con alcune note di
Uberto Barbini
Si
tratta di una delle opere più seducenti che possiede la mistica cristiana, e fa
parte del corpus Areopagiticum insieme alla Gerarchia celeste,
alla Gerarchia ecclesiastica, ai Nomi divini e a dieci
epistole.
Noi ci occuperemo di questa
opera, sicuramente redatta nella sua forma attuale solo alla fine del V secolo,
come se si trattasse effettivamente dello scritto di un discepolo diretto di S.
Paolo in cui si spiegano dottrine riservate solo ai suoi discepoli sul vero
significato con cui intendere le scritture (cfr. l'esortazione a Timoteo) come
del resto hanno fatto tutti i buoni cristiani fino al 1522, e come il testo ci
autorizza a fare.
Inoltre nulla vieta anche
per i moderni filologi che il nucleo dottrinale risalga ai primordi del
cristianesimo.
Riguardo alla sua autorità
qui basterà ricordare l'alto posto riservato da Dante al suo autore nel
Paradiso (in compagnia di S. Tommaso nel quarto cielo) e l'ultimo gradino
del Itinerario dell'anima a Dio di S. Bonaventura che riporta tutta la
prima parte del primo capitolo indicandola come la miglior preghiera per la
meditazione, quasi a dire che non è stato scritto nulla di meglio nei successivi
sette secoli di tradizione cristiana.
Capitolo 1
Cos'è la tenebra divina
I.
Trinità sovraessenziale oltremodo divina ed oltremodo buona, custode della
sapienza dei Cristiani relativa a Dio, guidaci verso la cima oltremodo
sconosciuta, oltremodo risplendente ed altissima dei mistici oracoli, dove i
misteri semplici, assoluti ed immutabili della teologia vengono svelati nella
tenebra luminosissima del silenzio che inizia all'arcano: là dove c'è più buio
lì essa fa brillare ciò che è oltremodo risplendente, e nella sede del tutto
intoccabile ed invisibile ricolma le intelligenze prive di vista di stupendi
splendori. Questa sia la mia preghiera.
Prima del commento
soffermiamoci su alcune parole particolarmente importanti, che ricorreranno
anche in seguito.
Sovraessenziale
sta per perousía che potremmo tradurre letteralmente con
iper-sostanziale ciò né sostanza né non-sostanza, come spiega Dionigi nel
trattato Sui nomi divini lo stesso si può dire per le parafrasi del
tipo oltremodo sconosciuta (perágnoston). Mistici oracoli
(mustikòn logíon) cioè discorsi mistici o scritti mistici designa
invece la Bibbia, o più specificatamente le principali opere dell'antico e del
nuovo testamento. Intelligenze prive di vista (nommátou nóa)
letteralmente è menti prive di occhi.
L'opera si apre quindi con
una preghiera, un'invocazione alla trinità come al Dio ineffabile, l'Uno di
Plotino. Questa identificazione si appoggia sul passo dell'Esodo (20, 21): «Il
popolo si tenne dunque lontano, mentre Mosè avanzò verso la nube oscura, nella
quale era Dio». L'introduzione è ricca di ossimori (tenebra luminosissima) e
paradossi (là dove c'è più buio essa fa brillare ...) che non sono affatto
gratuiti ma anzi rispondono a precisi passi dell'esperienza dell'ascesi mistica,
che verranno chiariti più avanti nel testo. Consiglio quindi di tornare a
rileggere questa preghiera subito dopo aver finito la Teologia Mistica.
Ma tu, o mio caro
Timoteo, applicati intensamente alle mistiche visioni, metti da parte le
sensazioni, le attività intellettuali, tutte le cose sensibili ed intellegibili,
tutto ciò che non esiste e che esiste e per quanto puoi abbandonati senza più
conoscere all'unione con ciò che è al di sopra di ogni essere e di ogni
conoscenza: nel tuo abbandono incondizionato, assoluto e puro al raggio
sovraessenziale della tenebra divina elimina tutto, e una volta staccatoti da
tutto lasciati portare verso l'alto.
Timoteo, che è un altro
discepolo di S. Paolo, è il destinatario ideale di questo scritto e questo brano
è quanto di più chiaro ci può offrire Dionigi su come vivere. Il vero e più
profondo cristianesimo non consisterebbe quindi solamente nell'obbedire ai
comandamenti mosaici ma nell'abbracciare una rinuncia totale, una rinuncia non
ai nostri difetti o ai nostri vizi ma anche una rinuncia alle nostre virtù, alle
nostre conoscenze. In altre parole occorre dimenticarsi di se stessi,
rinunciare al proprio ego.
Quello che auspica Dionigi è
un'unione completa con la tenebra, con l'iper-essere e perciò una perdita
completa di noi stessi. Solo abbandonando tutto, spiega, possiamo lasciarci
portare verso l'alto. Per ascendere è quindi indispensabile dimenticarsi di
stare ascendendo e dimenticarsi persino di Dio, solo così ci si può immergere
nella tenebra luminosissima.
II.
Bada a che nessuno dei non iniziati ascolti: mi riferisco a coloro che rimangono
prigionieri delle realtà, che pensano che nulla esista in modo sovraessenziale
al disopra degli esseri, che ritengono di conoscere con la loro scienza colui
che "ha fatto della tenebra il suo nascondiglio" [Salmi 17,12]. Se le divine
iniziazioni vanno al di là delle capacità di costoro, che cosa si dovrebbe dire
a proposito di coloro che sono ancor meno iniziati, che definiscono la causa
trascendente di tutto anche per mezzo degli esseri più bassi, e che dicono che
essa non è affatto superiore alle empie e svariate raffigurazioni forgiate da
loro?
Dionigi mette in guardia
Timoteo (colui che onora Dio) da due specie di idolatri, coloro che credono di
limitare Dio nell'essere e di poterlo quindi comprendere, e coloro che
confondono Dio con le sue molteplici raffigurazioni. È importante sottolineare
che Dionigi non li critica, semplicemente vuole evitare che ascoltino cose più
grandi di loro, che non potrebbero capire.
Non sappiamo a chi si
riferisse Dionigi di preciso ma il testo stesso ci impone di cercarli in mezzo a
noi e dentro di noi.
I primi sono senz'altro la
maggior parte dei teologi e degli scienziati ma più in generale ogni nostro
atteggiamento razionale verso la vita spirituale. Non si può spiegare
razionalmente un miracolo o una conversione e neppure il comune sentimento
devozionale della gente semplice. Un'esperienza mistica o religiosa, di
qualsiasi livello, è inspiegabile e irrazionale per definizione. Eppure quante
volte pensiamo di aver capito, di aver compreso un testo sacro o un racconto di
un mistico, supportati magari da simbolismi ed esoterismi? Vanità delle vanità,
tutto è vanità ripete da millenni Salomone (Qoelet 1,2).
I secondi sono i veri e
propri idolatri, la categoria più diffusa oggigiorno, ma anche la più facile da
individuare. Sono coloro che confondono la statua col santo, il santino con la
preghiera, la comunione con la Comunione. Coloro che stanno attentissimi ad
andare in chiesa a digiuno e a stare in silenzio mentre intanto pensano a quanto
sono poco devoti i loro vicini. Tutte le forme di superstizione e di feticismo
rientrano sicuramente in questa categoria, ma la forma peggiore è l'idolatria
verso la tecnologia o il denaro.
Ad essa, in quanto causa di
tutto, vanno applicate tutte le affermazioni positive relative agli esseri;
[nello stesso tempo] però, in quanto trascende tutto, è più giusto negare a
proposito di essa tutti questi attributi. Non si deve credere che le negazioni
siano contrapposte alle affermazioni: la causa universale, essendo al disopra di
ogni negazione ed affermazione, è anche al di sopra delle privazioni.
III.
Per questo dunque il divino Bartolomeo dice che la teologia è [nello stesso
tempo] diffusa e brevissima, e che il Vangelo è vasto e grande e nello stesso
tempo conciso. A mio parere, questo è stato il suo pensiero soprannaturale: la
buona causa universale è insieme di molte parole, di poche parole e addirittura
muta, giacché ad essa non si possono applicare nessun discorso e nessun
pensiero: essa trascende infatti in maniera sovraessenziale tutte le cose, e si
rivela senza veli e veracemente solo a coloro che, dopo avere attraversato tutte
le cose impure e pure, dopo essersi lasciata dietro ogni ascesa che porta alle
sante vette, e dopo avere abbandonato tutte le luci, tutti i suoni e tutte le
parole celesti, penetrano nella tenebra dove veramente si trova, come affermano
gli oracoli, colui che è al di sopra di tutto.
Questo è il nucleo del
pensiero metafisico e teologico di Dionigi. Al Dio ineffabile si possono
certamente applicare tutti gli attributi possibili (bello, buono, giusto, saggio
ecc.) ma in quanto esso trascende tutto è più giusto negare a proposito di essa
tutti questi attributi (cioè Dio non è né buono, né giusto, né saggio ecc.) ma
continua Dionigi in Dio le affermazioni non escludono le negazioni, in altre
parole in Dio non esiste il principio sacro della logica, quello del Terzo
Escluso.
Spesso ciò viene
intenzionalmente mal interpretato da sedicenti esoteristi che incolpano
Aristotele di tutti i mali della nostra società. Ora al di là dell'assurdità
dell'accusa, infatti se Aristotele fosse riuscito ad ingannarci tutti per più di
ventidue secoli sarebbe dovuto essere un mostro di astuzia, è importante non
confondere, in buona o cattiva fede, il piano umano e razionale con quello
sovrarazionale. Per dirla più chiaramente non è lecito affermare che ha
sbagliato Aristotele (e con lui tutti i filosofi successivi) solo perché abbiamo
le idee confuse in testa.
In questa prospettiva i
testi sacri sono tanto più concisi quanto più elevati, fino ad arrivare ad
essere del tutto muti in coincidenza della tenebra dove veramente si trova, come
affermano gli oracoli, colui che è al di sopra di tutto. Di nuovo ritorna il
tema della rinuncia a tutto, anche alla luce ai suoni e ai pensieri, per il
saggio questi sono solo veli che dovranno essere sciolti per penetrare oltre.
Non senza ragione
il divino Mosè riceve innanzitutto l'ordine di purificarsi e poi quello di
separarsi da coloro che non sono puri; dopo essersi del tutto purificato, sente
il molteplice suono delle trombe, e vede molte luci, irradianti raggi puri e
diffusi; quindi si separa dalla moltitudine, e assieme ai sacerdoti scelti
procede verso la sommità della divina ascesa. Ma anche a questo punto non si
trova assieme a Dio: ciò che contempla non è Lui (Egli è incontemplabile), ma il
luogo in cui si trova. A mio avviso, tutto questo significa che le cose più
divine e più alte tra quelle visibili e pensabili sono soltanto parole che
suggeriscono [alla mente] le realtà che rimangono sottoposte a colui che tutto
trascende e che rivelano la sua presenza superiore ad ogni pensiero, situata al
disopra delle vette intellegibili dei suoi luoghi più santi. Allora egli si
distacca da ciò che e visibile e da coloro che vedono, e penetra nella tenebra
veramente mistica dell'ignoranza. Rimanendo in essa, chiude ogni percezione
conoscitiva ed entra in colui che è del tutto intoccabile ed invisibile:
[allora] appartiene veramente a colui che tutto trascende, senza essere più di
nessuno, né di se stesso né di altri; fatta cessare ogni conoscenza, si unisce
al principio del tutto sconosciuto secondo il meglio [delle sue capacità], e
proprio perché non conosce più nulla, conosce al di sopra dell'intelligenza.
Questo passo conclude il
primo capitolo, dedicato alla definizione della causa prima. Dionigi chiarisce
in modo esemplare alcuni punti già accennati in precedenza, il testo non si può
commentare senza appiattirlo, inoltre è già più che sufficientemente esplicito.
Solo due parole su: ciò che
contempla non è Lui (Egli è incontemplabile), ma il luogo in cui si trova. Qui
Dionigi si riferisce alla próodos, cioè all'insieme delle idee di Dio,
ciò che i platonici chiamano iperuranio, e che è il punto più elevato in cui si
può giungere con l'intelligenza.
Eppure la tenebra veramente
mistica dell'ignoranza è ad un livello ancora superiore. Infatti la próodos
esprime la massima possibilità dell'essere, le idee del Bello, del Giusto e del
Buono che accompagnano sempre Dio. Ma Dio stesso è al di là dell'essere e del
non-essere e per giungere a tanto occorre (come già visto) rinunciare anche alla
propria intelligenza (che fa parte dell'essere) e alla possibilità di
contemplarlo.
È più esplicito nella prima
lettera in cui dice: «Chi vede Dio, se se comprende ciò che vede, non vede lui,
ma qualcuno degli esseri da lui emanati e conoscibili; egli stesso è situato al
di sopra della conoscenza e dell'essere». Più chiaro di così!
Va aggiunto che sarebbe già
un'impresa altissima giungere a contemplare le idee, anche se non è certo
impossibile come a molti fa comodo pensare.
Capitolo 2
Come ci si deve unire alla causa universale e superiore a tutto, e come si
devono levare ad essa gl'inni di lode
Preghiamo per
trovarci anche noi in questa tenebra luminosissima, per vedere tramite la cecità
e l'ignoranza, e per conoscere il principio superiore alla visione ed alla
conoscenza proprio perché non vediamo e non conosciamo; in questo consistono
infatti la reale visione e la reale conoscenza. Celebreremo [allora] il
principio sovraessenziale in modo sovraessenziale, vale a dire eliminando tutte
le cose: allo stesso modo, coloro che modellano una statua bella di per sé
eliminano da essa tutti gl'impedimenti che potrebbero sovrapporsi alla pura
visione della sua nascosta bellezza, e sono in grado di mostrare in tutta la sua
purezza questa bellezza occulta solo grazie a questo processo di eliminazione. A
mio parere, le negazioni e le affermazioni vanno celebrate con procedimenti
contrari: in effetti, noi facciamo delle affermazioni quando partiamo dai
principi più originari e scendiamo attraverso i membri intermedi fino alle
ultime realtà; nel caso invece delle negazioni, noi eliminiamo tutto allorché
risaliamo dalle ultime realtà fino a quelle più originarie, in modo da conoscere
senza veli l'ignoranza nascosta in tutti gli esseri da tutte le cose
conoscibili, e da vedere la tenebra sovraessenziale nascosta da tutte le luci
presenti negli esseri.
Il secondo capitolo è
dedicato al modo in cui accostarsi alla Causa Prima. Il principio superiore alla
visione ed alla conoscenza è ciò che dobbiamo conoscere! Niente di meno che l'inconoscibile.
Parole così chiare sono
state scritte solo poche volte nella storia dell'umanità, alcune Upanišad
indiane e qualche poesia Zen riescono a rendere altrettanto bene l'idea, che
comunque rimane oltre la nostra comprensione.
Soprattutto le Upanišad
sembrano esprimersi nella stessa forma di Dionigi, ad esempio quando spiegano
che Brahman è «neti-neti» cioè né questo né quello, né buono né
non-buono oppure quando dicono che l'Atman, cioè il Sé individuale, coincide con
Brahman cioè il Dio assoluto. Quando ci liberiamo, dicono i bramani, perdiamo
noi stessi per confonderci con Dio e con il Tutto. Addirittura nella
Mandukya Upanišad si parla del Turija (il "quarto stato di coscienza")
negli stessi identici termini della Tenebra luminosissima. Anche la chiusa
finale di questo capitolo ricorda in modo impressionante una identica
affermazione di un maestro orientale che a seconda del narratore può essere
bramino, buddista o taoista. Del resto perché sorprenderci? A meno di non aver
capito nulla approfittiamo di questa immeritata fortuna per cercare di
illuminare gli oscuri recessi delle nostre menti.
Dionigi raccomanda quindi un
ottimo allenamento alla mistica per aiutarci a guardare oltre le apparenze,
oltre alla luce che ci abbaglia. Oltre alle ombre della caverna di Platone, ma
anche oltre alla luce del sole che sta fuori fino a entrare nel sole stesso,
dove c'è solo tenebra.
Lodiamo la causa superiore
contemplando gli archetipi e da essi scendendo verso il creato, per poi
ritornare a Lei risalendo tutte le cause, fino ad uscire perfino dalla
necessità, superando il motore immobile di aristotelica memoria. Ma soltanto chi
è umile di cuore saprà cogliere la verità di queste parole.
Capitolo 3
Qual è la teologia affermativa, e quale la negativa
Negli Schizzi
teologici abbiamo celebrato gli aspetti più importanti della teologia
affermativa: [abbiamo spiegato] in che senso la natura divina e buona è chiamata
una ed in che senso è chiamata trina; quale significato hanno, se riferiti ad
essa, i concetti di paternità e di figliolanza; che cosa intende mostrare la
teologia dello Spirito [santo]; come le intime luci della bontà sono spuntate
fuori dal bene immateriale e privo di parti, senza tuttavia cessare di rimanere
nel bene, in se stesse e l'una nell'altra nonostante questo coeterno processo di
germogliamento; come il Gesù sovraessenziale ha preso l'essenza propria della
vera natura umana; e tutte le altre rivelazioni degli oracoli, celebrate negli
Schizzi teologici. Nello scritto Sui nomi divini [abbiamo spiegato]
invece come mai Dio è chiamato buono, colui che è vita, sapienza e potenza, e
tutti gli altri appellativi caratteristici dei nomi divini intellegibili. Nella
Teologia simbolica [abbiamo spiegato] infine i nomi trasferibili dagli
oggetti sensibili alle cose divine, le forme e gli aspetti divini, le parti, gli
strumenti, i luoghi divini, gli ornamenti, le ire, i dolori, le collere, le
ebbrezze, le crapule, i giuramenti, le imprecazioni, i sonni, le veglie, e tutte
le altre sacre raffigurazioni proprie della rappresentazione simbolica di Dio.
Penso che tu ti renda conto che questi ultimi argomenti richiedono molte più
parole dei primi: sia gli Schizzi teologici che le spiegazioni dei nomi
divini devono essere più concisi della Teologia simbolica. Quanto più
alziamo lo sguardo verso l'alto, tanto più i discorsi vengono contratti dalla
contemplazione delle realtà intellegibili; così pure anche ora, nel momento in
cui penetriamo nella tenebra superiore all'intelligenza, noi troviamo non più
discorsi brevi, ma la totale assenza di parole e di pensieri. In quell'altro
caso il discorso, scendendo dall'alto verso il basso, si allargava in
proporzione alla discesa; ora invece, elevandosi dal basso verso la sfera
superiore, si contrae in proporzione all'ascesa, e dopo averla compiuta diventa
completamente muto, per unirsi interamente all'ineffabile. Tu mi chiederai: ma
come mai, dopo avere fatto le divine affermazioni partendo dal primo principio,
iniziamo [il processo delle] negazioni divine partendo dalle ultime cose? Perché
nel momento in cui affermavamo ciò che si trova al disopra di ogni affermazione,
dovevamo fare queste affermazioni ipotetiche partendo da ciò che era più affine
ad esso; ma nel momento in cui neghiamo ciò che si trova al disopra di ogni
negazione, dobbiamo negarlo partendo da ciò che è più lontano. Non è forse esso
più vita e bontà che aria o pietra? Ed il fatto che non gozzoviglia e non va in
collera non è forse più vero del fatto che non è oggetto di discorsi e di
pensieri?
Questo capitolo introduce la
seconda parte dell'opera che riguarda i due tipi diversi di teologia, qui intesa
in senso etimologico di discorso intorno a Dio. Da notare che Dionigi si
accontenta di evidenziare diversi gradi di verità del discorso, senza offrire la
possibilità del "Discorso Vero", o meglio l'unico discorso veritiero è il
discorso muto (che non è né un discorso né un non-discorso).
Quanto più alziamo lo
sguardo verso l'alto, tanto più i discorsi vengono contratti dalla
contemplazione delle realtà intellegibili. Qui cercherei la spiegazione e
l'argomento delle dottrine non-scritte di Platone, come pure il mito di Thot
contenuto nel Fedro. Mi piace pensare, anche se molti storceranno il
naso, che qui sia spiegata anche l'ultima proposizione del Tractatus
logicus-philosophicus di Wittgenstein: «di ciò di cui non si può parlare si
deve tacere».
Capitolo 4
La causa per eccellenza di tutte le cose sensibili non è nessuna cosa
sensibile
Diciamo dunque che
la causa universale, superiore a tutte le cose, non è priva di essenza, di vita,
di ragione, d'intelligenza; non è neppure un corpo, e non possiede né una
figura, né una forma, né una qualità né una quantità, né un peso; non si trova
in nessun luogo non è visibile, né può essere toccata materialmente; non ha
sensazioni, né è oggetto di sensazioni, né disturbata da passioni materiali, né
fa albergare in sé il disordine e la confusione; non è neppure priva di forza,
come se fosse soggetta alle vicissitudini del mondo sensibile, né ha bisogno
della luce; non ammette in sé né il cambiamento, né la corruzione, né la
divisione, né la privazione, né lo scorrimento, né alcun'altra cosa sensibile; e
non è neppure qualcuna di queste cose.
Il quarto capitolo inizia la
prima Teologia negativa, quella inferiore, quella riguardo gli esseri sensibili.
È la prima rinuncia, quella più facile. Parmenide è forse stato il primo greco a
teorizzarla in modo razionale e rigoroso, Socrate l'ha estesa sul piano etico e
escatologico, mentre Aristotele l'ha canonizzata definitivamente.
Bisognerà arrivare fino al
secolo scorso perché qualcuno la rimettesse di nuovo in discussione, pensando
oltretutto di essere originale! Ma se possiamo facilmente comprendere le
ingenuità di alcuni scienziati, più difficile è capire degli epistemologi che
scambiano la superficialità per la chiarezza.
Capitolo 5
La causa per eccellenza di tutte le realtà intellegibili non è nessuna
realtà intellegibile
Procedendo quindi
nella nostra ascesa diciamo che [la causa universale] non è né anima, né
intelligenza, e non possiede né immaginazione, né opinione, né parola, né
pensiero; che essa stessa non è né parola, né pensiero; e che non è oggetto né
di discorso, né di pensiero. Non è né numero, né ordine, né grandezza, né
piccolezza, né uguaglianza, né disuguaglianza, né somiglianza, né
dissomiglianza; non sta ferma, né si muove, né rimane quieta, né possiede una
forza, né è una forza; non è luce; non vive e non è vita; non è né essenza, né
eternità, né tempo; non ammette neanche un contatto intellegibile; non è né
scienza, né verità, né regno, né sapienza; non è né uno, né unità, né divinità,
né bontà, non è neppure spirito, per quanto ne sappiamo; non è né figliolanza,
né paternità, né qualcuna delle cose che possono essere conosciute da noi o da
qualche altro essere; non è nessuno dei non-esseri e nessuno degli esseri, né
gli esseri la conoscono in quanto esiste; e neppure essa conosce gli esseri in
quanto esseri. A proposito di essa, non esistono né discorsi, né nomi, né
conoscenza; non è né tenebra, né luce; né errore, né verità; non esistono
affatto, a proposito di essa, né affermazioni, né negazioni: quando facciamo
delle affermazioni o delle negazioni [a proposito delle realtà che vengono] dopo
di essa, noi non l'affermiamo, né la neghiamo. In effetti, la causa perfetta ed
unitaria di tutte le cose è al di sopra di ogni affermazione; e l'eccellenza di
colui che è assolutamente staccato da tutto e al disopra di tutto è superiore ad
ogni negazione.
Questo capitolo è già più
difficile da capire, o meglio quasi impossibile. Ma è inutile domandarci quanto
sia lunga la strada per il Nirvana, come dicono i buddisti, preoccupiamoci di
continuare ad avanzare, ognuno alla propria velocità.
Questa è la rinuncia più
importante e più preziosa, quella dell'intelletto e dell'intellegibilità. Ma
ricordiamoci che è solo il proseguimento della precedente, non si può rinunciare
alla propria intelligenza, al proprio pensiero e alla propria scienza se non li
abbiamo mai avuti.
In India usavano i nomi di
Brahman Nirguna o di Nirvana per indicare la stessa cosa, ma
aggiungevano anche che per arrivare a questo occorreva usare "Viveka" cioè la
discriminazione. Allenando al massimo la razionalità della propria mente se ne
intravedono i limiti, così poi si potrà superarli per abbandonarsi alla più pura
ignoranza. Qui inizia il sesto capitolo che è il più meraviglioso.
P. S. Non andate a cercarlo
nei libri, è scritto nel cuore di ognuno.
Da:
http://www.estovest.net/testi/teologiamistica.html