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Considerazioni sulla
mistica dell'essenza e sulla mistica carmelitana
(A. D'Alonzo)
1- Introduzione alla mistica dell’essenza
Quando si parla di mistica cristiana, si deve anzitutto fare una prima
distinzione di base. Una questione è la "mistica dell'essenza", la mistica
renano-fiamminga (Meister Eckhart, Ruusbroec, Suso, Taulero, "Anonimo
Francofortese", ecc.), fondata sull'integrazione profonda del divino nel fondo
dell'anima. Altra questione è la cosiddetta "mistica del sentimento", in cui il
Tu divino è pensato in termini di relazione sponsale con l'anima: relazione
destinata, però, a rimanere all'interno della drastica dicotomia tra
soggetto/oggetto, amante/amato. Infatti, Meister Eckhart raccomanda sempre il
"distacco" essenziale dell'anima da ogni cosa, anche da Dio stesso: "Perciò,
prego Dio che mi liberi da Dio, perché il mio essere essenziale è al di sopra di
Dio, in quanto noi concepiamo Dio come origine delle creature" (Meister Eckhart,
Sermoni Tedeschi).
Si tratta di due differenti percorsi . Il primo concerne la c.d. “mistica
dell’essenza”, denominata anche renano-fiamminga. Il secondo, la mistica
“dell’amore sponsale” o via amoris, si sviluppa principalmente con Bernardo di
Chiaravalle, Tommaso Gallo, Ugo di Balma, Francesco d’Assisi, il monachesimo
femminile, culminando nell’opera di Francesco di Sales. In realtà, la mistica
renano-fiamminga fino all’inizio del secolo scorso era identificata con la
mistica tedesca. Purtroppo, le gravi mistificazioni naziste del pensiero di
Meister Eckhart, operate soprattutto da Alfred Rosenberg con la sua opera Il
mito del XX secolo, ha reso preferibile- specialmente nei paesi latini-
l’utilizzo del termine “mistica renano-fiamminga”. Recentemente, si è tentato di
distinguere nuovamente la mistica tedesca da quella fiamminga, trascurando forse
il fatto che nel Medioevo non esistevano confini linguistici tra le zone
dell’alto e del basso Reno e che l’integrazione di scritti spirituali era una
pratica scontata ed incoraggiata dalla volontà di creare una letteratura in
lingua volgare.
Capostipite della mistica renano-fiamminga è, ovviamente, Meister Eckhart
(1266-1328), domenicano, condannato per eresia ad Avignone nel 1323 (furono
messe all’Indice 28 proposizioni dei suoi libri). Altri esponenti sono Suso,
Taulero, l’”Anonimo Francofortese”, Ruusbroec, Cusano.
La mistica di Eckhart è denominata anche dell’”essenza”, perché rifiuta ogni
concettualizzazione teologica di Dio, ma anche- cosa ben più innovativa- anche
ogni dicotomia connessa al dualismo amante/amato (dove l’amante è l’anima e
l’oggetto amato è Dio). La mistica eckhartiana ha le sue radici nel
neoplatonismo, in particolare in Proco, e nel pensiero di Scoto Eriugena, ma
soprattutto nello Pseudo-Dionigi. Per Eckhart, la vera conoscenza di Dio
consiste in un “nulla volere, nulla sapere, nulla avere”. L’anima che vuole
unirsi a Dio non deve volere nulla, perché la volontà appropriativa ricade nel
dualismo Io/Tu, conoscente/conosciuto, amante/amato. In pratica per Eckhart la
via amoris conduce ad una falsa unione, soltanto temporanea: simbolicamente
quest’affermazione può essere supportata dalla considerazione che nell’amplesso
sessuale la fusione estatica fra i due amanti è illusoria, gettata nell’attimo e
destinata a dissolversi nella restaurazione della dualità originaria. È quindi,
necessario liberarsi della volontà. L’uomo deve anche liberarsi, per Meister
Eckhart, del falso sapere su Dio, riconoscendo la finitezza e la vacuità di ogni
gnosi positiva. È indispensabile, però, rinunciare anche a determinare,
concretamente, un luogo nell’anima in cui avvenga l’Unitas Spiritus con Dio
(“non avere”). Completamente povera, priva di sapere e di volere, l’anima può
così operare il distacco da ogni cosa, anche da Dio stesso. Dio che è
platonicamente pensato, dapprima, come Intelligenza per esprimere la
trascendenza rispetto all’essere; poi come essere stesso- ma come un essere del
tutto indeterminato, diverso da tutti gli altri enti- talmente indeterminato da
poter essere pensato come nulla. Importante è anche la distinzione in Meister
Eckhart tra Got (“Dio”) e Gotheit (“Divinità”). Il primo resta,
heideggerianamente legato all’ipostasi della presenza e quindi, in fondo,
all’antropomorfismo; il secondo è considerato come l’Abisso della nuda divinità,
cui può giungere l’anima che si spoglia completamente da sé stessa e che supera
anche l’umanità di Cristo. Il distacco conduce l’anima, completamente distaccata
e povera, all’unione con la Divinità: unione che avviene in quel fondo
dell’anima che contiene la stessa scintilla divina. Lo Spirito divino, infatti,
può generarsi nel fondo dell’anima. Fondo dell’anima che, come abbiamo visto,
non può essere individuato in un punto preciso della coscienza: il fondo
dell’anima coincide con il distacco stesso, ed è il fondo stesso di Dio.
Generazione caratterizzata dal primato del momento del Filioque, ossia della
conoscenza e del distacco. A questo punto, l’anima è uguale alla stessa
Divinità: mentre l’uomo è Dio per grazia, Dio è Dio per natura.
" Diciamo dunque che l'uomo dev'essere così povero da non essere e da non avere
in sè luogo alcuno in cui Dio possa operare. Finchè egli riserba un luogo,
ritiene una distinzione. Perciò prego Dio che mi liberi da Dio, poichè il mio
essere essenziale è al di sopra di Dio in quanto cogliamo Dio come principio
delle creature; in questo stesso essere di Dio in cui Dio è al di sopra
dell'essere e al di sopra della distinzione, io ero me stesso, volevo me stesso,
conoscevo me stesso per fare quest'uomo (che sono). Perciò io sono causa di me
stesso secondo il mio essere che è eterno, e non secondo il mio divenire che è
temporaneo. Perciò sono non-nato, e secondo il modo non-nato non posso mai
morire " (Meister Eckhart)
La mistica renano-fiamminga respinge qualsiasi concezione antropomorfica del
Divino, relegandola a mera superstizione, alienazione. È evidente che il Dio del
Libro pensato come un Padrone che decide arbitrariamente chi destinare alla
salvezza e chi alla dannazione, che invia diluvi universali o angeli
sterminatori, è considerato- in questa prospettiva- come una superstizione, se
non addirittura come una bestemmia. Il filosofo cui fai riferimento è Feuerbach
che oggettiva in Dio la proiezione della coscienza umana- ai nostri tempi,
parleremmo piuttosto di “Immaginario”- ed in questo caso è lecito cogliere il
filo rosso che unisce la mistica renano-fiamminga con l’Illuminismo prima e
l’Idealismo tedesco poi. Si ricorderà come, kantianamente, l’Illuminismo nasca
per riscattare l’uomo dallo stato di minorità in cui si trova, dovuto
all’imperfetto uso della Ragione. Senza qui entrare nel merito della distinzione
essenziale tra Ratio ed Intellectus, s’intuisce come quel bisogno profondo di
verità e limpidezza, alla base della filosofia dei Lumi, conduca al rigetto
delle credenze rivelate e della Grande Narrazione veterotestamentaria. Alla base
della Ragione illuminista troviamo la ricerca di Dio con i soli attributi umani,
nel rifiuto di qualsiasi Rivelazione e nell’intuizione che la religione debba
essere sostanzialmente interiore. L’Idealismo tedesco- anche se in parte ha
anche una matrice romantica- in fondo si pone in questa prospettiva: si legga
per esempio il “Saggio di una critica di ogni Rivelazione” di Fichte o la
“Fenomenologia dello Spirito” di Hegel. Del resto lo stesso Pietismo, pur non
uscendo dal cerchio chiuso del sentimentalismo religioso, evidenziava la
necessità dell’interiorizzazione della verità rivelate.
I due diretti continuatori di Meister Eckhart sono Suso e Taulero, entrambi
domenicani.
Suso (morto, all’incirca nel 1366), in un primo tempo aveva seguito la via della
mortificazione del corpo e della macerazione, ma in seguito all’apparizione di
Meister Eckhart in sogno, abbandonò le mortificanti pratiche acetiche per
seguire, finalmente, la via del distacco. Le sue opere principali sono: Il
libretto della Verità e l’Horologium Sapientiae. Nel complesso le opere di
Heinrich Seuse tracciano un cammino meno radicale ed estremo di quello di
Eckhart, conservandone tuttavia, gli insegnamenti essenziali. Suso difende
incessantemente il maestro dall’accusa di connivenza con i Fratelli del Libero
Spirito: così egli sostiene che l’uomo veramente libero e distaccato è al di
sopra delle antinomie e del principio di non contraddizione. Suso riprende da
Eckhart, l’idea- che nel distacco- il massimo è il minimo, la fine è il
principio: gli ossimori non sono tali nella vita dello Spirito. Nel distacco,
tutte le contraddizioni svaniscono nella sintesi del Principio: Principio, però,
che egli intende come Nulla, al quale si unisce l’intelletto dell’uomo
distaccato. Si tratta della ripresa dell’idea eckhartiana (mutuata dallo
Pseudo-Dionigi) del Gotheit come “Nulla”, che però è superiore a tutti gli
esseri perché è privo di ogni determinazione e al contempo le contiene tutte
(ogni determinazione è negazione). Suso si differenzia da Eckhart perché
mantiene l’idea dell’umanità di Cristo, dei santi e della Vergine; mentre
Eckhart sostiene che l’umanità di Cristo deve essere oltrepassata- anzi bisogna
superare l’idea stessa di Dio- per sprofondare nell’abisso del Nulla-Gotheit.
Taulero (Johannes Tauler, 1300-1361), si avvicina forse di più al radicalismo
mistico eckhartiano. Egli sostiene che l’uomo è composto di tre nature. La prima
è sensibile, la seconda è razionale, la terza è spirituale o interiore. Il
percorso di perfezionamento passa attraverso l’evoluzione spirituale dalla
natura sensibile a quella interiore. Fulcro di questa dialettica è l’idea del
“Gemüte” che solo impropriamente deve essere tradotto in italiano con “spirito”.
Il Gemüte è il punto in cui avviene l’unione dell’anima con Dio, ma non è
equiparabile alla “sinderesi” o all’egemonikòn stoico utilizzato dalla mistica
medievale: il Gemüte si riflette sul concetto di Dio come grunt, “Abisso”. Il
Gemüte è il fondo stesso dell’anima.
Importanza capitale ha in Taulero il concetto di “Notte dell’anima”. Riprendendo
il sermone 63 sulla pesca miracolosa (Lc5-38), egli scrive:
“questi uomini si mantengono nella più vera, assoluta, povertà e nel totale
annientamento di se stessi. Essi non vogliono, né hanno, né desiderano altro che
Dio e nulla di proprio, e accade che spesso essi lavorino nella notte, cioè
nell’abbandono, nella povertà, in tenebre dense e fitte e nella desolazione,
tanto da non trovare alcun appoggio e da non sperimentare né luce, Né ardore. E
se in tali tenebre gli uomini si mantenessero in reale e vero abbandono, anche
se Dio volesse da loro eternamente quella povertà, quella privazione e quella
aridità, essi sarebbero disposti a starci volentieri per l’eternità secondo la
sua volontà, senza pensare di guadagnarci qualcosa”.
È evidente che il passo suddetto teorizza l’idea eckhartiana del Nulla divino,
cui deve corrispondere, nel bene e nel male, nella gioia come nella sventura, il
distacco dell’anima. L’anima completamente distaccata dal Mondo e dal vissuto,
abbandonata in Dio, nel terrore della notte, finisce per trovare se stessa e
Dio. Meglio ancora: finisce per riconoscere che è ella stessa Dio, al di fuori
di ogni dualismo creazionista. È un percorso però molto doloroso ed angosciante,
ed è anche questo il senso della “Notte” che colpisce l’anima come se Dio (si
legga il “falso” Dio, il vissuto, il Mondo…), avesse abbandonato l’anima nelle
tenebre.
Il tema delle “Notti” fu ripreso soprattutto da Giovanni della Croce, ma è
presente anche in Maria Maddalena dei Pazzi e nel Quietismo.
2. Il Carmelo ed il culto mariano
La tradizione ha sempre messo in relazione il profeta Elia con il monte Carmelo,
una catena montuosa che si estende dal golfo di Haifa fino alla pianura di
Esdrelon, in Palestina. Nella seconda metà del 1100, alcuni reduci dalle
crociate, si riuniscono sul Carmelo per iniziare una vita contemplativa, dedita
alle preghiere ed all’isolamento. Alberto Avogrado, patriarca di Gerusalemme,
riunisce questi reduci nelle comunità e fornisce le Regole del nuovo Ordine. Nel
1200, l’Ordine emigra in Europa, in seguito all’occupazione musulmana della
Terra Santa. Subito, l’Ordine si caratterizza per la forte impronta mariana. Il
nome della confraternita è Ordine di Santa Maria del monte Carmelo. L’Ordine
originario si fondava, oltre alla devozione mariana, sulla solitudine
contemplativa, sulla preghiera, sulla povertà, sul lavoro. Intanto, l’Ordine da
eremita si trasforma in mendicante. Il primo ottobre del 1247, Papa Innocenzo IV
pubblica la Regola Modificata dei Carmelitani.
Nel 1562, Teresa d’Ávila da avvio alla riforma, fondando il primo monastero di
Carmelitane “Scalze” a San Giuseppe, con cui si propone di restaurare la
primitiva rigidità. Conosce il giovane Giovanni della Croce e lo convince ad
estendere la riforma anche ai frati. Nel 1568, a Duralo (Avila), sorge il primo
convento di frati Carmelitani Scalzi. È restaurata, così, la Regola originaria
suggellata dalla penitenza, il ritiro e la perenne orazione.
3. I fondatori dell’ordine dei Carmelitani Scalzi: Teresa d’Ávila e Giovanni
della Croce
Teresa de Cepeda y Ahumada (1515-1582) nasce ad Avila. Già nella prima infanzia,
manifesta un certo tormento spirituale. Sogna di andare a combattere i Mori e,
contemporaneamente, è attratta dalle vite dei santi, instancabile lettrice
d’agiografie. A venti anni, fugge da casa, per entrare in un convento
Carmelitano. Subito insoddisfatta dalle “mollezze” dell’Ordine, decide di dare
inizio alla riforma carmelitana, fondando i primi conventi di Carmelitane
“Scalze”, in cui è restaurata l’originaria durezza dell’ascesi e della clausura.
Come sovente accade, le autorità ecclesiastiche contrastano le sue iniziative,
finché arriva il benestare papale.
Teresa estese la sua riforma anche ai frati, con l’aiuto del giovane Giovanni
della Croce, incontrato a Medina. Nel 1568 sono inaugurati i primi conventi dei
Carmelitani “Scalzi”, in cui è radicalizzata la regola monastica e cenobitica,
incentrata sulla meditazione e sulla preghiera.
La spiritualità di Teresa d’Ávila risente dell’instabilità psichica, che la
caratterizza fin dall’infanzia. Nel 1538, una gravissima malattia la rende quasi
invalida. Durante la convalescenza si avvicina alla meditazione interiore del
francescano Francisco de Osuna. Inizia così a gettare le fondamenta del suo
castello interiore. Sempre malata, sempre tormentata, Teresa attribuisce molta
importanza alla malattia fisica ed al dolore psichico come fondamento del
cammino spirituale verso Cristo. Si tratta di quella concezione del dolore come
gestazione introspettiva, gravidanza spirituale, che troviamo anche in Nietzsche,
ma non solo. Quasi tutte le civiltà c.d. “primitive” presentano dei riti di
passaggio che comportano gravi sofferenze psicofisiche, prove atroci, correlate
da scarificazioni, ferite rituali, incisioni, mutilazioni (molte delle quali
sugli organi sessuali). In queste culture è presente l’idea che il dolore
sottrae l’iniziando alla Natura, favorendone l’ingresso comunitario. In altre
parole, si diventa individui- uomini e donne- attraverso il dolore. Qualcosa di
simile deve essere stato all’origine anche della spiritualità teresiana.
Infatti, il secondo collante del sistema teresiano è la meditazione cristologia,
focalizzata, ovviamente, sulla Passione. Concentrandosi sul Calvario del
Redentore, la santa ottiene così lo scopo di sublimare il dolore, la sofferenza,
il negativo. Attraverso la formula “Quanto devi aver sofferto per il nostro
amore, mio buon Gesù…”, la passionaria Carmelitana riesce a rimuovere la
solitudine, la malattia, il travaglio psicofisico assunto a conditio sine qua
non della “mistica” delle Scalze. Vengono in mente le pagine nietzscheane sul
prete-asceta della Genealogia della Morale: se il rovello ed il tormento sono le
chiavi per ottenere la beatitudine, si finisce per invocare più dolore, più
sofferenza- in altre parole- più “santità”…
Il terzo fattore fondamentale della mistica teresiana è lo psicologismo. Se il
dolore e la sofferenza sono le premesse della “santità”- il tema della Passione,
l’oggetto su cui dirigere le proprie pulsioni dissimulate- il primato dello
psicologico è il corollario finale. L’enorme importanza che con Teresa assume la
“lettura” dell’anima comporta necessariamente una regressione dell’elemento
spirituale, intellettuale (dove per “intelletto” si deve intendere l’intelletto
attivo aristotelico, il noús plotiniano, l’Atman upanishadico). Prioritario
diventa l’elemento passionale, sentimentale, le mercedes che consentono
all’anima innamorata d’incontrare Dio. Ovviamente, con la sola dialettica
dell’amore non vi può essere vera fusione, autentica unione con l’Uno (si decida
di chiamarlo “Dio” o, più metafisicamente, “Spirito dell’Universo”).
Il capolavoro di Teresa d’Ávila, il Castello Interiore, elabora metodicamente
questo cammino personale fatto di estasi, rapimenti, ebbrezze pseudo-spirituali.
Il “Castello” è il simbolo dell’anima (introdotto specialmente nella mistica
tedesca) che deve attraversare sette morodas, o stanze, disposte
concentricamente. Le prime tre dimore riguardano il dominio ascetico. La quarta
concerne l’”orazione di quiete”, la preghiera interiore. Seguono, quindi, la
quinta (l’”unione”), la sesta (“il fidanzamento”), la settima (“il matrimonio
spirituale” con Dio). L’ascesa è prevalentemente psichica o sentimentale, più
che spirituale, correlata a numerosi stati d’animo, a sensazioni di beatitudine
e a “grazie” soprannaturali che accompagnano il cammino.
Giovanni della Croce (1542-1591), consigliato ed indirizzato da Teresa d’Ávila,
è stato il fondatore dell’Ordine dei Carmelitani Scalzi. Più di quanto fosse
avvenuto per quest’ultima, Giovanni attirò gli inevitabili strali dei
Carmelitani Calzati, determinati fino all’ultimo ad ostacolare il suo progetto.
Giovanni fu rapito ed imprigionato, ma riuscì a fuggire e a ripararsi presso un
convento di Scalze; arrivato, infine, il nullaosta, Giovanni riuscì a portare a
termine la sua riforma.
Giovanni della Croce è un mistico ed un pensatore ricco di sfaccettature e di
ambivalenze. Da una parte è profondamente intriso della teologia
aristotelico-tomistica, appresa nell’adolescenza dai gesuiti; dall’altra, è
molto vicino spiritualmente alla mistica renano-fiamminga (dell’essenza).
L’influsso aristotelico-tomistico lo conduce a sviluppare una serie di dicotomie
irriducibili, tra naturale/soprannaturale, soggetto/Dio, ecc. La vicinanza con
il pensiero eckhartiano, del resto, lo conduce, in certi momenti, a paventare il
carattere propedeutico e intermediario del cristianesimo e della religione
stessa. Da qui le controversie teologiche sul suo pensiero. Per alcuni
commentatori cristiani, Giovanni non si distaccò mai dal messaggio evangelico e
la sua dottrina è profondamente cristiana. Per gli orientalisti, invece, egli
può essere considerato il “Patañjali occidentale” (definizione di
Siddhesvarananda).
Quattro sono le opere fondamentali, che formano un tutto. Nella Salita del monte
Carmelo, è presentata l’azione di progressivo spogliamento dell’anima in cammino
verso Dio; nella Notte oscura, la purificazione, attraverso l’annichilimento,
dei sensi e dello spirito durante la salita; nel Cantico Spirituale e nella
Fiamma d’amor viva, l’anima, giunta al culmine dell’unione amorosa, è
gratificata dalle “nozze mistiche” con Dio.
La “notte” sanjuanista riprende e ripropone il tema del “niente”del “povero”
eckhartiano. L’annichilimento della spoliazione purificatoria della salita
conduce in quella nada (“nulla”), che equivale specularmente al distacco del
“niente sapere, niente volere, niente avere”. Anche per Giovanni come per
Eckhart, il Nulla è il Tutto.
Tuttavia, a differenza del maestro domenicano, Giovanni non si libera mai
completamente dei retaggi scolastici dell’adolescenza. Da una parte il santo
spagnolo sembra spingere verso il trascendimento di qualunque forma e contenuto
positivo; dall’altra mantiene viva la mentalità sistematica, forgiata da
dicotomie irresolubili. In alcuni passaggi il cristianesimo diventa un mezzo, un
gradino per arrivare al “niente sapere”, senza tuttavia giungere mai a postulare
una ridefinizione antropologica della figura di Cristo, né, tanto meno, osare un
oltrepassamento della dottrina cristologica.
Questa remora, questa sorta di ritrosia nell’audacia speculativa, purtroppo, ha
finito per influire pesantemente sulla profondità del pensiero sanjuanista; un
pensiero che sembra come arrestarsi e tornare indietro nel momento stesso in cui
intravede l’azzurro profondo delle vette immacolate.
4. Le Carmelitane Scalze
La “mistica” carmelitana si è sviluppata prevalentemente tra le monache, giacché
l’elaborazione teresiana della via amoris ha subito trovato un fertile brodo di
coltura nella psicologia femminile. La sublimazione imperfetta delle passioni e
delle compulsioni affettive nei giovani animi femminili, ha trovato la sua
trasposizione ideale nell’icona classica del Redentore, dalle caratteristiche
fisiche accattivanti. Il volto di Gesù, reso levigato e attraente dalla pittura
del tempo, dipinto sovente con tratti scarsamente semitici e molto nordici
(capelli biondi/occhi azzurri/viso allungato; o anche capelli castani e
fluenti/occhi chiari/zigomi alti, ecc.), sembra perfetto per suggellare ed
accumulare le proiezioni delle compulsioni femminili. La bellezza fisica che
irradia dalle icone del Salvatore, è in fondo una languida consolazione
compensatoria per delle giovani donne che, attraverso il voto di castità, si
apprestano a perpetuare la rinuncia al Mondo, al ruolo di mogli e di madri. In
questo senso la mistica “sponsale” si configurava come una sorta di
trasposizione “spirituale” per quello che era negato sul piano mondano; a questo
si deve aggiungere come- all’inizio del Cinquecento- molte monache morissero
giovanissime di tubercolosi. Una vita consumata tra sofferenze fisiche,
clausura, rinunce, poteva essere giustificata soltanto da un fine altissimo.
Mentre un mistico, dalla profonda preparazione teologica e filosofica, come
Meister Eckhart, poteva farsi beffe dell’ascesi, o comunque subordinarla alla
necessità del distacco, queste giovani donne, per lo più sprovviste della
necessaria istruzione, riuscivano a farsi forza soltanto con la dedizione
appassionata al Cristo, all’idea del sacrificio per il dio-uomo bello e buono.
Da questo quadro sconsolante, si eleva, almeno in parte, la figura di Maria
Maddalena de’ Pazzi (1566-1607). Maria Maddalena, dalla fragile salute, si
avvicina in certi punti alla speculazione di Taulero; quindi sono da ritenersi
fondate quelle ipotesi che postulano una sua conoscenza della mistica
renano-fiamminga. Anche la carmelitana fiorentina ricade nel tortuoso sentiero
delle estasi e delle visioni, ma la sua insistenza sul “nudo patire”,
sull’annichilimento anzitutto spirituale, piuttosto che corporale, richiama
emblematicamente le “Notti” tauleriane. Non solo. In certi punti della sua
opera, Maria Maddalena riprende anche il celebre passo eckhartiano del “nulla
sapere, nulla volere, nulla sapere”. In altri ancora, si richiama al
“non-amore”, all’amore “senza perché”, postulato da Margherita Porete (il cui
libro, Specchio delle anime semplici, doveva circolare nella Firenze
cinquecentesca).
Per Maria Maddalena, come per la Porete, il sommo dell’amore è un amore morto
che non cerca nulla, perché cercare qualcosa significherebbe essere eterogenei
ed estrinseci all’oggetto. La negazione completa dell’amore comporta, quindi, la
realizzazione totale dell’amore, perché dialetticamente, negare l’oggettività
delle determinazioni (“ogni determinazione è una negazione”, scrive Spinosa),
significa cogliere l’Intero, il Tutto. In altre parole, l’amore come anelito è
sempre desiderio-di-qualche-cosa, quindi esclusione di ciò che rimane estrinseco
all’oggetto desiderato. Per amare il Tutto, si deve perciò rinunciare alle
proiezioni del desiderio e trasformare, l’anima stessa nell’Amore. L’anima non
può così desiderare ed escludere nulla di determinato, perché dialetticamente
essa è il Nulla. Quindi essa è il Tutto, l’Amore divino, universale.
Teresa Margherita del Cuore di Gesù- morta nel 1770 di peritonite a soli 22
anni- prosegue il percorso “classico” della spiritualità carmelitana: è
necessario abbandonarsi completamente a Cristo, seguendo la via del Calvario,
agendo sempre con amore ed umiltà. Teresa Margherita realizzò concretamente i
suoi propositi, prestando soccorso ed assistenza alle sorelle inferme.
Arriviamo alla vicenda di Teresa di Lisieux (1872-1897), passata alle cronache
per essere rimasta curiosamente coinvolta nell’”affare Taxil”. Emblematico come
Teresa, durante il suo viaggio a Roma da papa Leone XIII, si fermi a Firenze per
pregare sulla tomba di Maria Maddalena de’Pazzi. Teresa, morta di tubercolosi a
25 anni, durante la sua brevissima esistenza fu tormentata dal dubbio e dalla
disperazione, alternando momenti di grande slancio emotivo ad altri in cui
arrivò a sfiorare il suicidio. L’epoca in cui visse Teresa- la fine
dell’Ottocento- è caratterizzata dall’affermarsi del materialismo storico e
dalle teorie evoluzionistiche. Il primato culturale cattolico è destinato a
dissolversi, sotto i colpi mortali degli epigoni della filosofia dei Lumi. La
cristianità cattolica non vive un gran momento. Anche se ormai ha abbandonato le
vecchie abitudini inquisitorie, l’uso di “purificare” nel fuoco l’eterodossia
dei mistici e delle streghe, lo “spirito” cattolico rimane vigile. Niente di più
scontato del continuare a sentire l’odore dello zolfo in casa d’altri.
Quando Leo Taxil inventa la storia del Palladismo e della conversione al
Cattolicesimo della Gran Sovrana Diana Vaughan, a molti cattolici non pare vero
di vedere finalmente confermati i loro pregiudizi antimassonici. Ricordiamo
brevemente la vicenda. Il massone Leo Taxil rivela in un libro le strettissime
relazioni tra la Massoneria ed il Satanismo. In particolare è citato un
movimento- denominato appunto “Palladismo”- in cui i confini fra tradizione
libero-muratoria e dottrina satanista, appaiono alquanto labili. Il Palladismo
si configura agli occhi dei cattolici come una sorta di “Massoneria Satanista”.
La Gran Sovrana del Palladismo è indicata nella figura di una certa Diana
Vaughan, dietro cui si nasconde, in realtà, sotto “mentite spoglie”, lo stesso
Taxil. La Vaughan, alias Taxil, annuncia la conversione al cattolicesimo e
abiura pubblicamente il movimento, da “lei” stessa diretto. Tutto il mondo
cattolico cade nel tranello, compreso papa Leone XIII. Teresa scrive alla
Vaughan/Taxil, rallegrandosi per la conversione ed inviando la sua foto di scena
nei panni di Giovanna d’Arco. Teresa, completamente irretita, arriva anche a
comporre una commedia teatrale sulla vicenda, presentando diavoli, angeli,
forche, fiamme, ecc. il 19 aprile 1897, presso la Société de Géographie di
Parigi, Taxil svela pubblicamente l’inganno e dichiara di essersi preso gioco
della credulità cattolica. Taxil, per dileggiare il mondo cattolico, mostra al
pubblico ed alla stampa la foto di Teresa nei panni di Giovanna d’Arco ed il
poemetto composto dalla stessa santa. Teresa, cinque mesi dopo, scossa dalla
vicenda, si ammala gravemente e muore. L’opera di Teresa, il suo remissivo
sentimentalismo religioso è stato ripreso da due emule Carmelitane, Celine e
Agnese, fautrici della c.d. “infanzia spirituale” e della “piccola via”; in
breve, un insegnamento teso a postulare il ritorno allo stato d’innocenza e
purezza infantile.
Per concludere con il caso “Vaughan”, non si deve dimenticare che, ancora oggi,
alcuni eminenti studiosi di provata fede cattolica, mettono in dubbio la
dinamica degli avvenimenti e la veridicità dell’impostura ordita da Taxil.
La nostra breve incursione nel monachesimo Carmelitano non può chiudersi senza
citare anche Elisabetta della Trinità e Edith Stein. Elisabetta (1880-1906),
continuò la tradizione, inaugurata dalla santa aviliana, dell’annichilimento
completo nell’icona del Crocefisso, fino a perdere se stessa nell’amore di Dio.
Edith Stein, filosofa, prestigiosa studiosa di Husserl, trovò nell’insegnamento
di Teresa d’Ávila e Giovanni della Croce il compimento della fenomenologia.
Ebrea, abbandonato l’ateismo per l’Ordine Carmelitano, scomparve ad Auschwitz
nel 1942.
5. I Carmelitani Scalzi
I teologi carmelitani si applicarono invano per organizzare e strutturare
sistematicamente gli straordinari insegnamenti teresiani e sanjuanisti. Il
fallimento dell’operazione testimonia ancora una volta come lo Spirito non si
lasci facilmente ingabbiare ed irretire nelle maglie della razionalità metodica
e sistematica; la difficoltà maggiore che si presentò a livello spirituale,
concerneva la distinzione tra l’ambito “naturale” e quello “soprannaturale”,
autentico ginepraio teologico in cui si versarono i classici fiumi d’inchiostro.
Si devono ricordare quattro nomi: Giovanni di Gesù Maria (1564-1615), Tommaso di
Gesù (1564-1627), Giuseppe di Gesù Maria (1562-1628), Filippo della Santissima
Trinità (1603-1671).
I quattro teologi carmelitani si persero presto nel tentativo di catalogare i
casi in cui si manifestano le “grazie” mistiche, dove si distingue l’influsso
“diretto” di Dio da quello “indiretto”, o le dinamiche psichiche inerenti alle
“notti” sanjuaniste. Per non parlare dei maldestri tentativi di trattare con i
metodi delle scienze esatte, fenomeni sfuggenti ed aleatori come le estasi
visionarie.
Nel 1720, Giuseppe dello Spirito Santo (1667-1736) pubblica, in sei volumi, il
suo Corso di teologia mistica- tentativo ormai inattuale di dare forma
sistematica alla mistica dei predecessori- mentre sta cominciando a farsi strada
nella cultura europea il pensiero dei Lumi e l’esperienza spirituale è
declassata a sentimento ed irrazionalismo.
Tra i Carmelitani Calzati, si deve ricordare soprattutto Giovanni della Croce
dei Calzati (Giovanni di Saint-Simon, 1575-1636), fautore, senza dubbio, del più
autorevole tentativo di estendere l’antica regola anche ai Calzati, restaurando,
così, la purezza spirituale originaria.
Bibliografia essenziale
- Y. Pellé-Douël, Giovanni della Croce e la notte mistica, San Paolo.
- D. Barsotti, La teologia spirituale di san Giovanni della Croce, Rusconi
- L. Cognet, Dictionnaire de Spiritualità.
- M. Vannini, Il volto del Dio nascosto, Mondadori.
Da:
http://www.krisis.it/public/modules/news/article.php?storyid=30&page=0
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