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L'elogio del nulla in Christian Bobin (Roberto Taioli)
Con L’elogio del nulla (trad. it. di Federico Francucci, Edizioni Servitium, Gorle, Bg, 2002), il poeta e filosofo cristiano francese riporta il lettore alla riflessione su un tema che attraversa non poca della tradizione filosofica del novecento, ma senza approdare ad esiti nichilistici, cui alcune correnti pervennero. Il nulla è invece promosso ed elogiato non come categoria della disperazione e dell’angoscia ma modalità della percezione del mondo. Il nulla arricchisce perché con esso la vita si dà nella dimensione gratuita, oblativa, con un finalismo non precostituito che non sia quello connaturato nel tessuto intimo della vita stessa (”la vita non contaminata da altri fini che non sia il puro vivere”, scrive Mario Bertin nella introduzione). Il nulla è fungente in ogni plenum, cosicchè in ogni operazione è presente il movimento della decostruzione, il ritorno al momento iniziale ove la vita si dà e si esibisce nella sua forma selvaggia e indivisa. La struttura viva nell’agire è la speranza, in quanto sempre oltre ciò che siamo, ma non nel senso di una proiezione progressiva ad infinitum del nostro essere. La speranza non è di per sé qualcosa di ascensionale; per Bobin il bambino nel suo esistere ripristina radicalmente lo statuto della vita, in quanto legato intimamente al suo essere, alla sua carne, ad una totalità percepita senza alcun schermo categoriale, senza alcun filtro fuorviante e distanziante. Più che salire, troviamo qui un’etica del discendere, del minimum opposto al maximum, tema questo non estraneo alla riflessione di Bobin e che ritorna, ampiamente sviluppato, nell’ampio saggio Francesco e l’infinitamente piccolo, ove l’intera vita ed esperienza dell’uomo di Assisi è letta e rivisitata con la lente della piccolezza, mediante la quale intercettare e cogliere il grande. L’adulto invece è capace della “menzogna profonda” che è il nascondimento del suo nulla, scaltro attore dell’arte della parvenza. L’eclissi del nulla nella nostra vita è infatti rimozione della nostra radice, del nostro destino che è un continuo dare senso alla lacuna iniziale e che sempre si ripresenta e ci attende. In tal modo il nulla altro non è che la fonte sorgiva della nostra vita, alla quale si torna negando e su quel bordo irrealizzando l’esistente, come in un lavacro purificatore, con echi che ci rimandano alla filosofia di Andrea Emo che individuò nel negativum il motore dell’atto umano. Il pensiero decostruzionista di Bobin (applicato peraltro anche a se stesso, e in tal senso vedasi il suo Autoritratto) installa il nulla come luogo vuoto, dimora pneumatica ineffabile e incomprensibile, non soggetta ad alcuna categorizzazione. La stessa attività di scrittura (cioè l’habitus stesso di Bobin scrittore) è attraversata da questo vento che riconduce la prassi dello scrivere alla condizione della tabula rasa, scrivere non presuppone il possesso di un sapere organizzato né di una gerarchia dei saperi. Si scrive partendo da una condizione di vuoto, da uno stato di lacuna e di mancanza: “Si può scrivere solo muovendosi verso l’ignoto – e non per conoscerlo, ma per amarlo”. Si accede al sapere così per una disposizione affettiva più che cognitiva , per una corrente calda che ci avvicina alle cose come se ne fossimo richiamati. Esse non sono in noi ma dall’esterno ci attraggono e ci convocano al loro contatto, come Francesco fece il nulla in sé e rispose ad una chiamata. Una filosofia del plenum impone a questi impulsi dei “pesanti pastrani” che ingolfano il cammino. Si tratta invece di alleggerire, di un ritornare al semplice. Quindi il nulla si contrappone al pieno entro uno schema bipolare non necessariamente di ordine dialettico; in tale schema il nulla assorbe il plenum ripristinando la vita sorgiva che era stata ostruita dai pesanti condizionamenti della ragione. La stessa filosofia, intesa come sapere istituzionale e categorico, organizzata attorno ad un canone e sclerotizzata entro formule precostituite, entra in crisi, in quanto allontanatasi dalla fonte sorgiva. “I filosofi mi annoiano. La loro lingua è amara”, scrive Bobin riecheggiando nelle sue parole la critica ai filosofi che formulò Paul Valéry, identificandoli come portatori di un sapere chiuso; invece “la filosofia è impercettibile. Essa non è mai negli scritti dei filosofi. Essa appare nell’unione dell’uomo e di ogni soggetto o scopo particolare. Sparisce non appena l’uomo vuole perseguirla” (P. Valéry, Quaderni, ed. it., vol. II, p. 14). Ma anche i mistici, osserva ancora Bobin, possono allontanarsi dalla fonte sorgiva, allorchè placano il loro atto impetuoso d’amore verso Dio nel ghiaccio del pensiero. La preghiera è quindi associata allo stato della ubriacatezza, di un coinvoilgimento affettivo ed empatico, di uno slancio oblativo. Occorre un atto di annullamento. Non si può pregare con il pensiero; il cogito comporta il riconoscimento di sé fino alla degenerazione dell’egotismo e alla ipertrofia del mondano. “Slegato da sé. Distaccato da qualsiasi reame”, il viandante s’accorge di non avere più nome, che è una modalità del riconoscere e del classificare. “Scoprire, rapiti, la certezza di non essere nulla”. Qui si svela per Bobin la funzione terapeutica del nulla che è il fondamento nascosto ma fungente al quale ritornare. Solo l’apertura sul nulla può essere l’inizio ad un cammino di senso, in quanto prevede la rimozione del mondano, la messa a nudo della radice. L’amore come gratuità è senso per la mia vita “rendendola insensata a se stessa”. Non si tratta di un artificio linguistico né di un gioco filosofico perché il senso non può mai essere presupposto (e quindi categorizzato come un possesso) ma sempre riaperto entro la fenditura che noi siamo. “La mia vita mi sfugge. Non mi raggiunge che in mia assenza”, nota Bobin, perché il senso non è precostituito. Devo andare verso di esso, incamminarmi, cercarlo. In questo viaggio euristico dal nulla al nulla si riconosce il mio essere che in realtà è sempre un passaggio, un transito da una condizione di mancanza ad un’altra mancanza dalla quale ripartire. Non c’è quindi acquisizione che si possa considerare come ultimativa. Questo habitus contemplativo protegge l’uomo da una visione autoreferenziale e autocentrica della verità, come emerge da questo passo di Bobin gettato sulla pagina, in un coincidere della visione e della scrittura: “ La mia vita fiorisce lontano da me. Me ne separo quando vado nel mondo. La ritrovo contemplando il cielo. Il cielo materiale, senza appartenenza. Senza avidità. Un amore che non vi domanda niente, se non di esserci. Che, mentre passa, vi dona l’eterno”. Scopriamo così che la non-appartenenza non è un approdo nichilistico, ma lo stato di distacco e di distanziamento che ci consente la fruizione vera del mondo. Il sapere di non possedere, di non essere. L’attesa, quindi, stato virtuoso che tuttavia non coincide con la passività e l’inazione. L’attesa non è l’accidia o l’inedia, ma il varco che apro in me stesso perché il mondo entri in me, cosicchè “il tempo dell’attesa è un tempo di liberazione”. Essa opera nascostamente e non è misurabile sul tempo ordinario quantitativo, perché se fosse misurabile e prevedibile o oggettivata nell’attesa di qualche cosa, si ergerebbe come una categoria. L’attesa è infatti un non-sapere (simile al sapere- di- non-sapere), assimilabile non ad un concetto ma semmai ad una condizione. L’attesa infatti viene vissuta come una Erlebnis, una esperienza diretta, non conosciuta e non conoscibile e quindi non sussumibile ad alcuna ratio. Essa è assenza, mancanza, vuoto, lacuna, caverna, cioè un vacuum che aspetta un riempimento o descrivibile, scrive Bobin nella sinuosità del suo linguaggio poetico e allusivo, come “una fiducia, un mormorio, una canzone”. L’esplicitazione di questo afflato avviene non con un ragionamento ma attraverso la via immaginativa e rappresentativa, come in una parabola. L’insegnamento, in una maieutica della natura, perviene dagli alberi, la cui esistenza ci fronteggia in una accettazione totale della vita; essi ci cantano e ci parlano (nel solo atto di esistere) dell’estrema indivisione con la natura. Cade ogni filtro e l’emergenza della physis si svela nelle molteplici forme e modalità del manifestarsi. Così gli alberi accettano e vivono il sole cocente o il sopraggiungere di una pioggia, “tutto è nutrimento per loro”, il senso non è cercato, perché già dato e gettato nel loro esistere. Il senso non è quindi sovrapponibile ma sgorgante dalla vita stessa, dallo scaturire fontale, dall’emersione selvaggia del vissuto che nulla chiede e nulla sa. Ci troviamo davanti ad una implicatio in cui io e mondo sono l’uno contenuto nell’altro in una condizione di reversibilità per cui sempre variante è il punto d’appoggio: “Vedere ciò che è. Essere ciò che si vede”. Da questa angolazione essere e sguardo coincidono, non danno luogo ad una sdoppiamento, ad una scissione, attraverso la quale vita e pensiero si distinguono e si separano in una lacerante dicotomia. Il primato della natura indivisa è riaffermato con forza da Bobin attento a non anteporre le rigide schematizzazioni della ragione al fluente scorrere della vita. “La natura sommerge i libri. L’erba ricopre il pensiero. Il verde assorbe l’inchiostro. Attraversare una terra è come esaurire un amore”. Lo stesso paesaggio esteriore “affluisce nel corpo” che è esso paesaggio nel paesaggio, cosicchè, esteriore e interiore assieme. Nel camminare il paesaggio fluisce in me ed io in esso perché “l’arte di camminare è un’arte contemplativa”. Noi siamo a poco a poco, ma sempre più intimamente, il paesaggio che attraversiamo. Ci nascondiamo in esso e al contempo ci manifestiamo. Ma ciò richiede un abbandono totale, uno stupore che nasce dal nulla, dal vuoto sempre riaperto in noi. L’abbandono ci riporta alle radici, all’atto iniziale di entrata nel mondo e di fruizione della sua insensatezza. Questo eros iniziale non va dimenticato proprio perché esso è mancanza, desiderio. Via via esso si trasforma in amore che è per Bobin l’evoluzione dell’eros iniziale in una disposizione più vasta all’accoglimento del mondo, alla meraviglia di un rinnovato spettacolo. A questo appello del mondo non c’è risposta con le parole perché siamo nel regno dell’inafferrabile. “Certo, non rispondo più veramente: io canto. Ma si può chiedere all’uccello la ragione del suo canto?"
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