Michela Pereira
Il testo che pubblichiamo è
stato letto al IV Seminario di teologia e storia della mistica della
Fondazione Franceschini, dedicato allo Specchio delle anime semplici di
Margherita Porete, tenutosi alla Certosa del Galluzzo, il 5 giugno 1997.
Il mio intervento si propone di
mostrare la possibilità di una lettura del Miroir di Margherita Porete
che contestualizzi quest’opera nell’ambito della discussione filosofica
e teologica alla fine del Duecento. Si articolerà in due serie di
schede: 1. la presenza di Margherita e della sua opera in alcuni studi
recenti di storia della filosofia e della teologia (De Libera; Trottman;
Bérubé); per contrasto si rileva l’assenza di un capitolo dedicato a
Margherita nella History of Women Philosophers a c. di M.E. Waite; 2. la
messa in luce di alcuni punti di contatto fra tematiche presenti nel
Miroir e tematiche filosofico-teologiche scolastiche sia coeve che
precedenti: tenterò cioè di mostrare come nel libro di Margherita si
possano identificare dei nuclei tematici teologici, antropologici ed
etici, la cui elaborazione è usualmente attribuita in primo luogo ad
Eckhart anche da studiosi e studiose recenti che hanno messo a confronto
i due autori (De Libera, Vannini, Bérubé, Hollywood). La presenza di
questi nuclei tematici permette di mostrare la consapevolezza e di
ipotizzare un’interazione di questa beghina “en clergie molt suffisant”
nei confronti della cultura della sua epoca anche al di fuori del
movimento beghinale.
I. La legittimità di questo mio
approccio va almeno rapidamente discussa, esplicitando i due
presupposti, di ordine epistemologico e storiografico, che lo motivano.
Sul piano epistemologico si tratta del mio interesse a verificare nel
corso della storia del pensiero occidentale, ed in particolare nell’età
medievale, la presenza di contenuti teoretici non esplicitamente accolti
nella tradizione filosofica moderna, e dunque non elaborati come saperi
filosofico-scientifici ma non scomparsi dall’orizzonte del pensiero: la
tradizione mistica offre indubbiamente contenuti di tal genere per quel
che riguarda in special modo gli ambiti teologico e antropologico.
Questo interesse nasce all’interno della crisi filosofica del nostro
secolo, e fa pernio sull’idea di Sapienza, abbandonata a favore della
filosofia e della teologia intese come ‘scienze’ proprio nell’epoca di
Margherita Porete. <br> Sul piano storiografico, la possibilità di una
lettura teoretica del Miroir si colloca nel contesto del riconoscimento
di una corrente di pensiero che alla fine del XIII secolo si oppone alla
separazione dei domini della filosofia e della teologia, e cerca di
riunirli così come Kurt Flasch ha mostrato a proposito di Eckhart (K.
Flasch, Introduction à la philosophie médiévale, Fribourg-Paris, ed.
univ. Cerf, 1992, pp. 196-7). Ora, è appunto alla separazione fra
filosofia e teologia che la storiografia filosofica riconosce di aver
costituito il primo e determinante passo per la definizione della
filosofia in senso moderno; ed è, al contrario, la loro unione orientata
alla vita felice degli esseri umani che definisce - in maniera molto
schematica - il carattere della Sapienza. Il sapere teologico ed
antropologico che in Margherita si origina nell’esperienza mistica (in
particolare nella “scoperta” che essa fa a partire da un percorso
mistico tradizionale: l’abbandono della volontà) può inscriversi in
questo contesto.
La mia contestualizzazione del
pensiero di Margherita non mira dunque a recuperarle il titolo di
“filosofa” per collocarla in maniera lineare dentro una storia della
filosofia, sia pure riveduta e corretta, in un’ottica di accumulo che è
stata spesso quella degli studi di storia delle donne. Margherita,
probabilmente, non si sarebbe definita filosofa: ma, come fa notare C.
Bérubé, forse neppure Duns Scoto sarebbe tanto d’accordo con noi quando
lo diciamo tale ... E’ innegabile comunque che Margherita non ha avuto
alcun interesse ad elaborare il sapere originato nell’esperienza mistica
nei termini di quella Raison a cui così aspramente si contrappone -
peraltro mostrando di averne una conoscenza ravvicinata - specialmente
nei primi 35 capitoli del libro. Tuttavia non si può dire con
altrettanta sicurezza che essa non abbia cercato di comunicare la
Sapienza raggiunta attraverso pratiche (usages) verosimilmente radicate
nella tradizione cisterciense, con un linguaggio che non è
esclusivamente, e neppure prevalentemente, narrativo o autobiografico,
ma che mediante la moltiplicazione delle voci nelle figure allegoriche e
la costruzione di una strategia dialogica complessa testimonia la
presenza di uno stile di pensiero consapevole (e consapevolemente
contrapposto a quello aristotelico).
Del resto, se la prima
destinazione del Miroir era certamente il movimento beghinale a cui
Margherita stessa apparteneva o di cui aveva fatto parte in un periodo
della sua vita, essa non era l’unica: la redazione del libro che noi
possediamo, e che - secondo i documenti processuali - era “simile” al
libro condannato la prima volta a Valenciennes, testimonia di un
distacco della Porete dalle beghine che, com’essa dichiara, si
affiancano ai chierici nel non comprendere la sua voce. E’ illegittimo
pensare, alla luce di questa dichiarazione, che Margherita abbia avuto
presente, e forse non solo dopo la prima condanna, almeno anche altri
destinatari? Ricordiamo che le “Signore sconosciute” alle quali sole
Margherita riconosce la capacità di comprendere il suo libro non
scrivono: Margherita dunque si differenzia da esse, oltre che dalle
beghine che non la comprendono (Sembra cioè di poter individuare due
elementi di distacco dall’ambiente beghinale: il distacco dalla più
comune via praticata nei beghinaggi (come mostrano la letteratura
agiografica e Bynum) che mi pare correttamente identificato da A.
Hollywood nel rifiuto dell’ascetismo e della sofferenza del corpo come
via alla mistica; ma anche il fatto di ostinarsi a voler comunicare il
proprio sapere fuori da un ambiente ristretto che condivideva questa sua
posizione - le Dames nient cogneues. Non potrebbero essere i teologi -
certi teologi almeno - i destinatari più probabili di questa imprudente
comunicazione?).
II. Il primo stimolo a tentare
una lettura in questo senso ‘filosofica’ del Miroir mi è stato fornito
dalla constatazione, nel corso del primo incontro col testo anni fa,
dell’importanza della figura di Raison nel contesto delle allegorie del
libro. Una così esplicita e costante polemica non si giustifica, a mio
avviso, se non supponendo in Margherita la consapevolezza di essere
portatrice di ‘verità dissonanti’ rispetto a quelle della Scolastica e
insieme la volontà di confrontarsi con esse.
Un secondo elemento mi è sempre
apparso rilevante in quest’ottica: è l’esistenza della traduzione latina
del Miroir che l’editore, Paul Verdeyen, ritiene preparata durante la
vita di Margherita. L’argomento principale di Verdeyen, che l’esistenza
di questa traduzione sarebbe provata dalla citazione di frasi in latino
nella condanna, è stato contestato da Colledge, il quale non vede la
necessità di presupporre l’esistenza di una redazione completa
dell’opera in latino, stante la pratica altre volte attestata di far
tradurre appositamente solo le frasi inserite nella condanna. Tuttavia
Colledge non dimostra l’impossibilità che la traduzione latina sia stata
fatta prima del 1310, ma solo il carattere non probante dell’argomento
di Verdeyen. In assenza di uno studio specifico della questione, mi pare
intanto da rilevare che l’approvazione di tre uomini di chiesa, uno dei
quali il magister in teologia Goffredo di Fontaines, redatta prima del
1306 o del 1309 (date indicate alternativamente per la morte di
Goffredo), e i tentativi ripetuti di Margherita di diffondere il suo
testo, anche dopo la prima condanna (che è del 1305) in ambienti
ecclesiastici, e non solo popolari, giustificherebbero appieno la
redazione di un testo latino per sua iniziativa. (Margherita stessa
conosceva il latino, se aveva tradotto la Bibbia in volgare, come
afferma una cronaca).
Infine, la lettura del Miroir
tradisce la presenza, in Margherita, di una serie di fonti alquanto più
nutrita di quelle indicate da Verdeyen nella sua edizione; su alcune di
queste cercherò di dare qualche ipotesi di lavoro, con l’avvertenza che
puntare in direzione di una ricerca delle fonti non significa voler
ridurre il testo della Porete ad una ripetizione di temi e motivi di
altri, ma cercare di arricchirne la comprensione attraverso il gioco di
contrasto che il confronto permette. Del resto sul rapporto fra
Margherita e la cultura del suo tempo si esprime, in maniera molto
chiara, Romana Guarnieri ancora nella presentazione della traduzione
italiana del Miroir (pp. 23-4).
III. Alain De Libera ricorda
Margherita nel suo libro Penser au Moyen Age (1991), nel contesto più
ampio della sua discussione della diffusione dell’ideale della vita
philosophica al di fuori degli ambienti universitari (averroisti) in cui
essa si è originata, che ha in Eckhart (con Dante) uno dei suoi più
significativi rappresentanti: ebbene, quando Eckhart arriva nella
provincia domenicana teutonica per predicare alle beghine, quello che
trova (p. 307) “ce ne sont pas des visions ou des spasmes [secondo la
caratterizzazione ormai corrente della mistica “femminile” contrapposta
alla teologia “maschile”] qu’il doit affronter, ce sont des idées. Il ne
peut, d’ailleursm que s’atteindre à ce phénomène d’explosion
intellectuelle. Il vient de Paris, ou il a enesigné comme maître durant
deux années, or c’est là que, en 1310, on a jugé et brûlé Marguerite
Porète ... En 1311-1312 s’est tenu le concile de Vienne. On y a condamné
les ‘Huit erreurs des bégards et des béguines sur l’état de perfection’[nei
quali si riconoscono posizioni del Miroir, com’è noto]. Ce son là des
erreurs théologiques, non de simples écartes de conduite, voire de
langage”. Nonostante questo riconoscimento, peraltro obliquo, del
significato teologico del libro di Margherita, De Libera prosegue su
“l’influence intellectuelle qu’Eckhart a exercée sur les communautés de
femmes de Teutonia” (p. 308) e le idee espresse da Margherita non
vengono indagate.
Più di recente, nel suo
ponderoso studio sulla visione beatifica (1995), Christian Trottman
dedica un paragrafo a quella che definisce la contestazione della
dottrina tomista del lumen gloriae nel contesto beghinale
fiammingo-renano. La dottrina di Tommaso, qual’è esposta nella STh I q.12,
affermava che la visione dell’essenza di Dio non è possibile agli esseri
umani se non attraverso la concessione di un habitus soprannaturale, il
lumen gloriae appunto, che permettesse di superare la limitatezza
dell’intelletto umano per poterlo rendere ricettivo dell’oggetto
infinito che è Dio. Il Miroir è brevemente richiamato (pp. 326-327) come
l’unico esempio di elaborazione della posizione beghinale, che secondo
Trottmann considera il settimo stato come “prétention à vivre dès
ici-bas un état de vie éternelle qui est paradoxale et sera jugée
hérétique” (p. 326) - ma lo studioso interpreta in maniera erronea (di
fatto sposando l’interpretazione del concilio di Vienne, già messa in
discussione da Orcibal, pp. 40 e 53) il settimo stadio del percorso
mistico descritto da Margherita con chiarezza nel cap. 118. Infatti il
settimo stato è esplicitamente detto da Margherita come quello che
“intra se amor servat ad nobis dandum in perenni gloria, quem nescimus,
donec anima fuerit a corpore exuta” (Et le septiesme garde Amour dedans
elle, pour nous donner en permanable gloire, duquel nous n’aurons
cognoissance jusques ad ce que nostre ame ait nostre corps laissé:
332/3. Qui e in seguito i numeri di pagina si riferiscono all’edizione
bilingue in CCCM). Il dispositivo degli stati, o gradi definito nel cap.
118 è più correttamente interpretato da Paul Mommaers come un percorso
che procede secondo due direzioni diverse: “Ainsi le 5e état n’est pas
la conséquence des états antérieurs, mais la répercussion du 6e, qui est
dejà présent. Ce qui explique le 5e état, c’est que l’âme y est ‘souvent
ravie au sixième état, mais cela lui dure peu’ (58, 8-9). Il en va de
même pour le rapport entre le 6e et le 7e: ‘Cette manifestation provient
du septième état et procure le sixième’ (61, 15-16)” (p. 94). Dunque il
percorso ascendente e volontario fino al quarto grado incluso,
comprendente la morte al peccato e la morte alla natura, si fa
discendente negli ultimi gradi, in cui il raggiungimento della
condizione di anima annihilata con la morte della volontà (quinto grado)
è fatto dipendere dalla iniziativa divina che si manifesta
discontinuamente nel sesto grado: “Et amor de sua sublimi bonitate hoc
debitum solvit” (et Amour de luy par sa haulte noblesse a ceste debte
payee: 332/3). La condizione continuativa di visione e beatitudine che
l’anima può godere in questa vita dipende ed è diversa da quella
transitoria, che altrove (cap. 58) Margherita nomina come esclar
(lampo), che si realizza nel sesto stato e che è così descritta: “Sextus
status seu gradus est, quod anima se non videt propter abyssum
humilitatis, nec Deum propter sublimitatem bonitatis. Sed Deus seipsum
in ea videt sua divina maiestate, qui de seipsum istam clarificat ... Et
tunc est anima in sexto statu, ab omnibus liberata et pura et
clarificata, non tamen glorificata, quia glorificatio est in septimo
statu quem in gloria habebimus ...” (Le siziesme estat est, que l’Ame ne
se voit point, pour quelconque abysme d’umileté que elle ait en elle; ne
Dieu, pour quelconque haultieme bonté qu’il ait. Mais Dieu se voit en
elle de sa majesté divine, qui clarifie de luy ceste Ame ... Et adonc
est l’Ame ou siziesme estat de toutes choses enfranchie et pure et
clariffiee - et non mie gloriffiee; car le glorifiement est ou septiesme
estat, que nous aurons en gloire: 330-331). Questa esperienza diventa la
modalità stabile di esistenza dell’anima nel quinto stato,
caratterizzato dal riconoscimento contestuale dell’anima che Dio è ed
essa non è, e dalla ‘deposizione in Dio’ della volontà dell’anima,
operata dall’intervento della luce divina. “Videt igitur velle anime per
lumen expansionis divini luminis, quod lumen se tali velle communicat ad
resolvendum et reponendum in Deum ipsum velle quod absque tali lumine
reponi non potest” (Or voit le Vouloir, par lumiere de l’espandement de
divine Lumiere, laquelle Lumiere se donne a tel Vouloir, pour remectre
en Dieu ce Vouloir, lequel ne c’i peut sans telle Lumiere rendre:
326/7).
Mi pare che si debba segnalare
come, più che una opposizione o una contestazione della concezione del
lumen gloriae ci sia, nel Miroir, la netta affermazione che il lampo
divino non è una mediazione gnoseologica sui generis che permette di
vedere (cioè essere informati da) un oggetto infinito, ma una
sostituzione del vedere dell’anima col vedere di Dio, che vede se stesso
attraverso di essa - dunque una identità paradossale di soggetto e
oggetto. Il punto di divaricazione dalla concezione albertino-tomista
della fruizione della visione di Dio in vita mi pare questo, e non la
contestazione dell’intervento divino attraverso una illuminazione, sia
essa denominata esclar o lumen gloriae. Il fraintendimento del settimo
stato porta Trottmann a sposare le critiche storicamente mosse a
Margherita e alle sue dottrine, accogliendo l’accusa di antinomianismo
(esemplificata, tipicamente, con l’esempio della fornicazione che non
trova alcuna giustificazione nel testo o nelle vicende di Margherita,
nota 142) e quella di quietismo: ma tutto ciò non toglie che una mossa
fondamentale sia stata fatta, nell’inserire nel contesto di un dibattito
dottrinale centrale della Scolastica quello che storicamente è stato
considerato un testo di devozione.
Molto promettente nel titolo uno
studio di Camille Bérubé, specialista del pensiero di Duns Scoto, che
nel congresso scotistico del 1993 ha presentato una relazione su Amour
de Dieu chez Duns Scot, Porete, Eckhart. La connessione fra Margherita e
Duns è particolarmente interessante anche perché, come Romana Guarnieri
indica nella prefazione storica alla traduzione italiana del Miroir, ci
si può chiedere se il “misterioso francescano inglese ‘magni nominis
vitae et sanctitatis’ di nome Giovanni” [uno dei tre ecclesiastici che
apposero la loro approvazione al Miroir] possa essere appunto Giovanni
Duns Scoto, “il grande francescano antitradizionalista, teorico della
libertà e della beatitudine in Dio dell’homo viator” (p. 21).
Mentre Guarnieri invita a
considerare con attenzione la compresenza, a Parigi nel 1303, di
Eckhart, Scoto, Goffredo di Fontaines (tutti personaggi in qualche modo
collegati o collegabili a Margherita), Bérubé si limita a trattare
separatamente i tre autori considerati, pur dopo aver affermato che al
di là di “quelques divergences assez obvies” ci sono fra loro “des
convergences profondes”: considera i testi esaminati come indipendenti,
eppure costruisce un percorso evolutivo che va “de la simplicité de la
position de Porete ... à la complexité de celle d’Eckhart, pour finir
par la synthèse du Docteur Subtil” (p. 51).
La “semplicità” della Porete è
tuttavia riconosciuta come una posizione dottrinale duplice, in cui la
dottrina dell’amore cortese si raccorda con quella dell’amore puro della
tradizione cisterciense. Berubé richiama in particolare il capitolo 39,
precisando che “sans discretion” non vuol dire però “senza misura”, ma
“senza distinzione”; e osservando cge Margherita intende in senso
letterale ciò che Guglielmo di St. Thierry dice in senso figurato a
proposito della sostituzione della volontà umana con quella divina, e
proclama pubblicamente ciò che per Guglielmo è “il segreto”. In realtà
l’interesse di Bérubé sembra essere più che altro quello di
contestualizzare la problematica del rapporto fra volontà e amore in
Duns, stranamente definito a p. 74 come “lecteur posthume de Porete et
d’Eckhart” (! Scoto muore nel 1308: che vuol dire lettore postumo?), e
di mostrare che il magister francescano “nous semble avoir voulu
corriger les ambiguïtés des doctrines alors diffusées dans les
Universités et le peuple” (p. 75). Ma il suo apporto di analisi
testuale, la stessa indicazione di luoghi testuali di fatto sincroni,
invitano a immettere il pensiero di Margherita nel circolo dei dibattiti
filosofico-teologici parigini dei primi anni del ‘300, senza limitare
a-priori la rilevanza di questo pensiero al rapporto con Eckhart, come
invece avviene nello studio di Marco Vannini che accompagna la
traduzione italiana del Miroir e in quello di Amy Hollywood, che vede in
Margherita un’elaborazione del tema della volontà che soltanto nel
domenicano trova completa elaborazione filosofica.
IV. Occorre ora tentare di
mettere a fuoco se/quali tematiche filosofiche e teologiche emergono da
una lettura del Miroir e se/a quali tradizioni esse possono essere
confrontate. Una lettura “fredda” del testo di Margherita permette di
individuare, sotto il piano propriamente testuale, una costruzione a mio
avviso molto pensata, di cui costituisce una spia importante
l’utilizzazione di linguaggi diversi pur nel ritorno continuo (“a
spirale” secondo R. Guarnieri) degli stessi temi.
Nei capitoli 3-35 prevale il
dialogo polemico di Ragione, e si presentano una serie di temi che
mostrano in Margherita una sicura conoscenza della problematica
teologica e antropologica scolastica. Temi sviluppati nel Miroir. La
conoscenza di Dio: non si può parlare di Dio in sé (più Duns Scoto che
teologia apofatica); Margherita contrappone un metodo diverso di parlare
di Dio: capp. 11, 30-32. Ciò si collega ad una esplicita riflessione
sull’ equivocità del linguaggio, capp. 20-21, e sulle potenze
dell’anima: capp. 7, 12. Nella stessa serie di capitoli compaiono alcuni
dei temi-chiave della antrolopologia poretiana: intelletto di Ragione e
intelletto d’Amore, cap. 12; natura sotto le virtù / natura trasformata,
capp. 8, 9, trasformazione attraverso pratiche e superamento della
dualità interiore, capp. 17, 22; le due Chiese, cap. 19.<p> Seguono una
serie di capitoli in cui Margherita sembra ripercorrere le tappe della
propria formazione intellettuale e spirituale: nei capp. 36-43 il
linguaggio della courtoisie propone l’ideale della nobiltà e della pace.
Questo tema è messo da De Libera in rapporto con lo sviluppo del tema
della felicità mentale nella filosofia averroista nella dottrina
dell’uomo nobile eckhartiano (esplicitamente ricondotta da diversi
autori, a partire da Kurt Ruh, all’apporto di Margherita); ma anche col
tema della “vita nova” di Dante. Successivamente, i capitoli 44-51
contengono i riferimenti sia tematici che linguistici più densi alla
tradizione mistica cisterciense, che è documentata anche da Verdeyen,
oltre che unanimemente riconosciuta. Meno frequentemente rilevata è la
presenza di un linguaggio dionisiano a partire dal cap. 52, segnalato in
particolare dall’uso del prefisso ultra (oultre) o da termini come
l’anima “superlibera” (surmontamment franche: 240/1). Secondo quanto
afferma Louise Gnädinger nell’introduzione alla traduzione tedesca del
Miroir, Margherita conosce Dionigi ps. Areopagita attraverso Ugo di San
Vittore: ma occorre almeno ricordare che assai più vicini,
cronologicamente, sono i commenti dionisiani di Alberto Magno.
Le concezioni teologiche - di
una teologia essenzialmente trinitaria e dinamica - a cui l’esperienza
mistica ha condotto Margherita mi sembrano rintracciabili in forma
relativamente sintetica nei capp. 58-70, nei quali emerge il carattere
paradossale della conoscenza umana del divino, denominato Loingpres (longe
propinquum nel testo latino) e lampo (esclar - coruscatio), dando una
lettura esperienziale dell’aspetto-luce della divinità, che informa la
tradizione agostiniana tutta intera, ma anche le interpretazioni
aristoteliche dell’azione divina nella conoscenza come intelletto agente
(nella lettura avicenniana) o attraverso l’intelletto agente, nella
lettura tomista. Nel capitolo 66 si contrappone la divine leçon - divina
lectio che lo Spirito santo scrive sulla preziosa pergamena dell’anima
(teologia mistica) a quella “in scripto posita digito humano” (ceste
leçon n’est mie mise en escript de main d’omme, 188/9): ciò conferma
l’osservazione di Amy Hollywood, che il ‘testo’ delle beghine è la loro
esperienza; ma allora forse le beghine - che non scrivono testi
teologici - non sono coloro da cui l’anima ha preso lezione “in vestra
schola per desiderium operationis virtutum”.
Sul piano antropologico-etico,
Margherita collega la trasformazione dell’anima annihilata alla
“guarigione”, ovvero ad uno stato di integrazione di anima e corpo, che
conduce alla azione “senza perché”: l’enunciazione di questi temi nei
capitoli 71-81 apre alla parte più propriamente mistica del Miroir. La
trasformazione come processo che coinvolge il corpo, realizzando in
qualche modo paradossale sulla terra l’integrazione di corpo e anima
caratteristica dello stato di innocenza, sembra riconducibile ad una
posizione eriugeniana la cui indagine appare molto promettente (Maguire:
human body is the catalyst of the return of all creation to God), e che
ancora una volta richiama temi presenti nei commenti dionisiani di
Alberto Magno: sulla presenza di temi eriugeniani, in particolare del
“pensiero dell’Eden” come riconquista dell’innocenza di Adamo da parte
dell’anima, aveva richiamato l’attenzione Orcibal e su questo è tornata
in una recente comunicazione al 32nd International Congress Of Medieval
Studeies (Kalamazoo 1997) Joanne Maguire, dell’Università del North
Carolina - Charlotte, in una comunicazione dedicata appunto a Eriugenean
Echoes in the “Mirror of Simple souls”. Il processo di trasformazione
infatti riporta la creatura umana allo stato di Adamo, “et est in
paradiso sine esse” (et est en paradis, sans estre: 270/1): ancora una
volta Margherita specifica però che non si tratta dello stato di gloria
vero e proprio, “quia corpus est nimis grossus adhuc” (non mye
glorieusement, car le corps est trop gros a telle creature: 268/9).
Occorre sottolineare che la ricerca più recente ha messo in luce un
forte interesse nella filosofia del Duecento per la condizione di
perfezione del corpo, considerato parte essenziale della persona umana a
partire dalla riflessione scolastica matura sul De anima di Aristotele.
Il corpo è così sia garanzia della possibilità di un percorso spirituale
realmente trasformatore - non solo intellettuale: in questo permane la
validità delle indicazioni di Bynum - sia della capacità di agire della
persona.
Per quel che riguarda il Miroir,
il tema della corporeità è a mio avviso sottovalutato negli studi più
recenti (Vannini ed Hollywood), che non a caso ritengono che solo con
Eckhart il percorso mistico di Margherita trovi un effettivo sviluppo
sul piano dell’etica, nella dottrina dell’agire del giusto. I cenni,
indubbiamente scarsi ma - a mio avviso - chiari che Margherita Porete fa
all’integrazione del corpo nel percorso mistico (non solo il tema
dell’integrazione e del recupero dello stato di innocenza, ma anche
l’affermazione, nel cap. 99 , che esiste una complessione corporea più
favorevole di altre rispetto a questa esperienza), se letti
contestualmente all’affermazione nel cap. 58 (Tales animae, dicit Amor,
regerent unam patriam, si esset necesse, et totum absque ipsis” - Telles
gens, dit Amour, gouverneroient ung pays, se il en estoit besoing, et
tout sans elles: 170/1), indicano che il percorso dell’anima annihilata
non sfocia nel quietismo estatico (nonostante che, seguendo la
tradizione, Margherita mostri di valutare Maria sopra Marta, al
contrario di quanto farà Eckhart) ,ma in una capacità di azione che non
è più centrata sull’aspetto finalistico e limitato della volontà egoica,
ma sulla spontaneità (autonomia, libertà: tematica scotistica, ma non
solo, di interesse diffuso alla fine del Duecento) di un volere che è
percepito come il volere divino nell’anima.
V. Oltre alle potenzialità di
una lettura analitica del Miroir sullo sfondo generale di tematiche
filosofiche centrali nella Scolastica di fine Duecento, come il problema
della visione beatifica, quello del corpo e quello della volontà, vorrei
indicare un elemento che può aiutare a definire meglio il campo di
questa possibile ricerca: si tratta dell’approvazione che tre
ecclestiastici hanno fornito del libro di Margherita, e muove
dall’ipotesi corrente che tale approvazione sia stata sollecitata
dall’autrice stessa, consapevole del rischio di incomprensione -
confermato dalla duplice condanna - che la sua opera correva.
Per quanto dei tre personaggi
uno solo, Goffredo di Fontaines, sia identificato con certezza, l’approbatio
medesima è abbastanza dettagliata da indicarci l’appartenenza
istituzionale di ciascuno dei tre: si tratta di un francescano (il
frater minor magni nominis etc. ipoteticamente identificabile con Duns
Scoto), di un cisterciense (Franco di Villers) e di un secolare magister
di teologia, Goffredo appunto. Seppure non possiamo escludere che la
scelta di Margherita possa essere stata dettata da motivazioni di ordine
personale o comunque estrinseco rispetto ai contenuti del suo libro, in
un caso almeno - e cioè quello del cisterciense - tale scelta coincide
con una delle tradizioni medievali che costituiscono il retroterra
culturale del Miroir. Possiamo allora ipotizzare che sia così anche per
le altre? e quali direzioni di ricerca questa ipotesi favorisce?
Lascio per il momento da parte
Goffredo di Fontaines, il cui interesse per gli apporti più diversi al
dibattito filosofico unitamente ad una comune origine territoriale
potrebbero aver dato a Margherita la speranza di una apertura
indipendentemente da qualsiasi contatto dottrinale specifico.
Vorrei dare invece alcune
schematiche indicazioni relativamente alla “pista” francescana. L’unico
autore del Duecento che Verdeyen identifica come fonte di Margherita è
Bonaventura da Bagnoregio: dunque non è del tutto inverosimile
ipotizzare un confronto con la tradizione francescana, che del resto
presenta aspetti di collegamento col pensiero cisterciense, messi in
luce - fra l’altro - da Trottman a proposito del tema della visione
beatifica . Due temi interni al Miroir sembrano confermare l’interesse
di scavare in questa direzione per individuare materiali di cui
Margherita sembra servirsi in modo tuttavia pienamente originale: la
presenza dell’immagine del Serafino e lo status privilegiato dell’umiltà
fra le virtù.
Nel capitolo 5, Amore presenta
un parallelo fra l’ anima e i serafini: “Haec anima sex alas habet sicut
habent seraphim. Ipsa amplius aliquid non vult, quod per intermedium
veniat ad seipsam. Istud est proprie esse seraphim: nullum enim est
medium inter ipsorum et divinum amorem” (Ceste Ame, dit Amour, a six
ales, aussi comme les Seraphins. Elle ne vieult plus chose qui viengne
par mouyen. C’est le propre estre des Seraphins: il n’y a nul moyen
entre leur amour et l’amour divin: 20/21). Com’è noto, il serafino, con
le sue sei ali, costituisce l’immagine del percorso mistico nel cap. 5
dell’Iterarium mentis in Deum di Bonaventura, nel quale anche compare il
tema dello specchio e della gradualità dell’ascesa. La somiglianza delle
immagini, tuttavia, non fa che sottolineare la differenza nello sviluppo
del percorso: tutto ascensionale e culminante nella totale conversione
della volontà nello slancio affettivo in Bonaventura, poiché la volontà
è il fondamento ontologico della simitudine dell’anima con Dio;
ascensionale e volontario solo nella prima parte del percorso nel Miroir
in cui è proprio l’abbandono della volontà e la condizione apofatica
così raggiunta che consente il compimento dell’esperienza: le sei ali
del serafino, che in Bonaventura raffigurano simbolicamente i gradi del
percorso, assumono nel testo di Margherita un valore essenzialmente
apofatico: le prime due velano il volto (la non conoscenza della bontà
divina), le altre due i piedi (la non comprensione della passione di
Cristo), mentre l’ultimo paio di ali mantiene in volo, ma è un volo non
ascensionale che equivale ad un permanere immobile “sedendo. quia
iugiter immobilis permanet in divina voluntate” (Et assise, car elle
demoure tousjours en la voulenté divine: 22/3).
Il secondo motivo è quello
dell’umiltà. Anche qui, nell’ambito della produzione francescana, siamo
di fronte ad un legame esplicito con la tradizione cisterciense: il
punto di partenza è infatti il Liber de gradibus humilitatis et
superbiae di Bernardo da Chiaravalle, in cui l’umiltà, “virtus qua homo
verissima sui cognitione sibi ipse vilescit” è la via che “de virtute in
virtute, id est de gradu in gradum” conduce a Sion, cioè alla visione e
alla quiete in cui la volontà dormit, mentre rimane sveglio il cuore e:
“Ibi videt invisibilia, audit ineffabilis, quae non licet homini loqui”
(p.33). A questo punto, però - e cioè nell’esperienza della visione -
l’umiltà non è più virtù dell’essere umano, ma di Dio: “Libenter igitur
et ego, Domine Jesu, gloriabor, si potero, in mea infirmitate, in mei
nervi contractione, ut tua virtus, idest humilitas, perficiatur in me”.
Anche per Margherita l’umiltà è duplice: c’è una umiltà che è sorella di
Raison, e un’umiltà che è “madre delle virtù” (cap. 88) e che “nasce
dalla Divinità”: come fanno notare sia De Libera che Vannini (cfr. la
nota 1 alla trad. italiana del Miroir), questa accezione di umiltà è
quella stessa che in Eckhart caratterizza il distacco dell’uomo nobile,
che dunque coincide con la raggiunta deiformitas, ed in cui l’aspetto
della vilificatio esteriore non conta. Pochi decenni prima, il tema
dell’umiltà era stato ripreso da Bonaventura nella prima delle tre
Quaestiones de perfectione evangelica, dove segue essenzialmente
l’insegnamento di Bernardo sulla implicazione humilitas/vilificatio. Ma
negli argomenti contra egli sembra indicare la presenza di una diversa
concezione dell’umiltà, corroborata da citazioni filosofiche, per cui la
vilificatio non solo non è necessaria, ma appare contraria al
raggiungimento dell’umiltà stessa. Esisteva dunque un’altra
interpretazione corrente dell’umiltà? e in quale contesto? In uno
scritto attribuito a Bonaventura, ma certamente non suo, il Compendium
de virtute humilitatis, l’umiltà è posta in rapporto con la virtù
aristotelica della magnanimitas (I.8; che tanta parte ha nella
concezione dell’uomo nobile eckhartiano, ma anche concorda con la
concezione aristocratica di Margherita); con la nihileitas e con lo
svuotamento della mente (I.8) che attira, come fatta concava (reddit
mentem totam vacuam et concavam Deo et donis eius recipiendis: II.10),
la presenza di Dio nel cuore dell’umile ed è “radix activae et
contemplativae vitae” (II.2) e che è resa difficile dalla “natura
rationalis, quae non est plena, sed vacua Dei, et per consequens est
inflata et plena ventosa aestimatione sui ipsius” (III.2). Come si può
vedere persino da queste troppo schematiche osservazioni, la posizione
di Margherita si configura come non esattamente sovrapponibile ad alcuna
delle voci di questo dibattito, nel quale sembra tuttavia entrare di
diritto, rappresentando forse l’unica espressione diretta di una voce
non istituzionale che si esprime su un tema fondamentale della vita
evangelica.
Riferimenti bibliografici
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vita e di battaglia. Saggio filosofico-teologico</i>, in Margherita
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History of Women Philosophers. Volume 2/ 500-1600», Kluwer
Academic Publishers, Dordrecht-Boston-London 1989
MICHELA PEREIRA è ricercatrice
confermata in servizio presso il Dipartimento di Filosofia e Scienze
Sociali dell’Università di Siena; docente supplente (dal 1991-92) di
Storia della Filosofia Medievale. Isuoi ambiti di ricerca sono la
filosofia naturale del Medioevo; l'alchimia medievale nei suoi aspetti
scientifici e filosofici; pensatrici medievali. E' affiliata allaSIEPM (Societ
pour l'Étude de la Philosophie Médiévale); SISPM (Società Italiana di
Storia del Pensiero Medievale); SISMEL (Società Internazionale per lo
Studio del Medioevo Latino; membro del Consiglio Scientifico); SIS
(Società Italiana della Storiche; membro della commissione per la Scuola
estiva di storia delle donne di Pontignano)
Tra le sue pubblicazioni
principali si devono ricordare l' edizione critica di Raimondo Lullo, «Tractatus
novus de astronomia» (in: Raimundi Opera Latina, XVII), "Corpus
Christianorum - Continuatio Medievalis" vol. 79, Turnhout, Brepols,
1989; «The alchemical corpus attributed to Raimond Lull», "Warburg
Institute Surveys and Texts", vol. 18, London 1989; «L' oro dei
filosofi. Saggio sulle idee di un alchimista del Trecento»,
"Biblioteca di Medioevo Latino" 5, Centro Italiano di Studi sull' Alto
Medioevo, Spoleto 1992; «Né Eva né Maria. Condizione femminile e
immagine della donna nel medioevo», Bologna, Zanichelli, 1981.
Da:
http://www.sismelfirenze.it/mistica/ita/studiArticoli/margheritaPereira.htm