(conferenza nell'ambito del convegno su Mistici e Scienza sacra
Promosso da Simmetria presso il Centro "Russia Ecumenica")
Desidero ringraziare prima di tutto l’Editore Simmetria nella persona
di Claudio Lanzi per avermi invitato oggi a parlare e ringrazio
naturalmente anche Russia Ecumenica per l’ospitalità che mi viene data
Nell’economia di questo incontro, a me spetta il compito difficile di
relazionare sulla mystica musulmana, ma la difficoltà risiede appunto
nel parlare di e sulla mystica,
possibilmente dicendo qualcosa di sensato e di utile.
Data la vastità dell’argomento, concentrerò la mia esposizione
fondamentalmente sull’etimologia del termine sufismo, su alcune
osservazioni in merito ad una tra le figure apicali del sufismo stesso
ovvero Ibn ‘Arabî e quindi spenderò qualche parola sui due libri editati
da Simmetria e dei quali ho curato la traduzione.
La cronistoria del sufismo, benché indubbiamente interessante,
risulta troppo vasta ed articolata perché io la possa affrontare in
queste sede e pertanto sarà evitata. Nel caso in cui, però, nel corso
della trattazione si richiedano tali approfondimenti, sarà mia cura
fornirli, ben inteso nel limite delle mie possibilità.
Due precisazioni
Prima di iniziare lo svolgimento della tematica a me riservata,
desidero anteporvi due puntualizzazioni.
La prima è denuncia uno degli aspetti più pericolosi e deteriori del
mondo attuale: la cosiddetta moda, laddove questo termine identifica un
atteggiamento necessariamente instabile che vanifica il contenuto di
qualsiasi cosa a favore della superficialità o meglio ancora della mera
evidenza visibile della stessa. La visione, qui, non è chiaramente un
atto di cognizione (il video cusano) bensì solo un piacere
edonistico che non trascende mai la differenza, in realtà sempre
illusoria, tra oggetto e soggetto.Nel mondo in cui viviamo, pertanto,
quasi tutto se non tutto cade sotto gli strali della moda proprio perché
la stessa moda, intesa come termine, è in realtà il frutto di quell’instabilità
interiore, che costringe l’uomo a rincorrersi senza mai trovarsi alla
fine. Ecco perché oggigiorno la mystica è anche oggetto di moda: mi pare
evidente, infatti, come un certo tipo di interesse per il sufismo prima
e l’esicasmo ora, confermino una tendenza esotica propria di una certa
psicologia spirituale, che pretende di arrivare alla fine senza mai
partire dall’inizio.
La seconda precisazione attiene al mio stesso intervento ed alla sua
stessa ratio: non cercherò, infatti, di attestare e nemmeno di
promuovere una linea sincretistica, in forza della quale le tre
“mistiche” monoteistiche sarebbero indistintamente uguali. All’opposto,
invece, considero come presupposto del mio intervento proprio le
differenze insite in ognuna di esse e questo perché si possa articolare
un discorso sensato. Le differenze sostanziali sono infatti, a mio
parere, la prova dell’Onnipotenza divina e sottacerle.
Etimologia di sufismo
Quando si parla di sufismo si usa in maniera cosciente o meno, la
traduzione europea del termine arabo tasawwuf, la cui corretta resa è
“iniziazione” e ciò non può non fare venire in mente anche tutta quella
tematica, problematica talora, che coinvolge ed avvolge l’iniziazione
cristiana stessa.
Se pertanto il termine sufismo è tratto da una delle
possibili derivazioni del termine arabo tasawwuf, è certo, però, che il
sostantivo europeizzato ha sempre indicato la mystica islamica, o più
esattamente la realtà più profonda ed interiore della religione fondata
sul Corano e predicata dal Profeta Muhammad.
Vorrei aprire qui una piccola parentesi, che chiuderò subito.
Alcuni studi, approfonditi e certamente utili, hanno affermato e
rivendicato che la mystica in quanto tale potrebbe dirsi solo nel
Cristianesimo, con ciò facendo non riconoscendola all’interno delle
altre tradizioni abramiche. Personalmente, ma certamente posso anche
sbagliare, ho l’impressione che lo studio della mystica in sé andrebbe
impostato sulla base terminologica della parola stessa e non invece su
una della pletora delle sue fenomenologie. Il rischio che intravedo,
infatti, consisterebbe nel definire una volta e per sempre i contatti
tra umano e divino e con ciò limitando Dio stesso nel Suo manifestarsi
attraverso le Sue teofanie.
Riprendendo dunque il discorso sulla derivazione etimologica di
sufismo, ebbene questo possiede una triplice derivazione etimologica.
1. La prima, forse
la meno conosciuta, vede i sufi (coloro che hanno realizzato la
via del sufismo) derivare il loro nome da un certo
al-ÝawÅ ibn Murra, detto anche “sufa”.
Questa persona era vissuta cinque generazioni prima del Profeta e
sarebbe stata la prima a votarsi completamente al culto esclusivo di Dio
prestando servizio nel Tempio della Mecca. In questo senso,
al-ÝawÅ ibn Murra è capostipite
di un lignaggio sacerdotale, che permetteva l’inizio del Pellegrinaggio
da ‘Arafa. I suoi discendenti, chiamati anch’essi “sufa”, portavano un
toupet di lana per significare appunto il loro servizio nella
Ka‘ba.
2.
La seconda alternativa, in realtà quella più quotata,
deriva il termine sufismo proprio dal materiale di quel
toupet poc’anzi citato. Il materiale di cui era fatto, era lana,
parola che in arabo si rende con sûf. Sorge quindi una certa
continuità tra la prima e la seconda etimologia come si può vedere.
3. La terza,
infine, ricava sufismo dalla parola safâ’ – «purezza» – o anche da
suffa, con riferimento agli Ahl al-suffa, la «Gente della veranda»,
ossia alcuni compagni del Profeta che vivevano da asceti in un’area
della moschea di Medina, dediti esclusivamente alla scienza sacra, agli
atti di culto e al «ricordo di Dio» (dhikr).
Lo spettro di spiegazioni offerto, è tale da farci già intuire la natura
essenziale del sufismo: esso consiste, infatti, in una Via (tarîq)
- o «procedimento» (sulûk) - per pervenire alla «Prossimità del
Principio divino». Per conseguire questo scopo, il «viandante» (sâlik)
si sbarazza progressivamente di «tutto ciò che è altro che Dio» (kullu
mâ siwâ ’Llâh). Ecco che questa kenosi (svuotamento) della
propria individualità coincide con la «purezza» (safâ’)
interiore del realizzato (sufi), che Junayd al-Baghdâdî
definirà come «colui che Dio fa morire a se stesso e vivere in Lui».
L’origine dell’espressione rimane oggetto comunque di discussione, ma
tutti i maestri del sufismo sono invece concordi nel far
risalire la sua stessa origine al Libro di Dio (il Corano), agli
insegnamenti e alla pratica del Profeta (Sunna), fonti primarie
di ogni insegnamento islamico tradizionale.
È questo un passaggio importante, giacché non v’è autentico sufismo al
di fuori di un’autentica adesione all’Islam, il quale è caratterizzato
dalla Legge religiosa, che ne è l’aspetto esteriore (la «scorza»), e dal
sufismo che rappresenta invece quello interiore (il «nocciolo»).[2]
L’apogeo del sufismo risiede poi nella ascensione celeste del Profeta
fino al Trono di Dio, dove ebbe la visione del Suo volto glorioso di
luce e questo avvenne prima dell’Egira. Risulta, dunque, più agevole
capire come mai ogni “via spirituale” abbia inizio dal Profeta e su
quali basi si fondi la trasmissione della sua baraka – influenza
spirituale – attraverso la figura del maestro. La successione dei
maestri che a ritroso arrivano sino al Profeta, viene chiamata silsila
(catena) e ne costituisce la garanzia di ortodossia.
Una sintetica presentazione di Ibn ‘Arabî
Contestualizzato il sufismo, anche se sono conscio della vastità che
ancora andrebbe detta, ritengo importante affrontare succintamente
quello che ne è, forse, il rappresentante più illustre: ovvero Ibn
‘Arabî. Non farò, però, un excursus apologetico sul “più Grande dei
Maestri”, come viene anche chiamato nell’Islam, dato che è pressoché
sterminata la sua produzione e poiché studiosi ben più illustri e capaci
hanno già prodotto eccellenti biografie.
Cercherò di concentrarmi, invece, su quella che definisco “influenza
akbariana” per distinguerla da quella “scolastica akbariana”, che intesa
in senso deteriore, costituisce un’anomalia della prima. Il motivo
dominante è l’estrema vitalità spirituale di Ibn ‘Arabî, che si diffuse
in tutto il mondo islamico ed oltre e che proprio per questo, forse,
attirò le accuse dei suoi maggiori avversari sia di un tempo che
odierni, sempre pronti ad accusarlo di innovazionismo (bid‘a) e
quindi di eterodossia. In realtà, per una certa parte dell’Islam è tutto
il sufismo ad essere giudicato eterodosso, a causa di quel pregiudizio
legato a tutto ciò che non le è possibile comprendere (ma questo è un
fenomeno che non conosce confini e che non è merce di esportazione di
una tradizione piuttosto che di un’altra).
Ora, il pensiero akbariano ha come chiave di colloquio l’idea della
wahdat al-wujûd, che si rende anche come “unicità dell’esistenza”.
Va subito, però, precisato che tale espressione non fu coniata dallo
stesso Ibn‘Arabî, quanto proprio dal primo dei suoi discepoli,
al-Qûnawî. L’errore, che molti hanno commesso e che ne ha decretato
l’anatemizzazione come dottrina eretica, risiede nell’averla scambiata
per un panteismo. Diametralmente opposto è, invece, il pensiero
akbariano anche se, per la coincidentia oppositorum, ad una
lettura superficiale potrebbe sembrare identificarvisi. Scopo della
vulgata akbariana non è, infatti, identificare il cosmo nella sua
integralità con Dio, bensì affermare che non vi è altra realtà che la
Realtà divina. In questo senso il wujûd, l’essere, non
appartiene in alcun modo alle cose esistenti, ma appartiene
esclusivamente al Principio supremo (dhât al-Haqq).
Dunque, se solo Lui è, in quanto Realtà, ne deriva che l’idea
di esistenza, come noi la percepiamo e l’applichiamo, coincide con
l’idea di ente, ovverosia con la visualizzazione della copula è.
Questo è anche il perché la “coseità” (shay’iyya) è solo
partecipe dell’essere del Principio che le dona l’“essere relativo” (al-wujûd
al-idâfî). Con riferimento a quest’ultima, si parla, appunto, di
mawjûd, ossia “ciò che è esistente”.
Il pensiero teandrico di Ibn‘Arabî, per una trasposizione metafisica del
Tawhîd – l’Unicità divina – considera, quindi, come unica
Realtà quella del Principio divino e questa, per la dinamica implicita
nella sua onnipresenza, genera un insieme di relazioni interne,
costituenti i Suoi Nomi (asmâ’), espressione della perfezione
dell’Essenza (al-dhât) – per inciso, si segnala qui l’estrema
affinità tra la “Scienza dei Nomi” akbariana e le “énergeiai” di
Palamas.
Ibn‘Arabî, quindi, li ritiene in possesso di una realtà apofatica
rispetto al mondo creato: benché Dio non sia i Suoi Nomi, neppure questi
sono qualcosa di diverso da Lui. Si potrebbe sostenere che essi siano
gli archetipi increati ed eterni degli enti concreti, ma affinché ciò
sia corretto, è necessario aggiungere che fra Dio e i Suoi Nomi non
esiste alcun tipo di distinzione. I Nomi divini sono, allora, le radici
divine del cosmo rispetto al nostro sapere e tramite esse, Dio si
manifesta nel mondo creato.
Quanto appena visto, porta direttamente al concetto di passaggio
dall’Uno al molteplice e quindi all’esistenza condizionata di ciò che è
altro da Dio (mâ siwâ Allâh): sappi che l’universo è tutto
ciò che è “altro da Dio” e questo non è altro che i “possibili”, sia che
esistano o non-esistano (nel mondo esteriore) ... Lo statuto di
“possibile” è loro inerente sia che esistano o no; e ciò costituisce il
loro statuto ontologico (Futûhât, III, p. 443, citato in
C. Addàs, Ibn‘Arabî et
le voyage sans retour, p. 88).
Il possibile è, pertanto, semplicemente non-esistente ed esso è la forma
apparente che si staglia tra colui che vede e lo specchio: non è né
colui che vede ma neppure altri che lui. Infatti, la forma del possibile
è la forma che l’Essere vede di sé, quando si specchia nel “non-essere”.
L’unica cosa che può essere concettualmente osservata del possibile, è,
quindi, il suo passaggio dalla non-esistenza all’esistenza, con il quale
esso diventa mondo esperibile empiricamente, senza che questo possa far
pensare minimamente ad una co-eternità dei possibili a Dio.
Nel pensiero akbariano, quindi, la creazione è un atto volontario,
libero, temporale ed unitario, mediante il quale Dio crea qualcosa come
un’eco indistinta del proprio Essere. Questo va, però, di pari passo con
l’idea di creazione infinita, che non solo è logicamente concepibile (la
Volontà divina può essenzialmente creare ad infinitum), ma non
obbliga nemmeno ad ammettere una modificazione dell’Essere di Dio.
Il pensiero di Ibn ‘Arabî non si esprime allora in una teologia
razionalistica di tipo peripatetico e neppure in una cosmogonia
emanazionistica, bensì in un’autentica teofania, in forza della quale
Dio appare con amorosa ansia di auto-manifestazione, di conoscenza e di
amore. Da qui il motivo che spinge Ibn ‘Arabî, nel momento di indicare
l’attributo mediante il quale Dio crea, a ricorrere al Nome divino il
Clemente (al-Rahmân).
La creazione ex-nihilo è, quindi, frutto innanzi tutto della
clemenza e misericordia divine, cioè del suo amore. In questo senso
anche la stessa idea di creazione divina ad infinitum è
spiegata in maniera soddisfacente: la premura di Dio nei confronti del
creato è tale che la proiezione degli archetipi, corrispettiva alle
cose, si rinnova continuamente.
In questa vera e propria enciclopedia sapienziale che è Ibn ‘Arabî, si
collocano i due libri pubblicati da Simmetria e di cui ho l’onore di
averne curato la traduzione. Opere di insigni studiosi stranieri, che
godono di eccellente visibilità internazionale, ambedue si riferiscono
direttamente o indirettamente alla figura ed alla dottrina akbariana
finora sommariamente esposta.
La presentazione dei due libri
Il primo dei due testi s’intitola LA FILOSOFIA MISTICA E LA RICERCA
DELLA VERITÀ ed è opera di Andrey Smirnov, autorevole ed apprezzato
accademico russo. Il libro è una miscellanea di quattro studi, tenuti
insieme dal fil rouge che è la filosofia mistica, ossia la ricerca della
Verità. Smirnov in questo libro esamina la causalità ed il concetto di
Verità nel pensiero islamico e confronta Ibn ‘Arabî con Nicola da Cusa e
Nicolaj Berdieav.L’altro testo, invece, è L’ARCA DELLA CREAZIONE ed è
contraddistinto dalla ricerca comparativa di Pablo Beneito, volta a
dimostrare come la merkavà ebraica sia identica al markab («veicolo»)
islamico: ambedue sono, infatti, veicoli per giungere alla Presenza
divina.
Il carattere accomunante questi due testi è dato da quella “filosofia
mistica”, che è ravvisabile sia Ibn ‘Arabî, sia nel Cristianesimo come
in altre tradizioni. Quanto appena pronunciato, ci ha fatto addentrare
in un terreno pericoloso, che spesso è prigioniero di irenismi: ma è
proprio di un certo stato di consapevolezza e di esperienza, quello di
riconoscere l’Uni-totalità della Realtà che trascende ogni singolo
tentativo di spiegare la Realtà solo ed esclusivamente con il lessico di
una data tradizione. Pertanto vorrei riflettere proprio su questa
“strana” locuzione, ovvero “filosofia mistica”. Una decisione questa
parzialmente indotta anche da quelli che si possono definire e
riconoscere come “archetipi della non-credenza”.
Quali sono allora questi “fenomeni”?
Essi sono: le contraddizioni dello scetticismo, il pessimismo manicheo,
l’antropocentrismo pelagiano e l’integralismo donatista.
La locuzione “filosofia mistica” è talmente inusuale in Italia da essere
antinomica per quelli che ritengono, invece, che vi possa esserci solo
un’antitesi irriducibile tra questi due termini. Credo, però, che gli
etimi greci e latini, non possano creare dubbi: la filosofia non può che
essere tensione verso la sapienza – Sophia –, che va
sperimentata per essere convalidata.
Filosofia mistica pertanto.
Punto imprescindibile è che la Verità sapienziale non può essere
prodotta dal soggetto umano, bensì solamente ricordata. Infatti, lo
stesso etimo di Alétheia – Verità – indica il “non-oblio”, cioè
il “ricordo”. Se quindi Verità non è opera dell’ingegno umano, allora
vengono meno tutte quelle critiche che, nel parlare di Essa, vietano di
seguire linee nuove o di ridefinirle. La fedeltà ai principi è la
fedeltà alla Verità e non coincide con la fedeltà ai confini formali,
che invece contraddistingue gli enti o comunque ciò che è contenuto
nella Verità.
La “filosofia mistica” è, senza fare troppi giri di parole, la
sublimazione della visione diretta con la speculazione intellettiva,
sempre non perdendo di vista la dimensione sensoriale che partecipa sia
della visione diretta sia della speculazione (la visione diretta è la
quintessenza dell’esperienza mistica mentre la speculazione intellettiva
lo è della conoscenza).
Impostate così le cose – e ritengo che questo tipo di “classificazione”
non sia poi così ardito – non si può “vedere” se prima non si “conosce”
ciò che si vede, pena l’irriconoscibilità delle esperienze e delle
visioni. D’altro canto se ciò che si “conosce” non viene “sperimentato”
– ossia “visto” – quella conoscenza è al massimo un enciclopedismo fine
a se stesso. Infatti, la speculazione in sé rimane confinata in un suo
mondo ideale e non fornisce certezza in re, anche se è
dimostrativa.
Quindi la filosofia potrebbe da sola non bastare.
In un soggetto che non è in grado di cogliere direttamente l’essenza,
cioè un soggetto senza “mezzi” (anche quindi l’intelletto), la
conoscenza è totale dipendenza e la sua verità non è realmente
definibile a priori. Quindi è “coincidenza”. Anche qui l’esperienza
mistica potrebbe da sola non bastare.
Solo una conoscenza “per propria essenza” può essere detta vera e questa
è propriamente conoscere essenzialmente se stessi. Da ciò se ne deduce
che la conoscenza sia inscindibile dall’esperienza mistica. Ovviamente,
considerando assodato il fatto che il dato sensoriale sia necessario al
manifestarsi e della conoscenza e dell’esperienza.
In questo senso, è opportuno notare che la stessa tradizione, intesa in
modo assoluto, è sempre testimonianza come premessa oppure
testimonianza come riferimento di principio, ma in ogni caso non può
prescindere dalla “soggettività”. A me piace, infatti, considerare la
soggettività quale ricettività particolare dell’uomo nei confronti del
numinoso, ossia è l’orma di Dio nell’uomo di terra. L’unico modo per non
dipendere dalla tradizione – ciò che non vuol dire farne a meno,
perché è concretamente impossibile – è la verifica diretta.
E se quest’ultima non approdasse a nulla? La risposta sembra facile: il
fallimento della verifica diretta è accidentale con riferimento alla
tradizione e quindi a Dio.
Per quanto riguarda l’accostamento dei termini “filosofia” e “mistica”,
ritengo che le definizioni date dalla vulgata siano tanto
diffuse quanto insicure e sostanzialmente fuorvianti. Sembra, infatti,
che la filosofia sia solo l’attività autonoma della ragione che non
riconosce alcuna autorità al di sopra di sé, mentre si dimentica il suo
etimo greco, che è “amore della Conoscenza”. Bonne gré mal gré
la mistica, invece, riguarderebbe il soprannaturale, colorandosi di
emotività, dimenticando così il concetto arcaico di “mistero” (legato
alla radice del verbo greco myein), che indicava una dimensione
non tanto misteriosa quanto iniziatica, riservata a coloro che erano
stati adeguatamente istruiti, da cui mistagogia.
Ricordo invece che la fede, finché il razionalismo occidentale non fece
breccia nella teologia cristiana, era considerata un’esperienza –
empeiria. Ciò equivale a dire che non era fidarsi della
testimonianza altrui, era la vita dell’anima: fides enim est
vitae animae, scriveva S. Tommaso.
Ora, sapendo che la bipartizione in anima e corpo è relativamente
recente, essendo invece la tripartizione in corpo, anima e spirito
quella più antica e certamente costitutiva della prima, allora ci viene
restituito un uomo dotato di tre occhi, per dirla come Panikkar, tre
finestre che ci aprono alla Realtà.
Essi sono i sensi, la mente ed il senso spirituale.
L’uomo ha pertanto tre dimensioni che sono il sensibile (ta aisthêta),
il mentale (ta noêta) ed il mistico (ta mystika).
Siamo quindi di fronte ad una triplice esperienza della stessa Realtà e
per conoscere quest’ultima – “avere evidenza” per dirla con Severino –
non possiamo basarci solo su una visione colta da un solo occhio, pena
la deformazione della Realtà stessa. Questo equivale a scartare
l’argomentazione filosofica o idealista piuttosto che il riduzionismo
sensista o infine lo pseudomisticismo.
La “filosofia mistica”, come sopra presentata, è fides oculata,
fede vedente ossia triplice esperienza della Realtà: non a caso in
apertura ho sostenuto che non può esservi contrasto tra filosofia – il
mentale – e mistica – lo spirituale – giacché una non potest esse
sine alia, per dirla con S. Tommaso.
La visione dei tre sensi non esaurisce però tutta la Realtà,
perché l’avverbio tutto non esiste. Tutto è un mero concetto,
dacché noi siamo nel mistero, siamo avvolti dal mistero della Realtà che
è Dio, il Quale sta in tutte le parti per essentiam, potentiam et
praesentiam. I concetti in genere hanno una grande funzione
euristica, ma non toccano la Realtà nemmeno intenzionalmente: il
concetto, infatti, non tocca il corpo, nemmeno ciò che è individuale e
ancor di più ciò che è unico. Compito dell’uomo è invece quello di
abbracciare – toccare – la Realtà nel suo insieme senza scinderla.
Da questo posso affermare che potenzialmente ogni uomo è un mistico,
perché ognuno è capace di scoprire la Realtà intera in ciascuna delle
sue particelle.
Ma dalla potenzialità all’essere ce ne passa.
La “filosofia mistica” è l’intuizione di una realtà
non assimilabile con la ragione ma neppure in contraddizione con essa.
Non è possibile sostenere che la Realtà sia
contra-dittoria e nemmeno che potrebbe esserlo, perché per poterlo
essere, avrebbe bisogno della ragione, che non può ammettere tale
possibilità razionale. La Realtà non è quindi obbligata a rispettare il
principio di non-contraddizione.
La fede non abbisogna di una negazione assurda per essere considerata un
assoluto.
La mistica lo dice chiaramente: nella Realtà vi è qualcosa d’altro,
di cui siamo coscienti e che non è subordinato alla ragione. È un-di-più
costitutivo e non aggiuntivo. La “filosofia mistica” in quanto fides
oculata conduce alla sofianologia, all’esperienza uni-totale della
Realtà, in base alla quale Dio è nelle cose e le cose sono in Dio.
È forse curioso che questo concetto sia stato espresso in lingue diverse
e in tradizioni differenti, come Smirnov e Beneito hanno ricordato?
La risposta la fornisce Cusano: Totum in quolibet, il Tutto in ogni
cosa.
alberto de luca
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