cioè, ai teoremi); e le regole del gioco, alla regola di inferenza (o deduzione) del calcolo.

Nagel e Newman proseguono mostrando che le configurazioni dei pezzi sulla scacchiera come tali sono prive di significato ‘, mentre le asserzioni su tali configurazioni sono perfettamente dotate di significato. Gli autori descrivono anche asserzioni che presentano questo tipo di astrazione:

teoremi generali dei ‘metascacchi’ possono venire dimostrati con ragionamenti che implicano solo un numero finito di configurazioni possibili sulla scacchiera. Il teorema dei ‘metascacchi’ sul numero di mosse iniziali del bianco può essere provato secondo questa linea; e così pure il teorema che, se il bianco ha solo due cavalli e il re, e il nero solo il re, è impossibile che il bianco dia scacco matto al nero.

Abbiamo citato per esteso perché si tratta di una analogia che illustra il concetto di calcolo che interessa non soltanto la metamatematica ma anche la metacomunicazione. Perché se estendiamo l’analogia fino a includervi i due giocatori non stiamo più studiando un gioco astratto ma piuttosto sequenze d’interazione umana che sono rigidamente governate da un complesso corpo di regole. L’unica differenza sta nel fatto che noi preferiamo adoprare il termine formalmente indecidibile’ invece che ‘privo di significato quando ci riferiamo a un singolo comportamento (ad una ‘mossa’, per mantenere l’analogia col gioco degli scacchi). Un tale comportamento, a, può essere dovuto a un aumento di stipendio, al conflitto edipico, all’alcool, o a una grandinata, ma ogni discussione sulla ragione che ‘realmente‘ lo ha determinato sarà inevitabilmente una sorta di disputa accademica sui sesso degli angeli. A meno che (o finché) non si riesca a scoperchiare la scatola cranica per osservare la mente dall’esterno, tutto il materiale di cui possiamo disporre ci proviene dalle nostre inferenze e dai resoconti personali, ma è noto quanto siano entrambi inattendibili. Tuttavia, se si nota che il comportamento a sollecita il comportamento b, c, d, oppure e nell’altro, mentre è evidente che esclude i comportamenti x, y e z, allora si può postulare un teorema della metacomunicazione. Riteniamo che si possa definire l’interazione, ricorrendo ancora all’analogia col gioco degli scacchi, come sequenze di mosse’ rigidamente governate da regole, ma è irrilevante che i comunicanti siano perfettamente consapevoli delle regole oppure non ne abbiano alcuna consapevolezza; è invece estremamente importante che su tali regole sia possibile fare delle asserzioni di metacomunicazione dotate tutte di significato. Il che significa che esiste un calcolo (finora privo di interpretazione) della pragmatica della comunicazione umana le cui regole vengono osservate nella comunicazione efficace e violate nella comunicazione disturbata. Per le cognizioni che abbiamo ora, questo calcolo si può

paragonare a una stella la cui esistenza e posizione sono state postulate dalla astronomia teorica ma che ancora gli osservatori non sono riusciti a scoprire.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 36

IL CONCETTO DI SCATOLA NERA

Solo pensatori molto radicali sono del parere che la mente umana non esista, ma tutti coloro che studiano i fenomeni mentali purtroppo sanno bene quali tremende difficoltà incontra la loro ricerca per l’assenza di un punto archimedeo fuori della mente. Più di ogni altra disciplina la psicologia e la psichiatria riflettono se stesse:

soggetto e oggetto sono identici, la mente umana studia se stessa, e ogni ipotesi tende inevitabilmente a autoconvalidarsi. L’impossibilità di vedere la mente al lavoroha fatto adottare negli ultimi anni un concetto elaborato nel settore delle telecomunicazioni, cioè quello di ‘scatola nera’. La sua prima applicazione è stata militare: si è deciso che non si potevano aprire, per esaminarle, certe apparecchiature elettroniche catturate al nemico perché era molto probabile che contenessero cariche distruttive. In seguito il concetto è stato generalizzato e si è giunti alla conclusione che l’hardware elettronico è così complesso che talvolta conviene trascurare la struttura interna di un dispositivo e studiare esclusivamente i suoi rapporti specifici di ingresso-uscita. Anche se è vero che questi rapporti non escludono interferenze con quanto si verifica ‘realmente’ all’interno della scatola, le cognizioni che se ne possono trarre non sono indispensabili per studiare la funzione del dispositivo nel sistema più grande di cui fa parte. Se applichiamo il concetto a problemi psicologici e psichiatrici, si vede subito il vantaggio euristico che presenta: non abbiamo bisogno di ricorrere ad alcuna ipotesi intrapsichica (che è fondamentalmente inverificabile) e possiamo limitarci ad osservare i rapporti di ingresso-uscita, cioè la comunicazione. Riteniamo che questo modo di accostarsi ai problemi psicologici caratterizzi in questi ultimi anni tutta una tendenza importante della psichiatria che considera i sintomi una sorta di ingresso nel sistema familiare piuttosto che l’espressione di un conflitto intrapsichico.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 36

CONSAPEVOLEZZA E NON CONSAPEVOLEZZA

Lo studio del comportamento umano, sulla base del concetto di ‘scatola nera ‘, ci porta a considerare l’uscita di una ‘scatola’ come l’ingresso di un’altra. Ma stabilire se tale scambio di informazione sia consapevole oppure no è un quesito che non ha più quella importanza che invece conserva in una struttura psicodinamica. Il che non significa certo che non sia importante stabilire, (per quanto riguarda le reazioni a un comportamento specifico) se tale comportamento sia consapevole o inconsapevole, volontario, involontario o sintomatico. Se a qualcuno viene pestato un piede, per lui è molto importante sapere se il comportamento dell’altro è stato intenzionale o involontario. Ma l’opinione che si fa in proposito si basa necessariamente sulla sua valutazione dei motivi dell’altro e quindi su una ipotesi di ciò che passa dentro la testa dell’altro. E se anche chiedesse all’altro i motivi di quel gesto non potrebbe certo fidarsi della risposta che riceverebbe, perché l’altro può dire che il suo comportamento è stato inconsapevole, quando invece sa bene che è stato intenzionale, o magari può dichiarare che è stato intenzionale quando in realtà è stato del tutto accidentale. Questo ripropone il problema di come attribuire il significato‘, che è senz’altro una nozione indispensabile per l’esperienza soggettiva della comunicazione con gli altri; ma abbiamo appreso dalle nostre ricerche che è una nozione oggettivamente indecidibile e quindi esula dai fini che si prefigge lo studio della comunicazione umana.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 37

Non si può non comunicare

L’attività o l’inattività, le parole o il silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non possono non rispondere a queste comunicazioni e in tal modo comunicano anche loro. Dovrebbe essere ben chiaro che il semplice fatto che non si parli o che non ci si presti attenzione reciproca non costituisce eccezione a quanto è stato appena asserito. L’uomo che guarda fisso davanti a sé mentre fa colazione in una tavola calda affollata, o il passeggero d’aereo che siede con gli occhi chiusi, stanno entrambi comunicando che non vogliono parlare con nessuno né vogliono che si rivolga loro la parola, e i vicini di solito ‘afferrano il messaggio’ e rispondono in modo adeguato lasciandoli in pace. Questo, ovviamente, è proprio uno scambio di comunicazione nella stessa misura in cui lo è una discussione animata.

E neppure possiamo dite che la comunicazione ha luogo soltanto quando è intenzionale, conscia, o efficace, cioè quando si ha la comprensione reciproca. Che il messaggio emesso eguagli o meno il messaggio ricevuto rientra in un ordine di analisi importante ma diverso, in quanto in definitiva deve basarsi su valutazioni di dati specifici, introspettivi, riferiti dal soggetto, cosa che abbiamo deciso di trascurare nell’esposizione della teoria comportamentistica della comunicazione. Sul problema della comunicazione fraintesa il nostro interesse, date certe proprietà formali della comunicazione, è rivolto allo sviluppo delle patologie attinenti, indipendentemente dalle motivazioni o dalle intenzioni dei comunicanti (anzi, malgrado esse).

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 43

Livelli comunicativi di contenuto e di relazione

Un altro assioma era sopra implicito quando si è accennato che ogni comunicazione implica un impegno e perciò definisce la relazione. E’ un altro modo per dire che una comunicazione non soltanto trasmette informazione, ma al tempo stesso impone un comportamento. Accettando l’impostazione di Bateson (132, p. 179-81), si è giunti a considerare queste due operazioni come l’aspetto di ‘notizia’ (report) e di ‘comando’ (command) di ogni comunicazione. Bateson esemplifica i due aspetti con una analogia fisiologica: consideriamo che A, B e C rappresentino una catena lineare

di neuroni. Allora lo scatto del neurone B costituisce sia la ‘notiziache il neurone A è scattato sia il comando’ per il neurone C di scattare a sua volta.

L’aspetto di ‘notiziadi un messaggio trasmette informazione ed è quindi sinonimo nella comunicazione umana del contenuto del messaggio. Questo può riguardare qualunque cosa comunicabile senza tener conto se l’informazione particolare sia vera o falsa, valida, non valida, indecidibile. L’aspetto di ‘comando‘, d’altra parte, si riferisce al tipo di messaggio che deve essere assunto e perciò, in definitiva, alla relazione tra i comunicanti. Tutte queste forme relazionali riguardano una o parecchie delle seguenti asserzioni: “Ecco come mi vedo.., ecco come ti vedo.., ecco come ti vedo che mi vedi e così di seguito in una catena regredente teoricamente infinita. Così, ad esempio, i messaggi: “E’ importante togliere la frizione gradatamente e dolcemente e “Togli di colpo la frizione, rovinerai la trasmissione in un momento” recano più o meno lo stesso contenuto di informazione (aspetto di ‘notizia‘), ma è evidente che definiscono relazioni molto diverse. Per evitare ogni equivoco su quanto abbiamo esposto, vogliamo chiarire che le relazioni soltanto di rado sono definite deliberatamente o con piena consapevolezza. In realtà, sembra che quanto più una relazione è spontanea e sana, tanto più l’aspetto relazionale della comunicazione recede sullo sfondo. Viceversa, le relazioni ‘malatesono caratterizzate da una lotta costante per definire la natura della relazione, mentre l’aspetto di contenuto della comunicazione diventa sempre meno importante.

C’è un fatto abbastanza interessante da ricordare. Prima che gli studiosi del comportamento umano cominciassero a porsi domande su questi aspetti della comunicazione umana, gli ingegneri dei calcolatori si erano imbattuti nel loro lavoro nello stesso problema. Si erano resi conto che quando comunicavano con un organismo artificiale, le loro comunicazioni dovevano avere sia l’aspetto di ‘notizia che di ‘comando ‘. Per esempio, se un calcolatore deve moltiplicare due cifre, bisogna dargli questa informazione (le due cifre) e l’informazione su tale informazione: il comando ‘moltiplicale ‘.

Ora, quello che ci preme considerare è il rapporto esistente tra l’aspetto di contenuto (‘notizia‘) e l’aspetto di relazione (‘comando’) della comunicazione. Sostanzialmente lo abbiamo già defluito nel paragrafo precedente quando si è accennato che un calcolatore ha bisogno di informazione (dati) e di informazione su tale informazione (istruzioni). E’ chiaro dunque che le istruzioni sono di un tipo logico più elevato dei dati: Sono metainformazione poiché sono informazione sull’informazione e ogni confusione tra i due porterebbe a un risultato privo di significato.

Se ora passiamo a considerare la comunicazione umana, troviamo che esiste anche qui lo stesso rapporto tra l’aspetto di notizia e quello di comando ‘: il primo trasmette i dati della comunicazione, il secondo il modo con cui si deve assumere tale comunicazione. “Questo è un ordine” oppure “Sto solo scherzando” sono esempi verbali di comunicazioni sulla comunicazione, ma si può esprimere la relazione anche in modo non verbale (gridando, sorridendo, ecc.). Il contesto in cui ha luogo la comunicazione servirà a chiarire ulteriormente la relazione: ad es., possiamo capire meglio le frasi sopracitate se sappiamo che sono state pronunciate tra soldati in uniforme o nell’arena di un circo.

Il lettore avrà notato che l’aspetto relazionale della comunicazione (che è comunicazione sulla comunicazione) è identico, naturalmente, al concetto di metacomunicazione che abbiamo elaborato nel primo capitolo, contenendolo però entro i limiti della struttura concettuale e del linguaggio che l’analista della comunicazione deve impiegare quando sta comunicando sulla comunicazione. Ora è evidente che non soltanto l’analista ma tutti si trovano di fronte a questo problema. La capacità di metacomunicare in modo adeguato non solo è la conditio sine qua non della comunicazione efficace, ma è anche strettamente collegata con il grosso problema della consapevolezza di sé e degli altri.

Un esempio è l’avviso che si può leggere sulla parete di un ristorante:

“I clienti che credono che i nostri camerieri siano scortesi dovrebbero vedere il direttore“, una frase che, almeno in teoria, si può interpretare in due modi completamente diversi. Ambiguità di questo tipo non sono le sole complicazioni che possono sorgere dalla struttura di livello di ogni comunicazione. Si pensi, ad esempio, a un cartello su cui è scritto: “Ignorate questa indicazione“. Come vedremo nel capitolo sulla comunicazione paradossale, le confusioni e le contaminazioni tra questi due livelli — comunicazione e metacomunicazione — possono portare in vicoli ciechi identici nella struttura a quelli dei famosi paradossi logici.

Per il momento cerchiamo semplicemente di riassumere quanto abbiamo detto finora con un altro assioma del nostro calcolo sperimentale: Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione di modo che il secondo classifica il primo ed è quindi metacomunicazione.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 47

La punteggiatura della sequenza di eventi

C’è un’altra caratteristica fondamentale della comunicazione che vogliamo subito esaminare: essa riguarda l’interazione — scambi di messaggi — tra comunicanti. Un osservatore esterno può considerare una serie di comunicazioni come una sequenza ininterrotta di scambi. Tuttavia, coloro che partecipano alla interazione introducono sempre qualcosa di importante che, sulle orme di Whorf, Bateson e Jackson hanno definito ‘la punteggiatura della sequenza di eventi’. Riportiamo la loro argomentazione.

Lo psicologo che studia il processo di stimolo-risposta confina, tipicamente, la sua attenzione su sequenze di scambio così brevi che è possibile etichettare un elemento (item) in ingresso come ‘stimolo‘ e un altro elemento come ‘rinforzo‘ mentre quel che il soggetto fa tra questi due eventi viene etichettato come ‘risposta‘. All’interno della breve sequenza così ritagliata, è possibile parlare della ‘psicologia ‘ del soggetto. Ma le sequenze di scambio di cui qui ci occupiamo sono molto più lunghe e la loro caratteristica è dunque quella che ogni elemento della sequenza è simultaneamente stimolo, risposta e rinforzo.

Un dato elemento del comportamento di A è uno stimolo in quanto è seguito da un elemento fornito da B e questo da un altro elemento fornito da A. Ma in quanto l’elemento di A è inserito tra due elementi forniti da B, questo costituisce una risposta. Analogamente, l’elemento di A è un rinforzo in quanto segue un elemento fornito da B. Il succedersi degli scambi, poi, di cui qui ci occupiamo, costituisce una catena di anelli triadici che si sovrappongono, ciascuno dei quali è paragonabile alla sequenza stimolo-risposta-rinforzo. Possiamo prendere ciascuna triade dello scambio e considerarla come una prova singola di un esperimento di apprendimento che studi il processo di stimolo-risposta.

Se consideriamo gli esperimenti d’apprendimento convenzionali da questo punto di vista, notiamo subito che le prove ripetute equivalgono alla differenziazione della relazione tra i due organismi coinvolti nel rapporto — lo sperimentatore e il suo soggetto. La sequenza delle prove è punteggiata in modo tale che sembra che sia sempre lo sperimentatore a fornire gli ‘stimoli ‘ e i ‘rinforzi‘, e il soggetto a fornire le’ ‘risposte’. Abbiamo messo intenzionalmente questi termini tra virgolette perché le definizioni del ruolo sono prodotte soltanto dalla propensione che ha l’organismo ad accettare il sistema di punteggiatura. Le definizioni del ruolo hanno la stessa ‘ realtà che ha un pipistrello di una tavola di Rorschach — si tratta di prodotti più o meno sovradeterminati del processo percettivo. Il topo che ha detto: “Ho addestrato il mio sperimentatore. Ogni, volta che premo la leva mi dà da mangiare “ stava cortesemente rifiutando di accettare la punteggiatura della sequenza che lo sperimentatore cercava di imporgli.

E’ anche vero però che in una lunga sequenza di scambio, gli organismi coinvolti — soprattutto se si tratta di persone — in effetti punteggeranno la sequenza in modo che sembrerà che l’uno o l’altro abbia iniziativa, ascendente, che si trovi in posizione di dipendenza e così via. In altre parole, stabiliranno tra di loro modelli di scambio (su cui possono concordare o no) e questi modelli in realtà saranno regole contingenti che concernono lo scambio di rinforzo. Mentre i topi sono troppo buoni per etichettare di nuovo l’analista, alcuni pazienti psichiatrici non lo sono e provocano nel terapeuta un trauma psicologico!

Non si tratta qui di discutere se la punteggiatura della sequenza di comunicazione è in genere buona o cattiva, anche se dovrebbe essere subito evidente che la punteggiatura organizza gli eventi comporta-mentali ed è quindi vitale per le interazioni in corso. La nostra cultura ci fa condividere molte convenzioni della punteggiatura che, pur non essendo più esatte né meno esatte di altri modi di considerare gli stessi eventi, servono a organizzare sequenze interattive comuni e importanti. Per esempio, diamo il nome di ‘leader’ a una persona che si comporta in un certo modo in un gruppo e chiamiamo seguace un’altra persona, sebbene a pensarci bene è difficile dire quale dei due viene per primo o quale sarebbe la posizione dell’uno se non ci fosse l’altro.

Si trova alla radice di innumerevoli conflitti di relazione un disaccordo su come punteggiare la sequenza di eventi. Supponiamo una coppia che abbia un problema coniugale di cui ciascun coniuge è responsabile al 30%: lui chiudendosi passivamente in se stesso e lei brontolando e criticando. Quando spiegano le loro frustrazioni, l’uomo dichiara che chiudersi in se stesso è la sua unica difesa contro il brontolare della moglie, mentre lei etichetta questa spiegazione come una distorsione grossolana e volontaria di quanto ‘realmente’ accade nel loro matrimonio: vale a dire che lei critica il marito a causa della sua passività Se li sfrondiamo di tutti gli elementi effimeri e fortuiti, i loro litigi si riducono allo scambio monotono dei messaggi “Io mi chiudo in me stesso perché tu brontoli” e “Io brontolo perché tu ti chiudi in te stessa”.

Possiamo dunque aggiungere un terzo assioma di metacomunicazione: la natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i comunicanti.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 49

Comunicazione numerica e analogica

Nel sistema nervoso centrale le unità funzionali (neuroni) ricevono i cosiddetti pacchetti quantici di informazione tramite elementi di giunzione (sinapsi). Arrivando alle sinapsi questi ‘pacchetti’ producono potenziali postsinaptici eccitatori o inibitori che il neurone accumula e che ne eccitano o inibiscono lo scatto. Questa parte specifica dell’attività del neurone (che consiste nel verificarsi o meno del suo scatto) trasmette quindi informazione numerica binaria. D’altra parte, il sistema umorale non si basa sulla numerizzazione dell’informazione: è un sistema che comunica liberando quantità discrete di sostanze specifiche nella circolazione del sangue. E’ inoltre noto che i moduli di comunicazione intraorganica umorali e neuronici non soltanto coesistono, ma sono reciprocamente complementari e dipendono l’uno dall’altro in modi spesso molto complessi.

C’è un fatto abbastanza curioso da segnalare: sembra accertato che gli ingegneri dei calcolatori siano giunti a questa conclusione del tutto indipendentemente dalle cognizioni che a quel tempo i fisiologi già avevano in materia, un fatto che In se stesso illustra stupendamente il postulato di Bertalanffy secondo cui i sistemi complessi hanno una loro legittimità intrinseca che è possibile riscontrare a tutti i diversi livelli dei sistemi, cioè dell’atomo, della molecola, della cellula, dell’organismo, dell’individuo, della società, ecc. Si racconta che durante una riunione interdisciplinare di scienziati interessati ai fenomeni di retroazione (probabilmente uno degli incontri organizzati dalla Josiah Macy Foundation) mostrarono al grande istologo von Bonin il diagramma di circuito di un apparato selettivo di lettura ed egli disse subito: “Ma questo non è che un diagramma del terzo strato della corteccia visiva... “. Non possiamo garantire l’autenticità di questa storia, ma ci fa venire in mente un modo di dire che hanno gli italiani: “Se non è vero, è ben trovato “.

Questi due moduli fondamentali di comunicazione li troviamo operanti anche negli organismi artificiali: i calcolatori numerici (così definiti in quanto fondamentalmente operano con numeri) utilizzano il principio tutto-o-niente delle valvole a vuoto e dei transistori, mentre i calcolatori analogici (così definiti perché ciò che manipolano sono gli analoghi dei dati) operano appunto con grandezze positive, discrete. Nei calcolatori numerici sia i dati che le istruzioni sono elaborati in forma di cifre: è evidente dunque che spesso, soprattutto per quanto riguarda le istruzioni, ci sia soltanto una corrispondenza arbitraria tra una particolare informazione e,la sua espressione numerica. In altre parole, questi numeri sono nomi di codice assegnati arbitrariamente e la loro somiglianza con le grandezze reali è davvero minima, la stessa — per intenderci — che i numeri di telefono hanno con gli abbonati a cui sono stati assegnati. D’altra parte, come abbiamo già visto, il principio di analogia è la base indispensabile per ogni computo analogico. Proprio come nel sistema umorale degli organismi naturali i veicoli d’informazione sono certe sostanze e il loro tasso nella circolazione del sangue, nei calcolatori analogici i dati assumono la forma di quantità discrete e quindi sempre positive, quali possono essere, ad es., l’intensità degli impulsi di corrente, il numero di rotazioni di una ruota, il grado di dislocazione di certi componenti e cose del genere. Un esempio di calcolatore analogico semplice è la cosiddetta macchina della marea (uno strumento composto di leve, ruote dentate, bilancieri che si usa per misurare le maree in un tempo dato); un paradigma di calcolatore analogico è — non occorre spiegarlo — l’omeostato di Ashby, di cui abbiamo fatto cenno nel primo capitolo, anche se è una macchina che non calcola nulla.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 54

Bateson: “Non c’è nulla di specificatamente simile a cinque nel numero cinque; non c’è nulla di specificatamente simile a un tavolo nella parola ‘tavolo’ “

Nella comunicazione umana si hanno due possibilità del tutto diverse di far riferimento agli oggetti (in senso esteso): o rappresentarli con una immagine (come quando si disegna) oppure dar loro un nome. E’ possibile sostituire con delle immagini i nomi di una frase scritta come, ad es., “Il gatto ha preso un topo”; invece se la frase fosse orale, basterebbe indicare con un gesto il gatto e il topo. Va da sé che sarebbe un modo di comunicare insolito e difatti normalmente si usa il ‘nome’ parlato o scritto, cioè la parola. Questi due modi di comunicare — quello mediante l’immagine esplicativa e quello mediante la parola — sono rispettivamente equivalenti, come è facile capire, ai concetti di analogico e di numerico. Ogni volta che si usa una parola per nominare una cosa è evidente che il rapporto tra il nome e la cosa nominata è un rapporto stabilito arbitrariamente. Le parole sono segni arbitrari che vengono manipolati secondo la sintassi logica della lingua. Non c’è alcuna ragione particolare per cui la parola di cinque lettere g-a-t-t-o’ denoti un particolare animale. In ultima analisi è soltanto una convenzione semantica della lingua italiana e fuori di tale convenzione non esiste nessun’altra correlazione tra una parola e la cosa che la parola rappresenta (le parole onomatopeiche costituiscono una eccezione che però non è certo importante). Bateson e Jackson hanno fatto rilevare che “Non c’è nulla di specificatamente simile a cinque nel numero cinque; non c’è nulla di specificatamente simile a un tavolo nella parola ‘tavolo’”.

D’altra parte, nella comunicazione analogica c’è qualcosa che è specificatamente simile alla cosa‘, vale a dire ciò che si usa per esprimerla. Nella comunicazione analogica si può far riferimento con maggiore facilità alla cosa che si rappresenta. Un esempio chiarirà meglio la differenza tra questi due moduli di comunicazione:

non arriveremo a capire una lingua straniera ascoltandola alla radio (per quanto si possa prolungare il tempo di ascolto), mentre è possibile dedurre con una certa facilità informazioni fondamentali dall’osservazione del linguaggio dei segni e dei cosiddetti ‘movimenti di intenzione’ anche quando li osserviamo in una persona la cui cultura è completamente diversa dalla nostra. La comunicazione analogica, è bene ricordarlo, ha le sue radici in periodi molto più arcaici della evoluzione e la sua validità è quindi molto più generale del modulo numerico della comunicazione verbale, relativamente recente e assai più astratto.

Cosa è dunque la comunicazione analogica? La risposta è abbastanza semplice: praticamente è ogni comunicazione non verbale. Che però è un termine ingannevole perché spesso se ne limita l’uso al solo movimento del corpo, al comportamento noto come cinesica. A nostro parere invece il termine deve includere le posizioni del corpo, i gesti, l’espressione del viso, le inflessioni della voce, la sequenza il ritmo e la cadenza delle stesse parole, e ogni altra espressione non verbale di cui l’organismo sia capace, come pure i segni di comunicazione immancabilmente presenti in ogni contesto in cui ha luogo una interazione.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”

L’uomo è il solo organismo che si conosca che usi moduli di comunicazione sia analogici che numerici.

L’uomo è il solo organismo che si conosca che usi moduli di comunicazione sia analogici che numerici. Tuttora non ci si rende conto, come si dovrebbe, dell’importanza di questo fatto, che comunque non si sottolineerà mai abbastanza. D’altro canto non c e alcun dubbio che l’uomo comunichi con un modulo numerico. In realtà, se l’uomo non avesse sviluppato il linguaggio numerico, sarebbero impensabili molte, se non tutte, le opere di civiltà che ha compiuto. Il linguaggio numerico ha un’importanza particolare perché serve a scambiare informazione sugli oggetti e anche perché ha la funzione di trasmettere la conoscenza di epoca in epoca. C’è

però tutto un settore in cui facciamo assegnamento quasi esclusivamente sulla comunicazione analogica, spesso discostandoci assai poco dalla eredità che ci hanno trasmesso i nostri antenati mammiferi. E’ questo il settore della relazione. Tenendo conto delle ricerche di Tinbergen, di Lorenz e delle proprie, Bateson ha dimostrato che le vocalizzazioni, i movimenti d’intenzione e i segni di umore degli animali sono comunicazione analogica mediante la quale definiscono la natura delle loro relazioni, piuttosto che fare asserzioni denotative sugli oggetti. Riprendiamo uno degli esempi di Bateson. Quando apriamo il frigorifero il gatto che subito accorre e si strofina sulle nostre gambe miagolando non vuol dire “Voglio il latte” (come farebbe un essere umano) ma piuttosto “Fammi da madre “: si appella, in altre parole, a una relazione specifica; difatti si può osservare un comportamento simile soltanto tra un gattino e un gatto adulto e mai tra due animali adulti. Per contro, gli zoofili sono convinti che gli animali capiscano’ il loro discorso. Ciò che gli animali capiscono davvero, non occorre dirlo, non è certo il significato delle parole, ma la ricchezza della comunicazione analogica che si accompagna al discorso. Infatti ogni volta che la relazione è il problema centrale della comunicazione, il linguaggio numerico è pressoché privo di significato. E’ un fenomeno che non si verifica soltanto tra animali e tra uomo e animale, ma in molte circostanze della vita umana (per es., quando si corteggia, quando si ama, quando si reca soccorso, quando si combatte) e naturalmente in tutti i rapporti con bambini molto piccoli e con pazienti che presentino gravi disturbi mentali. Si è sempre attribuito ai bambini, ai folli e agli animali una intuizione particolare per quanto riguarda la sincerità o l’insincerità delle attitudini umane: perché è facile dichiarare qualcosa verbalmente, ma è difficile sostenere una bugia nel regno dell’analogico.

In breve, se si ricorda che ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e uno di relazione, è lecito aspettarsi che i due moduli di comunicazione non soltanto coesistano ma siano reciprocamente complementari in ogni messaggio. E’ pure lecito dedurre che l’aspetto di contenuto ha più probabilità di essere trasmesso con un modulo numerico, mentre in natura il modulo analogico avrà una netta predominanza nella trasmissione dell’aspetto di relazione.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”

L’uomo ha la necessità di combinare questi due linguaggi numerici e analogici (come trasmettitore e come ricevitore) e deve costantemente tradurre dall’uno all’altro

Vogliamo ora considerare alcune differenze esistenti tra i moduli di comunicazione numerica e analogica la cui importanza pragmatica sta tutta nella correlazione che abbiamo appena indicato. Per meglio chiarire queste differenze, torniamo a esaminare i moduli numerici e analogici come si presentano nei sistemi di comunicazione artificiali.

Il rendimento, la precisione e la versatilità dei due tipi di calcolatori — i numerici e gli analogici — sono molto diversi. I dispositivi che si usano nei calcolatori analogici in luogo delle grandezze reali non possono essere che approssimazioni dei valori reali e questa inevitabile fonte d’imprecisione viene ulteriormente amplificata mentre il calcolatore compie le operazioni. Denti di ruote dentate, ingranaggi e trasmissioni non possono mai essere costruiti in modo perfetto e anche quando le macchine analogiche impiegano soltanto impulsi di corrente, resistenze elettriche, reostati, ecc, questi eventi discreti sono sempre soggetti a fluttuazioni praticamente incontrollabili. D’altro canto si può sostenere che una macchina numerica lavorerebbe con la massima precisione. se non si dovesse limitare lo spazio entro cui vengono immagazzinati i numeri, il che rende necessario arrotondare tutti i risultati che vengono ad avere più numeri di quelli che la macchina è in grado di contenere.

Alcune caratteristiche dei calcolatori si possono applicare anche alla comunicazione umana: il materiale del messaggio numerico ha un grado di complessità, di versatilità e di astrazione molto più elevato di quello analogico. Anzitutto occorre precisare che la comunicazione analogica non ha nulla di confrontabile alla sintassi logica del linguaggio numerico. Il che vuol dire che nel linguaggio analogico non c’è nulla che equivalga agli elementi del discorso (che hanno un’importanza vitale) come ‘se-allora‘, o-o e molti altri, e che l’espressione di concetti astratti è difficile, se non impossibile, come lo era nella primitiva scrittura ideografica, dove ogni concetto si può rappresentare soltanto con la sua immagine fisica. Inoltre, sia nel linguaggio analogico che nel computo analogico manca la semplice negazione, cioè una espressione che sostituisca il noia.

Proviamo a fare qualche esempio. Ci sono lacrime di dolore e lacrime di gioia; l’atto di serrare i pugni si può interpretare come un segno di aggressività oppure di costrizione; con un sorriso si può esprimere comprensione oppure disprezzo; la riservatezza può essere una manifestazione di indifferenza oppure di tatto. Insomma, arriviamo a chiederci se tutti i messaggi analogici hanno questa qualità curiosamente ambigua, che ci fa venire in mente il freudiano Gegensinn der Urworte (il significato opposto delle parole primordiali). Nella comunicazione analogica non si trovano né qualificatori che specifichino quale dei due significati discrepanti è quello esatto, né indicatori che consentano di distinguere tra passato, presente, o futuro, qualificatori e indicatori che invece si trovano sempre nella comunicazione numerica, anche se a quest’ultima manca un vocabolario adeguato agli accadimenti particolari della relazione.

L’uomo ha la necessità di combinare questi due linguaggi (come trasmettitore e come ricevitore) e deve costantemente tradurre dall’uno all’altro, operazione che lo pone di fronte a dilemmi assai curiosi che considereremo più dettagliatamente nel capitolo dedicato alla comunicazione patologica (sez. 3.5). Infatti, nella comunicazione umana in entrambi i casi è difficile ‘tradurre’: non solo non si ha alcuna traduzione dal modulo numerico a quello analogico senza una notevole perdita di informazione, ma anche il caso contrario presenta enormi difficoltà (parlare sulla relazione richiede una traduzione adeguata dal modulo di comunicazione analogico in quello numerico). Infine, problemi di questo genere si presentano anche quando i due moduli debbono coesistere, come fa notare Haley in «Terapia del matrimonio“, un capitolo eccellente del suo libro:

Quando un uomo e una donna decidono di legalizzare la loro unione con una cerimonia matrimoniale, si pongono un problema che continuerà a presentarsi per tutta la durata del matrimonio: ora che sono sposati stanno insieme perché lo vogliono o perché lo debbono?

Se si tiene conto di quanto abbiamo esposto finora, diventa assai problematico definire in un modo che non sia ambiguo il rapporto della coppia di cui sopra quando si aggiunge una numerizzazione (il contratto matrimoniale) all’aspetto prevalentemente analogico della relazione (il corteggiamento).

Per riassumere.

Gli esseri umani comunicano sia con il modulo numerico che con quello analogico. Il linguaggio numerico ha una sintassi logica assai complessa e di estrema efficacia ma manca di una semantica adeguata nel settore della relazione, mentre il linguaggio analogico ha la semantica ma non ha alcuna sintassi adeguata per definire in un modo che non sia ambiguo la natura delle relazioni.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 59

Interazione complementare e simmetrica: la scismogenesi

Nel 1935 Bateson riferì di un fenomeno di interazione che aveva osservato nella tribù Iatmul nella Nuova Guinea e di cui si occupò poi diffusamente nel suo libro Naven, pubblicato l’anno successivo. Diede ai fenomeno il nome di scismogenesi e lo definì come un processo di differenziazione delle norme del comportamento individuale derivante dall’interazione cumulativa tra individui. Nel 1939 Richardson applicò questo concetto all’analisi della guerra e della politica estera; dal 1952 Bateson e altri hanno dimostrato quanto esso possa essere utile nella ricerca psichiatrica. Riportiamo l’elaborazione che Bateson ci ha dato di questo concetto il cui valore euristico si estende, come si può constatare, ben oltre i confini di una singola disciplina:

Quando definiamo la nostra disciplina nei termini delle reazioni di un individuo alle reazioni di altri individui, è subito evidente che dobbiamo tener conto che la relazione tra due individui è soggetta a mutare di volta in volta anche senza l’intervento di qualche perturbazione esterna. Ma non basta limitarsi a considerare le reazioni di A al comportamento di B, occorre esaminare subito dopo come queste reazioni influenzino il comportamento successivo di B e l’effetto di questo comportamento su A.

E’ chiaro che molti sistemi di relazione, sia tra individui che tra gruppi di individui, tendono a un progressivo cambiamento. Ad esempio, se uno dei modelli del comportamento culturale, che nell’individuo A si considera appropriato, viene culturalmente classificato come un modello di imposizione, mentre ci aspettiamo che B replichi a questo comportamento coi comportamento che culturalmente classifichiamo di sottomissione, è probabile che questa sottomissione incoraggi una ulteriore imposizione e che tale imposizione richieda ancora una ulteriore sottomissione. Si ha quindi uno stato di cose potenzialmente progressivo e — a meno che non siano presenti altri

fattori che limitino gli eccessi del comportamento di imposizione e di quello sottomesso — A deve necessariamente imporsi sempre più mentre B diventerà sempre più sottomesso. Va da sé che potremo assistere a tale progressivo cambiamento, siano A e B individui separati o membri di gruppi complementari.

Definiamo scismogenesi complementare i cambiamenti progressivi di questo tipo. Ma c’è un altro modello di relazioni tra individui e gruppi di individui che ha pure in sé i germi del cambiamento progressivo. Ad esempio, se troviamo che la vanteria è ‘il modello culturale del comportamento di un gruppo e che l’altro gruppo replica a questo comportamento con la vanteria, è possibile che si sviluppi una situazione competitiva in cui l’atto di vantassi porta sempre più a vantarsi, e così via. Questo tipo di cambiamento progressivo lo definiamo scismogenesi simmetrica.

Si è giunti ad usare i due modelli appena descritti senza far riferimento ai processo scismogenetico e di solito ora si parla semplicemente di interazione simmetrica e complementare. Si può anche descriverli come relazioni basate o sulla uguaglianza o sulla differenza. Nei primo caso i modelli tendono a rispecchiare il comportamento dell’altro (e quindi la loro interazione è simmetrica). Debolezza o forza, bontà o cattiveria non sono qui pertinenti: ovviamente si può mantenere l’uguaglianza in ciascuno di questi settori particolari. Nel secondo caso il comportamento del partner completa quello dell’altro e costituisce un tipo diverso di Gestalt comportamentale (che definiamo complementare). L’interazione simmetrica, dunque, è caratterizzata dall’uguaglianza e dalla minimizzazionedella differenza, mentre il processo opposto caratterizza l’interazione complementare.

Nella relazione complementare si hanno due diverse posizioni. Un partner assume la posizione che è stata descritta in vario modo come quella superiore, primaria o one-up, mentre l’altro tiene la posizione corrispondente inferiore, secondaria o one-down. Questi termini sono di grande utilità finché non vengono equiparati a ‘buono’ o ‘cattivo‘, ‘forteo ‘debole‘. Le idiosincrasie dello stile di relazione di una particolare diade possono costituire una relazione complementare, ma può anche essere il contesto sociale e culturale a stabilire relazioni di questo tipo (si vedano ad es. i rapporti madre-figlio, medico-paziente, o insegnante-allievo). In entrambi i casi, ci preme sottolineare la natura interdipendente della relazione, in cui comportamenti dissimili, ma che si sono adattati ai rispettivi ruoli, si richiamano a vicenda. Un partner non impone all’altro una relazione complementare, ma piuttosto ciascuno si comporta in un modo che presuppone il comportamento dell’altro, mentre al tempo stesso gliene fornisce le ragioni: sono quindi sempre calzanti le definizioni che essi danno della relazione.

Ci interessa come la coppia si comporta senza lasciarci distrarre dalle motivazioni che la coppia presume determinino il suo comportamento.

Ci occuperemo delle patologie potenziali (escalation nel rapporto simmetrico, o rigidità in quello complementare) di questi moduli di comunicazione. Per ora, ci limitiamo a enunciare il nostro ultimo assioma sperimentale. Tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari, a seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 63

Un individuo non comunica: partecipa a una comunicazione o diventa parte di essa

Birdwhistell è arrivato a sostenere che:

“Un individuo non comunica: partecipa a una comunicazione o diventa parte di essa. Può muoversi o far rumore, ma non comunicare. Parallelamente, può vedere sentire odorare gustare avere delle sensazioni — ma non comunicare. In altre parole, un individuo non produce comunicazione, ma vi partecipa.

Non si deve considerare la comunicazione, in quanto sistema, sulla base di un semplice modello di azione e reazione per quanto possa essere complesso e determinato. La comunicazione, in quanto sistema, va considerata a livello transazionale.”

Dunque, l’impossibilità di non-comunicare rende comunicative tutte le situazioni impersonali che coinvolgono due o più persone; l’aspetto di relazione di tale comunicazione specifica ulteriormente questo stesso punto. L’importanza pragmatica, interpersonale, dei moduli numerici e analogici non sta solo nell’isomorfismo (da noi ipotizzato) con il contenuto e la relazione, ma anche nell’ambiguità, inevitabile e significativa, che sia il trasmettitore che il ricevitore devono affrontare nei problemi di traduzione da un modulo all’altro. La descrizione dei problemi di punteggiatura si basa proprio sulla metamorfosi sottesa al modello classico di azione-reazione. Infine, il paradigma simmetria-complementarità è quello che si avvicina forse di più al concetto matematico di funzione, poiché le posizioni individuali sono delle semplici variabili con infiniti valori possibili il cui significato non è assoluto ma piuttosto emerge nella reciprocità del rapporto.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 62

LA COMUNICAZIONE PATOLOGICA L’impossibilità di non-comunicare

Abbiamo già parlato del dilemma degli schizofrenici, di come questi pazienti si comportano, dei loro tentativi di negare di star comunicando e poi della necessità di negare che anche il diniego è comunicazione. Ma si dà pure il caso del paziente che pare che voglia comunicare senza però accettare l’impegno inerente a ogni comunicazione. Per esempio, una giovane donna schizofrenica irruppe nello studio dello psichiatra per la sua prima intervista e enunciò allegramente: “Mia madre ha dovuto sposarsi ed ora eccomi qua “. Ci vollero settimane per chiarire alcuni dei molti significati che aveva condensato in questa dichiarazione, significati che erano contemporaneamente squalificati sia dalla loro formulazione enigmatica sia dall’ostentazione da parte della donna di uno humour e di una energia che non erano affatto autentici. In seguito risultò che questa sua mossa iniziale doveva informare il terapeuta che:

(1)       era il frutto di una gravidanza illegittima;

(2)       il fatto aveva in qualche modo provocato la sua psicosi;

(3)       la frase “ha dovuto sposarsi”, riferendosi alla natura del matrimonio imposto con la forza, poteva voler dire due cose: che la Madre non era da biasimarsi perché le pressioni sociali l’avevano costretta al matrimonio, oppure che la Madre risentiva della natura coercitiva della situazione e per questa ragione rimproverava alla paziente di essere in vita;

(4)       ‘qua ‘ voleva dire sia lo studio dello psichiatra che l’esistenza della paziente sulla terra; era dunque implicito che la Madre l’aveva fatta impazzire ma lei doveva esserle eternamente debitrice perché la madre aveva peccato e sofferto per farla venire al mondo.

Lo “schizofrenese” è dunque una lingua che lascia all’ascoltatore la scelta tra i molti significati possibili (che non soltanto sono diversi ma possono anche essere incompatibili). Diventa così possibile negare parzialmente o totalmente gli aspetti di un messaggio.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 65

Tachistoscopio: per le parole critiche il soggetto ne ‘vede’ di meno. Se commette più errori con le parole tabù è evidente che prima ha dovuto identificarle e poi convincersi di non essere in grado di leggerle, e si risparmia l’imbarazzo

Può sembrare che questa definizione (cioè che un sintomo serve a comunicare) si basi su una ipotesi discutibile: vale a dire, che il soggetto riesca a convincere se stesso di essere alla mercé di forze che non controlla. Invece di discutere (senza magari arrivare a una conclusione convincente) il fatto che questa ipotesi è confermata dall’esperienza clinica quotidiana, preferiamo ricordare gli esperimenti di McGinnies sulla ‘difesa percettiva‘ (perceptual defense).

Il soggetto è posto di fronte a un tachistoscopio, un dispositivo che fa apparire le parole attraverso una piccola apertura per periodi di tempo molto brevi. Con poche parole di prova viene stabilito il valore di soglia del soggetto a cui poi si chiede di riferire allo sperimentatore qualunque parola veda o creda di vedere ogni volta che appare attraverso l’apertura. La lista delle parole, usate nell’esperimento, è composta sia di parole neutre che di parole ‘ critiche’ (che presuppongono una reazione  emotiva, come ad es.: violentare, lurido, puttana). Se si confronta il rendimento del soggetto con le parole neutre e con quelle critiche si nota che le soglie più elevate si riscontrano, in modo significativo, per le parole critiche (il soggetto ne ‘vede’ di meno). Ma se il soggetto commette più errori con le parole socialmente tabù è evidente che prima ha dovuto identificarle come tali e poi convincersi di non essere in grado di leggerle. In tal modo si risparmia l’imbarazzo di doverle leggere ad alta voce allo sperimentatore.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 70

La persona P dà la definizione di sé ad O. “Ecco come mi vedo”.

La comunicazione umana consente tre possibili reazioni da parte di O alla definizione che P ha dato di sé; Conferma; Rifiuto; Disconferma

Abbiamo visto che a livello di relazione gli individui non comunicano su fatti esterni alla relazione, ma definiscono la relazione e implicitamente se stessi. Tali definizioni si dispongono gerarchicamente secondo il grado di complessità. Scegliamo, in modo del tutto arbitrario, di iniziare il nostro discorso con questa ipotesi: la persona P dà la definizione di sé ad O.

P può farlo in diversi modi, ma qualunque cosa comunichi e comunque la comunichi a livello di contenuto, il prototipo della sua comunicazione sarà:

“Ecco come mi vedo”.

La comunicazione umana consente tre possibili reazioni da parte di O alla definizione che P ha dato di sé; e tutte e tre sono di grande importanza per la pragmatica della comunicazione umana.

Conferma

O può accettare (confermare) la definizione che P ha dato di se. E’ emerso dalle ricerche che finora abbiamo compiuto sulla comunicazione che la conferma del giudizio che P ha dato di sé da parte di O è probabilmente il più grande fattore singolo che garantisca lo sviluppo e la stabilità mentali. Per quanto sorprendente possa sembrare, senza l’effetto che produce la conferma del Sé è difficile che la comunicazione umana avrebbe potuto svilupparsi oltre i confini assai limitati degli scambi indispensabili per la difesa e la sopravvivenza; sarebbe mancata ogni ragione di comunicare per il mero amore di comunicare. Tuttavia l’esperienza quotidiana non ci lascia alcun dubbio al riguardo: gran parte delle nostre comunicazioni hanno proprio questo scopo. Vivremmo in un mondo senza emozioni (quella vastissima gamma di emozioni — dall’amore all’odio — che invece gli individui provano l’uno per l’altro), un mondo privo di tutto fuorché di sforzi tesi sempre a fini utilitaristici, un mondo privo di bellezza, poesia, gioco, humour. Ma, del tutto indipendentemente dal mero scambio di informazione, ci pare che l’uomo debba comunicare con gli altri per avere la consapevolezza di sé. La verifica sperimentale di questa ipotesi intuitiva ci viene sempre più fornita dalle ricerche sulla privazione sensoriale che mostrano come l’uomo non riesca a mantenere la propria stabilità emotiva per periodi prolungati comunicando solo con se stesso. Riteniamo che qui possano trovare la loro giusta collocazione situazioni come quella dell’incontro (secondo la terminologia esistenzialista) e in genere ogni altra forma di rapporto con gli altri che consenta di accrescere la consapevolezza di sé. Scrive Martin Buber:

Praticamente, sia pure con diverse scale di valori, i membri della società umana — a tutti i livelli — si confermano reciprocamente le loro qualità e capacità personali; e una società si può dire che è umana nella misura in cui i suoi membri si confermano tra di loro...

E’ uno solo il principio su cui si basa la vita associata degli uomini anche se sono due le forme in cui si manifesta: il desiderio che ogni uomo ha che gli altri lo confermino per quello che è, o magari per quello che può divenire; e la capacità (che è innata nell’uomo) di poter confermare i suoi simili come essi desiderano. L’aspetto discutibile e la vera debolezza della razza umana è che questa capacità sia tanto poco coltivata: ma soltanto dove l’uomo la mette in atto è giusto parlare di umanità. (52, pp. 101-2)

Rifiuto

La seconda possibile reazione di O alla definizione che P ha dato di sé ~ quella di rifiutarla. Ma il rifiuto — non importa quanto possa essere doloroso — presuppone il riconoscimento, sia pure limitato, di quanto si rifiuta e quindi esso non nega necessariamente la realtà del giudizio di P su di sé. Anzi, certe forme di rifiuto possono essere costruttive, come ad es. il rifiuto dello psichiatra di accettare la definizione che il paziente ha dato di sé nella situazione di ‘transfert in cui è possibile che il paziente cerchi di imporre il suo ‘gioco di relazione ‘ al terapeuta. Si rinvia il lettore a due autori che, ognuno con un proprio metodo di lavoro, hanno scritto ampiamente sull’argomento, Berne (23, 24) e Haley (60).

Disconferma

La terza possibilità è probabilmente la più importante sia per la pragmatica della comunicazione umana che per la psicopatologia. E’ il fenomeno della disconferma che — come vedremo — è del tutto diverso da quello del rifiuto totale delle definizioni che gli altri danno di sé.

Non c’è il minimo dubbio che una situazione simile porti alla ‘perdita del Sé’ che non è niente altro che la traduzione del termine alienazione’. La disconferma (che osserviamo nella comunicazione patologica) non si occupa più della verità o della falsità — se ci fossero tali criteri — della definizione che P ha dato di sé, ma piuttosto nega la realtà di P come emittente di tale definizione. In altre parole, mentre il rifiuto equivale al messaggio “Hai torto”, la disconferma in realtà dice “Tu non esisti “.

O, per usare termini più rigorosi, se paragonassimo la conferma e il rifiuto del Sé altrui rispettivamente ai concetti di verità e falsità (cioè ai termini che si usano in logica), in tal caso dovremmo far corrispondere la disconferma al concetto di indecidibilità che — come è noto — è di un ordine logico diverso.

Per citare Laing:

Si ricava dallo studio di famiglie di schizofrenici un modello caratteristico: il figlio non è stato molto trascurato né ha subito un forte trauma; è la sua autenticità che è stata mutilata senza tregua anche se in modo indefinibile e spesso del tutto involontario.. (p. 91)

Si compie l’atto conclusivo di questo processo quando — trascurando completamente come il soggetto agisce, cosa prova, che senso dà alla sua situazione — si denudano di ogni valore i suoi sentimenti, si spogliano i suoi atti delle motivazioni, intenzioni e conseguenze, si sottrae alla situazione il significato che ha per lui — e così egli è totalmente mistificato e alienato. (pp. 135-6)

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 79

In una sequenza di comunicazione, ogni scambio di messaggi restringe il numero delle possibili mosse successive. In analogia con il gioco: in ogni gioco interpersonale una mossa cambia la configurazione del gioco

In una sequenza di comunicazione, ogni scambio di messaggi restringe il numero delle possibili mosse successive.

Il contesto, dunque, può essere più o meno limitante, ma in qualche misura determina sempre le situazioni contingenti. Ma il contesto non è costituito soltanto di fattori istituzionali (esterni ai comunicanti). I messaggi palesi che sono stati scambiati entrano a far parte del particolare contesto interpersonale e pongono le loro limitazioni alla interazione successiva. Ricorriamo ancora all’analogia con il gioco: in ogni gioco interpersonale — non soltanto in quelli a ‘strategia mista ‘ che abbiamo citato sopra — una mossa cambia la configurazione del gioco in quel determinato stadio, influenzando le possibilità che si sono aperte a cominciare da quel punto e quindi modificando il corso del gioco.

Definire una relazione come simmetrica o complementare oppure imporre una punteggiatura particolare sono atti che in linea di massima limitano la persona che ci sta di fronte. Vale a dire non è soltanto il trasmettitore ma anche la relazione (che include il ricevitore) a risentire di questo modo di considerare la comunicazione. Anche non essere d’accordo con il messaggio precedente, rifiutano o darne una nuova definizione non significa soltanto rispondere ma produrre una complicazione che può non avere alcun altro fondamento fuorché la definizione della relazione e l’impegno inerente a qualunque comunicazione.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 127

Interdipendenza dei coniugi. La moglie viene ad essere per lui una scusa assai ben congegnata. Il marito può evitare la vita sociale con il pretesto che la paziente è ansiosa

Il modello interattivo e il problema caratteristico di queste coppie Fry lo definisce ‘controllo duale ‘, vale a dire: i sintomi della paziente là pongono nella posizione di esigere che il partner sia sempre ai suoi ordini e faccia ciò che lei dice (in quanto è lei il membro che soffre). Il partner non può fare una mossa senza consultare la paziente e avere la sua approvazione. Ma al tempo stesso la paziente è sorvegliata di continuo dal coniuge. Forse il marito dovrà stare vicino a un telefono per permetterle di mettersi in contatto con lui, ma lui contemporaneamente controlla tutte le attività della moglie. Sia la paziente che il coniuge riferiscono spesso che l’altro fa sempre di testa propria.

Le difficoltà della paziente adempiono alla funzione di permettere al coniuge di evitare molte situazioni in cui potrebbe provare angoscia o altre forme di disagio, senza che si sia trovato di fronte alla possibilità di presentare certi sintomi. La moglie viene ad essere per lui una scusa assai ben congegnata. Il marito può evitare la vita sociale con il pretesto che la paziente è ansiosa. Può ridurre il suo lavoro con il pretesto che deve assistere la paziente malaticcia. Il modo con cui si occupa dei figli può non essere quello più adatto data la tendenza che ha a chiudersi in se stesso e a reagire in modo sproporzionato. Ma si risparmia di esaminarsi perché sospetta che i problemi dei bambini sono provocati dai sintomi della paziente. Può evitare i rapporti sessuali con la paziente con il pretesto che lei è malata e non riuscirebbe a farcela. La solitudine può renderlo ansioso ma poiché la paziente ha paura di restare sola, egli può sempre ‘tenerla con sé senza che venga messo in luce che è lui ad avere questo sintomo.

L’insoddisfazione può spingere la paziente a desiderare qualche relazione extraconiugale, ma i sintomi della sua fobia le impediscono di frequentare altri uomini. E’ pure estremamente improbabile che sia il marito ad allacciare

una relazione proprio per quelle che sono le caratteristiche della sua personalità e per il suo modo di reagire alla malattia della moglie. Sono i sintomi della paziente a proteggere entrambi i coniugi dai pericoli che una insoddisfazione del genere comporta.

Di solito il matrimonio è infelice e i coniugi freddi e insoddisfatti, ma i sintomi adempiono alla funzione di mantenere unita la coppia. Si potrebbe definire coatto questo tipo di matrimonio...

Finché persistono i sintomi non c’è via d’uscita da questo dilemma. La paziente, che è angosciata perché non sa se il marito vuole starle vicino, esige sempre di più che il marito stia con lei — perché è malata. Il marito le sta vicino, ma questo non la rassicura perché a quanto pare sta con la moglie perché è malata, non perché vuole starle vicino. Poiché si sente costretto a tenerle compagnia perché è malata, egli non può mai rassicurarla o rassicurarsi che potrebbe volontariamente cercarne la compagnia.

E’ un problema che il coniuge non può risolvere. Se sta con la paziente, sembra che lo faccia perché lei è così malata. Se la lascia, è un mascalzone che non si cura della sfortuna della moglie. Inoltre, se la lasciasse oppure se lei guarisse, egli dovrebbe affrontare la propria ansia e i propri sintomi. Il rancore che ha per la moglie non gli consente di mostrare comprensione, ma non può neanche mostrare apertamente incomprensione. A sua volta, la paziente non può apprezzare i sacrifici che il marito fa per lei, ma non può neanche non apprezzarli apertamente. (52, pp. 250-52)

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 132

Il meccanismo di retroazione negativa

Questo cambiare la calibrazione, così come il cambiare la messa a punto del termostato o le marce di un’automobile sono ‘funzioni a gradino’.

Occorre rilevare che una funzione simile ha un effetto stabilizzatore. Regolare un termostato per una temperatura più bassa significa ridurre la necessità della retroazione negativa e quindi alleggerire il lavoro e la spesa della caldaia. Inoltre, le funzioni a gradino consentono di ottenere effetti che sono maggiormente adattativi. Per il circuito di retroazione conducente-acceleratore-velocità della macchina esistono precisi limiti per ciascuna marcia, il che rende necessaria una ricalibrazione (un cambio di marcia) per accrescere la velocità o per salire una collina. Sembra che anche nelle famiglie le funzioni a gradino abbiano un effetto stabilizzatore: la psicosi è un brusco cambiamento che ricalibra il sistema e può persino essere adattativo (77; si noti anche il periodo catatonico nell’esempio presentato sopra da Laing e Esterson). Cambiamenti interni che praticamente sono inevitabili (l’età e la maturazione sia dei genitori che dei figli) possono cambiare la messa a punto di un sistema, sia gradatamente dall’interno sia drasticamente dall’esterno quando l’ambiente sociale incide su questi cambiamenti (richieste di una cultura più elevata, servizio militare, collocamento a riposo, e così via).

Da questo punto di vista i meccanismi omeostatici che Jackson (69, 70) ha notato in sede clinica in realtà possono essere fenomeni anche più complessi di quelli che abbiamo qui discusso. Se certi meccanismi omeostatici entrano in funzione in risposta alla deviazione da certe regole della famiglia, è chiaro dunque che questi costituiscono un modello di ordine più elevato che serve a distruggere un modello e a ricostruirne un altro su unità di tempo più grandi.

Se l’applicazione di questo modello alla vita familiare o a strutture sociali più vaste ha il rigore di una imposizione di legge, riteniamo che ci sia una calibrazione di quello che è un comportamento abituale o accettabile, le regole di una famiglia o le leggi di una società, entro cui per lo più operano gli individui o i gruppi. Ad un livello, sono sistemi del tutto stabili, perché una deviazione che assuma la forma di un comportamento fuori dell’ambito approvato viene contrastata (e quindi disciplinata, ratificata, o magari rimpiazzata da un sostituto, come nel caso in cui paziente lo diventa un altro membro della famiglia). Ad un altro livello, il cambiamento si verifica durante un certo periodo di tempo, un fatto che a nostro parere è almeno in parte dovuto all’amplificazione di altre deviazioni, e alla fine può portare a una nuova messa a punto del sistema (funzione a gradino).

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 142

I TRE TIPI DI PARADOSSO: paradossi logico-matematici (antinomie),

definizioni paradossali (antinomie semantiche), paradossi pragmatici (ingiunzioni paradossali e predizioni paradossali)

Il termine ‘antinomie ‘, che si legge nell’ultima frase del brano sopracitato, richiede una spiegazione. Talvolta si usa ‘ antinomia invece di ‘ paradosso ‘ o viceversa, ma la maggior parte degli autori preferisce limitare il suo uso ai paradossi che si presentano nei sistemi formalizzati come la logica e la matematica. (Il lettore può chiedersi quali sono gli altri campi in cui è possibile che i paradossi si presentino; sono quelli della semantica e della pragmatica come mostreremo in questo capitolo e in quello successivo, mentre nell’ottavo capitolo considereremo come e dove i paradossi possono entrare nell’esperienza esistenziale dell’uomo). Una antinomia, secondo Quine (120, p. 85), “produce un’autocontraddizione, in base alle regole accettate del ragionamento “.

C’è poi una seconda classe di paradossi che differiscono dalle antinomie soltanto in un unico aspetto importante: non si presentano nei sistemi logici e matematici — e quindi non si fondano su termini come numero o classe formale — ma derivano piuttosto da certe incoerenze nascoste nella struttura di livello del pensiero e del linguaggio. Spesso ci si riferisce a questo secondo gruppo come alle antinomie semantiche o definizioni paradossali.

Infine, c’è un terzo gruppo di paradossi che è stato meno esplorato, ma che è anche quello che più ci interessa, perché i paradossi che si presentano nelle interazioni in corso determinano il comportamento. Definiremo questo gruppo paradossi pragmatici e in seguito vedremo che si possono dividere in ingiunzioni paradossali e in predizioni paradossali.

In compendio, ci sono tre tipi di paradossi:

(1)       paradossi logico-matematici (antinomie),

(2)       definizioni paradossali (antinomie semantiche),

(3)       paradossi pragmatici (ingiunzioni paradossali e predizioni paradossali),

che — entro la struttura della teoria della comunicazione umana —corrispondono chiaramente ai tre settori principali di questa teoria:

il primo tipo alla sintassi logica, il secondo alla semantica, e il terzo alla pragmatica. Presenteremo ora esempi di ciascun tipo e ci sforzeremo di mostrare come i paradossi pragmatici, così poco noti, si sviluppano, per così dire, dalle altre due forme.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 187

Paradossi logico-matematici. Come dice Russell, qualunque cosa presupponga tutti gli elementi di una collezione non deve essere un termine della collezione.

Il più famoso paradosso di questo gruppo è sulla “classe di tutte le classi che non sono membri di se stesse “. Esso si basa sulle seguenti premesse. Una classe è la totalità di tutti gli oggetti che hanno una certa proprietà. Quindi la classe dei gatti contiene tutti i gatti passati, presenti e futuri. Avendo stabilito questa classe, tutti gli altri oggetti che restano nell’universo si possono considerare la classe dei non-gatti, perché tutti questi oggetti hanno in comune una proprietà definita: essi non sono gatti. Ora ogni asserzione che implichi che un oggetto appartiene ad entrambe queste classi sarebbe una semplice contraddizione, perché nulla può essere nello stesso tempo un gatto e un non-gatto.

In realtà, si tratta di una fallacia. Russell l’ha resa evidente con la sua teoria dei tipi logici. Per dirla assai in breve, questa teoria postula il principio fondamentale che, come dice Russell, qualunque cosa presupponga tutti gli elementi di una collezione non deve essere un termine della collezione. In altre parole, il paradosso russelliano è dovuto alla confusione dei tipi logici, o livelli. Una classe è di un tipo più elevato dei suoi membri; per postulare questo, abbiamo dovuto salire di un livello nella gerarchia dei tipi. Dire, dunque, come abbiamo detto, che la classe di tutti i concetti è essa stessa un concetto non è falso ma privo di significato, come vedremo tra poco. Questa distinzione è importante, perché se l’asserzione fosse semplicemente falsa, allora la sua negazione dovrebbe essere vera, ed è chiaro che non lo è.

Definizioni paradossali. La più famosa delle antinomie semantiche: Io sto mentendo“.

Questo esempio della classe di tutti i concetti fornisce un ponte comodo per passare ora dai paradossi logici a quelli semantici (le definizioni paradossali o antinomie semantiche). Abbiamo visto che non sono identici il ‘concetto’ a un livello più basso (membro) e il concettoal livello più elevato immediatamente successivo (classe). Eppure si usa lo stesso nome, concetto‘, sia per membro che per classe e in tal modo l’identità linguistica crea un equivoco. Per evitare questa insidia, si debbono usare indicatori di tipo logico — indici ‘nei sistemi formalizzati, virgolette o corsivi negli altri casi — dovunque esista la possibilità di una confusione dei livelli.

Forse la più famosa delle antinomie semantiche è quella dell’uomo che dice di se stesso: Io sto mentendo “. Se seguiamo questa asserzione fino alla conclusione logica, troviamo ancora che è vera soltanto se non è vera; in altre parole, l’uomo mente soltanto se dice la verità e viceversa dice la verità se mente. In questo caso, non si può più usare la teoria dei tipi logici per eliminare l’antinomia, perché le parole o le combinazioni di parole non hanno una gerarchia di tipo logico. A quanto ne sappiamo è stato ancora Bertrand Russell quello che per primo ha trovato una soluzione. Nell’ultimo paragrafo della sua introduzione al Tractatus LogicoPhilosophicus di Wittgenstein, suggerisce quasi per caso che ogni linguaggio ha, come dice Wittgenstein, una struttura della quale nulla può dirsi in quel linguaggio, ma che vi può essere un altro linguaggio che tratti della struttura del primo linguaggio e possegga a sua volta una nuova struttura, e che una tale gerarchia di linguaggi può non avere alcun limite”. E’ una idea che è stata sviluppata, soprattutto da Carnap e da Tarski, in una teoria che ora è nota come la teoria dei livelli di linguaggio. Per analogia con la teoria dei tipi logici, questa teoria salvaguarda dalla confusione dei livelli. Postula che al livello più basso del linguaggio le asserzioni vengono fatte sugli oggetti. Questo è il regno del linguaggio oggetto. Ma nel momento in cui vogliamo dire qualcosa su questo linguaggio, dobbiamo usare un metalinguaggio, e un metametalinguaggio se vogliamo parlare su questo metalinguaggio, e così via in una catena regredente teoricamente infinita.

Applicando questo concetto dei livelli di linguaggio all’antinomia semantica del mentitore, ci si rende conto che la sua asserzione, sebbene sia costituita soltanto di tre parole, contiene due asserzioni. Una è al livello-oggetto, l’altra è al metalivello e dice qualcosa su quella al livello-oggetto, cioè che non è vera. Al tempo stesso, quasi

con un gioco di prestigio, si indica che questa asserzione nel metalinguaggio è essa stessa una delle asserzioni su cui s’è fatta la meta-asserzione, che è essa stessa una asserzione nel linguaggio oggetto. Nella teoria dei livelli di linguaggio questo genere di riflessività delle asserzioni che implicano la propria verità o falsità (o proprietà analoghe come la dimostrabilità, la definibilità, la decidibilità, e simili) sono l’equivalente del concetto di self-membership di una classe nella teoria dei tipi logici; entrambe sono asserzioni prive di significato.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 191

Giappone: una abiura paradossale. Giuramento. Ogni apostata doveva ripetere le ragioni per cui rinnegava il Cristianesimo, pronunciando una formula prestabilita in cui si appellava ai propri Dei.

Quando intorno al 1616 le autorità giapponesi cominciarono una persecuzione sistematica dei convertiti al cristianesimo, diedero alle loro vittime la possibilità di scegliere tra una sentenza di morte e una abiura che era tanto complessa quanto paradossale. Questa abiura aveva la forma di un giuramento. Ce ne riferisce Sansom in uno studio sull’interazione tra la cultura europea e quella asiatica:

Ogni apostata doveva ripetere le ragioni per cui rinnegava il Cristianesimo, pronunciando una formula prestabilita. La formula è un tributo involontario alla potenza del Cristianesimo perché i convertiti — che avevano abiurato la loro religione generalmente costretti con la forza — venivano fatti giurare, per una logica assai curiosa, chiamando a testimoni proprio le potenze che avevano appena rinnegato: il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo, Santa Maria e tutti gli angeli [...] se infrangerò questo giuramento possa io perdere la grazia di Dio per sempre e cadere nello stato miserabile di Giuda Iscariota. Ci si allontanava anche di più dalla logica col giuramento agli dèi buddisti e scintoisti che costituiva la parte finale della formula. (134, p. 176)

Vale la pena di analizzare dettagliatamente le conseguenze di questo paradosso. I giapponesi si erano imposti l’onere di cambiare la fede di tutto un gruppo di persone, uno sforzo notoriamente arduo se si considera la potenza e l’intangibilità di ogni fede. Devono essersi subito resi conto che i metodi di persuasione, coercizione, o corruzione erano del tutto insufficienti perché tali metodi possono imporre una devozione tutta a parole, lasciando il dubbio che la mente dell’ex-convertito non sia ‘veramente’ cambiata. Ed è ovvio che il dubbio si protrarrà anche & fronte alla profusione di attestazioni di sincerità da parte degli apostati, non solo di quelli che hanno abiurato con convinzione ma anche di tutti quelli che vogliono salvare la pelle pèrché è chiaro che anche chi vuole conservare la fede nel profondo del cuore non si comporterà diversamente.

Di fronte al problema di operare ‘veramente’ un cambiamento nella mente di qualcuno, i giapponesi ricorsero all’espediente del giuramento. Ma capirono con chiarezza che un giuramento simile — per quanto potesse coinvolgere i convertiti — li avrebbe legati soltanto se lo avessero prestato ai Dio cristiano oltre che alle divinità buddiste e scintoiste. Ma era una soluzione che li metteva subito. alle prese con la indecidibilità delle asserzioni riflessive. Si riteneva che la formula prescritta per il giuramento derivasse il suo potere vincolante da una invocazione alla divinità stessa che i convertiti dovevano abiurare proprio con il giuramento. In altre parole, veniva fatta una asserzione entro uno schema di riferimento chiaramente stabilito (la fede cristiana) che asseriva qualcosa su questo schema e quindi su se stessa, vale a dire negava lo schema di riferimento e negando lo schema negava il giuramento stesso.

Anche se non esistono testimonianze — a quanto ne sappiamo — degli effetti del giuramento sui convertiti o sulle autorità che lo avevano fatto prestare, non è difficile congetturare quali possano essere stati. Per i convertiti che hanno prestato il giuramento il dilemma è abbastanza chiaro. Abiurando, restavano entro lo schema di una formula paradossale e in tal modo venivano presi nel paradosso. Naturalmente le loro possibilità di uscir fuori dallo schema devono essere state assai scarse. Ma poiché erano stati costretti a prestare il giuramento, i convertiti debbono essersi trovati in un tremendo dilemma religioso e personale. Il problema della coercizione lasciamolo da parte; poniamoci piuttosto la domanda: il loro giuramento era valido o no? Se volevano restare cristiani un atto concreto come il giurare non rendeva valido il giuramento e li scomunicava? Ma se erano sinceri quando dicevano di voler abiurare il Cristianesimo, giurare in nome di quella fede non li legava strettamente ad essa? In ultima analisi qui il paradosso diventa un problema metafisico; un giuramento lega di per sé non solo chi lo presta ma anche il dio in nome del quale viene prestato. Nell’esperienza del convertito, non veniva dunque lo stesso Dio a trovarsi in una posizione insostenibile e se Egli era in una posizione insostenibile, dove era in tutto l’universo una speranza di soluzione?

Ma il paradosso deve anche aver influenzato gli stessi persecutori. E’ impossibile che non siano stati consapevoli di aver posto con la loro formula il dio cristiano al di sopra della propria divinità. In tal modo, invece di espurgare dalle anime dei convertiti ‘il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo, Santa Maria e tutti gli angeli‘, li hanno posti sui trono anche nella loro religione. Per cui alla fine devono essersi trovati inviluppati dalla loro stessa mistificazione, che negava ciò che asseriva e asseriva ciò che negava.

Sigmund Freud e le autorità naziste, “Posso vivamente raccomandare la Gestapo a chicchessia “.

Una situazione sostanzialmente simile a quella dei convertiti giapponesi e dei loro persecutori è quella che venne a crearsi nel 1938 tra Sigmund Freud e le autorità naziste, salvo che in questo caso il paradosso fu imposto dalla vittima ai suoi persecutori e per di più fu imposto in modo tale da permettergli di andarsene. I nazisti avevano promesso a Freud un visto d’uscita dall’Austria a condizione che sottoscrivesse una dichiarazione da cui risultasse che era stato trattato dalle autorità tedesche e in particolare dalla Gestapo con tutto il rispetto e la considerazione dovuti alla mia fama di scienziato “, ecc. (81, p. 226). Anche se nel caso personale di Freud la dichiarazione rispondeva a verità, nel contesto più vasto della spaventosa persecuzione degli ebrei viennesi, il documento veniva ad avallare una vergognosa pretesa di equità da parte delle autorità, con lo scopo evidente di usare la fama internazionale di Freud. per la propaganda nazista. La Gestapo aveva dunque interesse che Freud sottoscrivesse il documento, mentre Freud deve essersi trovato di fronte al dilemma di sottoscriverlo (e quindi di aiutare il nemico a spese della propria integrità morale) o rifiutarsi (e patire qualunque conseguenza avesse potuto derivarne). In termini di psicologia sperimentale, doveva affrontare un conflitto di evitamento-evitamento (sez. 6.434). Freud riuscì a rovesciare le posizioni intrappolando i nazisti nella loro stessa mistificazione. Quando l’ufficiale della Gestapo gli portò i documenti per la firma, Freud chiese se gli era permesso aggiungere un’altra frase. L’ufficiale acconsentì, sicuro com’era della sua posizione one-up, e Freud scrisse di suo pugno: “Posso vivamente raccomandare la Gestapo a chicchessia “. Ora la situazione era capovolta. La Gestapo, che in un primo momento aveva costretto Freud a lodarla, non poteva certo fare obiezione per aver ricevuto una lode supplementare. Ma per chiunque sapesse sia pure confusamente cosa stava accadendo a Vienna in quei giorni (e il mondo cominciava a saperlo ogni giorno di più) il sarcasmo di quella ‘lode era così devastante da rendere il documento privo di ogni valore ai fini della propaganda. In breve, Freud aveva invalidato il documento con una asserzione che aderiva al contenuto della dichiarazione ma nello stesso tempo lo negava con il sarcasmo.

L’opinione della madre è che quando la ragazza dice ‘no’ significa che vuol venire. Ma quando la ragazza dice sì‘?

non vuol dire ‘, vuol dire soltanto che la figlia non ha mai la forza di dire no‘.

Una madre stava parlando al telefono con lo psichiatra della figlia schizofrenica e si lamentava delle ricadute della ragazza. Ma di solito quando diceva che la figlia era ricaduta voleva dire che la ragazza si era mostrata più indipendente e che aveva battibeccato con lei. Da qualche giorno, per esempio, la figlia era andata a stare per conto suo in un appartamento, una decisione che aveva abbastanza infastidito la madre. Il terapeuta le chiese di fare un esempio di quello che lei definiva comportamento disturbato e la donna rispose: Oggi, per esempio, volevo che venisse a pranzo da me e abbiamo avuto da discorrere perché lei credeva di non aver voglia di venire “. Quando il terapeuta le chiese come era andata a finire la discussione, la madre disse con rabbia: Naturalmente l’ho convinta a venire perché sapevo bene che in fondo voleva venire e che non ha mai il coraggio di dirmi di no”. L’opinione della madre è che quando la ragazza dice ‘no’ significa che vuol venire, perché lei sa meglio della figlia quello che passa nella sua mente confusa. Ma quando la ragazza dice sì ‘? non vuol dire ‘, vuol dire soltanto che la figlia non ha mai la forza di dire no ‘. Sia la madre che la figlia sono dunque legate da questo modo paradossale di etichettare i messaggi.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 208

Bateson: LA TEORIA DEL DOPPIO LEGAME

Bateson, Jackson, Haley e Weakland hanno descritto per primi gli effetti del paradosso nella interazione umana, in un saggio intitolato “Toward a Theory of Schizophrenia”. (Per una teoria della schizofrenia), (18), pubblicato nel 1936. Questo gruppo di ricerca ha studiato il fenomeno della comunicazione schizofrenica da un punto di vista che è radicalmente diverso da tutte quelle ipotesi secondo cui la schizofrenia è anzitutto un disturbo intrapsichico (disordine del pensiero, funzione debole dell’Io, sommersione della coscienza ad opera del materiale del processo primario, o fenomeni simili) che poi influenza anche le relazioni del paziente con gli altri e infine le relazioni degli altri col paziente. E’ sul versante opposto che Bateson e i suoi collaboratori compiono il loro approccio: essi si chiedono quali sequenze di esperienza interpersonale provocherebbero il comportamento (piuttosto che essere causate da esso) che giustificherebbe la diagnosi di schizofrenia. Lo schizofrenico, ipotizzano, “deve vivere in un universo in cui le sequenze di eventi

sono tali che le sue abitudini di comunicazione non convenzionali in qualche modo saranno appropriate” (18, p. 253). E’ una ipotesi che li ha portati a postulare e a identificare certe caratteristiche essenziali di tale interazione, per cui hanno coniato il termine doppio legame. Queste caratteristiche sono anche il minimo comune denominatore che sottende la miscellanea di esempi — che altrimenti sarebbe forse sconcertante — che abbiamo presentato nelle sezioni precedenti di questo capitolo.

Se ne ritocchiamo e allarghiamo un po’ la definizione, è possibile descrivere gli elementi di un doppio legame come segue:

(1) Due o più persone sono coinvolte in una relazione intensa che ha un alto valore di sopravvivenza fisica e/o psicologica per una di esse, per alcune, o per tutte. Le situazioni in cui si hanno tipicamente queste relazioni intense includono (ma non sono limitate ad esse) la vita familiare (soprattutto l’interazione genitore-figlio); l’invalidità; la dipendenza materiale; la prigionia; l’amicizia; l’amore; la fedeltà a una credenza religiosa, a una causa o a una ideologia; i contesti influenzati da norme sociali o dalla tradizione; e la situazione psicoterapeutica.

(2) In un simile contesto viene dato un messaggio che è strutturato in modo tale che (a) asserisce qualcosa, (b) asserisce qualcosa sulla propria asserzione e (c) queste due asserzioni si escludono a vicenda. Quindi, se il messaggio è un’ingiunzione, l’ingiunzione deve essere disobbedita per essere obbedita; se è una definizione del Sé o dell’altro, la persona di cui si è data la definizione è quel tipo di persona soltanto se non lo è, e non lo è se lo è. Il significato del messaggio è perciò indecidibile.

(3) Infine, si impedisce al ricettore del messaggio di uscir fuori dallo schema stabilito da questo messaggio, o metacomunicando su esso (commentandolo) o chiudendosi in se stesso. Dunque anche se il messaggio è da un punto di vista logico privo di significato, è una realtà pragmatica; egli non può non reagire ad esso, ma non può neppure reagire ad esso in modo adeguato (non paradossale), perché il messaggio stesso è paradossale.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 209

Dostoevskij: L’inerzia mi schiacciava. Come farò per esempio io a esser tranquillo? Dove le ho io le cause prime su cui poggiare, dove li ho i fondamenti?

Nel lavoro psicoterapeutico con pazienti schizofrenici intelligenti si è più volte tentati di concludere che si troverebbero molto meglio, che sarebbero molto più normali‘, soltanto se potessero un poco smussare l’acutezza del loro pensiero e quindi attenuare l’effetto paralizzante che ha sulle loro azioni. A modo loro sembra che discendano tutti dal protagonista trogloditico del romanzo di Dostoevskij Ricordi dai sottosuolo, [F. Dostoevskij, Ricordi dal sottosuolo, trad. it. di T. Landolfi, Firenze, Vallecchi, 1964, p. 11.] il quale spiega:

Vi giuro, signori, che aver coscienza di troppe cose è una malattia, una vera e propria malattia.

E qualche pagina più avanti:

«l’inerzia mi schiacciava. Il logico, legittimo, immediato frutto della coscienza è infatti l’inerzia, ossia un cosciente starsene colle braccia conserte. Ne ho già accennato più sopra. Lo ripeto, e lo ripeterò finché avrò fiato: tutti gli uomini immediati e d’azione se sono attivi è perché son stupidi e limitati. Come si spiega ciò? Ecco come: essi, in conseguenza della loro limitatezza, scambiano per cause prime quelle più prossime e appena concomitanti, e in tal modo si convincono più presto e più facilmente degli altri d’aver trovato alla loro attività un sicuro fondamento, e così s’acquetano; e questo è l’importante. Giacché per cominciare ad agire occorre essere preliminarmente tranquilli, e che dubbi non ne rimangano punti. Be’, e come farò per esempio io a esser tranquillo? Dove le ho io le cause prime su cui poggiare, dove li ho i fondamenti? Dove li andrò a prendere? Io fo professione di pensiero, il che significa che per me ogni causa originaria se ne tira dietro un’altra ancora più originaria, e così via all’infinito. Questo è appunto il succo d’ogni coscienza e d’ogni pensiero.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 219

L’illusione di alternative. Il segreto: “ Più di tutto è il dominio che desiderano le donne, sopra i loro mariti e nelle cose d’amore“

In The Wife of Bath’s Tale (Il racconto della comare di Bath) Chaucer narra la storia di un cavaliere di Re Artù che “ a spron battuto cavalcando un giorno verso casa di ritorno dalla caccia col falcone” s’imbatte per strada in una fanciulla a cui usa violenza. Il crimine, “che suscitò vivissimo scalpore “, quasi gli costa la vita, se non fosse per la regina e le sue dame che vogliono risparmiarlo, dal momento che Artù lascia decidere alla regina la sorte del cavaliere. La regina dice al cavaliere che gli concederà la vita se riuscirà a rispondere alla domanda “Che cosa desiderano di più le donne? “. Il cavaliere, che ha come unica alternativa una sentenza di morte, s’impegna di trovare la risposta e di ritornare al castello dopo un anno e un giorno (il tempo che la regina gli ha dato). Come si può immaginare, l’anno passa, arriva l’ultimo giorno, e il cavaliere è sulla strada del ritorno al castello senza aver trovato la risposta. Questa volta s’imbatte in una vecchia (“una strega tanto orrenda quanto può esserlo una invenzione della fantasia “) che sta seduta in un prato e gli dice una frase che suona come una profezia: “ Signor cavaliere, qui non c’è strada che passi “.

Quando conosce la difficile situazione in cui il cavaliere si trova, gli dice di sapere la risposta e di essere pronta a svelargliela se egli giura che “qualunque cosa io poi vi chieda, la farete se potrete farla “. Posto di nuovo di fronte a una scelta tra due alternative (essere decapitato o accondiscendere al desiderio della strega, qualunque possa essere), naturalmente il cavaliere sceglie questa seconda alternativa e la strega gli rivela il segreto (“ Più di tutto è il dominio che desiderano le donne, sopra i loro mariti e nelle cose d’amore “). La risposta soddisfa pienamente le dame di corte e la strega chiede al cavaliere di sposarla. Ha mantenuto la sua promessa e il patto esige che il cavaliere mantenga la sua. Giunge la notte del matrimonio e il cavaliere giace al fianco della strega disperato e incapace di sopraffare la repulsione per la sua bruttezza. Alla fine la strega gli offre ancora due alternative tra cui scegliere: o lui l’accetta orrenda com’è (e lei per tutta la vita sarà una moglie sottomessa e esemplare) oppure si trasformerà in una fanciulla giovanissima e bellissima, ma non gli sarà mai fedele. A lungo il cavaliere pondera le due alternative e alla fine non sceglie nessuna delle due, ma rifiuta la scelta stessa. Il culmine del racconto è tutto in una sola riga: “I do not fors the whether of the two” (Non scelgo nessuna delle due). A questo punto la strega diventa una fanciulla bellissima che sarà la più fedele e obbediente delle mogli.

Al cavaliere la donna appare come fanciulla innocente, regina, strega, e puttana, ma sotto tutte queste sembianze esercita su di lui lo stesso potere finché egli non si sente più costretto a scegliere e ad essere trascinato in una ulteriore situazione difficile; infatti alla fine contesta la stessa necessità di scegliere.

Si confronti questa situazione con quella di un famoso koan Zen (una meditazione paradossale) imposto da Tai-hui con una canna di bambù: “Se la chiamate canna affermate, se non la chiamate canna, negate. Mettendo da parte ogni affermazione e negazione, come la chiamereste?”

The Wife of Bath’s Tale è anche un ‘campione’ stupendo di psicologia femminile e sotto questo aspetto Stein (148) gli ha dedicato un’analisi assai interessante. Se applichiamo il nostro schema concettuale dobbiamo concludere che finché questo tipo di donna è capace di ‘legare doppio’ il maschio con l’illusione di alternative che non finiscono mai (e, naturalmente, finché il maschio non riesce a districarsi da questa situazione) neppure lei può essere libera e resta presa nell’illusione di alternative che comportano bruttezza e promiscuità come uniche scelte.

Illusione di alternative. Dall’interno non si può provocare nessun cambiamento, può verificarsi un cambiamento soltanto uscendo fuori dal modello

Weakland e Jackson (161) hanno usato per primi il termine illusione di alternative in uno scritto sulle circostanze interpersonali di un caso di schizofrenia. Notarono che, nel tentativo di fare la scelta giusta tra due alternative, i pazienti schizofrenici incontrano un dilemma tipico: non possono — per la natura della situazione di comunicazione — prendere la decisione giusta, perché entrambe le alternative sono parte integrante di un doppio legame e quindi il paziente “è dannato se la prende ed è dannato se non la prende “. Non ci sono alternative reali tra cui si dovrebbescegliere quella ‘giusta— è un’illusione l’intera ipotesi che la scelta sia possibile e che si dovrebbe fare. Ma rendersi conto dell’assenza di scelta equivarrebbe a riconoscere non solo quelle che sono evidentemente le ‘alternative’ offerte, ma anche la vera natura del doppio legame. In realtà il blocco di ogni via d’uscita dalla situazione di doppio legame (e l’impossibilità che ne deriva di guardarla dall’esterno) sono elementi fondamentali del doppio legame. Sono situazioni simili a quella in cui si troverebbe l’imputato a cui si chieda: “ Avete smesso di picchiare vostra moglie? Rispondete sì o no” e lo si minacci con l’accusa di disprezzo della corte se tenta di respingere entrambe le alternative (che sono inapplicabili perché lui la moglie non l’ha mai picchiata).

Ma mentre qui si tratta di un esempio e chi fa la domanda sa di usare un trucco perfido, nelle situazioni della vita reale di solito mancano una consapevolezza e una intenzione del genere. Le comunicazioni paradossali, come abbiamo già osservato, legano quasi sempre tutti coloro che vi sono coinvolti: la strega è presa quanto il cavaliere, il marito quanto la moglie, ecc.

 Dall’esame di tutti questi modelli si può trarre la stessa conclusione: dall’interno non si può provocare nessun cambiamento, può verificarsi un cambiamento soltanto uscendo fuori dal modello.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 229

Il ‘gioco senza fine. È evidente che i giocatori non possono ritornare con facilità al loro primo, ‘normale ‘, modulo di comunicazione, una volta che il gioco sia avviato

Cominciamo con un esempio puramente teorico. Si immagini una situazione come la seguente.

Due persone decidono di fare un gioco che consiste nel sostituire la negazione con l’affermazione, e viceversa, in ogni frase che si comunicano. ‘Sì’ diventa ‘no’, ‘non voglio’ diventa ‘voglio’, e così via. E’ evidente che questa codificazione dei messaggi è una convenzione semantica del tutto simile alla miriade di altre convenzioni accettate da due persone che usano lo stesso linguaggio. Ma non è invece subito evidente che i giocatori non possono ritornare con facilità al loro primo, ‘normale ‘, modulo di comunicazione, una volta che il gioco sia avviato. Se continuano ad applicare la regola dell’inversione del significato, il messaggio “ Smettiamo di giocare” significa “Continuiamo a giocare“. Per arrestare il gioco è necessario uscir fuori dal gioco e comunicare su di esso. Un messaggio simile dovrebbe essere chiaramente costruito come un metamessaggio, ma qualunque qualificatore si adotti sarebbe esso stesso soggetto alla regola d’inversione del significato e quindi inutile. Il messaggio Smettiamo di giocare” e indecidibile perché (1) ha un significato sia al livello-oggetto (in quanto parte del gioco) sia al metalivello (in quanto messaggio sul gioco); (2) i due significati sono contraddittori; (3) la natura peculiare del gioco non fornisce una procedura tale da mettere in grado i giocatori di decidere su un significato o sull’altro. L’indecidibilità rende impossibile arrestare il gioco una volta avviato. Etichettiamo situazioni simili giochi senza fine.

Cosa avrebbero potuto fare i giocatori per evitare il dilemma? Ci sono tre possibilità:

(1)       I giocatori, prevedendo la necessità di comunicare sul gioco una volta che fosse cominciato, avrebbero potuto accordarsi di giocarlo in inglese ma di metacomunicare in francese. Ogni asserzione in francese, come la proposta di arrestare il gioco, resterebbe quindi chiaramente fuori del corpo di messaggi che sono soggetti alla regola dell’inversione del significato, cioè fuori del gioco stesso. Per questo gioco sarebbe una procedura di decisione di grande efficacia, ma sarebbe inapplicabile nella comunicazione umana perché non esiste un metalinguaggio che venga usato soltanto per le comunicazioni sulla comunicazione. Infatti, il comportamento e, più precisamente, il linguaggio naturale sono usati per comunicazioni sia al livellooggetto che a livello di metalinguaggio, come risulta da certi problemi che siamo venuti descrivendo.

(2)     I giocatori avrebbero potuto fissare in anticipo di comune accordo un limite di tempo, superato il quale sarebbero tornati al loro modulo di comunicazione normale. Vale la pena di notare che questa soluzione, che tra l’altro è inattuabile nella comunicazione umana reale, implica il ricorso a un fattore esterno — il tempo — che non rientra nel gioco.

(3)     Questo ci porta alla terza possibilità, che sembra essere la sola procedura efficace e che ha inoltre il vantaggio che vi si può ricorrere dopo che il gioco è cominciato: i giocatori potrebbero trasferire il loro dilemma su una terza persona con la quale entrambi hanno mantenuto il loro modulo di comunicazione normale e farle decidere la chiusura del gioco.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 231

I pazienti in buona fede di solito hanno tentato senza successo ogni tipo di autodisciplina e ogni esercizio di volontà molto tempo prima di rivelare agli altri le loro difficoltà.

La comunicazione terapeutica deve dunque necessariamente imporre prescrizioni ben diverse da quelle, sempre inefficaci, che di solito danno gli stessi protagonisti e i loro parenti e amici. Sarebbe assai sforzato definire terapeutiche raccomandazioni come “ Siate gentili tra di voi “, Non mettetevi nei guai con la polizia e simili, sebbene esprimano ingenuamente il desiderio di un cambiamento. Questi messaggi si fondano sull’ipotesi che ‘con un po’ di volontà’ si potrebbero cambiare le cose e che quindi tocca alla persona o alle persone che vengono a trovarsi in una data situazione scegliere tra salute e sofferenza. Tuttavia questa ipotesi non è niente altro che una illusione di alternative, almeno per quanto riguarda il paziente che ogni volta può respingerla con la replica irrefutabile:

“Non posso farci niente “. I pazienti in buona fede — con questa espressione ci riferiamo alle persone che non stanno simulando intenzionalmente — di solito hanno tentato senza successo ogni tipo di autodisciplina e ogni esercizio di volontà molto tempo prima di rivelare agli altri le loro difficoltà.

IL PARADOSSO IN PSICOTERAPIA

Non soltanto quella psicoanalitica ma in genere quasi tutte le situazioni psicoterapeutiche sono ricche di impliciti doppi legami. A rendersi conto della natura paradossale della psicoanalisi fu uno dei primi collaboratori di Freud, Hanns Sachs, a cui si attribuisce la frase una analisi termina quando il paziente si rende conto che potrebbe continuare per sempre, una asserzione che in modo assai curioso richiama alla mente la credenza Zen secondo cui l’illuminazione giunge quando l’allievo si rende conto che non c’è nessun segreto, nessuna risposta ultima, e quindi nessuna ragione di continuare a far domande. Per una trattazione esauriente di questo argomento, si rimanda il lettore a Jackson e Haley (76), il cui saggio riassumiamo qui molto brevemente.

L’ipotesi tradizionale era quella secondo cui in una situazione di ‘transfertil paziente regredivaverso modelli di comportamento precedenti e ‘non appropriati’. Ancora una volta Jackson e Haley si accostarono al problema dal lato opposto e si domandarono: quale sarebbe il comportamento appropriato nella situazione psicoanalitica? Da questo punto di vista, sembra che l’unica reazione adulta a tutto il rituale del divano, delle associazioni libere, della spontaneità imposta, degli onorari, dell’orario rigoroso, ecc., sarebbe quella di respingere l’intera situazione. Ma questo è proprio quello che il paziente (che ha bisogno di aiuto) non può fare. Viene quindi disposto un campo d’azione per un contesto di comunicazione assai singolare. Alcuni dei paradossi più rilevanti che il contesto comporta sono i seguenti.

(a) Il paziente si aspetta che l’analista sia un esperto che gli dica cosa fare. L’analista risponde dando al paziente l’incarico della cura, rendendolo responsabile del corso del trattamento, chiedendo spontaneità nello stesso momento in cui pone le regole che circo-scrivono completamente il comportamento del paziente. In definitiva al paziente viene detto: “Sii spontaneo”.

(b) In questa situazione, qualunque cosa faccia, il paziente si troverà di fronte a una risposta paradossale. Se fa notare che non sta migliorando, gli si dice che questo è dovuto alla sua resistenza, ma che è un bene perché gli offre un’occasione migliore di capire il proprio problema. Se dichiara che crede di star migliorando, gli si dice che sta resistendo al trattamento cercando di fuggire prima che il suo vero problema sia stato analizzato.

(c) Il paziente è in una situazione che non gli consente di comportarsi da adulto, ma quando non si comporta da adulto l’analista interpreta il suo comportamento infantile come un residuo dell’infanzia e quindi come un comportamento inappropriato.

(d) Un ulteriore paradosso si trova nel problema assai delicato se la relazione analista-paziente è coercitiva o volontaria. Da una parte, si dice continuamente al paziente che la sua relazione è volontaria e perciò simmetrica. Tuttavia se il paziente arriva in ritardo, non va a una seduta o viola in qualche modo qualche regola, risulta evidente che la relazione è coercitiva, complementare, con l’analista nella posizione one-up.

(e) La posizione one-up dell’analista diventa particolarmente chiara ogni volta che ci si richiama al concetto di inconscio. Se il paziente respinge una interpretazione, l’analista può sempre spiegare di stare indicando qualcosa di cui il paziente per definizione non deve aver consapevolezza perché si tratta di qualche processo inconscio. Se d’altra parte il paziente cerca di appellarsi all’inconscio per giustificare qualcosa, l’analista può respingere tale rivendicazione dicendo che se si trattasse di qualche processo inconscio il paziente non potrebbe farvi riferimento.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 248

È come se questi pazienti comunicassero tramite i loro sintomi: “ Aiutami, ma io non te lo permetterò”

I medici dovrebbero guarire. Da un punto di vista interattivo tale premessa li pone in una posizione assai curiosa: occupano la posizione complementare one-up nella relazione dottore-paziente finché il malato non è guarito. D’altra parte, quando falliscono i loro sforzi le posizioni si rovesciano: la natura della relazione dottore-paziente è allora dominata dalla refrattarietà della condizione del paziente e il medico viene a trovarsi nella posizione one-down. E’ allora probabile che venga ‘legato doppio’ da quei pazienti che per ragioni spesso assai recondite non possono accettare di migliorare o da quelli che trovano che essere one-up su ogni partner (medico compreso) sia più importante del dolore e del disagio che una scelta simile può procurare. In entrambi i casi è come se questi pazienti comunicassero tramite i loro sintomi: “ Aiutami, ma io non te lo permetterò”.

Un paziente di questo tipo, una donna di mezza età, ricorse allo psichiatra per un’emicrania persistente e debilitante. I dolori erano cominciati poco dopo aver subito in un incidente una lesione occipitale. La lesione si era risolta senza complicazioni e approfonditi esami medici non erano riusciti a rivelare nulla che potesse essere la causa dell’emicrania. La paziente era stata risarcita in modo adeguato da una società di assicurazioni e non pendevano ulteriori rivendicazioni né alcuna azione legale. Molti specialisti di una grande clinica l’avevano esaminata e curata prima che lei ricorresse allo psichiatra. Tutti questi esami clinici avevano riempito uno schedario di proporzioni impressionanti e la donna era diventata una fonte di notevole frustrazione professionale per quei medici.

Studiando il caso, lo psichiatra si rese conto che con questa anamnesi di ‘fallimenti’ medici qualunque supposizione (o speranza) che la psicoterapia avrebbe potuto essere di aiuto condannava il trattamento fin dall’inizio. Cominciò quindi informando la paziente che dai risultati di tutti gli esami precedenti e in considerazione del fatto che nessuna cura le aveva dato il minimo sollievo, non c’era alcun dubbio che la sua condizione era irreversibile. Il fatto era increscioso, ma la sola cosa che poteva fare per lei era insegnarle a vivere con il dolore. Al terapeuta sembrò che questa spiegazione piuttosto che sconvolgere la paziente la facesse arrabbiare, tanto è vero che gli chiese in modo quasi polemico se era tutto quello che la psichiatria aveva da offrire. Lo psichiatra per controbattere questa osservazione fece ondeggiare nell’aria il pesante dossier della sua anamnesi e tornò a ripeterle che di fronte a prove come quelle non c’era proprio alcuna speranza di miglioramento e che questo era un dato di fatto a cui doveva rassegnarsi. Quando la paziente tornò una settimana dopo per la seconda intervista, annunciò che nel frattempo l’emicrania l’aveva fatta soffrire molto meno. Lo psichiatra dimostrò un grande interesse per questo fatto; si criticò per non averla avvertita prima della possibilità di una simile diminuzione del dolore, temporanea e puramente soggettiva, e manifestò il timore che l’emicrania sarebbe inevitabilmente ricomparsa con l’intensità di una volta e lei sarebbe stata anche più infelice per aver riposto una speranza cosi poco realistica in una diminuzione solo temporanea della percezione del dolore. Tirò fuori un’altra volta il dossier dell’anamnesi, le mostrò quanto era esauriente e le disse ancora che prima abbandonava ogni speranza di miglioramento, prima avrebbe accettato la sua condizione. Da quel momento in poi la psicoterapia prese una svolta piuttosto tempestosa; lo psichiatra diventava sempre più scettico sulle sue possibilità di esserle utile poiché lei non voleva accettare l’ ‘irreversibilità della sua condizionee la paziente continuava a dire, con rabbia e impazienza, che stava migliorando. Ma tra uno scontro e l’altro fu possibile dedicare parte delle interviste all’esame di altri aspetti importanti dei rapporti interpersonali di questa donna e alla fine la paziente, che stava molto meglio, abbandonò il trattamento di propria iniziativa, avendo evidentemente capito che il suo gioco con lo psichiatra poteva continuare per sempre.

I casi di dolore psicogeno come quello sopracitato di solito si prestano molto bene a una breve psicoterapia basata sulla comunicazione paradossale. L’imposizione di un doppio legame terapeutico può cominciare spesso anche dalla richiesta telefonica di un appuntamento fatta da un nuovo paziente. Se il terapeuta può essere abbastanza certo della psicogenesi del disturbo (come nel caso, ad es., che ne abbia discusso prima con un medico che gli ha riferito il caso) può avvertire il richiedente che abbastanza spesso i pazienti hanno la sensazione di essere notevolmente migliorati prima di presentarsi per la loro prima intervista, ma si tratta di un miglioramento solo momentaneo in cui non bisogna riporre alcuna speranza. Se il paziente non avverte alcuna diminuzione del dolore nel periodo di tempo tra la telefonata e il primo appuntamento, non si è fatto alcun danno, e il paziente apprezzerà l’interesse e la prudenza del terapeuta. Ma se si è sentito meglio, si è superato il primo stadio per l’ulteriore strutturazione del doppio legame terapeutico. Come passo successivo si può spiegare che la psicoterapia non allevia il dolore, ma che il paziente stesso di solito può spostare il dolore nel tempoe ‘condensare la sua intensità‘. Si chiede al paziente, ad es., di fissare un periodo di due ore al giorno in cui gli sarebbe meno scomodo provare più dolore. Gli si dice poi di accrescere il dolore durante queste due ore e anche se non viene esplicitamente detto si dà per scontato che si sentirebbe meglio per il resto della giornata. E’ straordinario che i pazienti di solito riescano a sentirsi peggio nel periodo di tempo che hanno scelto, seguendo il suggerimento del terapeuta, e subendo questa esperienza non possono fare a meno di rendersi conto di avere un poco controllato il loro dolore. Naturalmente, il terapeuta non suggerisce mai che dovrebbero cercare di sentirsi meglio; piuttosto, egli mantiene lo stesso atteggiamento scettico verso il miglioramento.

Il marito che beve (o la moglie che beve) mantiene di solito con l’altro coniuge un modello di comunicazione piuttosto stereotipato. Per semplicità, supporremo qui di seguito che il bevitore sia il marito, ma i ruoli potrebbero essere invertiti senza che si abbia un cambiamento significativo in tutto il modello.

La principale difficoltà è spesso una discrepanza nella punteggiatura della sequenza di eventi. Il marito, ad es., può asserire che la moglie lo domina e che lui si sente un po’ più uomo soltanto dopo qualche bicchierino. La moglie controbatte prontamente che rinuncerebbe volentieri a comandare se il marito mostrasse un maggior senso di responsabilità, ma visto che si ubriaca tutte le sere è costretta ad avere cura di lui. Può proseguire dicendo che se non fosse stato per lei, il marito più di una volta avrebbe potuto incendiare la casa addormentandosi a letto con la sigaretta accesa; è allora probabile che lui ribatta che neanche si sognerebbe di correre un rischio simile se fosse ancora scapolo. Forse può aggiungere che questo è un esempio dell’influenza svirilizzante che la moglie ha su di lui. Comunque sia, dopo alcuni Scontri di questo tipo, il loro gioco senza fine diventa abbastanza evidente per l’estraneo che non vi è coinvolto. Dietro la facciata di scontento, frustrazioni e accuse, si stanno confermando a vicenda mediante un quid pro quo; il marito dà alla moglie la possibilità di essere sobria, ragionevole e protettiva e la moglie rende possibile a suo marito di essere irresponsabile, infantile e in genere un fallito incompreso.

Uno dei possibili doppi legami terapeutici che si potrebbe imporre a una coppia simile sarebbe quello di prescrivere ai coniugi di bere insieme, a condizione però che la moglie beva sempre un bicchierino più del marito. L’introduzione di questa nuova regola nella loro interazione praticamente distrugge i vecchi modelli. Primo, il bere ora è un compito e non più qualcosa di cui lui ‘non può fare a meno’. Secondo, tutti e due devono controllare di continuo il numero dei bicchierini bevuti. Terzo, la moglie che di solito è una bevitrice assai moderata (ammesso che beva) raggiunge subito un grado di ubriachezza che richiede che sia lui a prendersi cura di lei. Non si tratta soltanto di un rovesciamento totale dei loro ruoli abituali; questa situazione pone il marito in una posizione insostenibile: se riesce a seguire le istruzioni del terapeuta o deve smettere di bere o deve costringere la moglie a bere di più, con il rischio di renderla ancor più vulnerabile, malata, ecc. Quando la moglie non vuol più bere, se lui ha intenzione di violare la regola (che lei debba essere più avanti di un bicchierino) continuando a bere da solo, deve affrontare la situazione non certo familiare di restare senza il suo angelo custode e di assumersi la responsabilità sia del suo comportamento che di quello della moglie.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 248

Modo zen di cacciare i fantasmi

Che l’effetto terapeutico della comunicazione paradossale non sia affatto una scoperta recente lo mostra il seguente racconto Zen che contiene tutti gli elementi di un doppio legame terapeutico:

Una giovane moglie si ammalò e sul punto di morte disse al marito: “Ti amo tanto e non voglio lasciarti. Quando sarò morta non andare con un’altra donna. Se lo farai, tornerà il mio fantasma e ti procurerà guai a non finire”.

Ben presto la donna passò a miglior vita. Per tre mesi il marito rispettò l’ultima volontà della moglie, ma poi conobbe un’altra donna, s’innamorò di lei e si scambiarono promessa di matrimonio.

Subito dopo il fidanzamento, un fantasma comincio ad apparire all’uomo ogni notte e a biasimarla per non essere restato fedele. Era un fantasma intelligente che sapeva per filo e per segno quel che accadeva tra l’uomo e la sua bella. Ogni regalo che l’uomo dava alla fidanzata, il fantasma sapeva descriverlo nei minimi particolari. Ripeteva parola per parola i loro discorsi e tanto lo molestava che egli non riusciva più a dormire. Gli consigliarono di sottoporre il suo problema a un maestro Zen che viveva vicino al villaggio. Alla fine, per disperazione, il pover’uomo andò dal maestro per chiedergli aiuto.

“La tua prima moglie è ora un fantasma che sa tutto quel che fai“, commentò il maestro. “Qualunque cosa tu faccia o dica, qualunque cosa tu dia alla tua amata, lei lo sa. Deve essere un fantasma molto saggio e tu dovresti ammirarlo. La prossima volta che ti appare, cerca di venire a patti. Digli che sono tante le cose che sa che tu non puoi nascondergli nulla, e che se risponderà a una tua domanda gli prometti di rompere il fidanzamento e di restare vedovo”.

“Qual è la domanda che devo fare?” domandò l’uomo.

Il maestro rispose: “Prendi una bella manciata di semi di soia e digli che ti dica senza sbagli quanti semi hai in mano. Se non riesce a rispondere, saprai che è solo una invenzione della tua fantasia e non t’importunerà mai più “.

La notte seguente, quando apparve il fantasma, l’uomo non gli risparmiò le lusinghe e gli disse che era un fantasma che sapeva ogni cosa.

“E’ vero “, rispose il fantasma, “ e so che oggi sei andato dal maestro Zen

“Visto che sai tante cose “, disse l’uomo, “perché non mi dici quanti semi ho in questa mano?

Ma non ci fu più nessun fantasma a rispondere a quest’ultima domanda.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 248

Il paradosso nel gioco, nello humour e nella creatività

Per quale ragione gli organismi, dagli invertebrati ai vertebrati (uomini inclusi), siano tanto sensibili agli effetti del paradosso non è una cosa ancora molto chiara, ma è evidente che questi effetti vanno ben oltre i fattori meramente culturali o specifici della specie. Come abbiamo cercato di mostrare in questo capitolo, a livello umano si ha un supplemento di complessità per il fatto che il paradosso può essere terapeutico e non solo patogeno. Ma questo non esaurisce affatto gli aspetti positivi del paradosso, perché è evidente che molte delle più nobili attività e conquiste della mente umana sono intimamente legate con la capacità che ha l’uomo di vivere l’esperienza del paradosso. La fantasia, il gioco, lo humour, l’amore, il simbolismo, l’esperienza religiosa nel senso più esteso del termine (dal rituale al misticismo) e soprattutto la creatività, sia nelle arti che nelle scienze sembrano essere sostanzialmente paradossali.

Tuttavia sono campi tanto vasti, estesi e così lontani dagli scopi di questo libro che dovremo limitarci a ricordarli di sfuggita. L’abbozzo di una teoria del gioco e della fantasia fondata sulla teoria dei tipi logici (e dei suoi paradossi) l’ha tracciato Bateson nel 1934. Riferendo le sue esperienze di osservatore allo Zoo Fleishacker di San Francisco, accenna che

vide due giovani scimmie che giocavano, che erano cioè impegnate in una sequenza interattiva le cui unità d’azione (o segnali) erano simili ma non identiche a quelle di un combattimento. Era evidente, anche per l’osservatore umano, che la sequenza considerata come un tutto non era un combattimento, ed era evidente all’osservatore umano che ‘non era un combattimento ‘ per le scimmie che vi partecipavano.

Ora, tale fenomeno, il gioco, poteva verificarsi soltanto se gli organismi partecipanti erano in grado di metacomunicare sia pure in modo limitato, cioè di scambiare segnali che recassero il messaggio ‘questo è un gioco‘. Il passo successivo fu l’esame del messaggio ‘questo è un gioco’ che portò a prendere atto che tale messaggio contiene quegli elementi che necessariamente producono un paradosso di tipo russelliano o epimenidea — un’asserzione negativa che contiene una implicita meta-asserzione negativa. Articolandola, l’asserzione ‘ questa è un gioco si può approssimativamente formulare così: “Le azioni in cui siamo ora impegnate non denotano ciò che denoterebbero quelle azioni che esse rappresentano “. (8, p. 41)

E’ una prospettiva che Fry, uno dei collaboratori di Bateson, ha applicato al fenomeno dello humour. In un ampio studio di molti tipi di barzellette riassume le conclusioni a cui è giunta nel modo seguente:

Nella fase in cui lo humour si sviluppa, ci si trova all’improvviso di fronte a un capovolgimento implicito-esplicito quando viene liberata la battuta finale. E’ un capovolgimento che aiuta a distinguere lo humour dal gioco, dai sogni, ecc. I capovolgimenti improvvisi come quelli che nello humour caratterizzano il momento della battuta finale sono dirompenti ed estranei al gioco, ecc. (Solo in psicoterapia questa sarta d’operazione di capovolgimento è compatibile con la struttura generale dell’esperienza). Ma solo il capovolgimento può avere l’effetto di costringere coloro che partecipano all’esperienza dello humour a dare una nuova definizione interna della realtà. E’ inevitabile che la battuta finale combini comunicazione e metacomunicazione. Anzitutto si riceve la comunicazione esplicita della battuta finale; poi, a un livello più elevato di astrazione, la battuta finale trasmette una metacomunicazione implicita su se stessa e sulla realtà che viene esemplificata dalla barzelletta E...] questo materiale della battuta finale implicito-ora-esplicito diventa un messaggio di metacamunicazione che riguarda il contenuto della barzelletta in generale (in quanto campione di comunicazione). In questo capovolgimento del contenuto, quello che sembra essere realtà si può presentare nei termini di quello che sembra essere irrealtà. Il contenuto comunica il messaggio “Questo è irreale”, e comunicando tale messaggio fa riferimento al tutto di cui è parte. Siamo quindi ancora di fronte al paradosso della parte negativa che definisce il tutto. Il reale è irreale, l’irreale è reale. La battuta finale fa precipitare il paradosso interno specifico del contenuto della barzelletta e stimola una riverberazione del paradosso che lo schema del gioca ha generato.

La creatività, infine, è stata oggetto di molti studi importanti di cui uno dei più recenti è The Act of Creation (L’atto della creazione) di Koestler. In quest’opera monumentale si avanza la pro-pasta che lo humour, la scoperta scientifica e la creazione artistica siano il risultato di un processo mentale a cui si dà il nome di ‘bisociazione’.

Questa è definita come La percezione di una situazione o di un’idea in due sistemi di riferimento internamente coerenti ma abitualmente incompatibili“.

L’autore poi distingue tra il comune ragionamento che opera su un solo ‘piano’ e l’atto creativo che opera sempre su più di un piano. Nel primo caso, si può dire che il pensiero vada in una sola direzione; nel secondo caso, invece, si tratta di uno stato transitoria dall’equilibrio instabile, teso in due direzioni, il cui squilibrio influenza al tempo stesso l’emozione e il pensiero.

Watzlawick P., “Pragmatica della comunicazione umana”, Astrolabio, pag. 251

 

Da: http://www.ilpalo.com/libri-scientifici-interessanti/libri/Watzlawick-Pragmatica-della-comunicazione-umana.htm

 

TORNA SU