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Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

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Insegnamenti Spirituali
di Giovanni della Croce

raccolti da Eliseo dei Martiri

 

In virtù del precetto che mi è stato dato, affermo e dichiaro quanto segue: Conobbi il padre fra Giovanni della Croce, trattai e conversai con lui molte volte. Era un uomo di media statura, dal volto grave e venerabile, un po’ scuro di carnagione e di bell’aspetto; il suo tratto e la sua conversazione amabili, molto spirituali e tali da giovare a coloro che lo udivano o parlavano con lui. In questo fu talmente singolare e proficuo che coloro che lo avvicinavano, sia uomini che donne, ne uscivano arricchiti nello spirito, più devoti e meglio disposti alla virtù. Conobbe e praticò intensamente la preghiera e la conversazione con Dio; a tutti i dubbi che gli proponevamo su questi punti, rispondeva con grande saggezza, lasciando coloro che lo consultavano molto soddisfatti e migliori. Amava il raccoglimento e parlava poco; rideva poco e compostamente. Quando rimproverava come superiore, e lo fu spesso, lo faceva con dolce severità, esortando con amore fraterno e sempre con mirabile serenità e gravità.

 

Insegnamento 1. Era contrario che i superiori dei religiosi, e soprattutto dei riformati, comandassero con alterigia, e per questo ripeteva che in nessuna cosa uno si dimostra più indegno di comandare che nel comandare con alterigia; devono anzi fare in modo che i sudditi non se ne vadano mai tristi dalla loro presenza.

 

Insegnamento 2. Non parlava mai con circonlocuzioni né con doppiezza, cui era contrarissimo. Diceva che le circonlocuzioni violano la sincerità e la purezza dell’ordine e lo danneggiano molto, perché insegnano astuzie umane, dalle quali le anime ricevono gravi danni.

 

Insegnamento 3. Diceva che il vizio dell’ambizione nei religiosi riformati è quasi incurabile, essendo il vizio più pericoloso di tutti, perché essi colorano e mascherano il loro governo e la loro condotta con apparenze di virtù e di maggior perfezione, con cui la guerra diventa più spietata e l’infermità spirituale più incurabile. Diceva, altresì, che questo vizio è così potente e nocivo da rendere coloro che ne sono contagiati talmente peccatori che, con la loro vita e con i loro inganni, il demonio crea un guazzabuglio tale da confondere i confessori, anche quelli molto dotti, perché cadono in tutti i vizi. Era molto costante nell’orazione e nella presenza di Dio, negli atti, nelle elevazioni dello spirito e nella recita delle giaculatorie.

 

Insegnamento 4. Diceva che tutta la vita di un religioso è un sermone dottrinale o deve essere tale e deve avere per tema queste parole, ripetute alcune volte ogni giorno: Piuttosto morire e scoppiare che peccare; tali parole, pronunciate con convinzione, purificano e mondano l’anima, la fanno crescere nell’amore di Dio, insieme al dolore di averlo offeso e al proposito fermo di non offenderlo più.

 

Insegnamento 5. Diceva che ci sono due modi per resistere ai vizi e acquistare la virtù: uno è comune e meno perfetto ed è quando si vuole resistere a qualche vizio o peccato o tentazione per mezzo degli atti della virtù che si oppone e distrugge quel determinato vizio, peccato o tentazione; per esempio, al vizio o tentazione dell’impazienza o dello spirito di vendetta che sento nella mia anima per qualche danno ricevuto o per parole ingiuriose, resisto con alcune buone considerazioni, per esempio sulla passione del Signore: Qui cum male tractaretur non aperuit os suum: Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca (Is 53,7); o considerando i beni che si acquisiscono con la sofferenza e con la vittoria su se stessi, o pensando che Dio ha voluto che soffrissimo, perché la sofferenza è la nostra fortuna migliore. Con tali considerazioni accetto di soffrire, di volere e di subire detta ingiuria, l’offesa e il danno, e ciò a onore e gloria di Dio. Questo modo di resistere e di opporsi alla tentazione, al vizio o al peccato genera la virtù della pazienza ed è un buon modo di resistere, anche se difficoltoso e meno perfetto. Esiste anche un altro modo per vincere vizi e tentazioni e acquistare o guadagnare virtù. Questo modo è più facile, più vantaggioso e più perfetto. Si verifica quando l’anima, solo con atti ed elevazioni piene d’amore, senza altri esercizi, resiste e distrugge tutte le tentazioni del nostro avversario e raggiunge la perfezione nella virtù. Diceva che era possibile farlo in questo modo: quando avvertiamo il moto primo o l’assalto di qualche vizio, per esempio della lussuria, dell’ira, dell’impazienza o dello spirito di vendetta per qualche offesa ricevuta, ecc., non dobbiamo opporci con l’atto della virtù contraria, come si è detto sopra, ma immediatamente, appena lo avvertiamo, dobbiamo ricorrere a un atto o elevazione d’amore contro il detto vizio, accrescendo il nostro affetto nell’unione con Dio, perché con questa elevazione l’anima si allontana di lì, si presenta e si unisce al suo Dio, cosicché il vizio o la tentazione come anche il nemico vengono defraudati del loro scopo e non trovano chi ferire. Difatti, poiché l’anima si trova più dove ama che dove anima, occorre sottrarre divinamente il corpo alla tentazione, e così il nemico non trova dove colpire o avere presa, perché l’anima non si trova più lì dove la tentazione o il nemico volevano colpirla e danneggiarla. E allora – cosa meravigliosa! – l’anima, dimentica del moto vizioso e strettamente unita al suo Amato, non sente alcun moto di quel vizio con cui il demonio voleva tentarla e aveva cercato di farlo; anzitutto perché ha sottratto il corpo, come ho detto, e non si trova più lì e quindi, se così si può dire, è come tentare un corpo morto, combattere con uno che non esiste, uno che non è presente, uno che non sente e quindi non è in grado di essere tentato. In questo modo nasce nell’anima una virtù eroica e meravigliosa, che il dottore angelico, san Tommaso, chiama virtù dell’anima perfettamente purificata; l’anima possiede questa virtù, dice il santo, quando Dio la porta a uno stato tale che non sente i moti dei vizi, né i loro assalti, aggressioni o tentazioni, per la sublimità della virtù che abita in quell’anima. Da ciò deriva una perfezione altissima, per cui non le importa nulla che la offendano o che la lodino e la innalzino, o che la umilino o che dicano bene o male sul suo conto; poiché, infatti, quelle elevazioni piene d’amore portano l’anima ad uno stato così alto e sublime, il loro effetto più peculiare nella detta anima è quello di farle dimenticare tutte le cose che sono al di fuori del suo Amato, Gesù Cristo. E, come ho detto, da ciò le deriva che, essendo l’anima unita al suo Dio e felice con lui, le tentazioni non trovano chi ferire, perché non possono giungere fin dove è salita l’anima o Dio l’ha portata: Non accedet ad te malum: Non ti accadrà alcun male (Sal 90,10). A questo punto il venerabile padre fra Giovanni della Croce disse di istruire i principianti, i cui atti o elevazioni piene d’amore non sono tanto rapidi né leggeri, né tanto ferventi da potersi sottrarre completamente con il loro balzo e unirsi allo Sposo. Se vedono che con tale atto o elevazione non riescono a dimenticare completamente il movimento vizioso della tentazione, pur di resistere, non omettano di usare tutte le armi della buona meditazione e degli esercizi necessari per resistere e vincere. E credano che questo modo di resistere è eccellente e sicuro, perché racchiude tutte le astuzie necessarie e importanti per la guerra.

 

Insegnamento 6. Diceva che le parole del Salmo 118,49: Memor ero verbi tui servo tuo, in quo mihi spem dedisti: Mi ricorderò della tua parola data al tuo servo: con essa tu mi hai dato speranza, sono talmente potenti ed efficaci che per loro mezzo si ottiene qualsiasi cosa da Dio.

 

Insegnamento 7. Ripetendo con devozione le parole del santo vangelo: Nesciebatis quia in his quae Patris mei sunt oportet me esse?: Non sapevate che io devo occuparmi di quanto riguarda il Padre mio? (Lc 2,49), assicurava che l’anima si riveste di un desiderio di fare la volontà di Dio a imitazione di Cristo Signore nostro, con desiderio ardentissimo di soffrire per amor suo e per il bene delle anime.

 

Insegnamento 8. Volendo la Maestà divina, per mezzo di una tremenda tempesta, distruggere e spazzare via la città di Costantinopoli, gli angeli udirono per tre volte queste parole: Sanctus Deus, sanctus fortis, sanctus immortalis, miserere nobis: Santo Dio, santo forte, santo immortale, abbi pietà di noi! Per quelle suppliche Dio si placò immediatamente e si calmò la tempesta che aveva fatto molti danni e ne minacciava di maggiori. Per questo diceva che tali parole sono potenti presso Dio nei bisogni particolari di fuoco, acqua, venti, tempeste, guerre e altre necessità spirituali e corporali, per l’onore, i beni, ecc.

 

Insegnamento 9. Diceva anche che l’amore per il bene del prossimo nasce dalla vita spirituale e contemplativa e che, poiché essa ci viene imposta dalla Regola, ci viene imposto e comandato anche questo bene e questo zelo per il profitto del nostro prossimo. La Regola, infatti, ci vuole osservanti di vita mista e composta, vita cioè che include in sé due aspetti: quello attivo e quello contemplativo. Il Signore la scelse per sé, perché più perfetta. E le forme e gli stati di vita dei religiosi che li abbracciano sono in sé più perfetti, salvo che allora, quando diceva e insegnava questo, non conveniva pubblicarlo, perché i religiosi erano pochi e non si voleva turbarli; anzi conveniva insinuare il contrario per fare in modo che ci fosse un grande numero di frati.

 

Insegnamento 10. E proclamando le parole di Cristo nostro Signore già citate: Nesciebatis quia in his quae Patris mei sunt oportet me esse? (Lc 2,49), disse che qui, per le cose che appartengono al Padre eterno, dobbiamo intendere solo la redenzione del mondo, il bene delle anime, poiché Cristo nostro Signore ha offerto i mezzi preordinati dall’eterno Padre. A conferma di questa verità, diceva che san Dionigi l’Areopagita aveva scritto quella meravigliosa sentenza che recita così: Omnium divinorum divinissimum est cooperari Deo in salutem animarum, cioè: la perfezione suprema di qualsiasi oggetto, nella sua gerarchia e nel suo grado, è salire e crescere, secondo i propri talenti e le proprie capacità, nell’imitazione di Dio, verso ciò che è più mirabile e divino, ossia cooperare con Dio nella conversione e nella redenzione delle anime. In questo, infatti, risplendono le opere proprie di Dio ed è gloria grandissima imitarlo. Per questo Cristo nostro Signore le chiama opere del Padre. Ed è una verità evidente che la compassione per il prossimo tanto più cresce quanto più l’anima è unita a Dio per amore; quanto più ama, infatti, tanto più desidera che quello stesso Dio sia amato e onorato da tutti. E quanto più lo desidera, tanto più si adopera per questo, sia con la preghiera che con tutti gli altri esercizi necessari e ad essa possibili. Ed è tanto il fervore e la forza della sua carità che questi tali, posseduti da Dio, non si possono limitare o contentare del solo guadagno personale, ma sembrando loro poca cosa andare in cielo da soli, con ansie, affetti celestiali e squisite attenzioni, cercano di portarvi molti insieme con loro. Questo deriva dal grande amore che hanno verso Dio ed è frutto proprio dell’orazione perfetta e della contemplazione.

 

Insegnamento 11. Diceva che due cose fanno da ali all’anima per salire all’unione con Dio; sono: la compassione piena d’amore per la morte del Cristo e per quella del prossimo. Quando l’anima si sofferma sulla compassione della croce e sulla passione del Signore, ricordi che egli fu solo a sostenere questa sofferenza mentre realizzava la nostra redenzione, come sta scritto: Torcular calcavi solus: La vasca l’ho pigiata da solo (Is 63,3). Da ciò trarrà e le si offriranno riflessioni e pensieri molto proficui.

 

Insegnamento 12. Parlando della solitudine in una certa predica tenuta nel convento di Almodóvar del Campo, citò le parole del papa Pio II, di felice memoria, che diceva che il frate vagabondo è peggiore del demonio; e che i religiosi, se vanno in visita, vadano in case oneste, dove si parla con cautela e modestia.

 

Insegnamento 13. Spiegando le parole di san Paolo: Signa apostolatus nostri facta sunt super vos in omni patientia, in signis et prodigiis et virtutibus: I segni dell’apostolo li avete veduti in opera in mezzo a voi, in una pazienza a tutta prova, con miracoli, prodigi e portenti (2Cor 12,12), osservava che l’apostolo antepone la pazienza ai miracoli, per cui la pazienza è segno certo dell’uomo apostolico più che il risuscitare i morti. Attesto che in questa virtù il padre fra Giovanni della Croce fu uomo apostolico, perché sopportò con singolare pazienza e tolleranza le prove molto intense che gli si presentarono e che avrebbero abbattuto i cedri del Libano.

 

Insegnamento 14. Parlando dei confessori delle donne, da uomo sperimentato qual era, diceva che si mostrassero alquanto distaccati nei loro confronti, perché le tenerezze con le donne servono solo a corrompere l’affetto e a danneggiarle. E che in questo Dio l’aveva punito, tenendogli nascosto un peccato gravissimo di una donna che lo aveva ingannato per molto tempo e non aveva chiesto a lui il rimedio, perché egli era compiacente con questa donna; ma, per disposizione del Signore, lo scoprì per altra via nel nostro stesso ordine. Di questo fatto sono molto ben informato.

 

Insegnamento 15. Una volta mi disse che quando avessimo visto perdere nell’ordine le buone maniere, parte dell’educazione cristiana e monastica, e al suo posto fossero subentrate la rozzezza e la malvagità nei superiori, che sono vizi propri dei barbari, lo piangessimo pure come perso. Chi ha mai visto, infatti, che le virtù e le cose di Dio si trattano a bastonate e con asprezza? A tal proposito citava Ezechiele: Cum austeritate imperatis eos et cum potentia: Avete oppresso le mie pecore con la forza e la brutalità (Ez 34,4).

 

Insegnamento 16. Diceva che quando si educano i religiosi con un rigore così irrazionale, questi diventano pusillanimi nell’intraprendere cose sublimi e virtuose, come se fossero stati allevati tra le fiere. Così, infatti, ha scritto san Tommaso a tale proposito nell’opuscolo 20 del De Regimine Principum, nel libro al capitolo 3: Naturale est enim ut homines sub timore nutriti in servilem degenerent animum et pusillanimes fiant ad omne virile opus et strenuum: È naturale che gli uomini, cresciuti nel timore, facciano tralignare gli animi al servilismo e diventano pusillanimi davanti a ogni opera virile e forte. E citava il detto di san Paolo: Patres, nolite ad iracundiam provocare filios vestros, ne pusillanimes fiant: Padri, non provocate i vostri figli, perché non si perdano di coraggio (Col 3,21).

 

Insegnamento 17. Diceva di temere che fosse disegno del demonio l’educare i religiosi in questo modo. Se, infatti, i religiosi sono educati con questo timore, non osano ammonire o riprendere i superiori quando sbagliano. E se per questa via o per un’altra l’ordine arrivasse a tale situazione, per cui coloro che a norma di carità e giustizia – e questo è grave! – nei capitoli, nelle riunioni o in altre occasioni non osassero dire quanto conviene, per debolezza, pusillanimità o paura di irritare il superiore, quindi di venire privati delle proprie cariche, il che è ambizione palese, ritengano pure l’ordine come perso o del tutto rilassato.

 

Insegnamento 18. L’ordine sarebbe caduto così in basso che, affermava il buon padre fra Giovanni della Croce, avrebbe preferito che le persone non professassero in esso, perché in questo caso sarebbe stato governato dal vizio dell’ambizione e non dalla virtù della carità e della giustizia.

 

Insegnamento 19. Questo si potrà vedere chiaramente quando nei capitoli nessuno replica, ma tutto è accettato e su tutto si sorvola, e ognuno cerca di ricavarne il proprio vantaggio; così soffre grandemente il bene comune e si alimenta il vizio dell’ambizione, che invece si dovrebbe denunciare senza pietà, perché è un vizio pernicioso e contrario al bene universale. E ogni volta che diceva queste cose, lo faceva dopo lunghi periodi di preghiera e di colloquio con nostro Signore.

 

Insegnamento 20. Diceva che i superiori devono implorare spesso da Dio la prudenza religiosa per governare rettamente e guidare verso il cielo le anime a loro affidate. Lodava molto il padre fra Agostino dei Re per questa virtù, che possedeva in grado eminente.

 

Insegnamento 21. Alcune volte lo sentii dire che non esiste menzogna tanto artificiosa e convenzionale che, se ci si pensa, in un modo o nell’altro, non si scopra come menzogna.

 

Insegnamento 22. Né esiste demonio travestito da angelo di luce che, guardato bene, non si riesca a scoprire.

 

Insegnamento 23. Né c’è ipocrita talmente abile, mascherato e finto che prima o poi e con poche occhiate non venga scoperto.

 

Insegnamento 24. In occasione di un severo castigo inflitto da un superiore, pronunciò una frase divina: che i cristiani, e soprattutto i religiosi, facciano sempre attenzione a punire i corpi di coloro che sbagliano, in modo che le anime non corrano pericolo, senza ricorrere alle crudeltà straordinarie che usano di solito i tiranni e coloro che governano con la forza. E che i superiori dovrebbero leggere spesso le parole di Isaia c. 42 (vv. 1-4) e quelle di san Paolo nella seconda lettera ai Corinzi c. 13 (v. 10).

 

Insegnamento 25. Essendogli stato presentato un postulante, dopo avergli parlato qualche volta, suggerì di non accettarlo perché gli puzzava l’alito. Il cattivo odore era dovuto al fatto che le sue viscere erano malate, come di solito hanno le persone mal disposte, crudeli, menzognere, paurose, mormoratrici, ecc., e che è un principio filosofico che i costumi dell’anima seguono la natura e le inclinazioni del corpo.

 

Questo è quanto al momento ricordo. Se ricorderò altro, ne informerò il N. P. Generale in ottemperanza al suo ordine.

Dato in Messico, addì 26 marzo 1618. Fra Eliseo dei Martiri

 

LETTERA

di Marina di Sant’Angelo

 

Padre nostro, al padre fra Giovanni della Croce parlai a lungo tre volte; le altre volte fu di passaggio.

1. La prima fu quando accompagnò madre Anna di Gesù, che si trova in Francia e che andava a fondare un monastero a Madrid. Entrai per parlare a sua Reverenza, il padre fra Giovanni della Croce, e fu un gran giorno per me. Entrai subito dopo pranzo e uscii sull’imbrunire, perché a me dispiaceva andar via, quindi mi trattenevo tanto. Egli diceva alle monache che entravano che non entrasse un’altra monaca, perché, dal momento che doveva intrattenersi con monache, era meglio farlo con quella con cui aveva cominciato a parlare. Parlava poco, di tanto in tanto si fermava come se – eravamo di fronte al Santissimo Sacramento con la grata – chiedesse a nostro Signore di suggerirgli cosa doveva dirmi. Questo esattamente io non lo so; so però che mi disse queste parole: «Se vuole pervenire all’orazione perfetta, deve fare ciò che le dico, anche se le costasse molta fatica e molta aridità; e se non è decisa a farlo, non glielo dirò». Gli risposi che me lo dicesse, perché con l’aiuto di Dio e anche a costo di morire l’avrei fatto. Disse di esaminarmi interiormente tre volte al giorno e che ogni mese facessi otto giorni di ritiro in cella per fare questo esame, e mi assicurava che entro due mesi avrei avuto nella mia anima solo Dio e non sarei più stata del mondo. Io gli dissi: «Padre, Vostra Reverenza mi dica come devo esaminarmi». Mi disse di esaminare se qualcosa mi allontanava da Dio e mi sottraeva alla sua presenza e al colloquio che si deve instaurare con Sua Maestà, e che dovevo abbandonare i parenti e qualsiasi cosa mi tratteneva fuori di casa, e che in tutto dovevo continuare a cedere ciò che mi spettava di diritto. Mi disse anche di esaminare i sensi e che dovevo fare una morte da viva in questo esame; mi disse di osservare attentamente cosa mi attirava di più. «Padre, quando ritornerà, le dirò le grazie che nostro Signore mi fa attraverso questo esame…». Tutto il poco spirito che ho mi viene da quel santo padre fra Giovanni della Croce. Se avessi saputo approfittarne e avessi fatto correttamente questo esame, avrei constatato che è la cosa più proficua che un’anima possa fare.

2. L’altra volta che gli parlai, mentre era definitore, trattammo sempre della stessa cosa. Mi disse queste parole: «Senta cosa deve fare: anzitutto preghi per quello che deve compiere; per esempio, quando io sto per entrare in Definitorio, devo pregare per tutto ciò che devo trattare e, anche se ci fossero cambiamenti, non mi discosto da ciò che Dio mi ha detto nella preghiera».

3. La terza volta che gli parlai, poiché aveva un po’ di fretta, gli dissi: «Fa ancora Vostra Reverenza ciò che Dio gli suggerisce nell’orazione?». Cominciò a intenerirsi, tanto da non riuscire a frenare le lacrime. Gli dissi: «Padre, non ci faccia caso». Rispose: «Né poco né punto; non dico altro, Sant’Angelo, perché non mi ascoltano». Dovevano avergli procurato qualche dolore. Disse: «Non hanno commesso nessun peccato veniale in quanto mi hanno fatto soffrire, io credo che gioirò per queste sofferenze; e, sebbene ora mi veda piangere, chieda a Dio per me la gloria della sofferenza, perché ne ho bisogno». Padre, ometto di scrivere alcune cose circa le sofferenze di cui mi parlò il padre fra Giovanni della Croce. Voglia raccomandarmi a nostro Signore perché io faccia questo esame in modo perfetto. Di Vostra Reverenza fino alla morte. Marina di Sant’Angelo.

 

Da: http://digilander.libero.it/avemaria78/insegnamenti_di_sgiovanni.htm

 

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