in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

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Cambiare l'oggetto dello sguardo della propria anima: il pentimento (Alberto De Luca)


 

In studi precedenti, crediamo di aver sufficientemente esposto che cosa sia il fatâ essenzialmente, e quindi che cosa egli dovrebbe essere. Il cavaliere, traduzione del termine arabo fatâ, non è altro infatti, che un mezzo attraverso il quale opera la Misericordia divina: dopo la Sua “prima manifestazione” sottoforma di Logos ordinatore (Kun) in un senso eminentemente verticale, la Misericordia si ripresenta orizzontalmente grazie alla teofania, che è l’autentico fatâ. È necessario però, che quest’ultimo sia consapevole di essere per l’appunto strumentum Dei. Al cavaliere spetta dunque il compito di utilizzare correttamente il “velo”, che Allâh – sia Glorificato! - ha posto tra Lui e i suoi stessi occhi - vale a dire al-ikhtiyâr - per svelarsi: in tal modo realizzerà il suo swadharma che consiste nel rendersi ripropositore dell’Altruismo divino nella dimensione relativamente orizzontale di ad-dunyâ.

Allâh – sia Lodato! – ha previsto dunque provvidenzialmente per l’essere umano un mezzo attivo, con cui questi è in grado di svelarsi autonomamente e riuscire capire il segreto dei segreti (sirr al-asrâr), ma è comunque dato alla sua libera arbitrarietà quello di scendere se svelarsi o meno. Dice Evdokimov: nei “vasi di terra”, Dio ha deposto la sua libertà, la sua immagine. Se lo scacco è possibile, se l’ipotesi dell’involuzione è implicata nell’atto creatore di Dio, è che la libertà degli “dei”, il loro libero amore costituisce l’essenza stessa della persona umana. Il termine latino persona, come il prosopon in greco, significa maschera. In questa partecipazione, l’uomo realizza la somiglianza, l’icone di Dio, oppure la dissomiglianza, la smorfia demoniaca di una scimmia di Dio. S. Gregorio di Nissa lo dice chiaramente: “L’umanità si compone di uomini dal viso d’angelo e di uomini che portano la maschera della bestia”. Così l’uomo può ravvivare la fiamma d’amore o il fuoco della geenna; può convertire il suo sì in infinito di unioni; e può anche, con il suo no, spezzare il suo essere in infernali separazioni.[1]

Si vede sin d’ora come lo sbagliato utilizzo del libero arbitrio – al-ikhtiyâr, il “velo” posto davanti al Suo Volto -, ostacoli l’azione misericordiosa di Allâh. In ultima analisi, l’errato uso di questo “mezzo”,[2] il quale contraddistingue l’uomo dagli altri esseri viventi, comporta la comparsa del dualismo bene/male, altrimenti, operando correttamente, ossia utilizzando normalmente al-ikhtiyâr, il fatâ non farebbe altro che “permettere” a Dio di agire; diremo meglio, è Dio che agisce servendosi dell’involucro umano del caso, e sappiamo benissimo che Allâh è al di sopra dei dualismi.[3]

L’utilizzo del libero arbitrio che come si è visto può essere corretto, quindi rivolto a Dio, oppure scorretto, quando venga usato fine a se stesso, presenta delle analogie con le due facce della nafs, la cui traduzione occidentale è anima.

L’anima è un istmo, barzakh, che ovviamente presenta una bifaccialità: una rivolta verso la Luce, l’altra verso il mondo che gode di luce nella misura in cui la Luce lo rischiara. Non è quindi l’involucro umano, il corpo, la materia in sé e per sé ad essere oggetto di giudizio, quanto invece il barzakh che si orienta verso di esso: potendo infatti, scegliere tra la Luce e la foschia, esso utilizza il libero arbitrio scorrettamente, indirizzandosi verso la materia e finendo con l’eleggere a divinità il suo stesso al-ikhtiyâr.

Cambiare l’oggetto dello sguardo della propria anima è il titolo del presente studio, si tratta “molto semplicemente” del “cambiamento di mentalità”, ovviamente non inteso come mutamento di interessi et similia, che il fatâ pone in atto al fine di realizzare pienamente il proprio swadharma.

Riproporre orizzontalmente la Misericordia di Allâh, richiede previamente di esserne coscienti, ossia di utilizzare in maniera giusta il libero arbitrio, vuol dire insomma cambiare direzione di sguardo, conseguentemente mutare l’orientamento della propria nafs: tutto ciò ha un unico nome che è quello di “pentimento”, tawba.

Il “pentimento” dunque, nel suo significato informantelo, è di capitale importanza soprattutto per chiunque si avvii ad iniziare il proprio cammino in una via iniziatica (sulûk).[4] Giordani così spiega la tawba: Spesso la prima stazione della via a essere indicata è quella del pentimento (tawba) ed è, secondo l’etimologia, il “tornare indietro” da ciò che Dio ha proibito, per timore di ciò che egli ha ordinato.[5] Al-Hujwirî, come riporta lo stesso Giordani, ha distinto tre livelli del pentimento: la tawba in sé e per sé, che è ritornare all’obbedienza dopo il peccato maggiore; l’inâba, che è ritornare all’amore dopo il peccato minore e quindi l’awba, che significa ritorno dell’essere a Dio.

Diremo di più, esso è la scintilla che fa ardere quel fuoco interiore, il tapas, che sopito, attende di essere riattizzato, in questo caso dal fatâ.

Nel Tartîbut-Tasawwuf, lo Shaykh al-Akbar commenta il versetto 113 della Sûra IX, in cui si trovano le sette categorie iniziatiche. La prima di esse, che viene enumerata dal Corano, è: Coloro che tornano a Allâh col pentimento…. Coloro che vi fanno parte sono chiamati da Ibn‘Arabî Ta’ibun, i veri penitenti, persone che si ritirano dai godimenti dell’“io”, non aspettandosi nessuna ricompensa sotto tali specie.[6] Senza più un “io” c’è solo l’Altro, ma l’Altro ne è sempre stato il “possessore” in realtà: i veri penitenti si sono [allora] risvegliati dal sonno dell’ignoranza,[7] come poter dunque pretendere una ricompensa per qualcosa che non è mai stato, se non illusoriamente, in possesso proprio?

I Ta’ibun sono i fityan, i quali si ritirano dalle loro brutture interiori per lasciare agire la Misericordia di Allâh, senza pretendere nulla in cambio. Dice al-Qushayri: la radice della cavalleria [la futuwwa, la via del fatâ] è che uno deve essere sempre attento ai bisogni degli altri.[8]

La futuwwa, che abbiamo detto essere l’Altruismo divino che opera tramite il cavaliere, porta all’identificarsi nei confronti di chi essa è rivolta: l’altruistica autoidentificazione di se stesso con gli altri viene chiaramente espressa da Junayd. Quando egli fu interrogato in merito al “vero fratello”, egli rispose: “In realtà tu sei ciò, soltanto perché la forma corporea è un altro nei confronti di questo”.[9]

L’altruismo, che è anteposizione dei desideri altrui (îthâr) ai propri senza chiedere nulla in cambio, è la prova del fatto che, è il vero Possessore ad agire per il mezzo del fatâ, che da vero penitente si è ritirato dal suo ego senza pretendere nulla, poiché non ha mai posseduto alcunché.

Lo spogliarsi o il ritirarsi dalla propria egoità, corrisponde al giusto utilizzo di al-ikhtiyâr, quindi al “cambiamento di visuale”, al passaggio dalla faccia che guarda verso la foschia a quella che rimira la Luce: i Ta’ibun o fityan vedono le trappole dell’anima (puramente animale) [intendiamo il libero arbitrio scorrettamente impiegato] e si preparano a combatter(la) traendo buon profitto da tutte le facoltà umane.[10]

Il fatto che i Ta’ibun siano i fityan è corroborato dal fatto che es-siyasatu, tradotto con facoltà umane, abbia un significato principale [che è quello di] guidare dei cavalli,[11] e noi avevamo in precedenza asserito, che la cavalleria deve il suo utilizzo, in quanto sostantivo, al fatto che: l’anima è un cavallo riottoso, sellato, imbrigliato, pronto ad essere montato. Se lo inforchi ed affidi le briglie alla mano della ragione, sei salvo, ma se le abbandoni alla mano della passione, sei perduto.[12]

Immaginando di trovarci di fronte ad una equazione a due incognite e “sostituendo” i termini simili nel loro significato principale – facoltà umane = guidare i cavalli e cavallo = anima -, otteniamo che i veri cavalieri vedono le insidie dell’“anima animale”, la faccia che guarda verso la foschia, e si preparano a combatterla, jihâd akbar, guidandola, in quanto cavallo riottoso, con l’ausilio dalla mano della ragione. Parafrasando il tutto, il fatâ, il vero penitente, si accorge che al-ikhtiyâr non essendo stato usato correttamente finora, si è rivolto meramente alla passionalità del suo involucro umano, finendo per credersene il proprietario. È a questo punto che la tawba, il “pentimento”, gli fa cambiare opinione su Chi è il vero proprietario, facendogli modificare lo sguardo e l’utilizzo del libero arbitrio stesso. È Lui il padrone assoluto di ogni cosa!

Ma il concetto stesso di pentimento include necessariamente un sentimento di dolore per quanto compiuto di difforme. A questo proposito Rûmî dice che è il dolore a guidare l’uomo in ogni cosa. Finché il dolore, la passione e il desiderio non sorgono nel suo cuore, egli non tenderà mai verso la tal cosa, e non gli sarà mai possibile realizzare i propri desideri, si tratti di questo mondo o dell’altro, […]. Fino a quando non sentì i dolori del parto, Maria non si diresse verso l’albero della felicità. “I dolori del parto la spinsero verso l’albero dei datteri” (Cor., XIX, 23). Il dolore la spinse verso l’albero, e quest’albero, che era rinsecchito, incominciò a produrre frutti. Il corpo assomiglia a Maria, e ciascuno possiede in sé un Gesù. Se sperimentiamo in noi questo dolore, il nostro Gesù nascerà.[13]

I fityan, Ta’ibun, nutrono il fermo proposito di fare la grande guerra santa per mezzo dell’integrità indicando il cammino da percorrere, esteriormente con le buone opere, e interiormente con un nobile carattere.[14] Quando parliamo infatti, di futuwwa dobbiamo subito avere ben in mente il concetto di makârim al-akhlâq, l’eccellenza o la nobiltà nel comportamento o nel carattere, conformemente al hadîth, in cui il Profeta – su di lui la Grazia e la Pace! – ha detto: “Sono stato inviato per perfezionare la nobiltà nel comportamento”.

Se quindi, come abbiamo visto, la tawba è quella scintilla che fa bruciare il fuoco interiore del fatâ, ci si pone di fronte ora il problema di chi o che cosa abbia prodotto tale scintilla, aggiungendo da subito che la risposta non sarà così ovvia come possa sembrare di primo acchito.

Avvicinandoci alla “soluzione”, diremo che il pentimento, nel suo significato più profondo e primo, è assimilabile alla metànoia, stante a significare un “cambiamento di mentalità”. Prima abbiamo parlato di “cambiamento di visuale”, ebbene, proprio in questo consiste il cambiare di mentalità: mutare lo sguardo o cambiare la faccia, di cui abbiamo detto più sopra, equivale a dire cambiare la propria anima, nafs, che passa così dall’“anima che istiga al male” a quella detta “anima pacificata”, rispettivamente nafs al-ammara bi-l-sû e nafs al-mutma’inna.[15] Dice Evdokímov a proposito della fede cristiano-ortodossa: [essa] non si definisce mai in termine di adesione intellettuale, ma è metànoia radicale del noûs, trasformazione dello spirito operata dall’evidenza e dalla certezza vissute in una certa e paradossale “sensazione del trascendente”.[16] Quindi è cambiamento, o meglio addirittura trasformazione, di chi vive la fede. Anzi ad essere ancora più precisi, diremo che Evdokímov si riferisce al realismo concreto, vissuto dallo spirito. Questo cambiamento di visuale, ne contempla ovviamente una presa di coscienza, vale a dire che si prende atto dell’esistenza di Dio nell’anima, ciò che S. Gregorio di Nissa chiama “sentimento della parusia”, parlando anche del “sentimento di Dio” e del “senso di Dio” (epignosi).[17]

Il change of minds, la tawba, include il sotterraneo pericolo che si pulisca lo specchio per poi indirizzarlo non verso la Luce bensì verso qualcosa di altro. Il Corano dice a tal proposito: Rivolgi il tuo volto alla religione come puro monoteista, natura originaria che Allâh ha connaturato agli uomini, non c’è cambiamento nella creazione di Allâh. Ecco la vera religione, ma la maggior parte degli uomini non sa.[18] Lontani da quegli “inviti” a costruire un Dio ad personam, spogliato di metafisica e rivestito di umanità,[19] che porta ad un rapporto intimista e solitario[20] con la Divinità, invitiamo umilmente a cambiare mentalità, leggi anima o sguardo o volto, indirizzandola verso Dio.

Davanti a un Dio senza dottrina e senza misteri, solo sentimento ed anelito all’ascolto, quasi una mistica della modernità laica, di fronte a una religiosità priva di autorità riconosciute, sorta di anarchismo fideistico[21], sentiamo la domanda divina risuonata nell’Eden e rivolta ad Adamo: “Dove sei?”,[22] cui facciamo seguire subito la parte finale della risposta: “[…] e mi sono nascosto”.[23]

Ritorniamo per una frazione di secondo indietro, e diciamo che qualsiasi mutamento o cambiamento è un’azione, la quale necessita di un agente o di una sua causa per il solo fatto di “esistere”. Per quanto riguarda la metànoia o tawba, ebbene, la sua causa generandi è ritrovabile nel passo della Genesi appena riportato. Segnaliamo da subito pertanto, che la domanda di Dio rivolta ad Adamo è assimilabile all’“anima che si biasima”, nafs al-lawwama,[24] la quale mette in moto il processo catartico di ritorno al Centro del proprio essere, finalizzandosi nel raggiungimento dell’“anima pacificata”. L’“anima che si biasima” viene dunque a corrispondere al giusto utilizzo del libero arbitrio, che porta a lasciare spazio all’Agire divino, poiché è stata cambiata la visuale, perché la bifaccialità del barzakh è stata risolta a favore del “suo volto” che guarda la Luce.

Questo implica che, è unicamente la realizzazione della Sua Presenza, che fa conseguire il Suo ritorno, come a dire che la tawba del fatâ facilita il ritorno del Signore alla signoria sull’essere dello stesso fatâ, che diventa quindi attualmente e veramente cavaliere o fatâ perché ne è divenuto consapevole; e non è forse scritto che “Egli è con voi ovunque voi siate. Allâh osserva quanto voi fate”?[25]

L’anima può pentirsi in ogni momento, perché la porta del pentimento è sempre aperta, almeno fino a quando non inizia l’agonia della morte. Ciò equivale a dire quanto scritto più sopra, ossia che Allâh è sempre presente in noi; al cavaliere pertanto la futuwwa prescrive di opporsi ai desideri (passionali) dell’anima per giungere attraverso il legame con questa a svelarne le vie d’azione.[26]

Accade spessissimo che, invece, molti leggano soltanto questo passo dell’Antico Testamento, senza probabilmente cogliere chi è realmente il destinatario nella domanda posta dal Signore, ovverosia che Adamo siamo noi e che è a noi che Dio chiede dove siamo.[27] Nella Sua misericordia, Egli ha già provvisto per l’essere umano quella scintilla interiore, di cui l’uomo è già in possesso ma che soffoca nelle sue pretese titaniche. Ogni qual volta in cui Egli ci pone una domanda di questo genere, “Dove sei?”, non lo fa, affinché l’uomo Lo metta a conoscenza di qualcosa che ignora: contrariamente l’Onnisciente lo provoca per ottenere una reazione che lo riporti a Lui.[28]

Questa domanda divina è insomma l’“anima che si biasima”, al-ikhtiyâr correttamente impiegato, il “volto” dell’istmo che guarda verso la Luce. Esiste infatti, un altro tipo di domanda demoniaca, una falsa domanda che scimmiotta [quella] di Dio, la domanda della verità. La si riconosce dal fatto che non si ferma al “Dove sei?” ma prosegue: “Nessun cammino può farti uscire dal vicolo cieco in cui ti sei smarrito”. Esiste un ritorno perverso a se stessi che, invece di provocare l’uomo al ravvedimento e metterlo sul cammino, gli prospetta insperabile il ritorno e così lo inchioda in una realtà in cui ravvedersi appare assolutamente impossibile e in cui l’uomo riesce a continuare a vivere solo in virtù dell’orgoglio demoniaco, dell’orgoglio della perversione:[29] è il libero arbitrio scorrettamente impiegato.

Il nascondersi tra le piante dell’Eden da parte di Adamo simboleggia il tentativo di occultamento dell’uomo di fronte agli occhi di Dio: chiamato “primordialmente” a seguire in tutto il suo Signore, egli trasforma la sua vita stessa in un congegno di mascheramento. Si ingenera così una situazione in cui l’essere umano non può sfuggire all’occhio di Allâh ma , cercando di sottrarvisi, si nasconde in realtà a se stesso: “In verità Noi creammo l’uomo e sappiamo quello che gli sussurra l’anima dentro [pensiamo ci si riferisca a nafs al-ammara bi-l-sû] e siamo a lui più vicini della sua stessa vena giugulare”.[30] Anche in questo vano tentativo dell’uomo di celarsi a Dio, Egli dimostra una volta di più la Sua Misericordia: invertire il senso di marcia non è poi così difficile, perché Lui gli è più vicino della stessa [sua] vena giugulare. È scritto nel Corano infatti, che “Dovunque vi volgiate là è il Volto di Dio”.[31] Assume dunque particolare rilevanza, essendo strettamente propria all’essere umano, l’intenzione, niyya, in cui la dualità viene a scomparire, ossia solo l’intenzione del fatâ di svelarsi dal suo libero arbitrio fino poco prima usato scorrettamente, potrà portare alla cessazione del dualismo ego/Dio. D’altronde la dualità concerne ciò che è derivato, ma la radice è una. Se si considerano i loro stati d’animo, le loro azioni e i loro discorsi, gli Shuyukh sembrano molteplici; tuttavia, per quanto concerne l’intenzione in tutti loro vi è un unico movente: la ricerca di Dio.[32]

Smesso di fuggire, si invera quella “metamorfosi intellettuale” che è la tawba, la quale pienamente realizzata, lo porta a riconoscere la sua dipendenza ontologica dal suo Signore e quindi a compierne il Suo volere, anche se in realtà è Lui che agisce. È stato detto infatti, che lo scopo della creazione è il ricordo di Dio.[33]

S. Agostino, relativamente al pentimento, ha parlato di reformamini in novitate mentis,[34] perché una “nuova mente” governa l’uomo pentito: è la Mente, che è probabile non si trovi più fisicamente nella testa dell’essere umano bensì nel suo cuore, da sempre ricettacolo della Sakina. È allora molto interessante notare come Ibn‘Arabî, parlando dei Ta’ibun, sostenga che questi sono chiamati […] i “sorveglianti” (naqîb, plurale nuqabâ) che fanno emergere quanto celano le profondità dell’anima,[35] perché, da NQB regnare e sorvegliare, in loro regna o governa Qualcuno che è emerso dalle profondità dell’anima.

Richiamando la differenza stabilita da Platone tra il comprendere (suniénai) e l’apprendere (manthànein), risulta chiaro come il Pastore di Hermas abbia ragione nell’asserire che il pentimento è una grande comprensione, è la catarsi di un soggetto, l’uomo, dallo stato di stolto (afron) a quello di essere dotato di intelletto (noûs). Va da sé dunque  che la “catarsi etica”, che è la purificazione dalle passioni, si completa in quella diciamo ontologica, che è sostanzialmente guarigione della natura. Stiamo parlando del ristabilimento della forma originaria, della restaurazione dell’immagine archetipica (fitra).[36]

Ogni termine contenente la particella con implica una relazione binaria: nel caso che abbiamo di fronte, sottende un rapporto tra l’umano e il divino. Tali relazioni, perché ogni parola è relazionata all’idea che la informa, vanno lette in chiave di trapasso dall’umano al divino, per cui vi è insito un senso di “riunione”, con-gress, o meglio di unificazione dal duplice all’unità. Il “diventare uno” (eko bhû) è proprio quello a cui ci si riferisce nel senso erotico di unificazione attraverso la copula. In termini indiani ci riferiamo all’accordo nuziale o unanimità dell’io elementare con il presciente Spirito solare in un’unione che trascende la consapevolezza di essere rispettivamente interno ed esterno: la fusione del Re Esteriore con il Saggio Interiore, il Regnum con il Sacerdotium.

Se metànoia, quindi tawba, significa trasformazione dell’intero essere, perché come ebbe a dire Parmenide “Essere e conoscere sono una sola e stessa cosa”, allora pentirsi vuol dire propriamente diventare un altro uomo e un uomo nuovo, cosicché risulta evidente ciò che ha detto S. Paolo: “siate rinnovati nello spirito della vostra mente”.

A ben guardare, quando l’uomo si pente, questo avviene perché così potrà agire in maniera “avveduta”, catà lògon usa Platone: in ogni caso però egli ha agito conformandosi ad un consiglio.[37] Chi sarà mai stato a consigliarlo? Socrate avrebbe risposto così: Quando stavo per attraversare il corso d’acqua, mi venne il segno che abitualmente mi dà lo spirito tutelare e credetti di udire da esso una voce che sconsigliava […].[38] Applicato a metànoia, pensiamo che coincida con la domanda edenica e con la nafs al-lawwama.

Addentrandoci di più, vedremo che la domanda di Dio proviene dal Lògos (la Ragione che parla), dal Noûs (la Mente), dal Theiòtatos (la Parte più divina) o dal Crâtistos (dalla Parte che governa): chiamiamola anche Anima Immortale, ma essa “è il nostro vero Sé”.[39]

Una divinità immanente è in noi, quella a cui dovremmo rendere servizio, quella che è la vera proprietaria di noi, è l’“Anima dell’anima” di Filone. Fino a che l’uomo vive, il Sé immortale dimora in lui ed è quest’ultimo propriamente, che nel momento della nostra morte, noi esaliamo come Spirito (santo).Se nell’incombenza della nostra morte, ci chiederemo in chi quando “uscirò”, andrò a finire,[40] risulterà essere determinata se noi prima della nostra fine avremo capito o no Chi siamo,[41] perché davanti a Dio due “Io” non hanno posto. Tu dici “Io” e anch’Egli dice “Io”; o muori tu davanti a Lui, oppure è Lui che dovrà morire davanti a te, affinché ogni dualità scompaia. Ma né oggettivamente né soggettivamente Egli può morire. Perché “Egli è il vivente, che non muore mai” (Cor., XXV, 58). Ha tanta grazia che se Gli fosse possibile morire morirebbe per te, in modo da abolire la dualità. Dal momento che la Sua morte è impossibile, muori tu, affinché Egli si manifesti in te e la dualità sia eliminata.[42]

Ci preme comunque sottolineare come la conoscenza di Allâh non esiga né l’estinzione dell’essere né l’estinzione di questa stessa estinzione. Questo è dovuto al fatto che le cose stesse non hanno essere e quindi ciò, che non ha essere, non può dunque nemmeno estinguersi, poiché l’estinzione presuppone giocoforza che vi sia stato precedentemente essere. Se noi ci conosciamo come colui che non è e colui che non cessa di esistere, allora conosciamo Allâh.

La futuwwa è nell’abbandonare ogni cosa nelle mani di Dio![43]

 


 

[1] P. Evdokimov, La conoscenza di Dio, Roma, 1969, pp. 35-36.

[2] Il “velo” viene infatti, usato dal fatâ per svelarsi: è quindi propriamente un “mezzo” nelle mani del cavaliere.

[3] È scritto nel Corano a proposito del libero arbitrio, che ovviamente influisce poi sull’agire: “Il tuo Signore crea ciò che vuole e sceglie ciò che vuole; a loro invece non appartiene la scelta. Gloria ad Allâh! Egli è ben più alto di quello che Gli associano! (Cor., XXVIII, 68).

[4] Cfr. Al-Ghazâlî, L’Unicità divina e l’abbandono fiducioso, Rimini, 1995, pp. 6-7.

[5] D. Giordani, La via e il metodo, p. 30 in P. Urizzi, Sufismo, Bologna, 2000, n. 3.

[6] Shaykh al-Akbar, Le categorie dell’iniziazione, “Rivista di Studi Tradizionali”, n.  , p. 78, n. 9.

[7] Ivi.

[8] Al-Qushayri, Principles of Sufism, Berkeley, 1990, p. 214.

[9] R. Gramlich, Die Schiitischen Derwischorden persiens. Zweiter Teil: Glaube und Lehre, Wiesbaden, 1976, p. 309.

[10] Shaykh al-Akbar, Le categorie dell’iniziazione, Riv. Studi trad., n.   , p. 79.

[11] Ivi, nota 10.

[12] D. Grill, Le Kitâb al-inbâh ‘alâ tarîq Allâh, Annales Islamologiques, t. XV, 1979, p. 124.

[13] Rûmî, Il libro delle profondità interiori, Milano, 1996, p. 41.

[14]Shaykh al-Akbar, Le categorie dell’iniziazione., Riv. Studi trad., n.   ,  p. 79.

[15] Rimandiamo per la prima al Corano, XII, 53; per la seconda alla Sûra LXXXIX, 27.

[16] P. Evdokímov, La conoscenza di Dio, Roma, 1969, p. 17.

[17] “Vi è un certo tatto dell’anima col quale essa tocca il Verbo”.

[18] Cor., XXX, 30.

[19] Il che potrebbe configurare il reato di associazionismo (shirk).

[20] Non ci riferiamo ovviamente alla categoria iniziatica e sommamente importante degli afrâd.

[21] Sembra sempre più imminente l’“ufficializzazione” di un Catto-Buddhismo, ibrido new age per una religiosità da mura domestiche, rassicurante, priva di rinunce ed ascesi, piluccante dalle tradizioni millenarie solo ciò che può essere armonizzato con l’affannoso status occidentale.

[22] Genesi, III, 9.

[23] Genesi, III, 10.

[24] Cfr. Cor., LXXV, 2.

[25] Cor., LVII, 4.

[26] F. Skali, Il libro della cavalleria, Roma, 1990, p. 142.

[27] Cfr. Martin Buber, Il cammino dell’uomo, Torino, 1991, “Ritorno a se stessi”.

[28] Ricordiamo a fianco di quella che è la scintilla, come l’abbiamo definita, che fa riardere il tapas interiore dell’uomo, vi è anche, una volta che appunto il fuoco sia stato attizzato, un ricordo di Dio, dhikr, che permette all’essere umano di nominare Dio e quindi di renderlo presente. È infatti assolutamente vero, che sia l’esicasmo che il dhikr siano concepiti come eucaristia interiore della presenza di Dio, adottando qui il punto di vista cristiano, fornitoci da Evdmokimov. Cfr. P. Evdmokimov, La conoscenza di Dio, Roma, 1969, p. 21. Segnaliamo del pari, che il ricordo in esame è propriamente il ricordo del patto primordiale tra Allâh e i germi della specie umana tratti dai lombi di Adamo. In questa ottica, il peccato consiste in anomia, disordine, trasgressione del limite normativo che costituisce, in ultima analisi, lo stesso essere umano, perciò confusione profonda degli stati ontologici della natura.

[29] Martin Buber, Il cammino dell’uomo, Torino, 1991, p. 24.

[30] Cor., L, 16. Il cambiamento di mentalità coincide con il conoscere se stessi, vale a dire conoscere il proprio Sé. Si tratta dunque non di conoscere qualcosa su Dio bensì di “avere Dio in sé”. Cfr. anche A. Madonna, “Quali parole vi aspettate che aggiunga?”, Firenze, 2001, p. 121. nota 1.

[31] Cor., II, 115.

[32] Rûmî, Il libro delle profondità interiori, Milano, 1996, p. 43.

[33] Rûmî, Il libro delle profondità interiori, Milano, 1996, p. 263.

[34] S. Agostino, Confessioni, XIII, 13.

[35] Shaykh al-Akbar, Le categorie dell’iniziazione, Riv. Studi. Trad., n.   , p. 80.

[36] Ricordiamo che Origene fa derivare l’anima, psykè, da psychos, freddo, raffreddamento di quel tapas che si tramuta nella lontananza da Dio. Così l’uomo esteriore è non più che una degradazione dell’uomo spirituale. La vita cade nell’esistenza temporale e materiale; lo spirito- nôus diviene anima e comincia l’ascensione verso il suo stato primitivo. Bisogna incominciare con l’acquistare la conoscenza di se stesso e intraprendere la lotta contro le passioni – pathe – per raggiungere l’apàtehia, facendo posto così a Dio nel proprio cuore.

[37] Segnaliamo che il consiglio è “normalmente” fornito dal Sacerdotium a tutto favore del Regnum: è la trasposizione sul piano macrocosmico, legato alla struttura di una società corretta, del rapporto divino/umano. Questo dovrebbe dissipare ulteriormente le incertezze in merito alla effettiva dipendenza del secondo nei confronti del primo.

[38] Socrate, Fedro, 242, B.

[39] Platone, Leggi, 959, A.

[40] Prashna Up., VI, 3.

[41] Bhagavad Gîtâ, IV, 40.

[42] Rûmî, Il libro delle profondità interiori, Milano, 1996, p. 45.

[43] F. Skali, Il libro della cavalleria, Roma, 1990, p. 147.

 

Da: http://www.estovest.net/rtf/DeLuca_pentimento.rtf

 

 

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