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Le piume
del pavone di Luisa Muraro
Della biografia di Margherita Porete sappiamo che scrisse Lo Specchio delle anime semplice e che, a causa di questo libro, morì sul rogo, a Parigi, il 1310; di tutto il resto, molto poco. Nel poco, spicca il suo impegno per far conoscere la scoperta di cui parla il suo libro, scoperta sua e di altre, che lei chiama le "Signore che nessuno conosce" (119, 5). Margherita, infatti, attirò l’attenzione dell’Inquisizione perché andava in giro presentando come buono il suo libro già condannato per eresia da un vescovo. Che cosa aveva scoperto? Aveva scoperto un passaggio diretto tra l’essere finito e l’assoluto, tra questo mondo e Dio: "anima annientata" è il nome che lei dà a questo passaggio. Intendiamoci, il nome non è un simbolo, poiché le anime annientate esistono realmente. Tali sono "le Signore che nessuno conosce", ma, come dice il loro nome, nessuno le conosce, tranne Dio… Come sappiamo allora che esistono? Semplice: se non esistessero, la Chiesa, priva di comunicazione diretta con lo Spirito santo, crollerebbe.
C’è una contraddizione evidente nell’impegno che M. mette a far conoscere una dottrina dell’annullamento di ogni facoltà e di ogni desiderio, dottrina che fu interpretata da molti, lo vedremo, come l’invito ad un vivere su questa terra anticipando una beatitudine ultraterrena passiva e gaudente. Lo stesso paradosso si ritrova all’interno del libro, che mescola l’esposizione dello stato di annientamento con polemiche molto energiche, specialmente verso la Chiesa gerarchica e i suoi intellettuali. Ma questa contraddizione che ci sembra così evidente, non esiste. Sulla politica, M. dice essenzialmente questo, ossia che l’essere o stato di annientamento può accompagnarsi all’impegno massimo nei confronti di questo mondo. Vediamo ora come ella introduca il tema. In generale, bisogna prestare molta attenzione al taglio e alla retorica dello Specchio, perché in questo libro, un capolavoro, non poche cose sono affidate al taglio e alla retorica. Il libro si sviluppa per posizione e successive riprese dei temi, con un andamento a spirale. Ma ogni tanto s’incontrano frasi che rompono la spirale ricorrente degli argomenti per affermare un’idea unica, senza ricorrenza. Questi interventi compaiono senza una ragione apparente, ma non senza un effetto sulla nostra comprensione del testo, effetto che può essere potente, quando ce ne svelano di colpo un significato insospettato. Questo è il caso della frase che introduce il tema della politica, alla fine del capitolo 58. Il capitolo 58 è fra i più citati, indipendentemente dalla frase finale, perché parla delle esperienze estatiche di Anima (di Margherita) – ma il termine "estasi" lei non lo conosce - e dà un nome all’amico divino con cui è in relazione, Lontanovicino. Qui, inoltre, l’autrice allude al fatto d’aver avuto una maestra, informazione preziosa per una biografia di cui è documentata solo la tragica fine. Parla il personaggio di dama Amore che, verso la fine, si sofferma sulla pace sublime che le visite dell’amico lasciano in Anima. Poi, non parlando più di costei ma, vagamente, di "persone come queste", dice: "Persone come queste governerebbero un paese, se ce ne fosse bisogno, sempre restando annientate". Traduco un po’ liberamente; il testo francese dice: "Telles gens gouverneroient ung pays, se il en estoit besoing, et tout sans elles". Bisogna sapere che il sans elles è come la sigla delle anime annientate, di cui si dice e ridice che personalmente non agiscono, è il loro amico (o amica) che agisce in loro, per loro, senza loro. Quella frase sulla capacità di governare, che compare improvvisamente e che sembra nascere da un’associazione mentale tra pace e politica, ci rivela un significato della dottrina dell’annientamento, che non eravamo preparati a pensare. E cioè che l’annientamento non distrugge nell’essere umano ogni capacità di agire in questo mondo e per questo mondo, anzi! ne inaugura una di prim’ordine, quella politica. Il tema del saper governare un intero paese, non verrà più ripreso e noi ci interroghiamo invano su come il morire al desiderio dell’amore e alla volontà del bene possa trasformare una donna o un uomo qualsiasi in un esperto governante: Lo Specchio non lo dice da nessuna parte… o forse sì, dalla prima all’ultima pagina. Bisogna rileggerlo.
Le parole con cui Margherita introduce il tema della politica, suscitano una grave obiezione: dove potrebbero mai prendere, le "anime annientate", la voglia di dedicarsi al governo di un paese e la capacità di farlo bene? La questione si pose fin dagli inizi della storia della mistica occidentale e tormentò Platone, come si legge nei commenti che fanno seguito al mito della caverna. Si tratta di sapere come e perché i filosofi, ossia quelli che sono riusciti a strapparsi alla conoscenza ingannevole dei sensi per contemplare la verità, dovrebbero tornare indietro, nella caverna, per dedicarsi al governo della polis. Platone crede d’aver trovato la risposta nella Legge, che è interessata al bene universale e che ha le qualità necessarie per convincere/obbligare i singoli a dedicarsi al bene universale. La Legge dirà ai filosofi: "Ciascuno di voi deve, a turno, discendere nella dimora comune agli altri e abituarsi a contemplare quegli oggetti tenebrosi" (La Repubblica VII, 520 c). La storia si è incaricata presto di dimostrare come questa filosofia politica non funziona e, quando funziona, è peggio ancora, perché finisce in qualche disastro; tuttavia, nonostante che lo sappiamo e nonostante i tentativi di correzione, questa rimane l’impostazione etica della politica occidentale, senza alternativa - così si pensa - che non sia un relativismo di tipo nichilista. Il che ci stimola maggiormente a interrogare il testo dello Specchio per intendere quello che vuole dire. Chi conosce la storia del cristianesimo occidentale, non ignora l’enormità del problema che tormentò Platone, ma, al tempo stesso, attirerebbe la nostra attenzione sull’importante correzione che, in nome della carità e del mistero dell’incarnazione, il cristianesimo ha saputo portare allo schema platonico e neoplatonico. Per portare la mente che riposa nella beatitudine della contemplazione del vero, del bello e del buono, portarla a inclinarsi verso questo mondo oscuro e ad occuparsi della sua salus (ossia, salvezza e benessere), il richiamo platonico alla Legge non è necessario (né sarebbe sufficiente: pensiamo agli gnostici che si ritirarono nel deserto, pensiamo a Plotino), perché noi abbiamo l’insegnamento e l’esempio di Gesù Cristo. Ma questa, sorprendentemente, non è affatto la risposta di Margherita Porete. Margherita, lontanissima da una dottrina dell’imitatio Christi, continua a ripetere che l’anima annientata è morta ad ogni volontà buona. Dice quest’anima di se stessa: "Io mi riposo tuttissima (fr.: trestoute) in pace, sola e nulla e tutta nella cortesia della sola bontà di Dio, senza muovermi minimamente per volere le pur grandi ricchezze che Dio ha in sé. E’ la/il fine della mia opera, un sempre voler-niente" (51, 14-18). Dice di lei Amore: "Quest’Anima non compie più opere – ossia: non si attiva, non agisce – né per Dio né per sé né per il suo prossimo; se vuole, le faccia Dio che le può fare e se Dio non vuole, a lei non importa" (71, 3-6). E più avanti: "Quest’anima ha il suo vero nome dal niente in cui sta. E poiché è niente, non le importa niente né di sé né del prossimo e neanche di Dio" (81, 3-5). Il completamento di queste sorprendente affermazioni, lo abbiamo visto, è che, mentre l’anima riposa e gode, Dio opera in lei, per lei, senza di lei, tanto meglio quanto più lei è assente.
Ma una simile dottrina, ammesso che sia cristianamente accettabile, si applica alla trasformazione interiore e al rapporto personale con Dio, non all’agire nella realtà finita e temporale. E la contraddizione segnalata all’inizio sussiste, sia quella esistenziale sia quella dottrinale. Il significato della politica in Margherita resta enigmatico. Tant’è che i seguaci e i critici del suo pensiero, così lo hanno interpretato, ossia come un invito ad una vita spirituale fatta di godimento passivo dello stare con Dio, senza impegno alcuno per cambiare la realtà. Mi baso specialmente su quello che oggi sappiamo del successo che il libro di Margherita ebbe nel sec. XIV a Bruxelles, allora capitale del Brabante. Il successo del libro, interpretato nel senso appena detto, portò un uomo di Chiesa tra i migliori che l’Europa avesse all’epoca, a nostra conoscenza, parlo di Jan van Ruusbroec, a polemizzare con i seguaci e con il libro di Margherita (morta a Parigi da almeno venticinque anni) e ad elaborare una bellissima dottrina sulla vita cristiana come circolarità di impegno attivo e godimento passivo. Nella quale dottrina va detto che egli riprese temi e tesi dello Specchio, un libro che, errori a parte, non doveva sentire distante dal suo pensiero. Similmente a Ruusbroec, anche Meister Eckhart – è solo un’ipotesi, ma non azzardata - intervenne a correggere la dottrina di Margherita su questo punto. E’ in questa chiave che suggerisco di leggere uno dei più famosi sermoni tedeschi, intitolato Intravit Iesus in quoddam castellum, numero 86 nella edizione Josef Quint (per non confonderlo con un altro che ha lo stesso titolo, non meno bello ed importante), dove, commentando l’episodio di Marta e Maria nel Vangelo (Lucca 10, 38-42) e contraddicendo l’unanime tradizione seguita anche dalla Porete, mette Marta, la donna che si dà da fare per accogliere bene Gesù, più avanti - spiritualmente - della sorella Maria, quella che si siede ai piedi di Gesù per bearsi delle sue parole. La cosa merita d’essere sottolineata perché Eckhart accoglie la dottrina dell’anima annientata, lo prova il sermone Beati pauperes spiritu (dove la "morte dello spirito" dello Specchio prende il nome evangelico di povertà di spirito) ed è il solo a capire che questa dottrina non è la proposta di un modello di vita cristiana, ma il disegno di un nuovo rapporto tra la creatura e l’assoluto che chiamiamo Dio. Anche lui, però, interviene a correggere alcune conseguenze (o presunte conseguenze) pratiche di quella dottrina. Eckhart e Ruusbroec si oppongono a quello che poteva essere interpretato, e lo fu, come un programma di apatia e passività. Con parole diverse, entrambi danno voce – se così posso esprimermi – allo spirito del cristianesimo d’Occidente, contrario a fare della vita su questa terra una copia della vita celeste. Riassumendo le critiche di Ruusbroec allo Specchio, scrive Verdeyen - l’editore latino del secondo nonché buon conoscitore del primo – che per Ruusbroec l’esistenza terrena "non è il riflesso di un modello eterno, ma un viaggio personale verso Dio". Nel sec. XVII la posizione di Margherita interpretata come abbiamo visto, si ripresentò e venne chiamata "quietismo", un nome che, a posteriori, fu applicato anche alla Porete: "Margherita deve considerarsi la maggiore teorica del quietismo medievale, nella sua forma assoluta, quasi non più cristiana", scrive il fondatore dell’"Archivio italiano per la storia della pietà", don Giuseppe De Luca.
Il pensiero di Margherita poteva, può essere interpretato altrimenti? C’è un’interpretazione della dottrina dell’anima annientata che dia senso alla frase finale del cap. 58? E viceversa, questa frase può rientrare coerentemente nel suo pensiero? Sì, ed è la lettura di Ruusbroec - uomo dalla ricca e fine esperienza spirituale - che ci guida nella buona direzione. Egli ha osservato, esponendo le posizioni dei seguaci dello Specchio, che questi seguaci non sono in tutto indifferenti ad acquisire dei meriti in questa vita, come dovrebbero essere nella logica quietista. "A volte essi dicono il contrario", scrive il maestro fiammingo nelle pagine che dedica a criticare la dottrina di Margherita. E continua: dicono che "loro meritano una più grande ricompensa degli altri, perché in ciò che fanno, Dio è all’opera ed essi subiscono l’opera divina, restando quanto a sé disoccupati, senza agire, ma operati da Dio. In ciò, secondo quello che sostengono loro, c’è il merito più grande". Queste persone sostengono, dunque, di avere dei meriti per quello che Dio opera attraverso loro senza la loro partecipazione attiva, e meriti non da poco, corrispondenti al valore dell’opera divina. Detto scherzosamente, si fanno belli (anzi, buoni) con le piume del pavone, il pavone essendo Dio. Ebbene, questa strana posizione, altro non è che un’ingenua ed arrogante applicazione d’una dottrina che nello Specchio di Margherita compare due volte, in due versioni fra loro differenti, nel capitolo 31 (con una rapida ripresa nel 35) e nel cap. 117. Cominciamo da quest’ultima, formulata dal personaggio di Anima: "Dio non ha dove mettere la sua bontà se non la mette in me, e non ha più dove albergare in modo degno e conveniente, né ha un luogo dove mettersi tutto, se non in me" (Lo Specchio 117, 4-7). E’ riconoscibile, in queste parole, la provenienza d’un celebre passo del Cherubinischer Wandersmann di Angelus Silesius: "So che senza di me Dio non può un istante vivere: se io divento nulla deve di necessità morire". Ma, mentre questo è un vero paradosso mistico (e intendo con ciò la messa in parole di un indicibile), quello che scrive Margherita raffigura qualcosa che può accadere tra questo mondo e l’essere assoluto, ed è il completamento della sua scoperta. M. ha scoperto che, venendo meno liberamente la volontà umana di fare il bene, nella creatura fluisce e agisce l’essere assoluto, perché Dio è amore e questa è la natura dell’amore, comunicarsi, se non trova ostacoli. Può farlo, lo fa in tutte le faccende umane, se trova il passaggio di un amore libero, di una libertà disarmata.
Per caratterizzare questa dottrina (che troviamo anche in altre scrittrici mistiche) ho proposto una formula, che a sua volta potrebbe sembrare un paradosso, ma io non lo considero tale: contingenza di Dio, nel senso positivo della parola contingenza (presente in Dante, ma ai suoi tempi già ignoto alla filosofia come alla teologia) e cioè che Dio può capitare a questo mondo. L’anima annientata è questo: la possibilità che Dio venga a questo mondo, che passi dalla nostra parte. Per questo le scrittrici beghine non hanno in mente viaggi, come ha notato la Guarnieri. Nei loro scritti il punto d’intensità occupato dalla figura medievale del viaggio dell’anima è occupato dalla figura di un andirivieni divino. Dando prova di libertà di pensiero e di linguaggio, Margherita inventa una nuova coniugazione dell’umano con il divino per cui capita che Dio vincoli la sua potenza di agire al rapporto con una creatura prediletta. E’ trasparente come siamo in presenza di una concezione di Dio rispondente ad un’esperienza di donna, intendo di un essere umano che poco o niente si gioca nei rapporti di potere, e molto o tutto in quelli d’amore. Il secondo passo dello Specchio – ma primo nella sequenza dei capitoli – compare nel momento preciso in cui il personaggio di Anima tenta di uscire dalla strettoia di una disparità incolmabile e protesta contro il suo amico che non la mette in condizione di amarlo come lei vorrebbe. A questo punto dama Amore fa un regalo ad Anima: "Calmatevi: la vostra volontà basta al vostro amico. E questo vi manda a dire attraverso di me, e fidatevi di lui: mi manda a dire che lui non amerà niente e nessuno senza di voi, né voi, naturalmente, senza di lui" (31, 17-19). Questo regalo fa entrare Anima in una grande familiarità con Dio, non inferiore a quella che hanno tra loro le tre Persone divine, Padre, Figlio e Spirito santo, come ci viene detto nel capitolo 35. Ma qui, quello che a noi interessa, è lo sviluppo politico: grazie al regalo divino, l’anima annientata diventa il passaggio da cui passa Dio per stare a questo mondo. La distanza incolmabile del mondo nei confronti dell’Assoluto - che ci imprigiona dentro il falso Assoluto delle nostre costruzioni umane o che, altrimenti, ci espone a una deriva senza fine - trova questa risposta di un affidarsi di Dio ad un amore libero e disarmato.
Se c’era un uomo capace di capire una simile concezione dei rapporti tra Dio e mondo, era Ruusbroec. Ma egli vacilla davanti alla libertà di pensiero e di parola della donna (anche Abelardo, ricordate), e si aggrappa, contrariamente al suo stile di ricerca, alle nozioni della teologia scientifica: "Tutto ciò è errore e cosa impossibile, poiché l’operare di Dio in se stesso è eterno ed immutabile, egli è la sua stessa opera e non opera nient’altro. In questo operare non c’è accrescimento né merito per nessuna creatura, perché lì non c’è che Dio il quale, per parte sua, non può né innalzarsi né discendere". In questo modo egli corre il rischio di negare a Dio, primo, ogni contingenza, anche quella positiva (ignota alla scienza e alla filosofia) del suo poter accadere nell’esistenza delle creature e, secondo, il suo dipendere da queste per agire nel mondo. E di inchiodarlo così alla sommità di una gerarchia ontologica, Ente sommo cui è impedito, per impossibilità logica, di avere a che fare con noi. Eppure la sua dottrina non andava in questo senso. Ma non c’è da meravigliarsi; fino ai nostri giorni sul testo di Margherita si fanno errori d’interpretazione e tentativi di addomesticamento, dovuti alle cose letteralmente inconcepibili che dice, ossia non pensabili o difficilmente pensabili dentro la tradizione scientifica che ha origine nella filosofia greca antica. Non c’è da meravigliarsi, considerando anche la grande difficoltà che hanno gli uomini - anche i migliori, come Ruusbroec - a lasciare che l’esperienza femminile si significhi da sé, con la sua irriducibile originalità. Che vuol dire: a lasciare che altro si dica, che altro parli, che altro si mostri, che altro esista. Ed in questo senso Dio c’entra. Prima o poi, essi cercano sempre di ridurre a sé quell’esperienza. Ma anche Dio, e le due cose non sono senza rapporto.
Si pone ora il problema di sapere se l’intuizione politica di Margherita possa tradursi in un pensiero politico di oggi, a distanza di tanti secoli e cambiamenti nella nostra civiltà. Molto dipende, chiaramente, dalla possibilità di tradurre nell’oggi il contesto di quell’intuizione, che è una teologia della contingenza di Dio, riscattata dalle sue ovvie aporie filosofiche con un riferimerimento adeguato all’esperienza femminile. (Io ho imparato, studiando filosofia, che, nella struttura originaria del sapere, l’esperienza non è da meno della logica.) Tuttavia, tenterò di rispondere alla questione senza allargare così tanto il discorso. Ho pensato che la risposta possa trovarsi nella politica del simbolico, intendo una politica efficace (nel fare pace e nel sostenere la voglia di libertà) perché capace di spostarsi e di spostarci dal desiderio della ricchezza alla ricchezza del desiderio, dalle relazioni di potere al potere delle relazioni, dall’amore del bene al bene dell’amore. Questa politica ha due caratteristiche che ritroviamo nello Specchio. Una è la contingenza di un gioco libero delle relazioni e dei segni, un gioco non vincolato da ideali né da norme, tipo la Legge o il bene comune, un gioco dove l’unico criterio è l’incremento esponenziale della libertà (cosa che il denaro non dà: dà un tot di libertà, ma l’incremento esponenziale è del denaro stesso). L’altra è la nostra umana finitezza che si cambia in mancanza, sciogliendoci dai limiti del reale e del realismo per introdurci nella logica del desiderio, che non ha limiti, e facendo del meno il segno e il passaggio del di più. Non è un rovesciamento dialettico, è una pratica: è la pratica della disparità e dell’affidamento. Per terminare e far intendere che cos’è una politica del simbolico, citerò parte di un passo del libro di Margherita che, oltre alla sua intrinseca bellezza, ha il pregio di rimandarci alla poesia mistica del maestro sufi Rumy, vissuto tra l’Afghanistan e la Turchia pochi decenni prima della Porete: "Sei venuto per mescere il mio vino? Ma il vino con cui mi ubriaco è invisibile", dice Rumy. E, poco prima di lui, scrive l’egiziano al Farid, in apertura del suo celebre Elogio del vino: "Abbiamo bevuto alla memoria del nostro amatissimo un vino che ci ha ubriacati, prima della creazione della vite". Ascoltiamo ora Margherita: Amore dice, ad un certo punto, che Anima è ubriaca per tutto quello che sa dell’amore e della grazia divina, e poi aggiunge: è ubriaca non soltanto per quello che ha bevuto ma anche e moltissimo di più per quello che mai ha bevuto e mai berrà. A queste parole, Ragione insorge: com’è possibile? "Sembra, da quel ch’io posso capire di queste parole, che per quest’anima, per ubriacarla, quello che il suo amico beve, ha bevuto e berrà della divina bevanda della sua stessa bontà, conti ben più quello che lei ne ha bevuto e berrà" (23, 24-27). Al che Amore risponde: "E’ proprio così: il più la inebria non per cosa che abbia bevuto di questo più, come è stato detto… Ma sì che ne ha bevuto, dal momento che il suo amico lo ha fatto, perché fra lui e lei, per mutazione d’amore, non c’è alcuna differenza, poco importa il resto (…). Ed è di questa bevanda, senza averne bevuto, che l’anima annientata è inebriata, anima libera ed ebbra! Anima dimentica ed ubriaca, ma molto ubriaca, ma più che ubriaca, di ciò che non ha bevuto né berrà mai!" (23, 29-42).
Da: http://www.dossetti.com/e10bai28mhporetefrancof.htm
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