"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
Marco Vannini (nato nel 1948) ha curato,
con ineccepibile rigore, la prima edizione italiana di alcuni fondamentali testi
della tradizione mistico-filosofica:
Eckhart, Taulero, l’Anonimo Francofortese, Lutero,
Angelus Silesius, Margherita Porete, Gerson, Fénelon, ecc., cui ha dedicato
numerosi studi.
Tra i suoi ultimi lavori: Mistica e
filosofia (1996), Il volto del Dio nascosto. L’esperienza mistica
dall’Iliade a Simone Weil (1999), Introduzione alla mistica (2000),
La mistica delle grandi religioni. Induismo, buddismo, ebraismo, islamismo,
cristianesimo (2003).
Ho incontrato lo studioso nella sua città, Firenze, in occasione dell’uscita del
suo ultimo libro intitolato: La morte dell’anima. Dalla mistica alla
psicologia (edito dalla Casa Editrice Le Lettere).
Vannini, qual è la
tesi del suo libro?
La tesi del libro è che,
paradossalmente, vi sono due morti dell’anima.
La prima è quella che, nella tradizione spirituale, significa l’annichilimento
dello psicologico e l’emergenza dello spirituale, con la sua libertà e la sua
gioia; la seconda morte dell’anima è invece quella operata dalla cultura
contemporanea, che ha ridotto l’anima a psiche, con la perdita del “fondo
dell’anima”, ovvero della sua realtà spirituale. Da ciò anche l’impotenza
terapeutica delle moderne psicologie,
psicoanalisi
e psichiatrie, che non guariscono quel male che sta nello psichismo stesso,
ovvero nell’attaccamento all’io.
Da un punto di vista storico, la tesi
fondamentale del libro è che la fine dell’anima è avvenuta alla fine del ‘600,
con la condanna del quietismo, ovvero quando la Chiesa espulse di fatto
l’esperienza spirituale, il “fondo” dell’anima, concentrandosi sulle sue
“potenze”, ovvero sulle sue facoltà: già allora si era di fatto preparata la
caduta dalla mistica alla psicologia.
A quando risale il
concetto di anima?
Indubbiamente alla Grecia classica, fin
dai primi pensatori ionici, da
Talete
ad
Eraclito, quel “grande maestro che conobbe la verità prima della
fede cristiana”, come lo chiama Eckhart. E greci sono i grandi esperti
dell’anima: da
Platone
a
Plotino. Solo grazie a loro c’è l’esperienza spirituale del
successivo mondo cristiano.
Quale fu il preludio
della fioritura mistica nel Secolo d’oro della Spagna?
La acquisizione spagnola delle Fiandre
all’epoca di Carlo V°, con la susseguente conoscenza dei mistici
renano-fiamminghi del Trecento. Fu soprattutto la conoscenza dei sermoni di
Taulero, discepolo di Eckhart, a far noto agli spagnoli l’essenziale
dell’esperienza spirituale: vedi ad es. espressioni come “morte”, “notte”,
“fondo”, “castello”, ecc.
Come apparve il
linguaggio dei mistici, soprattutto agli occhi dell’Inquisitore? E che tipo di
immagini esso adotta?
La mistica è sempre sospetta, giacché è,
per sua essenza, esperienza di unione umano-divina, “senza mediazione”, come
incessantemente ripete
Eckhart,
e perciò invisa a ogni dogmatismo confessionale. Non a caso le immagini che essa
adotta sono sempre immagini di libertà, come ad esempio, in Eckhart stesso, la
gioia di un cavallo libero di correre in una verde brughiera, “senza perché”,
come nel celebre distico silesiano della rosa.
Quali sono state le
letture che le hanno offerto un valido apporto per la comprensione dei mistici?
In generale tutte le grandi opere
filosofiche e teologiche, retroterra indispensabile (e qui la lista sarebbe
infinita, tanto da non tentarla neppure). Però vorrei sottolineare che, come
scrive
Margherita Porete
all’inizio del suo Specchio delle anime semplici, qui si tratta di
“diventare la cosa stessa”, per cui nessuna lettura esteriore può prendere il
posto dell’esperienza interiore. I sermoni di Eckhart erano compresi d’un colpo
dalle povere suore analfabete, se ricche di amore di Dio, mentre non lo erano
affatto da quelli che lui chiama “grossi chierici”, esperti della Bibbia (oggi
verrebbe da pensare piuttosto agli psicologi).
Ne “L’esperienza interiore”, un libro scritto e composto
tra l’inverno del 1942 e l’estate del 1943, Bataille chiarisce sin dalla prima
pagina che per “esperienza interiore” egli intende quella che “viene detta
esperienza mistica… libera però da legami anche di origine con qualsiasi
esperienza confessionali”. Il capitolo IV di questo libro è intitolato
“L’estasi”. Qual è la sua concezione dell’estasi? E cosa comporta l’esperienza
estatica? Non
amo la parola “estasi”, per tutto quello che di eccezionalità psicologica - e
dunque, implicitamente, di appropriativo - che essa porta con sé, così come, per
essere sincero, non mi convince molto Bataille
per quella sua commistione di “giovedì grasso e venerdì santo” che lo
contraddistingue e che è ben lontana dalla via maestra del distacco. Mistica è
la continua, costante esperienza della grazia, ovvero del divino nell’umano e
dell’umano nel divino. La sua estasi,
se così vogliamo dire, è un’estasi del quotidiano, una profonda gioia nel
presente, qui ed ora. Sotto questo aspetto, sono piuttosto da sottolineare le
analogie con il buddismo
zen.
“L’evento mistico si
produce dentro l’anima, dentro ciò che nell’uomo vi è di naturale in virtù di
qualcosa che naturale non è, e che sta fuori di essa, per lo meno in quanto, in
senso stretto, non ne è parte”. È d’accordo con queste parole di Maria Zambrano? Sono
d’accordo, anche se con qualche riserva per l’espressione iniziale “evento
mistico”, che è carica di un significato psicologico, in quanto rimanda a quella
concezione di “stati” da conseguire che è implicitamente appropriativa, e
contrastante con la via maestra del distacco, come accennavo prima. Per questo
stesso motivo uso con cautela lo stesso sostantivo (e aggettivo) “mistica”, che
è prevalentemente carico di un senso di eccezionalità psicologica.
Lo psicoanalista
inglese Bion era stupito dell’“accordo sorprendente” tra le descrizioni offerte
da tutti i mistici che pensano di aver avuto l’esperienza della realtà ultima.
Pensava di aver trovato la migliore espressione di questa esperienza
propriamente indicibile nella Salita al Carmelo di Juan de la Cruz. La mente che
cresce con l’aiuto della psicoanalisi soffre, con le debite proporzioni, come
l’anima che cerca l’unione divina. Cristina Campo ci ha lasciato uno straordinario giudizio su
Juan de la Cruz come scrittore: “Il mistico che ci diede la ratifica tecnica di
ogni singolo attimo di vita spirituale, in trattati che nulla hanno da invidiare
al più perfetto repertorio scientifico, senza che mai l’ala della parola perda
nulla della sua porpora”. Lo condivide?
Per quanto riguarda la psicoanalisi e Bion,
credo comunque che, più delle accidentali convergenze, si debba continuare a
sottolineare le distinzioni, non per fare gerarchie di merito, ma per
comprendere le cose. Per la sua origine e struttura, la psicoanalisi non ha
nulla a che fare con la mistica, in quanto la prima è, appunto, analisi dello
psichico (e, come tale, destinata la fallimento o all’esaurimento nella
chiacchiera, dal momento che, come diceva già Eraclito,
“per quanto tu percorra l’anima, mai non ne troverai i confini, tanto profondo è
il suo lògos”),
mentre la seconda è esperienza dello spirito, ovvero di quel “fondo” dell’anima
che non ha nulla in comune con le sue facoltà. Questo è uno dei temi essenziali
del mio libro, appunto, La morte dell’anima. Dalla mistica alla psicologia.
Ciò non toglie, ovviamente, che la conoscenza dello psichico, per quanto
possibile, sia utile: come dice Eckhart, lo spirito non può essere perfetto se
corpo e anima non sono perfetti. Per quanto riguarda invece il giudizio di
Cristina Campo su san Giovanni della Croce (che ne ripete uno identico di Simone
Weil),
sono d’accordo. Mi permetto però anche qui una riserva: nel grande casigliano è
presente quell’esigenza sistematica, dogmatica, tipica di tanta trattatistica
“mistica” del suo secolo e di quello successivo. Tale volontà di rigore rischia
di chiudere alla libertà dello spirito, che soffia dove vuole, e non conosce
regole e prescrizioni: come faccio notare anche nel mio libro, non è un caso che
il massimo maestro dell’anima in Occidente, Meister
Eckhart,
non costruisca una trattatistica dell’anima, anzi la rifiuti esplicitamente.
Conosce (ed approva)
l’edizione einaudiana delle Poesie di Juan de la Cruz curata da Giorgio Agamben?
Purtroppo no, e non certo per disistima del curatore, ma solo perché riesco a
leggere san Giovanni della Croce in lingua originale.
Sul piano personale,
dedicarsi allo studio dei mistici cosa ha significato? Ha
significato la gioia di tutta la vita, fin da quando, ragazzino ginnasiale,
scoprii l’antologia di Eckhart intitolata La nascita eterna e capii d’un
colpo di trovarmi di fronte alla massima profondità e luce spirituale possibile.
Anche per lei, come per molto interessati
all’argomento, l’antologia “I Mistici d’Occidente”, proposta da Zolla nel 1963
(opportunamente ripubblicata in due tomi per i tipi di Adelphi nel 1997) ha
rappresentato una pietra miliare? Si
tratta indubbiamente di un lavoro importante, anche se non condivido il concetto
di mistica – misterico, esoterico – che Zolla
sostiene. Vorrei invece ricordare, molto meno noto ma a me molto più vicino, lo
studioso fiorentino Arrigo Levasti, con le sue antologie I mistici
(Firenze 1926) e Mistici del Duecento e del Trecento (Milano 1935). La
biblioteca di Levasti, oggi ospitata nel convento domenicano di San Marco, a
Firenze, costituisce un luogo di lavoro essenziale.
Quale contributo
possono dare i mistici cinquecenteschi nel rispondere alle domande che l’uomo si
pone oggi sul suo destino? I
mistici, non solo cinquecenteschi, ovviamente, rispondono all’uomo di oggi, come
a quello di sempre, offrendo quello che Spinoza
offre al termine della sua Etica: beatitudo et salus.
Sottolineo i due termini: non la accidentale e banale “felicità”, ma la divina
beatitudo; non la altrettanto accidentale “salute”, ma la profonda ed
essenziale salus, che è assoluta salvezza e salute insieme.
Conosce l’antologia di
“Scrittrici mistiche italiane” curata da due eccellenti studiosi, Claudio
Leonardi e Giovanni Pozzi (libro “appassionato e geniale” e che “non ha
precedenti”, secondo Pietro Citati)? Ho
avuto il piacere di conoscere personalmente il padre Pozzi,
quando presentai a Foligno il suo libro su "Angela", e sono amico del professor
Leonardi: ovviamente conosco la loro opera e condivido il giudizio di Pietro
Citati.
Non entro però in merito al tema “mistica femminile”, su cui avrei molte riserve
da fare.
Ha avuto occasione di
conoscere Mino Bergamo (scomparso prematuramente in un tragico incidente di mare
in Indonesia il 3 maggio 1991), studioso del Seicento francese e soprattutto del
linguaggio e dell’esperienza mistica (ricorderò su tutti “La scienza dei
santi”)?
Purtroppo non ho conosciuto personalmente Mino Bergamo,
ma conosco bene i suoi libri. In particolare L’anatomia dell’anima. Da
François de Sales a Fénelon è fondamentale per capire quella svolta
psicologistica che è avvenuta nel ‘600 all’interno della Chiesa e di cui si
parla proprio nel mio La morte dell’anima.
Quali sono le sue
predilezioni poetiche?
Rileggo quasi ogni estate La Divina Commedia. Ma ho la fortuna di essere
stato amico anche di poeti contemporanei, come Luzi
o Carifi.
Nel primo dei suoi
preziosi studi “Sul fantastico” (che ha per sottotitolo “Tra l’immaginario e
l’onirico”) lo psicoanalista Salomon Resnik scrive: “Ogni corpo è madre, segnala
Meister Eckart, il grande mistico, perché ha come funzione e come missione di
contenere il massimo della diversità viscerale, fisica e mentale di ogni
essere”; e più avanti leggiamo in una nota: “In Santa Teresa d’Avila il castello
interiore rappresenta il mondo interiore, che protegge dal mondo circostante e
profano la sacralità dell’anima (Libro de las moradas o Castillo interior,
Aguilar, Madrid, 1945)”. Come accoglie quest’interpretazione? Cosa le suscita? Per
quanto riguarda la prima citazione, non v’è dubbio che, come ho accennato prima,
il corpo sia importante. Però resta vero il pensiero di Plotino:
non l’anima è nel corpo, ma il corpo è nell’anima, così come l’anima è nello
spirito, e non viceversa.
La
seconda frase è più complessa. Il “castello interiore” è innanzitutto la
versione castigliana del Burg der Seele [vedi domanda 3], ovvero la parte
più nobile ed essenziale dell’anima dei mistici tedeschi. Certo è una
“fortezza”, ma non sottolineerei la sua funzione di difesa e soprattutto non
metterei in contrapposizione sacro e profano, interiore ed esteriore, proprio
perché, come dicevo prima [domanda 4], l’esperienza mistica è esperienza di
unità, in cui tutto il mondo, tutta la vita, sono sacri.
Qual è il valore
dell’opera di Angelus Silesius, “Il pellegrino cherubico”? È uno
dei testi poetici e mistici più alti dell’Occidente, vero “vaso di raccolta”
della sapienza spirituale classica e cristiana. Faccio mio il giudizio di
Schopenhauer,
che chiamò Silesius
“ammirabile e incommensurabilmente profondo”.
Nel lavoro di traduzione, qual è l’autore che le ha dato
più filo da torcere? E perché?
Indubbiamente proprio il Pellegrino cherubico, perché nel giro di due
versi, con i monosillabi o i bisillabi spesso dai molti significati tipici della
lingua tedesca (del ‘600, tra l’altro) esprime dei concetti appunto
“incommensurabilmente profondi”, con allusioni e giochi di parole che non è
facile rendere in italiano. Devo dire però che ho compiuto questo lavoro insieme
all’amica poetessa Giovanna Fozzer, che è la traduttrice anche di Margherita
Porete.
Qualcuno ha scritto
che la prosa di Eckart non lascia più spazio ai sentimenti di quanto non lasci
spazio alle visioni. Secondo lei? E’
vero, almeno nel senso speculativo, hegeliano,
del termine, per cui il sentimento è ciò che non lascia essere lo spirito; e
delle visioni poi non parliamo, proprio in quanto quintessenza dello
psicologico. D’altra parte però voglio sottolineare che la prosa di Eckhart
(ed anche la sua poesia: non dimentichiamo il suo Il nulla divino, Milano
1999) fa spazio alla luce: non alle visioni, ma al vedere, cioè, in ultima
analisi, all’essere.
Le piacciono le poesie
di Cristina Campo? Devo
molto all’amicizia con Giovanna Fozzer, che di Cristina Campo è studiosa, la
conoscenza e l’apprezzamento anche della sua opera poetica.
Professor Vannini, la
definizione dell' "Iliade" come "poema della forza" è di Simone Weil
(1909-1943), che - nel suo libro “Il volto del dio nascosto. L’esperienza
mistica dall’Iliade a Simone Weil” (Mondadori, 1999) - lei cita abbondantemente
in proposito. Che cosa voleva mostrare precisamente la scrittrice francese?
Mostra come nell'Iliade, più che in ogni altro luogo, sia contenuta la
comprensione della forza, ovvero della necessità cui l'uomo è soggetto, ed,
insieme, nel poema omerico si insegni a non adorare la forza stessa. Nell'Iliade,
insomma, è già contenuto il concetto platonico
della trascendenza del bene rispetto all'essere, e questo è il fondamento della
mistica autentica, rigorosa negazione di ogni idolatria.