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La mistica speculativa di
Meister Eckhart (Alberto Gerosa)
La figura e la meditazione di Meister Eckhart (Hochheim,
Turingia 1260 ca. - Colonia 13271))
appartengono al milieu geografico e culturale della Renania e
della città di Colonia. Qui era nato e aveva insegnato Alberto Magno; si
comprende quindi facilmente perché in quest’area geoculturale
l’aristotelismo dominante a partire dai primi decenni del XIII secolo e
la “teologia razionale” da esso derivante —massimo esponente della quale
è Tommaso d’Aquino— furono sempre temperati da una forte connotazione
neoplatonica.
Una simile connotazione diede presto vita ad una corrente di pensiero
mistico-speculativa, in cui l’indagine razionale su Dio e sul rapporto
tra la divinità e l’uomo è volta ad evidenziare e a ribadire la totale
alterità di Dio rispetto a tutte le determinazioni della sfera umana.
L’opera di Eckhart in particolare è un grandioso tentativo di fondazione
della fede attraverso la riscoperta del divino che si nasconde nel fondo
dell’anima dell’uomo; una riscoperta la cui necessità viene
esaustivamente argomentata con i mezzi del discorso filosofico.
Ma come può l’uomo, immerso nel caos di un’esistenza determinata —e
quindi finita— ritrovare Dio in sé? Eckhart risponde che ciò è possibile
mediante la pratica del «distacco» («Abgeschiedenheit»2).
Ho fatto uso del termine “pratica” in quanto il distacco —come fra poco
si vedrà— è un’esperienza tutt’altro che teoretico-osservativa, nella
misura in cui con quest’ultima espressione si intendano la percezione e
la conoscenza intellettuale di immagini e contenuti determinati. Al
contrario, il distacco consiste proprio nel rimuovere qualsiasi dato
poiché esso, per quanto grande, puro o nobile sia, è pur sempre limitato
dal suo essere situato all’interno di determinate coordinate
spazio-temporali, il che significa che esso è sempre, inesorabilmente
finito. Dio è invece infinito per definizione, al di sopra dello
spazio e del tempo. Chi rimane legato a qualsivoglia contenuto non potrà
quindi divenire mai simile a Dio, né tantomeno diventare uno con Dio,
come afferma ripetutamente Eckhart. Il Maestro tedesco sostiene che
persino «le rappresentazioni religiose biblico-cristiane, le “storie
della salvezza”, i “disegni divini” […], devono assolutamente
sparire»3.
Anche questo, infatti, costituisce un fraintendimento e —cosa ancor più
grave— un insulto nei confronti dell’infinita natura divina. Un simile
insulto non può neppure giustificarsi con l’involontarietà: l’equivoco
di scambiare Dio con il Sommo Oggetto è infatti secondo Eckhart tutt’altro
che ingenuo, dal momento che dietro all’impulso di oggettivare Dio si
nasconde sempre il desiderio più o meno inconscio di avere a
disposizione un idolo, un feticcio dotato di poteri taumaturgici in
grado di esaudire le richieste dei credenti in cambio di preghiere o di
sacrifici. Dio assume in tal modo la fisionomia del Padre Misericordioso
e del Gran Faraone al tempo stesso, che dà e toglie a suo piacimento e
che quindi il fedele deve solo sperare di ingraziarsi mediante rituali
codificati che si riducono alla mera esteriorità, senza toccare
minimamente la dimensione più riposta dell’anima, quella della vera
spiritualità. Il Dio-Faraone rappresenta quindi il garante della
degenerazione della vera morale —che coincide con la vera conoscenza del
divino— nella cosiddetta «morale retribuzionistico-ragionieristica»4,
che calcola secondo il principio di scambio gli atti propiziatori
da compiere per ottenere i favori del Signore. Il bersaglio polemico di
Eckhart sono tutte le religioni positive, e l’Antico Testamento in
particolar modo. È inevitabile rilevare l’estrema affinità tra la
disamina eckhartiana delle religioni positive come camuffamento dei
bisogni più prosaici degli uomini e le teorie nietzscheane
rispettivamente sulla morale giudaico-cristiana come morale del
ressentiment e sul Cristianesimo come volontà di potenza
dissimulata, nonché le riflessioni di Heidegger su Dio identificato con
quell’Entissimo (o Super-Ente) che solo può garantire la stabilità degli
enti mondani e la loro totale utilizzabilità da parte dell’uomo e dei
suoi mezzi scientifico-tecnici.
Colui che abbia invece la forza di distaccarsi da qualsiasi contenuto
determinato, facendo opera di rimozione crea spazio affinché Dio venga
finalmente a risiedere in lui. Per confermare tale asserto con
l’autorità del Vangelo, Eckhart si cimenta in una esegesi molto
neoplatonizzante dell’episodio della cacciata dei mercanti dal Tempio ad
opera di Gesù (Mt 21,12): seguendo infatti la dottrina di Porfirio, che
insegna che il nous, l’intelletto, è il neos, il tempio di
Dio5,
Eckhart afferma nel suo sermone Intravit Iesus in templum et coepit
eicere vendentes et ementes6
che «questo Tempio in cui Dio vuole regnare […] è l’anima
umana, che egli ha formata e creata perfettamente simile a se stesso…»7.
Chiunque pretenda, pur non essendo Dio, di ritagliarsi un seppur piccolo
spazio all’interno del Tempio per condurvi i propri commerci e le
proprie attività personali; chiunque digiuni, vegli e preghi pensando
così di ricevere qualcosa in cambio dal Signore —il mercante è appunto
chi ragiona e agisce nella modalità del baratto!—, costui verrà cacciato
dal Signore. A questi mercanti Dio non deve nulla, perché tutto quello
che essi possiedono e commerciano appartiene già a lui. Quando Dio dà
qualcosa a qualcuno, lo fa solo per la sua grazia, mai per rispettare
“accordi commerciali”.
Eckhart è un radicale negatore dell’efficacia e del bene che possono
scaturire dalle opere nel tempo. Esse sono anzi destinate a «essere
annientate e perdute […]; neppure possono affatto giungere a Dio,
perché mai è arrivato a Dio il tempo e l’opera nel tempo»8.
Eckhart sostiene che le opere sono utili solamente se favoriscono il
distacco, ovvero se si autosopprimono dialetticamente in quanto
collocate nel tempo e nello spazio per favorire la liberazione dalle
cose del mondo e l’unione con Dio9.
Si potrebbe a questo proposito obiettare al Maestro tedesco che Dio,
compiendo l’atto chenotico di farsi uomo in Cristo, si è calato nello
spazio e nel tempo; quindi parrebbe che tali dimensioni, seppure non
essenziali in Dio, non gli siano tuttavia estranee. Se ciò è vero,
allora anche le opere che gli uomini compiono nello spazio e nel tempo
possono giungere a Dio. Sebbene poi lo spazio e il tempo siano categorie
inficiate dal non essere (ogni spazio è determinato e finito, mai
conchiuso e perfetto come Dio, mentre il tempo dilegua continuamente nel
nulla), entrambi rimangono pur sempre creature di Dio. Asserire che una
creatura di Dio gli sia totalmente estranea è quindi alquanto
problematico.
Si è detto che il Tempio del Signore è l’intelletto, il nous:
strumento principe dell’intelletto è infatti la dialettica,
ovvero l’unico procedimento in grado di “fare il vuoto” negando i
contenuti in virtù della sua natura dinamica e, quindi, di cogliere la
sostanziale falsità di tutte le determinazioni «in quanto incapaci di
comprendere il [proprio] contrario»10.
Come dice Eckhart, «l’anima che sta nella luce dell’intelletto non sa
più niente dei contrari»11:
in tal modo essa si eleva alla luce dello spirito, avendo superato la
dimensione dell’attaccamento ai contenuti e dell’unilateralità dell’Io
psicologico. Dico “unilateralità” perché l’anima che si identifica
erroneamente con l’Io psicologico-empirico riconosce come veri e buoni
solamente i contenuti e le determinazioni che potenziano il proprio
essere nell’esistenza storica, separando in base a tale criterio
manicheamente il Bene dal Male, il Giusto dall’Ingiusto, senza rendersi
consapevole dell’equivalenza —o meglio, ambivalenza— delle cose, della
quale il solo approccio dialettico-speculativo è in grado di rendere
coscienti.
Eckhart attinge soprattutto al Vangelo di Giovanni per spiegare questo
punto fondamentale del suo pensiero: «Voi giudicate secondo la carne;
io non giudico nessuno» (Gv 8,15)12.
“Giudicare secondo la carne” significa esprimere giudizî secondo il
punto di vista dell’Io empirico; simili giudizî sono menzogne —a questo
proposito fa riflettere l’assonanza tra il verbo ‘mentire’ e il
sostantivo ‘mente’, quest’ultima intesa come veicolo intellettuale della
volontà individuale13—,
poiché in verità sono solo strumenti di affermazione della volontà
personale nelle vesti di criteri oggettivi di valutazione.
Se ci si eleva al di sopra della dimensione della «filopsichia»14,
dell’attaccamento allo psicologico, per giungere alla dimensione
spirituale-dialettica, si perverrà ad una regione in cui non esiste più
“ciò che è buono” contrapposto a “ciò che è cattivo”; lì il Bene non si
distingue dal Male e non è possibile discernere il Vero dal Falso.
Infatti, nella regione dello Spirito tutto è ugualmente vero (il che
significa che tutto è nello stesso tempo parimenti falso). L’uomo
spirituale non esprime condanne morali perché è consapevole che tutto
ciò che accade avviene per una intrinseca, insondabile necessità: «in
omni opere, etiam malo, malo inquam tam poenae quam culpae, manifestatur
et relucet aequaliter gloria dei»15.
Abbiamo già ampiamente accennato alla dimensione dello Spirito come fase
più alta e più vera rispetto alle ristrettezze dell’Io e della volontà
personale; vediamo ora di comprendere cosa esattamente Eckhart intenda
con il concetto di “Spirito”. Lo Spirito è quel non-luogo in cui ogni
“perché” non ha più senso; esso è vuoto di qualsivoglia contenuto e
quindi al di là dello spazio e del tempo. Esso solo è suscettibile di
ricevere la luce divina e, cosa ancor più straordinaria, di diventare
tutt’uno con il fluire della vita di Dio. Esso è l’autentico «fondo
dell’anima» («apex mentis»), o «scintilla», o «piccolo
castello»16,
quel Grund ossia fondamento che è tuttavia Abgrund,
abisso, poiché il fondamento è tale solo in quanto è ciò che non è
nessuna determinazione o contenuto finito o creatura.
Solo nel fondo dell’anima è possibile la cosiddetta «generazione del
Verbo», la nascita del Figlio all’uomo che rende l’uomo tutt’uno con
Dio17.
Non si commetta il macroscopico errore di fraintendere il fondo
dell’anima con la parte oscura e non cosciente della vita del soggetto
individuale, ovvero con quell’istanza che la psicoanalisi freudiana ha
posto come causa principe di qualsiasi comportamento e azione:
l’inconscio. Il fondo dell’anima è quanto di più lontano si possa
immaginare da ciò: infatti, mentre l’inconscio è il dominio
dell’irrazionalità del pulsionale, l’«apex mentis» eckhartiano è
la condizione della totale intelligibilità, dell’assoluta chiarezza
derivante dalla piena comprensione. L’uomo spirituale conosce
diversamente dall’uomo esteriore: la sua conoscenza è infatti assoluta e
supera quella di tutte le creature allo stesso modo in cui la conoscenza
del “bianco” da parte di chi possiede come essenza la “bianchezza”
supera quella di chi conosce il “bianco” solo in base agli oggetti di
tale colore che ha visto18.
L’«apex mentis» si identifica anche con l’Amore, dal
momento che la comprensione, che è possibile solo nel fondo dell’anima,
risolve l’opposizione dei contrari e, come il sole che «sorge sopra i
malvagi e sopra i buoni» (Mt 5,45), si rivolge con pari tenerezza
sia ai “buoni” che ai “cattivi”, consentendo in tal modo la
conciliazione tra l’altro da Dio e Dio, tra il finito e l’infinito, tra
il Male e il Bene19.
Poiché è “Comprensione” e “Amore”, il fondo dell’anima si identifica
anche con la vera Vita. “Vivo” è infatti tutto ciò che si muove da sé;
ora chi è attaccato alle creature e alle determinazioni spazio-temporali
dipende da altro, è alienato, ed è da considerare non-vivo nella misura
in cui è mosso dall’esterno e non dall’interno. Ma poiché chi ama non
con l’amore dell’Io psicologico, ma con quello dello Spirito, ama di un
Amore disinteressato, non già di una passione che lo vincola a certe
cose o persone e lo respinge da altre —Eckhart sostiene che «se il
Logos è nato in te, non ti turbi neanche vedendo uccidere tuo padre»20—,
egli, anziché uscire da sé per avvicinarsi alle creature e soffrire
della dipendenza da esse, rimarrà in sé, perché saranno le creature
stesse a venire a lui. Solo chi vive nella dimensione dello Spirito può
quindi comprendere, amare e vivere veramente. Solamente in lui Dio trova
spazio per prendere dimora; solo in lui Dio, che è Amore, opera quell’atto
di tenerezza che è la generazione del Figlio, e solo in lui tale
processo dialettico genera lo Spirito che procede dal Padre e dal
Figlio.
Finora abbiamo parlato di “Dio”: in verità sarebbe meglio fuggire a ogni
tentazione di rendere Dio un’entità positiva —come è il caso di diverse
religioni— sostituendo, come fa Eckhart, il nome «Gott» (in
tedesco, ‘Dio’) con il più indeterminato concetto di «Gottheit»
(‘divinità’) o, ancor meglio, il nome ‘Dio’ con «Uno»21
(l’influsso del Neoplatonismo sull’adozione di questo termine da parte
di Eckhart è evidente). L’Uno, in quanto opposto per definizione al
molteplice, è ciò che sfugge ad ogni tentativo di de-finizione e
de-terminazione. Di conseguenza, “Uno” è la parola esprimente la natura
divina che più si avvicina alla concezione eckhartiana di Dio. Il
Maestro tedesco cita la frase di san Paolo: «Un Dio e Padre di tutti»,
sostenendo che essa significa che «Dio è uno in sé stesso e separato
da tutto»22,
persino da quella paroletta ‘è’ che lo stesso san Paolo omette al fine
di esprimere nel modo più irrelato possibile la natura divina. Eckhart
respinge invece l’equivalenza tomistica di Dio con l’Essere e la
conseguente dottrina dell’analogia tra Dio e le creature. È
facile capire le ragioni di un simile rifiuto se si riflette su quanto
finora considerato, ossia sull’avversione che il Maestro tedesco nutriva
nei confronti di qualsiasi tentativo di oggettivare Dio. Eckhart
interpreta in modo molto particolare la celeberrima risposta del Signore
interrogato sulla sua identità da Mosè sul monte Sinai: «Ego sum qui
sum» (Esodo 3,14)23,
che proprio Tommaso d’Aquino aveva addotto per confortare le sue tesi su
Dio come «actus essendi». Eckhart sostiene invece che tale frase
non significa: «Io sono l’Essere», bensì: «Io sono quel che
sono», ed è da intendersi come tipica formula tautologica e vuota di
chi vuole mantenere celata la propria identità. Dio, spiega Eckhart
nella Questione Parigina 1, è prima «Pensare» che «Essere»; il
Maestro tedesco argomenta infatti che, essendo Dio uno e semplice, e
poiché il pensare è un atto che permane in sé stesso, allora l’essenza
di Dio deve coincidere con il pensare. Riguardo invece all’esistenza di
Dio, essa si identifica con la sua essenza, dal momento che in Dio non
vi sono accidenti. Secondo Eckhart, Dio non pensa perché è, ma è perché
pensa. Eckhart cita in proposito le autorevoli parole del Vangelo di
Giovanni: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e
Dio era il Verbo» (Gv 1,1) —laddove con “Verbo” si deve intendere,
conformemente all’originale greco ‘logos’, quel “discorso
manifestante” i cui nessi col Pensare sono stati in tempi più recenti
illustrati in modo particolarmente efficace dalla riflessione di Martin
Heidegger— e «Io sono la verità» (Gv 14,6). Eckhart commenta
queste frasi dicendo che la verità appartiene non già all’ente, bensì
all’intelletto, dal momento che la verità implica sempre una
relazione24
(come afferma lo stesso Aristotele in Metaf. VI, t. 8). Ora la
relazione, sebbene abbia natura intellettuale, riceve consistenza reale
nel momento in cui l’anima la rende una categoria, proprio come è
il caso del tempo che, ricevendo il proprio essere dall’anima, si
configura come «modo della quantità», ovvero come categoria del
reale25.
È sorprendente l’affinità tra questa tesi eckhartiana sull’intelletto
come creatore di realtà e le teorie kantiane sull’intelletto come
“legislatore” dell’universo. Eckhart fa menzione di un altro passo del
prologo del Vangelo giovanneo, quello che afferma che «tutte le cose
sono state fatte per mezzo di lui» (Gv 1,3): secondo il Maestro
tedesco, la lettura corretta di questa frase sarebbe: «tutte le cose
fatte per mezzo di lui, sono». Quindi, mentre Dio è Pensiero, le
cose, in virtù della loro qualità primaria, la «creaturalità»26
ovvero la loro condizione di enti creati, coincidono con l’Essere. Forti
sono qui gli echi del neoplatonico Liber de causis (testo ben
conosciuto dagli studiosi della Scuola di Colonia), nel quale si afferma
che «prima rerum creatarum est esse». È facile comprendere a cosa
miri Eckhart operando una così netta distinzione tra Pensiero ed Essere,
tra la natura intelligibile di Dio e quella “ontica” delle creature:
egli intende vanificare qualsiasi tentativo di pensare Dio mediante il
tomistico principio di analogia, e quindi di attribuirgli qualsivoglia
connotazione determinata.
Colui che voglia rinvenire Dio nonostante questa abissale e
apparentemente incolmabile distanza, l’«uomo nobile»27
—come Eckhart lo definisce citando il passo del Vangelo: «Un uomo
nobile partì per un paese lontano per ottenere un regno, e poi tornò»
(Lc 19,12)—, deve morire al corpo, all’«uomo esteriore»28
attaccato al mondo e alle creature, per poter finalmente approdare alla
dimensione dello Spirito, ovvero alla dimensione dell’«uomo interiore»
che coincide con «il seme di Dio per diventare Dio» (1 Gv 3, 9).
L’uomo interiore non ha più nessun contatto con le creature, quindi la
sua natura è pura come quella divina. Il contatto con le creature, anche
le più nobili, è sempre dannoso per lo spirito. Eckhart cita il
Cantico dei Cantici per conferire forza metaforica al suo asserto: «Non
fate caso al mio colore scuro […] io sono bella e ben fatta, ma
il sole mi ha abbronzato»29.
Ciò prova, secondo Eckhart, che lo stesso sole, principio vivificante
per gli uomini e le creature, «nasconde e scolorisce l’immagine di
Dio in noi»30.
Nel sermone Intravit Iesus in quoddam castellum…31
Eckhart paragona l’uomo interiore o spirituale a una vergine32,
la cui illibatezza consiste nel non essere contaminata da alcuna
immagine. Tuttavia, rispetto a Dio lo spirito di un simile uomo si deve
piuttosto definire «donna»33,
poiché esso e solamente esso gode di quella meravigliosa fecondità che
consente di generare il Figlio in un sé che è divenuto uno con il Padre
e di dimorare con lui in un’unica luce che trascende ogni spazio e ogni
tempo, diffondendosi in un eterno eppur sempre nuovo “ora”34.
La via indicata da Eckhart è, come risulta da ciò che si è detto in
questo elaborato, quella della povertà interiore, quella di chi «niente
vuole, niente sa, niente ha»35,
di chi ha fatto il vuoto fuori e dentro di sé nell’attesa di ricevere il
Signore. È forse proprio questa la chiave per comprendere le sibilline
parole di Gesù: «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma
chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 17,3) e:
«Chi odia l’anima sua in questo mondo, la conserva per la vita eterna»
(Gv 12,25)36.
Questo è il messaggio più profondo dell’insegnamento eckhartiano; un
messaggio particolarmente attuale nell’epoca in cui viviamo, in cui
sembra che l’uomo, perso tra le cose futili e le distrazioni, non riesca
più a tornare a sé e alla vera spiritualità. Il mondo di oggi è secondo
alcuni governato dal principio della prestazione: tutto ciò che
si fa è in funzione di un determinato fine o, meglio, di un determinato
utile. In altri termini, ogni azione da noi compiuta deve sempre essere
in grado di giustificarsi davanti alla domanda: “perché?”
Chiudo questo mio elaborato con un bellissimo passo eckhartiano che
propone un’alternativa più nobile e umana al modo di vivere
disumanizzante che la civiltà ha assunto come modello da ormai diversi
secoli: «Se qualcuno chiedesse per mille anni alla vita: “perché
vivi?”, ed essa potesse rispondere, non direbbe altro che: “io vivo
perché vivo”…e se si chiedesse a un uomo vero, che opera dal suo fondo
proprio, “perché operi le tue opere?”, se questi dovesse rispondere
correttamente, non dovrebbe dire altro che: “io opero perché opero”, e
se tu gli chiedessi “perché vivi?”, risponderebbe: “non lo so, ma vivo
volentieri!”»37
NOTE
1 Per avere
notizie biografiche dettagliate su Eckhart cfr. la Notizia – La vita
e il processo di Maestro Eckhart, in: Maestro Eckhart, Trattati e
Prediche, a cura di Giuseppe Faggin, Rusconi, Milano 1982, pp.
57-66.
2 Cfr. il trattato Il distacco,
in: Maestro Eckhart, Trattati e Prediche cit., pp.
171-184.
3 Marco Vannini, Mistica e Filosofia,
Piemme, Casale Monferrato 1996, p. 41.
4 Come la definisce Pier Angelo Sequeri
nel saggio Il timore di Dio, Vita e Pensiero, Milano 1993,
passim.
5 Marco Vannini, Meister Eckhart e
il fondo dell’anima, Città Nuova, Roma 1991, p. 83 e: M. Vannini,
Mistica e Filosofia cit. Il passo di Porfirio sul nous
come neos di Dio si trova nelle Lettere a Marcella, cap.19
(ed. Les Belles Lettres, Paris 1982, p. 117).
6 In: Meister Eckhart, Opere
tedesche, a cura di Marco Vannini, La Nuova Italia, Firenze 1982,
pp. 123-129.
7 Ibid., p. 123.
8 Dal sermone Mortuus erat et
revixit, in: Meister Eckhart, Sermoni tedeschi, a cura di
Marco Vannini, Milano 1985, p. 121.
9 Cfr. ibid., pp. 119-125.
10 M. Vannini, Mistica e Filosofia
cit., p. 41.
11 Meister Eckhart, Opere tedesche
cit., p. 177.
12 M. Vannini analizza
l’interpretazione eckhartiana di questa frase del Vangelo giovanneo alle
pp. 165-166 di Mistica e Filosofia cit.
13 Cfr. ibid., p. 40.
14 Ibid., p. 165.
15 Questa proposizione è la quarta di
quelle censurate dalla bolla In agro dominico, ovvero la bolla di
condanna nei confronti di Eckhart e della sua dottrina, pubblicata il 27
marzo 1329 ad Avignone da Giovanni XXII. Il testo della bolla è
riportato integralmente nel volume: Maestro Eckhart, Trattati e
Prediche cit., pp. 62-66.
16 Così Eckhart chiama il fondo
dell’anima nel sermone Intravit Iesus in quoddam castellum et mulier
quaedam, Martha nomine, excepit illum in domum suam, riportato da M.
Vannini nel volume Meister Eckhart e il fondo dell’anima cit.,
pp. 135-141.
17 Dell’eterna nascita del Figlio
Eckhart parla nell’opera latina In Iohannem, n. 8.
18 Cfr. il trattato Dell’uomo nobile,
in: Meister Eckhart, Opere Tedesche cit., p. 53.
19 Cfr. i capitoli n. 5 e n. 6 del
saggio di M. Vannini, Mistica e Filosofia cit., in cui questi
concetti sono illustrati molto chiaramente mediante l’esposizione delle
forti analogie tra il pensiero di Eckhart e quello di Hegel, «massimo
filosofo cristiano [nella cui opera] la tradizione mistica
tedesca giunge a piena maturazione speculativa», pp. 98-136.
20 Dal sermone Videte qualem
caritatem, in: Meister Eckhart, Sermoni tedeschi, a cura di
Marco Vannini, Milano 1991, p. 229.
21 Cfr. il sermone Intravit Iesus in
quoddam castellum…cit., pp.140-141.
22 Dal sermone Unus deus et pater
omnium, in: Maestro Eckhart, Trattati e Prediche cit.,
pp. 285-291.
23 Eckhart espone la sua
interpretazione della frase dell’Esodo nella Questione
Parigina 1: Se in Dio siano lo stesso essere e pensare, tradotta da
M. Vannini in Meister Eckhart e il fondo dell’anima cit.,
pp. 124-130.
24 Cfr. ibid., p. 125.
25 Cfr. ibid., pp. 125-126.
26 Cfr. ibid., p. 126.
27 Cfr. il trattato Dell’uomo nobile,
in: Meister Eckhart, Opere tedesche cit., pp. 45-55 e la
predica Homo quidam nobilis abjit in regionem longinquam accipere
regnum et reverti, in: Maestro Eckhart, Trattati e Prediche
cit., pp. 253-258.
28 Meister Eckhart, Dell’uomo nobile
cit., pp. 45-46.
29 Ibid., p. 50.
30 Ivi.
31 Cfr. nota n. 16.
32 Meister Eckhart, Intravit Iesus
in quoddam castellum…cit., p. 135.
33 Ibid., p. 136.
34 Ibid., p. 138.
35 Dal sermone Beati pauperes
spiritu, quia ipsorum est regnum coelorum, in: Marco Vannini,
Meister Eckhart e il fondo dell’anima cit., pp. 141-148.
36 All’interpretazione di questa frase
Eckhart dedica l’omonimo sermone riportato in: Maestro Eckhart,
Trattati e Prediche cit., pp. 265-269.
37 Dal sermone In hoc apparuit
caritas dei, in: Meister Eckhart, Opere tedesche cit.,
p. 158.
BIBLIOGRAFIA
MAESTRO ECKHART, Trattati e Prediche
(introduzione, traduzione e note a cura di Giuseppe Faggin), Rusconi,
Milano 1982.
MEISTER ECKHART, Opere Tedesche, a cura di Marco Vannini, La
Nuova Italia, Firenze 1982.
MARCO VANNINI, Mistica e Filosofia, Edizioni Piemme, Casale
Monferrato 1996.
MARCO VANNINI, Meister Eckhart e il fondo dell’anima, Città Nuova
Editrice, Roma 1991.
Da:
http://members.tripod.com/holderlin/eckhart.html
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