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Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

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Prefazione di Georges Dumézil alla prima edizione francese del Trattato di storia delle religioni di Mircea Eliade


 

Da Μ. Eliade, Traité d'histoire des religions, Payot, Paris 1949, pp. 5-10. La Prefazione è datata «Novembre 1948». Traduzione di Gaetano Riccardo.

Georges Dumézil

 

 

Non si può dire che le scienze, nel nostro secolo, invecchino presto, visto che hanno il privilegio di non correre verso la morte. Eppure come cambiano facilmente aspetto! La scienza delle religioni è come quella dei numeri o degli astri.

Meno ancora di una cinquantina di anni fa si pensava di spiegare i fenomeni religiosi riducendoli a un elemento comune, dissolvendoli in una nozione comune cui si dava un nome pescato nei Mari del Sud: dalle più selvagge alle più razionali, le religioni non sarebbero che una diversa espressione della nozione di marra. Questa forza mistica diffusa e pronta ad assumere ogni forma, indefinibile ma caratterizzata proprio da questa impotenza del discorso ad essa riferito, è presente ovunque si parli di religione, e termini importanti come sacer e numera, hagnos e thambos, brahman e tao, persino la «Grazia» del cristianesimo, ne sarebbero variazioni o derivati. Una generazione di ricercatori si è consacrata a stabilire questa uniformità. Forse a ragione. Ma in seguito si è scoperto che essi non avevano guadagnato molto: avevano dato un nome barbaro a questo non si sa che per cui, da sempre, viaggiatori ed esploratori avevano riconosciuto, senza tema di errore sul loro carattere specifico, i fatti religiosi che incontravano. Ε ciò che sembra oggi colpire, che richiede studio, non è più questa forza diffusa e confusa di cui si incontra in effetti ovunque la nozione, benché non sia sempre la stessa dal momento che nulla se ne può dire;

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sono al contrario le strutture, i meccanismi, gli equilibri costitutivi di ogni religione, definiti discorsivamente o simbolicamente in ogni teologia, mitologia o liturgia. Si è tornati - o ritornati - all'idea che una religione è un sistema, diverso dalla miriade dei suoi elementi; che è un pensiero articolato, una spiegazione del mondo. In breve, è sotto il segno del lógos, e non sotto quello del marra, che si colloca oggi la ricerca.

Meno ancora di una cinquantina di anni fa gli antropologi inglesi e i sociologi francesi si ponevano, in modo solidale, due ambiziosi problemi: quello dell'origine dei fatti religiosi e quello della genealogia delle forme religiose. Memorabili battaglie furono combattute intorno al Grande Dio e ad alcuni totem. Agli Australiani, che certe scuole citano come gli ultimi testimoni delle forme elementari della vita religiosa, altri oppongono i Pigmei: se i primi sono, in parte, dei paleolitici, i secondi non sono forse ancora più arcaici, visto che non si staccano dalla loro condizione embrionale? Si è discusso sulla genesi dell'idea di Dio: è indipendente da quella di anima o ne è scaturità? il culto dei morti ha preceduto quello delle forze della natura? Gravi e vane questioni. Queste polemiche, spesso infuocate, hanno ispirato libri ammirevoli e, ciò che più conta, alimentato osservazioni e repertori. Ma non sono terminate. Oggi i ricercatori ne prendono le distanze. La scienza delle religioni abbandona ai filosofi la questione delle origini, come un po' prima aveva fatto la scienza del linguaggio, e come ormai fanno tutte le scienze. Essa rinuncia persino a prescrivere a posteriori, se così si può dire, una evoluzione tipo, un percorso obbligato, alle forme religiose del passato. Che ci si collochi nel χχ secolo o seimila anni prima, non si risale troppo lontano nella vita di nessuna parte dell'umanità; si è sempre di fronte ai risultati di una maturazione e di eventi occorsi in decine di secoli; e si ammette che i Polinesiani e gli Indoeuropei, i Semiti e i Cinesi, poterono pervenire alle loro nozioni religiose, alle loro figure divine, per strade diverse, benché si osservino somiglianze nei punti di arrivo.

Insomma, la tendenza attuale è di «provare», come diceva Henri Hubert, di registrare, nella loro originalità e complessità, i sistemi religiosi che sono o sono stati praticati nel mondo. Ma come si esprime questa tendenza? Quale tipo di studi avvalora?

Ι. Innanzitutto descrizioni sempre più particolareggiate. Etno

grafi o storici, a seconda del caso, accumulano osservazioni e documenti di ogni sorta, in ogni campo, per ogni periodo, cercando di comprendere ciò che li unisce, quale sia il carattere organico di questo inventario. A dire il vero, più o meno bene, spesso molto bene, tale sforzo è stato perseguito in tutte le epoche.

il. In secondo luogo, se questioni relative a origini e genealogie, in assoluto, sono state abbandonate, esse permangono, più modeste e sicure, a proposito di ciascuna delle descrizioni geograficamente e storicamente circoscritte di cui si intende trattare. In materia di religione, come in materia di linguaggio, ogni stato si spiega e non si spiega se non mediante una evoluzione, a partire da uno stato anteriore, con o senza l'intervento d'influenze esterne. Da ciò la diversità di ambiti di ricerca e di tipi di metodo egualmente necessari:

τ) Per le società che dispongono da più o meno lungo tempo di una letteratura o, almeno, di documenti scritti, lo studio della storia religiosa non è che un caso particolare della storia della civiltà, o della storia tout court, e, nella critica come nella elaborazione costruttiva, non si impiegano altri procedimenti. Le «grandi religioni», buddhismo, cristianesimo, manicheismo, islamismo rappresentano questo caso al massimo livello, poiché la letteratura che ci informa su di esse risale pressappoco agli inizi dell'evoluzione. A partire da un certo punto del loro sviluppo, tutte le religioni un po' antiche dipendono d'altronde dagli stessi metodi, benché in misura minore e a condizione che si sia riusciti a interpretare le prime forme attestate.

2) Ma questa condizione preliminare è difficile da assolvere, e la stessa difficoltà si ritrova a proposito delle religioni troppo tardivamente, troppo recentemente osservate: per ragioni diverse, il lettore di Strehlow e il lettore dei Veda mancano egualmente di distacco, entrambi si trovano davanti una struttura religiosa complessa, nonché una letteratura religiosa, ma mancano di ogni strumento di spiegazione storica, cioè di spiegazione mediante il prima. Ora, è questo il caso più generale, quello di tutte le religioni esotiche descritte dagli esploratori dal χντ al χχ secolo; quello di tutte le religioni pagane d'Europa, ivi comprese quelle di Roma e della Grecia; è il caso delle religioni degli antichi popoli semitici e della Cina. Su questo terreno e su questo punto la scienza delle religioni ha un compito molteplice da svolgere:

a) Innanzitutto, un servizio di ripulitura, per il quale bisogna mettersi all'opera. Le generazioni precedenti ci hanno ovunque lasciato spiegazioni che, bislacche o ragionevoli, sono in generale da respingere. L'inclinazione naturale di ogni storico specializzato, nel momento in cui, risalendo il corso dei secoli, arriva alla penombra, poi alle tenebre, è di immaginare una breve preistoria che prolunghi, con risparmio di fatica, i primi documenti fino a un ipotetico inizio assoluto, ex nihilo. Ι latinisti spiegano la formazione della religione romana a partire da lontani rumina (centri di marra), alcuni dei quali solamente, beneficiando di circostanze storiche, si sarebbero trasformati in divinità personali. Molti indianisti fanno ancora fatica a liberarsi dei miraggi di Max Müller e ritengono che i cantori vedici esprimano le reazioni naturali dell'uomo primitivo di fronte ai grandi fenomeni della natura; e gli altri non sono lontani dal vedere negli inni puri esercizi mentali e di stile, altra forma della creazione ex nihilo. Tutto ciò è artificiale, e l'artificio va riconosciuto e fatto riconoscere.

b) Un compito positivo, quindi, che porta, mediante procedimenti comparativi, a prolungare oggettivamente la storia, a guadagnare alcuni secoli sulla preistoria. Confrontando il totemismo degli Arunta e le forme analoghe e tuttavia differenti che praticano gli altri indigeni dell'Australia, si è potuta definire una probabile direzione evolutiva a partire da uno stato antico (non primitivo, certo) e comune: sia per comunità d'origine, sia per interazioni secolari, gli Australiani formano in effetti un «ciclo culturale», e possiamo, mutatis mutandis, applicare alle loro religioni, alle loro civiltà, i procedimenti comparativi che permettono al linguista, quando dispone di un gruppo di lingue geneticamente imparentate o avvicinate da un intenso gioco di prestiti, di inferire dati precisi e certi sul loro passato. La Polinesia, diverse aree dell'Africa nera e dell'America consentono ampiamente l'utilizzo di questo metodo.

Analogamente, comparando le più antiche forme di religione attestate presso popoli che non si sapevano né si sentivano più imparentati dall'inizio della loro storia, ma di cui sappiamo oggi, proprio in considerazione della loro lingua, che derivano dalla dispersione di uno stesso popolo preistorico, si possono fare delle supposizioni probabili sulla religione di tale popolo preistorico e, di

conseguenza, sulle diverse evoluzioni che, a partire da questo punto fisso, ricostruito ma non arbitrario, hanno condotto i popoli derivati fino alle loro rispettive soglie storiche, fino ai primi equilibri conosciuti delle loro religioni. È così che, per i popoli semitici, e oggi per quelli indoeuropei, sono stati recuperati uno o due millenni sui tempora incognita. Guadagno piccolo, se paragonato alle ambizioni di un Tylor o di un Durkheim; tuttavia guadagno certo, e di cui si intravede che servirà enormemente a costruire infine una storia naturale dello spirito umano.

3) Un terzo genere di ricerche interferisce con le precedenti. Come accanto alla linguistica descrittiva, alla linguistica storica (con le sue varietà, la linguistica comparata per ciascuna famiglia), vi è posto per una linguistica generale, così, senza ricadere negli errori di cui sopra, occorre - non più genealogicamente ma tipologicamente - comparare, nelle strutture e nelle evoluzioni più diverse, ciò che sembra comparabile, le funzioni rituali o concettuali che si ritrovano ovunque; le rappresentazioni che si impongono all'uomo chiunque egli sia; quelle che, quando coesistono, agiscono e reagiscono ordinariamente l'una sull'altra. Bisogna studiare, per determinarvi costanti e variabili, il meccanismo del pensiero mitico, i rapporti fra mito e altre componenti della religione; le comunicazioni del mito, del racconto, della storia, della filosofia, dell'arte, del sogno. Bisogna fare affidamento su tutti gli «osservatori di sintesi» che si presentano - sono in numero infinito - e, dall'alto di ciascuno di essi, costruire un repertorio che il più delle volte non sfocerà in un problema preciso e meno ancora in una soluzione, che sarà in genere provvisoria, incompleta come ogni vocabolario, ma che faciliterà, chiarirà, ispirerà i ricercatori impegnati negli studi storici, analitici o comparativi precedentemente definiti. Simili imprese hanno già arricchito una importante biblioteca, poiché dopo un certo tempo esse passano in secondo piano, mentre altre teorie più eclatanti occupano necessariamente l'attenzione. Tali sono le raccolte dei fatti « agrari » di Mannhardt e di Frazer, le monografie - cito a caso - sul santuario, sull'altare, sul sacrificio, sulla soglia, sulla danza, sul blood-covenant, sul culto degli alberi, o su quello delle alture, delle acque, sul malocchio, sulle cosmogonie, sugli animali più disparati in quanto elementi di rappresentazioni mitiche, sulla mistica dei numeri, sulle

pratiche sessuali, e centinaia d'altre monografie, redatte da autori non appartenenti ad alcuna scuola. Certo il materiale di scarso valore è enorme, probabilmente superiore a quello attendibile: studi del genere tentano costantemente autori mal preparati, o troppo frettolosi, o poco coscienziosi, ed è qui che la ciarlataneria, quale che ne sia l'etichetta, « sociologica » o altra, si annida, dogmatizza e talvolta pontifica facilmente. Poco importa: spetta al professore di «storia delle religioni», come impropriamente si dice, trattenere quanto vi è di buono e mettere in guardia gli studenti.

Questi sono i tre campi, o punti di vista, che dividono la scienza delle religioni. Si può coltivare la speranza che essi si uniscano, un giorno lontano, in una sintesi armoniosa, formante il quadro comodo di un sapere incontestabile. Ι nostri pronipoti non vedranno questo tempo fortunato. Per molto ancora, ciascuno lavorerà in uno dei tre cantieri, nel proprio angolo, gli storici specialisti come i comparativisti dei due tipi (genealogisti, tipologisti), spesso ignorandosi, talvolta accusandosi, calpestando a vicenda gli altrui diritti. Ma non è così che si sviluppa ogni scienza, e non conformandosi a un «piano» che dovrebbe essere secolare?

Motivo in più per fare di tanto in tanto il punto. È ciò a cui servirà, per cominciare, il Trattato che pubblica Mircea Eliade. Professore di storia delle religioni all'Università di Bucarest, l'autore ha presto sentito la necessità di un «corso d'iniziazione» a queste materie in cui ciascuno si vuole maestro, nonostante la difficoltà. Proseguito per sette anni, il corso ha prodotto il libro. Ardimentoso, intraprendente, armato d'immense letture e d'una specifica formazione di indianista, Eliade ha già fatto molto per i nostri studi: penso al suo Yoga, ai tre bei volumi della rivista rumena di storia delle religioni « Zalmoxis » e, più di recente, alla magistrale messa a punto dei problemi dello sciamanismo che ha fornito alla nostra « Revue de l'Histoire des Religions ».

a scorrere i titoli dei capitoli, a vedere così in risalto le Acque, il Cielo, il Sole, alcuni penseranno probabilmente a Max Müller, e tale ricordo tornerà loro utile: passando dai titoli al testo, essi vedranno come, dopo una reazione eccessiva contro gli eccessi del naturalismo,la scienza delle religioni riconosce oggi l'importanza di queste rappresentazioni, che sono la materia prima più generale del pensiero mitico. Ma vedranno anche che l'interpretazione

è assai diversa: queste ierofanie cosmiche, come dice Eliade, non sono che il rivestimento di un discorso più profondo; la morfologia del sacro traduce simbolicamente una dialettica del sacro di cui la natura non è che il supporto. È tutta una «filosofia prima della filosofia» che appare, non appena si osservi la più umile delle religioni, e che risulta da uno sforzo di spiegazione e unificazione, da uno sforzo verso la teoria in tutti i sensi della parola. Il presente libro ne farà sentire la coerenza e la nobiltà, e anche, da un continente all'altro (compresa la nostra Europa), l'uniformità; una uniformità che non bisogna certo esagerare, ma che riduce felicemente la vertigine di cui soffrono talvolta i principianti perduti nel labirinto dei fatti.

Beninteso, Eliade sa meglio di chiunque che ogni sintesi di questo genere comporta dei partiti presi, dei postulati che la loro efficacia giustifica, ma che sono personali, dunque provvisori, quantomeno perfettibili. Quest'armatura non è d'altronde l'aspetto meno avvincente del libro: sulla struttura e il funzionamento, sulle nozioni, care all'autore, di archetipo e di ripetizione, si troveranno idee chiare e illuminanti alle quali si augura non una lunga vita (il che è senza importanza), ma una pronta e ricca fecondità.

Infine questo libro ci rende oggi, a Parigi, in Francia, un servizio particolare, perché bisogna riconoscere che, se gli storici del cristianesimo, del buddhismo e in genere delle diverse religioni umane sono tra noi numerosi, e validi, pochissimi ricercatori (intendo ricercatori autentici) si consacrano agli studi comparativi e generali, sia perché questi richiedono una preparazione più faticosa, sia perché i dilettanti, alcuni molto ufficiali, li hanno screditati. La Sorbona conferisce certo ogni anno un certificat d'histoire des religions, con diverse opzioni; ma, per un divertente paradosso, non prevede insegnamenti di questa materia. Praticamente, il suo certificat si riduce a degli esami di filologia, che essa richiede e rende assai duri; per il resto, per la «scienza delle religioni » propriamente detta, è assai povera, e non sono sicuro che Frazer, il quale, insieme all'inglese, al francese e al tedesco, non disponeva che del greco e del latino, sarebbe stato promosso al facoltativo religion des peuples non civilisés. Sarebbe stato un peccato!

 

 

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