Preliminare: il rapporto
tra Islam e sufismo.
Prima di parlare direttamente del tema
proposto ‘La contemplazione di Dio nel Sufismo’, credo opportuno
proporre alcune riflessioni preliminari per meglio comprendere la
mistica islamica o sufismo. Per un suo approfondimento ulteriore,
rimando a quanto ho scritto altrove.
La mistica islamica, o il sufismo, e’ stata oggetto di discussioni
antiche e moderne fra chi la riconosce parte della religione dell’Islam
e chi la rifiuta. Ma non c’e’ dubbio ora che la mistica islamica e’
riconosciuta’ da parte dei piu’ grandi studiosi sia occidentali che
musulmani come parte integrante dell’Islam, come una sua dimensione
essenziale (secondo il titolo di un noto libro di Annemarie Schimmel).
Basterebbe ricordare che il piu’ grande teologo dell’Islam sunnita, ,
come tale riconosciuto dalla maggior parte dei musulmani, Abû Hâmid
al-Ghazâlî (m. 505/1111) e’ stato un grande esempio di pratica e di
teoria del sufismo, tanto che nella sua summa ha messo il sufismo alla
sommita’ della vita spirituale dell’Islam. Del resto si puo’ facilmente
notare che il rifiuto del sufismo e’ avvenuto per lo piu’ ed avviene
tuttora su basi estrinseche ad esso, cioe’ per motivi
ideologico-politici.
Con questo non si nega che il sufismo, come del resto tutte le altre
scienze islamiche, possa avere subito, e di fatto ha subito l’influsso
di correnti spirituali extra-islamiche. Questo tuttavia non mette in
forse la sua originale sintesi fra la fede islamica e i vari influssi
extra-islamici. Come pure non si nega che fra il sufismo e l’Islam
giuridico, rappresentato dai dottori della legge islamica (ulema) ci
siano stati e continuano ad esserci conflitti, molte volte anche
violenti, fino al vero martirio (vedi la vicenda di al-Hallâj, 309/922).
Cio’ nonostante, oltre al fatto che conflitti simili si trovano in tutte
le religioni, nessuno puo’ dire che la religione dei giuristi, o meglio
la loro interpretazione di essa, sia la sola vera che deve essere
accettata, e quella dei mistici no. Tanto piu’ che nell’Islam sunnita
non esiste un chiara autorita’ in materia e il tutto viene deciso per un
certo consenso comune non sempre facile a definire. I sufi comunque da
parte loro hanno sempre avuto chiara coscienza di essere musulmani, anzi
di essere quelli che hanno cercato di realizzare la vera realta’ della
religione, come vedremo.
1. Problematica dell’idea di
contemplazione di Dio in Islam.
1-1. Il vocabolario sufi della
contemplazione.
Contemplare qualcosa significa vedere tale
cosa, anzi vederla con intensita’ e costanza. Questo puo’ avvenire sia a
livello puramente fisico che interiore. Quest’ultimo senso ha preso
indubbiamente il sopravvento nell’uso del termine. Anche la lingua prima
dell’Islam, cioe’ l’arabo, ha sviluppato un vocabolario simile per
descrivere tale atto di visione interiore di cui parlano i sufi.
Il termine piu’ vicino al nostro contemplare e’ mushâda (shuhûd e altri
derivati), termine che indica uno sguardo prolungato su di un oggetto.
Ma anche altri termini derivati da altre radici, come ru’ya, mu’âyana,
connessi col il termine ‘ayn (occhio), come pure i termini connessi con
nazar (sguardo). Da notare che alcuni derivativi della radice di mushâda
hanno anche il senso di testimoniare , testimone (shahâda, shahîd...),
cosi’ come il greco martyr (martire).
Questi termini applicati a Dio indicherebbero che Dio e’ ‘oggetto di
contemplazione’, di visione da parte dell’essere umano. Ma puo’ Dio
essere oggetto di visione secondo il pensiero islamico il quale
volentieri sottolinea piuttosto il suo aspetto trascendente,
imperscrutabile? Questa e’ una questione di non facile soluzione.
Intendo delinearne alcuni tratti fondamentali.
1-2. La questione della visione di Dio in
Islam.
Occorre vedere prima di tutto se
nell’Islam e’ ammessa un ‘visione di Dio’ e a che condizioni. Tale
questione e’ stata molto controversa (questio vexata) nella tradizione
del pensiero religioso islamico
a. Nelle fonti islamiche: il Corano e la
tradizione del Profeta dell’Islam, Muhammad.
Il testo coranico, com’e’ noto, sottolinea
fortemente la trascendenza di Dio, che e’ sempre al di la’ di ogni presa
umana. Contro ogni forma id antropomorfismo il Corano mette in primo
piano il mistero assoluto di Dio. Dio e’ il Mistero (ghayb) assoluto:
"Dio solo conosce il Mistero (ghayb), e a nessuno Egli manifesta il suo
Mistero" (C 72, 26). Dio e’ quindi al di la’ di ogni presa umana: “Gli
suardi non lo percepiscono, ma Egli percepisce gli sguardi, Lui e’ il
Sottile (Onnipervasivo) e l’Informato” (C 6, 103). A Mose’ che chiede di
vederlo Dio risponde drasticamente: ‘Non mi vedrai’ (lan tarânî) (C 7,
143).
Tali affermazioni sembrano negare in modo assoluto la possibilita’ della
visione di Dio in Islam. D’altra parte in un unico versetto coranico si
afferma una specie di visione di Dio nel giorno della resurrezione: “In
quel giorno ci saranno volti lieti, guardanti verso il loro Signore” (C
75, 23). Che significa? Tale versetto ha aperto la porta ad infinite
discussioni in materia.
La tradizione del Profeta dell’Islam, Muhammad, sembra offrire piu’
spunti per una possibilita’ della visione di Dio. Nei racconti del suo
viaggio notturno (isrâ’) e della sua ascensione (mi’râj) al cielo si
ammette, secondo la maggior parte delle versioni, che egli e’ giunto
alla visione diretta di Dio; ma altre versione la negano. Un famoso
hadith afferma che noi vedremo Dio come in una notte chiare vediamo la
‘luna piena’. Quindi sulla base di questi testi una certa visione di Dio
sarebbe possibile.
b. Nella tradizione teologica sunnita.
Di fronte a dati cosi’ labili e
contradittori, i teologi musulmani hanno discusso a lungo sulla
possibilita’ e le modalita’ della visione, concludendo a posizioni
divergenti. La teologia islamica classica (kalâm) ha strutturato il
trattato su Dio secondo tre livelli o piani di considerazioni.
Mu?ammad ÆAbduh (m. 1905), uno dei piu’ importanti teologi riformatori
moderni, nel suo Trattato sul tawhîd (Risâla fî l-tawhîd), nel capitolo
intitolato appunto l’Unita’ (al-wahda) riassume la dottrina classica di
Dio in Islam. L’unita’ di Dio puo’ essere considerata secondo tre
livelli fondamentali, e cioe’:
a- l’Essenza Divina (al-dhât): a
questo livello Dio e’ essenzialmente Uno, con l’esclusione di ogni
forma di composizione (tarkîb).
b- gli attributi o le qualita’ divine
(al-sifât): a questo livello ogni somiglianza (tavb¥h) fra Dio e le
creature deve essere esclusa. Dio e’ assolutamente trascendente e
nessuna somiglianza puo’ esistere fra Lui e gli altri esseri, come
dice il testo coranico “Nulla e’ simile a Lui” (laysa ka-mithli-hi
shay’, Cor 42, 11).
c- il livello dell’esistenza e delle
operazioni Divine (al-wujûd wa-l-af’âl); a questo livello Dio non ha
eguale (kuf’), ne’ associato (sharîk), ne’ oppositore (didd). Dio
(Allâh) e’ unico (farîd) nella sua esistenza e nelle sue operazioni,
percio’ Egli e’ qualificato con la qualita’ di unicita’
incomparabile (tafarrud or fardâniyya).
Attorno a tali concetti si e’ sviluppata
in Islam una profonda ed accesa controversia, che non sembra abbia
trovato una soluzione finale. I Mo’taziliti del II-III/VIII-IX per
salvare la trascendenza di Dio negarono ogni distinzione fra Essenza ed
attributi in Dio, nel senso che tali atttributi sono nomi umani per
indicare l’unica realta’ trascendente di Dio, la sua essenza. Al
contrario, per preservare il testo coranico da ogni interpretazione
troppo razionalista, i sunniti sostengono che i testi coranici
riguardanti le qualita’ divine vanno accettati cosi’ come suonano senza
chiedere troppi ‘perche’’ (bi-lâ kayfa). Quindi le qualita’ divine sono
reali, esistono in lui in un modo che non conosciamo. Gli ash’ariti, la
corrente mediana, ammette che Dio puo’ essere contemplato a partire
dalle sue azioni-effetti, per giungere ad una certa
visione-contemplazione della sua Unita’ assoluta (wahda), la sua
qualita’ fondamentale. Pero’ Dio non puo’ essere visto nella sua
essenza, questa rimane per sempre avvolta nel mistero assoluto ed
inviolabile della sua Divinita’.
In conclusione, appare chiaro che la questione dell’Unita’ divina (wahda)
e’ fondamentale nella fede e nel pensiero islamico, e quindi anche nel
sufismo, che si e’ sviluppato all’interno di tali problematiche
teologiche. Il tawhîd, che indica appunto la professione e la coscienza
della Unita’ divina (wahda), e’ pure il centro dell’esperienza e della
riflessione, e quindi anche della contemplazione (mushâhada) dei sufi.
Questi pero’, basandosi sulla loro esperienza interiore, articoleranno
in modo molto piu’ dinamico le rigide posizioni dei teologi.
1-3. La centralita' di Dio nella vita e
fede dei musulmani.
Oltre l’aspetto delle discussioni
teologiche, occorre considerare pure l’aspetto pratico e vissuto del
tawhîd, cioe’ della professione e coscienza della Unita’ divina (wahda).
Infatti, Dio per l’Islam, come dovrebbe essere per tutte le religioni,
non e’ prima di tutto un oggetto di discussioni teoriche fra teologi, ma
e’ prima di tutto una realta’ vissuta nel concreto della vita del
credente. Il nome di Dio infatti ha una centralita' assoluta nella vita
e nel parlare di ogni musulmano: Dio e' la realta' attorno cui ruota
tutta la vita del credente musulmano. Tale fatto e’ ricordato in mille
espressioni che scandiscono ogni evento della sua vita. Dai saluti
quotidiani ai momenti piu' drammatici di essa come la nascita e la
morte, sulla bocca del musulmano ricorrono spontanee espressioni come
al-hamdu li-llâh - Lode a Dio!, in shâ' Allâh - se Dio vuole! ecc.
Dall’arabo tali espressioni sono state riprese nelle lingue degli altri
popoli musulmani, come i persiani, turchi, ecc.
Questa esperienza quotidiana trova conferma e amplificazione nella
storia dell'Islam, storia ricca e complessa. Lungo tutta la sua storia
l'Islam mostra che il suo estendersi attraverso lo spazio e il tempo ha
sempre trovato il suo centro e la sua forza portante nel messaggio di
cui si sente il latore privilegiato: il monoteismo assoluto (tawhîd).
Questo e' il fattore che unifica in certo senso tutta la storia
dell'Islam, al di sopra e al di la' di altri fattori che hanno pure
contribuito alla sua crescita ed espansione. Il grande orientalista, G.
E. von Grünebaum, afferma che a differenza di altri popoli (vedi le
invasioni germaniche nell'Impero Romano), gli arabi musulmani quando
uscirono dalla penisola arabica alla conquista del mondo avevano gia'
una chiara visione della loro missione nel mondo: "L'Islam aveva fatto
degli Arabi convertiti il centro di una visione universale del mondo, e
di conseguenza, quando il tempo venne, il centro di uno stato
universale... l'Arabo musulmano aveva il suo centro di gravita' in se
stesso. Il suo era un popolo eletto, e il dominio appartiene agli
eletti". E specificando meglio, egli afferma che questa visione
universale del mondo era centrata proprio nel messaggio religioso del
'piu' assoluto monoteismo' (tawhîd) di cui i musulmani si sentono i
latori privilegiati per il mondo intero. E’ a questo livello credo che
si debba cerca la forza storica dell'Islam, forza che non si e’ smussata
nemmeno nel nostro tempo.
Questa e’ la dinamica che ha mosso pure tutta la storia della mistica
islamica, il sufismo: cioè la tensione verso Dio, tensione che va
dall'esterno verso l'interno, e di lì si trascende in Dio. E uno studio
attento della mistica islamica rivela che il suo fondamento primo o il
suo punto di partenza deve essere ricercato prima di tutto proprio nella
stessa professione di base della fede islamica, cioè la testimonianza e
la coscienza dell'assoluta Unità ed Unicità di Dio (tawhîd): 'Non c'è
dio se non il Dio (Allâh)'. E’ questa formula continuamente ripetuta che
plasma la vita, la coscienza e il pensiero del musulmano. E’ questa
anche la sorgente dell’esperienza dei mistici dell’Islam, i sufi. Questi
infatti non furono prima di tutto uomini di pensiero ma di azione
pratica.
Un detto, attribuito a Sahl al-Tustarî (m. 283/896), ben esprime tale
centralita’ della realta’ di Dio nella vita dei musulmani, centralita’
che i sufi cercheranno di realizzare al suo massimo grado:
“Dio è la direzione (qibla)
dell'intenzione (niyya),
l'intenzione è la direzione del cuore (qalb),
il cuore è la direzione del corpo (jism),
il corpo è la direzione delle membra,
le membra sono la direzione dell'universo creato (kawn)”.
Anche l'Islam, nel corso della sua storia,
ha subito certamente molte influenze da parte delle varie culture con
cui è venuto in contatto: prima di tutto il Cristianesimo e l'Ebraismo,
ma poi anche le altre culture in cui esso è penetrato sia in modo
bellicoso che pacifico. Ma occorre ugualmente sottolineare che,
nonostante la varietà delle sue vicende epocali, l'Islam, e il sufismo
in esso, ha conservato senza dubbio la sua dinamica fondamentale, cioe’
la sua tensione verso l'unità di Dio, accostata mediante la sua
formulazione coranica. A mio parere è proprio tale dinamica che alla
fine si rivela essere il centro unificante di tutto il movimento
religioso dell'Islam.
Il sufismo quindi si colloca storicamente all’interno di tale dinamica
propria della fede islamica, ed e’ solo in tale luce che puo’ essere
adeguatamente compreso. Anzi esso e’ stato in moltissimi casi la forza
interiore che ha animato e fortificato mediante la sua esperienza
concreta la comunita’ islamica nei periodi piu’ critici della sua
storia.
2. Le problematiche del
tawhîd nell’Islam.
3-1. Il Dio-Uno, o il puro monoteismo (tawhîd).
Per entrare meglio nella problematica
della contemplazione sufi occorre articolare un po’ di piu’ la
professione di fede dell’Islam, che come abbiamo visto e’ il punto di
partenza, sia storico che esperienziale, del sufismo. Di possiamo quindi
chiedere: Qual'e' il Dio in cui l'Islam crede e di cui si sente il
testimone e il messaggero per tutti i popoli?
La risposta a tale domanda, come abbiamo accennato, e' data dalla
professione di fede (shahâda) che ogni musulmano e' tenuto a proclamare
continuamente, infinite volte, nel corso della sua esistenza: "Non c'e'
dio se non Allâh" (Lâ ilâha illâ Allâh). Questa e' la prima parte della
professione di fede (shahâda), che costituisce uno dei cinque pilastri
dell'Islam. Ad essa segue la seconda parte che riguarda la missione
profetica di Muhammad (Maometto) "...e Muhammad e' il suo inviato".
Il nome arabo di Dio, Allâh, come si sa', e' la forma contratta di
al-ilâh (il Dio), nome derivato da una comune radice semitica: El, Il,
Ilh (cf. l'ebraico El, Elohîm). Il nome Allâh era conosciuto ed usato
dagli Arabi prima di Muhammad per designare il dio supremo del loro
pantheon, ma in associazione ad altri dei e deesse contro cui si
scagliano le polemiche del Corano.
Nella Bibbia Dio e' invocato anche col nome Yahweh, nome che sottolinea
la presenza e la vicinanza di Dio al suo popolo. Questo nome puo' essere
fatto corrispondere in certo modo al termine coranico Rabb (Signore, cf.
l'ebraico Adonai), nome che e' sempre usato nel testo coranico in stato
costrutto come Rabb-î, Rabbu-ka, Rabbu-kom ecc. (il mio, il tuo, il
vostro Signore, ecc...).
Nella professione del puro monoteismo islamico ci sono due riferimenti
importanti da sottolineare che ne rivelano le dimensioni storiche e
meta-storiche.
a. Il puro monoteismo (tawhîd) nella
storia: Abramo, il padre dei monoteisti.
Muhammad nel proclamare l'assoluto
monoteismo aveva chiara coscienza di ritornare alla purezza originale di
fede del primo vero monoteista, Abramo. Abramo infatti, afferma il
Corano, "...non era ne' giudeo ne' cristiano ma era 'un puro monoteista
(hanîf)' e un sottomesso (a Dio, muslim), e non era fra gli associatori"
(Corano 3, 67). La figura di Abramo e' fondamentale per la coscienza
profetica di Muhammad, ed essa e' centrale nel testo coranico ricordato
in circa 245 versetti. Abramo e' presentato come il modello di tutti i
veri credenti monoteisti; ad esempio, tutto il pellegrinaggio alla
Mecca, altro pilastro dell'Islam, e' centrato sul ricordo di Abramo che,
secondo la tradizione coranica, avrebbe ricostruito la Ka'ba, il primo
tempio del puro monoteismo(tawhîd). Muhammad ha mostrato chiaramente
l'intento di ritornare al puro, originale monoteismo di Abramo a monte
delle sue varie corruzioni, non solo quelle del paganesimo idolatrico,
ma anche quelle dei 'figli deviati' di Abramo, cioe' degli ebrei e dei
cristiani. Questi infatti , secondo il testo coranico, avrebbero
corrotto in vari modi la pura fede monoteista di Abramo. L'Islam quindi
intende essere un ritorno alla prima radice della fede monoteista che e'
abramitica.
b. Il puro monoteismo (tawhîd) nella sua
origine trascendente: il patto eterno (mîthâq) con Dio.
Ma nel testo coranico c'e' un altro
riferimento importante per il puro monoteismo islamico (tawhîd). In un
unico passo viene affermato che Dio prima della creazione del mondo fece
comparire davanti a Se' tutte le anime umane, le fece testimoni della
sua unicita' come il loro unico Signore nel famoso colloquio riportato
dal testo coranico: "Non sono forse Io il vostro Signore?"; e quelli
risposero "Si', certamente!" (Corano 7, 172). Al giorno della
resurrezione infatti sara' chiesto conto agli uomini di tale fede
originale che costituirebbe, nella visione islamica, il deposito
originario (amâna) affidato da Dio all'uomo ricordato in Corano 33, 72.
Questo passo sul patto originario, in se' alquanto misterioso, ha avuto
poco spazio nella riflessione della teologia speculativa dell'Islam,
mentre ne ha avuto molto nella speculazione mistica dei sufi. Per i sufi
tale passo testimonia che l'essere umano in quanto tale porta nelle
profondita' della sua coscienza la testimonianza del puro monoteismo
(tawhîd) ricevuta in tale visione (mushâhada) originaria nella
pre-eternita’. In altre parole, la natura umana originale (la fitra,
altro importante concetto nella teologia islamica) e' configurata da
sempre e per sempre 'monoteisticamente'. Solo per circostanze storiche
varie l'essere umano ha deviato da tale puro monoteismo di origine
divina perdendosi dietro ideologie di fattura umana. In tale luce si
puo' capire il senso profondo di un famoso hadith che afferma: "Ogni
uomo nasce secondo la sua natura originale (fitra, che e' quella di
essere musulmano); sono poi i suoi genitori che lo fanno un ebreo o un
cristiano".
L'Islam quindi, con la sua testimonianza e la sua proclamazione del puro
monoteismo (tawhîd), intende non solo restaurare la pura fede di Abramo,
il primo dei monoteisti, ma anche rivivificare e portare a piena
coscienza il patto primordiale che Dio stesso siglo' con tutti gli
esseri umani in tale visione pre-eterna, e cioe' la testimonianza del
monoteismo che Dio stesso ha impresso nel profondo di ogni essere umano
fin dall'eternita'.
L’affermazione monoteista islamica si articola poi in due momenti
fondamentali: il momento delle negazione purificatrice o apofatico (nafî
- tanzîh) e il momento dell'affermazione o catafatico (ithbât- tashbîh).
3-2. Il Dio-Uno, o il momento apofatico
della negazione purificatrice o (nafî - tanzîh).
Per comprendere meglio il senso del
monoteismo islamico occorre leggerlo nella dinamica della sua
formulazione linguistica che va dalla negazione all'affermazione:
> - dalla negazione: 'Non c'e' dio. (Lâ
ilâha...)",
> - ... all'affermazione: "... se non
Allâh (...illâ Allâh)".
Queste formulazioni negative, con altre
equivalenti come 'se non Lui... , se non Tu..., se non Io...',
scandiscono frequentemente il testo coranico conferendogli una suo
tipico carattere monoteista, che lo differenzia pure rispetto alla
Bibbia. Importante per le discussioni teologiche dei secoli seguenti e'
la formula: "Nulla e' simile a Lui... (laysa ka-mithli-hi shay')" (C 42,
11), ed molte altre coniate secondo la forma "Dio non e'... (laysa
...)".
Da tali formulazioni appare chiaro che il puro monoteismo o tawhîd nel
pensiero islamico puo' essere avvicinato solo mediante una radicale
negazione purificatrice (tanzîh). Il nostro parlare di Dio deve prima di
tutto essere purificato mediante la negazione di ogni somiglianza (tashbîh)
pensabile fra Lui e le sue creature: Dio e' il completamente Altro,
diverso da tutto cio' che e' creato. Percio' per prima cosa occorre
togliere dal nostro linguaggio e dai nostri concetti ogni pretesa di
comprendere e di descrivere in qualche modo Dio. Occorre una radicale
purificazione linguistica che deve diventare anche una radicale
purificazione esistenziale. L'uomo infatti corre sempre il pericolo di
forgiarsi un Dio a sua immagine e somiglianza, divinizzando una creatura
o un'immagine di Dio forgiata da lui stesso e cadendo cosi’
nell'idolatria. L'Islam contro ogni simile tentativo brandisce la spada
fiammeggiante della negazione piu' radicale di ogni somiglianza fra Dio
e le creature: "Dio non e'... (laysa ...)", cosi' incomincia il suo
primo parlare di Dio. In tale approccio negativo alla trascendenza di
Dio si possono facilmente riconoscere molti paralleli nel testo biblico
e nella tradizione teologica cristiana.
I sufi leggeranno volentieri nell'ordine che Dio da' a Mose' di
togliersi le scarpe prima di avvicinarsi al roveto ardente da cui Egli
lo chiama il simbolo di tale negazione assoluta e purificatrice. L'uomo
infatti deve purificarsi da tutto cio' che non e' Dio per avvicinarsi
esistenzialmente (e non solo verbalmente come, secondo i sufi, fanno la
maggior parte dei musulmani) a Dio. Egli fa questo mediante uno stato di
annientamento assoluto (fanâ'), che significa annientare le proprie
qualita' creaturali nel fuoco dell'unita' divina: solo allora il sufi
potra' avvicinarsi alla fiamma eterna dell'unita' divina e il sole
dell'unita' divina potra' rispecchiarsi nel suo cuore illuminandolo di
luci nuove .... ma in tale stato avvengono cose che non e' lecito ai
profani manifestarle. Questo e' il segreto dei sufi (sirr) che ha
attirato molte volte la condanna, fino all'eliminazine fisica, da parte
dei giuristi-teologi musulmani (ulema - 'ulamâ'). In ogni caso molti
gesti di purificazione rituale, comuni nelle pratiche di devozione
islamiche, vengono interpretati e vissuti dai sufi secondo un profondo
senso simbolico, per indicare tale radicale purificazione esistenziale,
condizione unica per avvicinarsi alla soglia della trascendente unita'
divina.
3-3. Il Dio-Molteplice, o il momento
catafatico dell'affermazione (ithbât- tashbîh).
Il monoteismo islamico non si ferma alla
negazione. Non e' come il Buddhismo che punta alla negazione assoluta
come al momento di liberazione che introduce nell'Altro assoluto
(nirvâna) (comunque questo concetto possa essere inteso, naturalmente).
L'Islam, simile in questo alle due altre religioni abramitiche,
l'Ebraismo e il Cristianesimo, ha un ricco linguaggio positivo su Dio.
In esso quindi il momento apofatico o della negazione: "Dio non e'...",
e' seguito dal momento catafatico o dell'affermazione: "Dio e'...". E
lungo e' l'elenco delle qualita' positive che vengono attribuite a Dio
dal testo coranico e dalla tradizione islamica. L’affermazione positiva
su Dio comprende due aspetti: l’affermazione della sua unita’ assoluta
insieme e l’affermazione della molteplicita’ dei suoi attributi
a. L'unita' assoluta di Dio, oggetto della
contemplazione-meditazione dei sufi.
La prima e fondamentale qualita' che viene
attribuita a Dio e' l'unita' (wahda): "Dio e' uno, il vostro Signore e'
uno (wâhid)", ripete continuamente il Corano. In arabo ci sono due
termini per dire uno: wâhid e ahad.
Il primo termine wâhid indicherebbe, secondo una comune spiegazione
teologica, l'unita' in rapporto ad una molteplicita' esteriore.
Applicato a Dio questo termine significa che non ci sono molti dei: Dio
e' uno, Egli non ha ne' associati (sharîk) ne' pari (nidd) ne'
oppositori (didd). Coloro infatti che attribuiscono a Dio degli
associati sono i 'politeisti' (in arabo mushrikûn, lett. gli 'associatori'),
e il piu' grande peccato che l'uomo puo' commettere e' appunto quello di
politeismo (shirk, lett. associazionismo, cioe' l'atto di associare
altri dei a Dio); questo e' l'unico peccato che, secondo l'Islam, Dio
non puo' perdonare.
L'altro termine ahad, per se' in arabo e' un sinonimo di wâhid, ma nel
linguaggio teologico e' stato comunemente usato per indicare l'unita'
interna di Dio: Dio non e' composto di parti. Questo termine e' infatti
ricorre nel Corano nel capitolo (sûra) 112, detto appunto 'La sûra della
fede sincera (ikhlâs)', in concomitanza col termine samad: "Di': Egli e'
il Dio, l'Uno (ahad); il Dio permanente-immutabile (samad); Egli non
genero' ne' fu generato; nessuno e' pari a Lui" (Cor 112). L'aggettivo
samad denota la permanenza, l'immutabilita', la saldezza di una cosa
che, di conseguenza, diviene il saldo sostegno per altri. Con tale
termine viene esclusa da Dio ogni forma di molteplicita' e cambiamento
interni. Attorno a questo concetto si accenderanno, come vedremo, le
dispute dei teologi sul modo di spiegare l'unita' di Dio in rapporto
alla molteplicita' delle qualita' ed delle azioni che gli sono
attribuite.
L'affermazione dell'unita' di Dio (tawhîd) costituisce quindi il centro
della fede islamica, in qualche modo 'la sua passione'. In tale contesto
occorre sottolineare l'aspetto 'rivoluzionario' che ha il tawhîd
coranico, in continuita' con quello biblico. Esso significa infatti
spodestare qualsiasi creatura, cose o esseri umani, dalla pretesa di
mettersi al posto di Dio: esso costituisce quindi una radicale
contestazione di ogni paganesimo antico e moderno, in cui degli esseri
creati, umani e no, venivano e vengono tuttora messi al posto di Dio. E'
facile constatare che quando la coscienza di tale puro tawhîd
diminuisce, il paganesimo, in tutte le sue forme anche le piu'
criptiche, ritorna in vigore.
Da questo punto di vista uno puo' e deve riconoscere che la professione
del tawhîd fatta dall'Islam e’ una continuazione del messaggio biblico,
radicato nella fede abramitica che proclama l'assoluta centralita' di
Dio nell'essere e nell'agire. Viva espressione di tale fede abramitica
e' quanto proclama Paolo ai pagani Ateniesi: "In lui infatti viviamo, ci
muoviamo ed esistiamo" (Atti 17, 28). Per tale motivo il sufi cerchera’
in tutte le creature, le opere di Dio, i segni che ne proclamano
l’unita’ e la signoria assolute. In tutte le creature ci sono chiari
segni dell’unita’ divina, per chi a occhi per vedere.
b. I 99 'bei nomi' (al-asmâ' al-husnâ)
nella contemplazione-meditazione sufi.
Accanto alla proclamazione dell’unita’
assoluta di Dio, la fede islamica non cessa di proclamare gli infiniti
attributi positivi di Dio. Molti sono i nomi e le immagini di carattere
antropomorfico con cui il Dio-Uno e' qualificato e descritto nel testo
coranico: si parla del 'volto di Dio', del 'trono di Dio', della 'mano
di Dio', ecc. Tutte queste qualita' sono state riassunte dalla
tradizione islamica nei famosi '99 bei nomi' (al-asmâ' al-husnâ). La
recitazione di questi '99 bei nomi' e' diventata una pratica di
devozione molto popolare fra i musulmani, soprattutto fra i sufi. Essi
si aiutano nel conto dei nomi di Dio con una corona di grani detta subha
(nella lingua corrente sibha) che significa 'l'atto di lodare Dio', e
non 'rosario' come e' tradotto talvolta impropriamente.
I 99 'bei nomi' costituiscono per il credente musulmano una specie di
'somma teologica popolare' della sua fede, e la loro meditazione aiuta i
credenti ad approfondire la loro vita spirituale. Per i sufi inoltre
ogni nome divino e' carico di molti significati interiori che possono
essere trasmessi solo mediante una speciale iniziazione durante il
noviziato sufi.
La speculazione teologica islamica ha cercato di trovare un ordine ai
nomi divini riportati in tali liste che ne giustifichi l'uso. Alcune
delle divisioni piu' comuni sono le seguenti:
i. Una tradizione teologica, in
particolare la sunnita ash'arita, fissa dopo il nome Uno (wâhid)
sette nomi detti 'capitali', di cui tutti gli altri sarebbero solo
dei derivati. Dio e’ essenzialmente Colui che sa ('âlim), che puo’
(qâdir), che e’ vivo (hayy), che vuole (murîd), che parla
(mutakallim), che ode (samî'), che vede (basîr). Questi sette nomi
'capitali' riguarderebbero Dio in se stesso, in qualche modo la sua
vita intima, ed essi sarebbero quindi dei nomi 'assoluti'. Mentre
gli altri nomi come il Creatore, il Provvidente, il Soccorritore
ecc..., riguarderebbero Dio in rapporto alle creature, e quindi
sarebbero nomi 'relativi'.
ii. Un'altra tradizione, comune
soprattutto tra i sufi, intende distinguere fra i nomi divini:
> - nomi che mettono in risalto la
potenza e maesta' (jalâl) di Dio: Dio e' il Possente, il
Dominatore, l'Invincibile, Colui che fa vivere e morire, Colui
che abbassa ed eleva ecc. Questi nomi metterebbero in risalto
l'aspetto maschile di Dio.
> - nomi che mettono in risalto il
suo aspetto di misericordia e di bellezza (jamâl): Dio e' il
Misericodioso, il Perdonatore, il Gentile, il Paziente, ecc.
Questi nomi metterebbero in risalto l'aspetto femminile di Dio.
La perfezione dell’essere umano
consisterebbe nell'assimilazione dei due aspetti della divinita': quello
maschile e quello femminile. Anche a tal riguardo la speculazione sufi
ha sviluppato una sua mistica che non puo' essere sviluppata qui.
In conclusione, l'immagine coranica di Dio attraverso i suoi attributi
puo' essere chiaramente percepita nel seguente testo in cui vengono
ricordati alcuni dei principali attribuiti di Dio, cioe' i suoi 'nomi
piu' belli' (Corano 59, 1. 22-24):
Tutto cio' che vi e' nei cieli e sulla
terra celebra le lodi di Dio,
Egli e' il potente e il sapiente *
Egli e' Dio - non c'e' divinita' se
non Lui -
Egli conosce l'invisibile e il visibile:
Egli e' il clemente e il misericordioso *
Egli e' Dio - non c'e' divinita' che
Lui - il Re, il Santo,
la Pace, il Fedele, il Vigilante, il Possente, il Forte, il Grande *
Dio sia esaltato sopra tutto cio' che
gli associano *
Egli e' Dio, il Creatore. il Plasmatore, il Formatore:
a Lui spettano i nomi piu' belli.
Lo glorifica quanto e' nei cieli e
sulla terra:
Egli e' il Possente, il Sapiente".
Questo come pure moltissimi altri testi
coranici esortano il credente alla riflessione, meditazione e
contemplazione delle qualita’ divine, ad immergersi in esse fino a
venire trasformato da esse, o come dice un famoso hadith, divenuto un
dei principi fondamentali della vita mistica islamica: “Rivestitevi
delle qualita’ di Dio”.
3. Il tawhîd
sufi.
3-1. La struttura del cammino sufi.
Da quanto esposto, appare chiaro che il
cammino di ogni credente musulmano, ed evidentemente in particolare di
ogni sufi, e’ quello di entrare sempre piu’ profondamente in quello che
possiamo ormai chiamare il mistero dell’unita’ divina, unita’ che non si
riduce ad essere una semplice formula aritmetica, anche se molte volte
e’ cosi’ intesa da credenti superficiali. Occorre quindi ora mettere in
luce alcuni degli aspetti fondamentali del tawhîd sufi. In tal modo ci
mettiamo in contatto con cio’ che puo’ essere considerato il cuore
dell’esperienza sufi: l’esperienza del tawhîd. Tale esperienza va letta
in primo luogo all’interno della struttura del cammino sufi. Il cammino
mistico nell’Islam si svolge attraverso tre stadi o tappe fondamentali,
indicati dai sufi stessi con i termini seguenti.
a.- La legge (sharî‘a): tale termine
designa la 'strada' (questo è il senso primo del termine arabo)
stabilita e rivelata da Dio agli uomini, e che nessuno quindi può
cambiare. La legge (sharî'a) è riassunta nei cinque pilastri
dell'Islam che ogni buon musulmano deve osservare, e il sufi in modo
particolare, scrupulosamente. Questo è il punto di partenza per ogni
cammino sufi: nessuno può pretendere di essere sufi se non osserva
la legge divina (sharî'a) rivelata da Dio.
b.- La via (tarîqa): tale termine
designa la 'via' (questo è il senso primo del termine arabo), cioè
un metodo di vita che il fedele segue per vivere la legge divina
secondo le intenzioni più profonde intese da Dio. In questa tappa
prevale lo sforzo ascetico attraverso cui l’aspirante sufi cerca di
purificare il proprio cuore per renderlo disponibile all'azione di
Dio. Questo è uno stadio intermedio, ma necessario per giungere al
fine del cammino sufi.
c.- La Verità-Realtà (haqîqa): tale
termine designa la tappa finale del cammino; essa consiste nella
‘scoperta’ o ‘rivelazione’ (fath) di Dio, suprema realtà e termine
ultimo di tutti i simboli religiosi. Il sufi quindi è chiamato a
passare dall’esteriorità delle forme all’esperienza personale e
viva, al ‘gusto’ (dhawq) della Realtà divina, fonte della vera
conoscenza sufi. L’incontro con la Realta’ divina comporta
necessariamente una profonda trasformazione della persona del sufi.
La storia mostra che molte volte tale trasformazione comporta
esperienze ed espressioni che sembrano essere in contraddizione con
la prima tappa, quella della legge. Questo conflitto, in cui la
bianca rosa dell’esperienza mistica dei sufi è stata sovente
imporporata con il rosso del loro sangue, secondo una diffusa
immagine-simbolo della loro esperienza, sembra un dato ineliminabile
nel mistero dell’incontro di due libertà: quella dell’uomo e quella
di Dio, l’Assoluto, libertà che sempre sorprende e scandalizza
coloro che sono legati solo all'esteriorità della legge o dei
simboli religiosi.
Ci sono anche altre classificazioni del
cammino sufi, ma la presente ha il vantaggio di metterene in risalto la
dinamica interna, evidenziandone il movimento di interiorizzazione della
legge religiosa, interiorizzazione che si trascende infine
nell'incontro-unione con la Realtà-Verità Assoluta (al-haqq), Dio
stesso. Questa divisione del cammino sufi in tre stadi o tappe viene
fatta molte volte corrispondere ai tre livelli fondamentali dell'essere
umano, che, secondo una comune antropologia sufi, sono: l’anima (nafs)
(sede dei sentimenti e qualita’ sensibili), cuore (qalb) (sede dei
pensieri e delle qualita’ spirituali), ed infine lo spirito (rûh) o
l’intimo segreto (sirr) (il luogo delle manifestazioni o rivelazioni
divine, la’ dove la persona umana si apre all’Assoluto, Dio).
Anche per il sufismo rimane assodato che la Realtà-Verità Assoluta
(al-haqq), Dio, non può essere espressa in formule definite e chiare:
essa sorpassa di gran lunga 'quanto l'essere umano può pensare,
immaginare, sperare’. L'incontro con Dio comporta necessariamente un
cambiamento radicale della persona umana al punto che i suoi limiti
creati sono in qualche modo infranti, dato che il sufi avanza in una
realtà illimitata, in un mare di cui non vede le sponde. Quante volte
l'immagine del 'naufragare in questo mare' ritorna nelle espressioni
sufi! C'è chi si limita a parlare di una vicinanza trasformante (qurb)
di Dio (al-Ghazâlî), o di un annientarsi (fanâ') in Lui (al-Junayd), ma
c'è anche chi giunge a parlare di una inabitazione (hulûl) di Dio nel
cuore del suo servo (al-Hallâj) o di una unione reale (wahda-ittihâd)
con Lui (Ibn 'Arabî). Simili espressioni hanno molte volte scandalizzato
i rigidi assertori della pura lettera della legge, i dottori della legge
(ulema), ma per i sufi tali espressioni sono solo dei balbettii per
esprimere una realtà che sorpassa ogni espressione umana. La distanza
fra esperienza interiore ed espressione esteriore è stata vissuta
profondamente ed anche drammaticamente dai sufi come estasi (ex-stasis),
cioe’ come un uscire dai propri limiti, ma anche come diastasi
(dia-stasis) mistica, cioe’ come esperienza della distanza infinita tra
il relativo e l’Assoluto. Al-Niffarî (m. 366/976), uno dei piu’ profondi
pensatori sufi del IV/X secolo, ha bene espresso tale asintotica
tensione fra esperienza o visione interiore e la sua espressione o
lettera esteriore, in un famoso detto: "Quanto più si allarga la visione
(ru’ya), tanto più si restringe l’espressione (ibâra)" .
3-2. Il tawhîd come centro dell’esperienza
sufi.
E’ stato indubbiamente uno dei piu’ grandi
contributi di L. Massignon (1883-1962) l’aver difeso l’origine coranica
del sufismo contro molte tendenze che lo volevano un movimento puramente
importato in Islam da fonti esterne, cristiane, ebraiche, gnostiche,
ecc. Le ricerche successive hanno sempre piu’ confermato tale assunto.
Inoltre esse hanno sempre piu’ sottolineato che proprio la professione
della fede monoteista coranica (taw?¥d) e’ alla base dell’esperienza
sufi.
Lo studioso fancese, Marijan Molé, afferma nel suo studio sul sufismo:
“Una delle costanti dell’esperienza sufi sembra essere il sentimento che
nulla ha esistenza reale al di fuori di Dio”.
Un altro studioso francese, p. Robert Caspar, afferma pure che: "E’ tale
radicale teocentrismo il punto di partenza di ogni misticismo”.
L’orientalista tedesco, Hans H. Schaeder, mette in chiaro che: "La
mistica islamica e’ il tentativo di raggiungere la salvezza individuale
attraverso il raggiungimento del vero tawhîd".
Il tawhîd , base della fede islamica, deve essere considerato la
sorgente prima della vita e dell’esperienza dei sufi. In particolare,
l’uso dei pronomi ‘Egli - Tu - Io’ (huwa - anta - anå) nelle formule del
tawhîd hanno un enorme potere catalizzante. Attraverso la loro
incessante ripetizione l’ ‘io’ individuale del singolo sufi e’
progressivamente assorbito nell’ ‘Io’ divino, al punto che il sufi perde
totalmente la propria auto-coscienza personale, entrando in uno stato di
ebbrezza (sukr), estasi o trance. Tale processo di assorbimento appare
visibile nella pratica individuale e comune dello dhikr (ricordo,
ripetizione) del nome di Dio da parte dei sufi. Questa pratica,
sostenuta normalmente da un forte ritmo musicale, raggiunge il suo
culmine nella ripetizione del nome di Allåh, poi del pronome personale
Lui (huwa) che finisce per divenire la ripetizione del soffio hâ... hâ...
A questo punto il sufi e’ sempre piu’ assorbito dal ritmo e dal soffio
che escono dal suo profondo, la sua auto-coscienza viene sempre piu’
annullata... fino a sparire nella maesta’ della Presenza Divina (hadra).
Il tawhîd coranico, sorgente prima e ispiratore principale
dell’esperienza sufi, rappresenta pure l’asse fondamentale di sviluppo
del vocabolario sufi in generale. Ad esempio, lo sviluppo del linguaggio
dell’amore (hubb) nel sufismo non puo’ essere considerato una pura
derivazione esegetica del linguaggio dell’amore nel Corano. Esso si e’
sviluppato’ piuttosto attraverso un’esperienza pratica ed in connessione
con linguaggio dell’unita’ (tawhîd). In tal modo si puo’ rendere conto
della caratteristica dell’amore sufi, che lo distingue da quello
cristiano. Infatti, mentre quest’ultimo, seguendo il comandamento
evangelico, unisce sempre l’amore per Dio con quello per il prossimo,
l’amore sufi ha in primo luogo Dio come solo ed unico fine, mentre
l’amore per il prossimo appare piuttosto come un corollario secondario.
Per tal motivo nell’interprtazione dei testi sufi occorre tener presenti
due importanti fattori che hanno influito sulla foramzione del lor
linguaggio.
Il primo fattore e’ l’esperienza che porta ad un gusto personale (dhawq)
della realta’. I sufi (come del resto i mistici di altre tradizioni
religiose) non sono ne’ puri ripetitori di testi sacri, come lo sono
spesso i canonisti, ne’ degli astratti speculatori della realta’
mediante la pura ragione, come lo possono essere i filosofi. Il mistico
invece scopre la realta’ attraverso la propria esperienza personale, ed
e’ in tale scoperta che egli crea il suo proprio linguaggio,
reinterpretando il linguaggio della sua tradizione religiosa. Paul Nwyia
nel suo studio sul linguaggio dei sufi afferma infatti che fu attraverso
il sufismo che in Islam fu creato ‘un vero linguaggio di esperienza’.
E l’altro fattore, sopra accennato, e’ quello delle influenze
extra-islamiche che indubbiamente ci sono state. L’Islam ha sempre
interagito su tutti i campi, teologico, filosofico, scientifico,
artistico, con le varie culture con cui venne in contatto. Ed anche il
campo del sufismo non ne fu esente. Influenze da parte del monachesimo
cristiano orientale, della cabbala ebraica, delle varie correnti
gnostiche, delle religioni iraniane, ecc. sono evidenti nel sufismo. In
seguito, esso inter-reagira’ con le varie culture dell’Asia e
dell’Africa. All’interno del sufismo si puo’ percepire una costante
tensione tra la sua originalita’ islamica e le influenze ‘estranee’ che
ne coloriranno l’esperienza.
In conclusione possiamo dire che il tawhîd, la professione e conscienza
piena dell’Unita’ di Dio, e’ la fonte prima dell’esperienza della
mistica islamica, e quindi il primo oggetto di cio’ che noi chiamiamo
‘contemplazione mistica’. Pero’ sara’ solo attraverso la lettura dei
testi sufi che ci si puo’ rendere conto delle modalita’ di tale
esperienza, dei suoi gradi, ma anche delle sure problematiche ed aporie.
5-1. Il tawhîd sufi e le sue tappe.
Prima di entrare direttamente nella
lettura dei testi sufi, presento una griglia interpretativa che
evidenzia quattro dimensioni o tappe che si possono ricavare da un
percorso attraverso gli scritti dei sufi e che ci possono aiutare ad
capire tali testi. Altri sono liberi di seguire altri schemi. Le tappe
che qui presento appaiono chiaramente in ordine storico, cioe’ nello
sviluppo storico dell’esperienza sufi. Per cui, ad esempio, nei primi
due secoli dell’Islam non si trovano testi che si riferiscono alla terza
o quarta tappa del tawhîd sufi. Mentre, evidentemente, in testi
posteriori le quattro tappe possono essere mescolate insieme in un’unica
esperienza complessa.
Il tawhîd sufi, basato sulla professione fondamentale della fede
islamica (non c’e’ dio se non Allâh), viene approfondito ed articolato
assoluto nei termini seguenti.
a. Dio, come l’unico adorato. Questa
e’ la prima tappa, quella dell’ascesi sufi (zuhd), tipica dei primi
due secoli dell’Islam. Ogni credente sincero, e’ chiamato ad
orientare tutti i suoi atti di culto e di morale Allâh, l’unico vero
Dio. Ma il sufi deve unire alla pratica esteriore la purezza
interiore del cuore che mediante l’ascesi (zuhd) si stacca da ogni
cosa che non sia Dio. Dio quindi e’ adorato esterioremente ed
interioremente in modo assoluto.
b. Dio, come l’unico amato. Questa e’
la tappa dell’amore sufi (hubb) che appare nel secondo secolo
dell’Islam e continuera’ ad approfondirsi nei secoli seguenti. Il
sufi deve liberare il suo cuore da ogni amore che non sia Dio. Anzi
tale amore implica che il sufi si stacchi anche da se stesso:
l’amore esige l’annientamento (fanâ’) dell’amante nell’amato, tanto
piu’ se l’amato e’ l’Assoluto, Dio stesso.
c. Dio, come l’unico agente. In questa
tappa il sufi prende sempre piu’ coscienza che Dio, come Assoluto,
e’ l’unico agente in ogni cosa. Il sufi deve annullare ogni suo
agire autonomo per lasciarsi dominare dall’agire di Dio, l’unico
vero agente che opera tutto in tutti. In questa tappa
l’annientamento sufi(fanâ’) giunge al suo sommo, e il sufi
sperimenta lo stato di permanenza (baqâ’) in Dio, ed infine di
unione o forse immersione totale in Dio. Avendo rinunciato
totalmente alle sue qualita’ il sufi viene ora rivestito delle
qualita’ di Dio.
d. Dio, come l’unico esistente,
l’unica Realta’. Questa e’ l’ultima tappa del cammino, ed anche la
piu’ drammatica e discussa. Il sufi prende coscienza che il tutto
non e’ che manifestazione di un’unica Realta’: quella di Dio. Dio
solo puo’ essere qualificato di esistente e sussistente (qayyûm).
Ormai il sufi ha perso di vista la propria esistenza individuale,
non esiste piu’ in se’ ma in Dio solo. Ma in tale stato il sufi
scopre di essere uno con tutta la realta’ esistente, trovando Dio in
tutto e tutto in Dio.
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