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I primi quattro paragrafi del Trattato di storia delle religioni di Mircea Eliade
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Approssimazioni: struttura e morfologia del sacro
1. «Sacro» e «profano»
Tutte le definizioni del fenomeno religioso date fino ad oggi hanno un tratto comune: ciascuna contrappone, a suo modo, il sacro e la vita religiosa al profano e alla vita secolare. Le difficoltà cominciano quando si vuol delimitare la sfera della nozione di «sacro». Difficoltà di carattere teorico, ma anche pratiche, perché prima di tentare una definizione del fenomeno religioso, occorre sapere da che parte bisogna ricercare i fatti religiosi, e, soprattutto, quali sono, fra questi fatti, quelli che si lasciano osservare «allo stato puro», cioè che sono «semplici» e il più possibile vicini alla loro origine. Simili fatti, purtroppo, non sono in alcun luogo a nostra disposizione: né nelle società di cui possiamo seguire la storia, né fra i «primitivi», i meno civilizzati. Quasi dappertutto, ci troviamo di fronte a fenomeni religiosi complessi, che presuppongono una lunga evoluzione storica. D'altra parte, anche la raccolta della documentazione presenta notevoli difficoltà pratiche, per due ragioni: 1) anche se ci contentassimo di studiare una sola religione, la vita di un uomo sarebbe appena sufficiente per condurre a termine le ricerche; 2) a chi si propone lo studio comparato delle religioni, non basterebbero parecchie esistenze. Ora a noi interessa appunto lo studio comparato, il solo capace di rivelarci la mutevole morfologia del sacro, da una parte, e il suo divenire storico, dall'altra. Per iniziare questo studio, siamo dunque obbligati a prescegliere alcune religioni, fra quelle registrate dalla storia o rivelate dall'etnologia, e anche certuni fra i loro aspetti e le loro fasi. Tale scelta, per quanto sommaria, è sempre operazione delicata. Infatti, volendo delimitare e definire il sacro, è necessario avere a disposizione una quantità sufficiente di «sacralità», cioè di fatti sacri. L'eterogeneità di questi «fatti sacri», disturbante all'inizio, diventa a poco a poco paralizzante. Perché si tratta di riti, miti, forme divine, oggetti sacri e venerati, simboli, cosmologie, teologumeni, uomini consacrati, animali, piante, luoghi sacri ecc. E ogni categoria ha una morfologia propria, densa, ricca e lussureggiante. Ci troviamo così di fronte a un materiale documentario immenso ed eteroclito; un mito cosmogonico melanesiano o un sacrificio brahmanico hanno diritto alla nostra considerazione non meno che i testi mistici di santa Teresa o di Nichiren, un totem australiano, un rito primitivo d'iniziazione, il simbolismo del tempio di Barabudur, il costume cerimoniale e la danza di uno sciamano siberiano, le pietre sacre che incontriamo un po' dappertutto, le cerimonie agrarie, i miti e i riti della Magna Dea, l'insediamento di un re arcaico o le superstizioni legate alle gemme ecc. Ogni documento può considerarsi una ierofania, nella misura in cui esprime a modo suo una modalità del sacro e un momento della sua storia, vale a dire un'esperienza del sacro fra le innumerevoli varietà esistenti. Ogni documento è prezioso per noi, in virtù della duplice rivelazione che realizza: 1) rivela una modalità del sacro in quanto ierofania; 2) rivela, in quanto momento storico, una posizione dell'uomo rispetto al sacro. Ecco, per esempio, un testo vedico diretto al morto: « Striscia verso la terra, tua genitrice! Possa ella salvarti dal nulla! »[77]. Esso ci rivela la struttura della sacralità tellurica; la Terra è considerata come una madre, Tellus Mater. Ma ci rivela contemporaneamente un certo momento nella storia delle religioni indiane: il momento in cui questa Tellus Mater era valorizzata - almeno da un certo gruppo di individui - come protettrice contro il nulla; valorizzazione che la riforma upanisadica e la predicazione del Buddha renderanno caduca. Per tornare al punto di partenza, ogni categoria di documenti (miti, riti, dèi, superstizioni ecc.) è per noi, in definitiva, egualmente preziosa, se vogliamo arrivare a capire il fenomeno religioso. La comprensione si realizza costantemente entro la cornice della storia: il semplice fatto di essere in presenza di ierofanie significa che siamo in presenza di documenti storici; il sacro si manifesta sempre in una certa situazione storica; le esperienze mistiche, anche quelle più personali e più trascendenti, subiscono l'influenza del momento storico. I profeti ebraici sono debitori degli avvenimenti storici che giustificavano e sostenevano il loro messaggio, e anche della storia religiosa ebraica, che consentì loro di formulare certe esperienze ecc. Come fenomeno storico - e non come esperienza personale - il nichilismo e l'ontologismo di certi mistici mahāyānici non sarebbe stato possibile senza la speculazione upanisadica, senza l'evoluzione della lingua sanscrita ecc. Questo non significa affatto che qualsiasi ierofania e qualsiasi esperienza religiosa siano un momento unico, irripetibile, nell'economia dello spirito. Le grandi esperienze si somigliano, non soltanto nel contenuto, ma spesso anche nell'espressione. Rudolf Otto ha rilevato somiglianze impressionanti fra il lessico e le formule di Meister Eckardt e quelli di Śankara. Il fatto che una ierofania è sempre storica (vale a dire, che si produce sempre in situazioni determinate) non inficia necessariamente la sua ecumenicità. Certe ierofanie hanno un destino locale; altre hanno, o acquistano, valenza universale. Gli Indiani, ad esempio, venerano un albero chiamato Aśvattha; la manifestazione del sacro in questa specie vegetale è chiara soltanto per loro, perché soltanto essi vedono nell'Aśvattha una ierofania e non soltanto un albero. Di conseguenza questa ierofania non è soltanto storica (come, del resto, tutte le ierofanie), ma è anche locale. Gli Indiani, tuttavia, conoscono anche il simbolo di un Albero Cosmico (Axis Mundi), e questa ierofania mitico-simbolica è universale, poiché gli Alberi Cosmici si trovano ovunque nelle antiche civiltà. Occorre precisare che l'Aśvattha è venerato in quanto incorpora la sacralità dell'Universo in continua rigenerazione; è venerato, cioè, perché incorpora, partecipa o simboleggia l'Universo rappresentato dagli Alberi Cosmici delle varie mitologie (cfr. § 99). Ma, quantunque l'Aśvattha si giustifichi con lo stesso simbolismo che compare anche nell'Albero Cosmico, la ierofania che tramuta una specie vegetale in un albero sacro è chiara soltanto per i membri della società indiana. Per citare un altro esempio - stavolta di una ierofania superata dalla storia stessa del popolo presso il quale si è prodotta -, i Semiti, in un certo momento della loro storia, hanno adorato una coppia divina, il dio dell'uragano e della fecondità, Ba'al, e la dea della fertilità (specialmente della fertilità agraria), Bëlit. I profeti ebraici consideravano sacrileghi questi culti. Dal loro punto di vista - quello di Semiti che, attraverso la riforma mosaica, avevano raggiunto un concetto più elevato, più puro e più completo della divinità - la critica era pienamente giustificata. Tuttavia il culto paleosemitico di Ba'al e Bëlit era pur sempre, anch'esso, una ierofania: rivelava - fino all'esasperazione e alla mostruosità - la sacralità della vita organica, le forze elementari del sangue, della sessualità e della fecondità. Una simile rivelazione ha conservato il suo valore, se non per millenni, almeno per molti secoli. Questa ierofania cessò di essere valorizzata soltanto quando fu sostituita da un'altra ierofania che - avutasi entro l'esperienza religiosa di una élite - si affermava più perfetta e più consolante. La «forma divina» di Jahvè ebbe il sopravvento sulla «forma divina» di Ba'al; rivelava la sacralità in modo più integrale, santificava la vita senza scatenare le forze elementari concentrate nel culto di Ba'al, rivelava un'economia spirituale nella quale alla vita dell'uomo e al suo destino si conferivano nuovi valori; nello stesso tempo, favoriva un'esperienza religiosa più ricca, una comunione col divino insieme più «pura» e più completa. Alla fine la ierofania jahvista trionfò; e, in quanto rappresentava una modalità universale del sacro, divenne, per la sua stessa natura, accessibile alle altre culture; attraverso il cristianesimo, diventò un valore religioso mondiale. Ne consegue che certe ierofanie (riti, culti, forme divine, simboli ecc.) sono o diventano in questo modo multivalenti o universali; ve ne sono poi altre che restano locali e «storiche»: inaccessibili alle altre culture, esse caddero in disuso nel corso stesso della storia delle società entro cui trovarono realizzazione.
2. Difficoltà metodologiche
Ma torniamo alla grande difficoltà materiale già segnalata: l'estrema eterogeneità dei documenti religiosi. Il campo pressoché sconfinato, ove i documenti furono raccolti a centinaia di migliaia, ha aggravato l'eterogeneità. Da una parte (come avviene del resto per tutti i documenti storici), quelli di cui disponiamo si sono conservati più o meno a caso (parliamo non soltanto di testi, ma di monumenti, iscrizioni, tradizioni orali, costumanze). Dall'altra, questi documenti conservati per caso provengono da ambienti molto diversi. Se, per ricostruire la storia- arcaica della religione greca, ad esempio, dobbiamo contentarci dei testi in numero limitato che si sono conservati, di alcune iscrizioni, di alcuni monumenti mutilati e di qualche oggetto votivo, per ricostruire le religioni germaniche o slave, per esempio, siamo obbligati a ricorrere ai documenti folclorici, accettando gli inevitabili rischi connessi al loro uso e alla loro interpretazione. Una iscrizione runica, un mito raccolto quando già da molti secoli non è più compreso, qualche graffito simbolico, alcuni monumenti protostorici, una quantità di riti e leggende popolari del secolo scorso: c'è cosa più eteroclita del materiale documentario a disposizione dello storico delle religioni germaniche o slave? Accettabile per lo studio di una religione sola, tale eterogeneità diventa grave quando si deve metter mano allo studio comparato delle religioni, mirando a conoscere un gran numero di modalità del sacro. Siamo precisamente nella situazione di un critico che dovesse scrivere la storia della letteratura francese disponendo soltanto dei frammenti di Racine, di una traduzione spagnola di La Bruyère, di qualche testo citato da un critico straniero, delle memorie letterarie di alcuni viaggiatori e diplomatici, del catalogo di una libreria di provincia, dei sunti e dei componimenti di un collegiale e di altre indicazioni dello stesso genere. È questa, in breve, la documentazione che può utilizzare lo storico delle religioni: alcuni frammenti di una vasta letteratura sacerdotale orale (creazione esclusiva di una certa classe sociale), qualche allusione rinvenuta fra gli appunti di viaggiatori, materiali raccolti da missionari stranieri, riflessioni tratte dalla letteratura profana, alcuni monumenti, alcune iscrizioni, e i ricordi conservati dalle tradizioni popolari. Evidentemente, anche le scienze storiche sono costrette a contentarsi di una documentazione dello stesso genere, frammentaria e contingente. Ma il compito dello storico delle religioni è assai più audace di quello dello storico che debba ricostruire un avvenimento o una serie di avvenimenti con l'aiuto dei magri documenti superstiti: infatti lo storico delle religioni deve non soltanto tracciare ex novo la storia di una certa ierofania (rito, mito, dio o culto), ma deve anzitutto comprendere e rendere comprensibile la modalità del sacro rivelata attraverso quella ierofania. Ora, l'eterogeneità e il carattere fortuito dei documenti a disposizione aggravano la difficoltà, che sempre esiste, di interpretare correttamente il senso di una ierofania. Immaginiamoci le difficoltà di un buddhista che, per capire il cristianesimo, disponesse soltanto di qualche frammento dei Vangeli, di un breviario cattolico e di materiale iconografico disparato (icone bizantine, statue barocche di santi, paramenti di un prete greco- scismatico) ma che, in compenso, avesse la possibilità di studiare la vita religiosa di un villaggio europeo. L'osservatore buddhista noterebbe indubbiamente una netta distinzione fra la vita religiosa dei contadini e i concetti teologici, morali e mistici del parroco. Ma, pur avendo ragione di rilevare questa distinzione, avrebbe torto a non giudicare il cristianesimo secondo le tradizioni conservate da un singolo individuo, il parroco, considerando «vera» soltanto l'esperienza rappresentata dalla comunità del villaggio. Tutto sommato, le modalità del sacro rivelate dal cristianesimo sono meglio conservate nella tradizione rappresentata dal prete (anche se questa tradizione ha ricevuto un suo spiccato colore dalla storia e dalla teologia). Ora, quel che interessa l'osservatore non è di conoscere un certo momento della storia del cristianesimo, in un certo settore della cristianità, ma piuttosto il cristianesimo stesso. Che una sola persona, in tutto il villaggio, conosca il rituale, il dogma e la mistica cristiani, mentre tutti gli altri membri della comunità li ignorano e praticano un culto elementare infarcito di superstizioni (cioè resti di ierofanie superate), è un fatto di nessuna importanza, almeno in questa sede. L'importante è capire che quell'unico individuo conserva in modo più completo, se non l'esperienza originaria del cristianesimo, almeno i suoi elementi fondamentali e il suo valore mistico, teologico e rituale. Questo errore di metodo è piuttosto frequente nell'etnologia. Paul Radin si crede in diritto di respingere le conclusioni delle ricerche del missionario Gusinde perché relative a un solo individuo. Tale atteggiamento si giustificherebbe soltanto se la ricerca avesse avuto un fine esclusivamente sociologico: la vita religiosa di una comunità della Terra del Fuoco in un dato momento storico; ma, se si tratta di conoscere la capacità dei Fuegini di sperimentare la sacralità, il caso è del tutto diverso. Ora, uno dei problemi più importanti della storia delle religioni e appunto la capacità di conoscere le diverse modalità del sacro presso i primitivi. Infatti, se potessimo dimostrare (come del resto si è fatto in questi ultimi decenni) che la vita religiosa dei popoli più primitivi è realmente complessa, che non la si può ridurre all'« animismo », al «totemismo» o al culto degli antenati, in quanto conosce anche Esseri Supremi dotati di tutto il prestigio del Dio creatore e onnipotente, allora l'ipotesi evoluzionistica, che vieta ai primitivi l'accesso alle sedicenti «ierofanie superiori», si troverebbe con ciò confutata.
3. Varietà delle ierofanie
Naturalmente, i paragoni che abbiamo adoperato per far capire quanto siano precari i documenti a disposizione dello storico delle religioni sono soltanto esempi immaginari, e come tali vanno considerati. Giustificare il metodo cui si ispira questo libro è il nostro primo pensiero. In che misura abbiamo il diritto - considerando l'eterogeneità e la precarietà del materiale documentario - di parlare di «modalità del sacro»? Ad attestarci la reale esistenza di queste modalità è il fatto che una ierofania sia vissuta e interpretata dalle élites religiose diversamente che dal resto della comunità. Per il popolino che, al principio dell'autunno, visita il tempio Kālighat di Calcutta, Durgā è una dea terrificante, alla quale bisogna sacrificare capri; invece, per alcuni Sākta iniziati, Durga è l'epifania della vita cosmica in continua e violenta palingenesi. Ε molto probabile che fra gli adoratori del liʼnga di Śiva, moltissimi vedano soltanto l'archetipo dell'organo generatore; ma vi sono altri che lo considerano un segno, un eikon della creazione e della distruzione ritmiche dell'Universo, il quale si manifesta per mezzo di forme e si reintegra periodicamente nell'unità primordiale, per rigenerarsi. Qual è l'autentica ierofania di Durgā e di Śiva: quella decifrata dagli «iniziati» o quella sentita dalla massa dei «credenti»? Cercheremo di mostrare, nelle pagine che seguono, che sono ambedue egualmente valide, che il senso attribuito dalle masse, allo stesso titolo dell'interpretazione iniziatica, rappresenta una modalità reale, autentica del sacro manifestato da Durgā e da Śiva. Ε dimostreremo che le due ierofanie sono coerenti, vale a dire che le modalità del sacro rivelate per loro mezzo non sono affatto contraddittorie, sono anzi integrabili e complementari. Siamo perciò in diritto di riconoscere uguale «validità» al documento che registra un'esperienza popolare e al documento che rispecchia l'esperienza di un'élite. Le due categorie di documenti sono indispensabili, non soltanto per ricostruire la storia di una ierofania, ma anzitutto perché concorrono a costituire le modalità dei sacro rivelate attraverso questa ierofania. Tali osservazioni, ampiamente illustrate nel corso di questo libro, vanno applicate all'eterogeneità delle ierofanie di cui abbiamo parlato, poiché, come si è detto, quei documenti non soltanto sono eterogenei riguardo all'origine (provenendo alcuni da sacerdoti o da iniziati, altri dalle masse; gli uni presentando soltanto allusioni, frammenti e dicerie, gli altri, testi originali ecc.), ma sono eterogenei anche nella loro stessa struttura. Ad esempio, le ierofanie vegetali (cioè il sacro rivelato per mezzo della vegetazione) si ritrovano tanto nei simboli (Albero Cosmico) o nei miti metafisici (Albero della Vita), quanto nei riti popolari (la «Passeggiata del Maggio», la combustione del ciocco, i riti agrari), nelle credenze collegate all'idea di origine vegetale del genere umano, nelle relazioni mistiche fra certi alberi e certe persone o società umane, nelle superstizioni intorno alla fecondazione per mezzo di frutti o di fiori, nei racconti ove gli eroi uccisi a tradimento si trasformano in piante, nei miti e nei riti delle divinità della vegetazione e dell'agricoltura ecc. Questi documenti non differiscono soltanto nella loro storia (si confronti, ad esempio, il simbolo dell'Albero Cosmico presso gli Indiani e presso gli Altaici con le credenze di certe popolazioni primitive circa la discendenza del genere umano da una specie vegetale), differiscono anche per la loro stessa struttura. Quali documenti dobbiamo prendere a modello, per capire le ierofanie vegetali? Ι simboli, i miti, i riti, o le «forme divine »? Il metodo più sicuro, evidentemente, è quello che considera e utilizza tutti questi documenti eterogenei, senza escluderne alcun tipo importante, e nello stesso tempo pone la questione dei contenuti rivelati da tutte le ierofanie. Otterremo così un insieme coerente di tratti comuni, che, come vedremo più oltre, permettono di organizzare un sistema coerente di modalità della sacralità vegetale. Potremo così osservare che ciascuna ierofania presuppone tale sistema; che un'usanza popolare in relazione con la «Passeggiata cerimoniale del Maggio » implica la sacralità vegetale formulata nell'ideogramma dell'Albero Cosmico; che certe ierofanie non sono abbastanza «aperte», sono quasi «criptiche», nel senso che rivelano soltanto in parte e in modo più o meno cifrato la sacralità incorporata o simboleggiata dalla vegetazione, mentre altre ierofanie realmente « faniche » lasciano trasparire, nel loro insieme, le modalità del sacro. Per esempio, potremmo considerare come ierofania criptica, non sufficientemente «aperta», o «locale», l'usanza di portare in giro cerimonialmente un ramo verde all'inizio della primavera; e come ierofania « trasparente » il simbolo dell'Albero Cosmico. Ma l'una e l'altra rivelano la stessa modalità del sacro incorporato nella vegetazione: la rigenerazione ritmica, la vita inesauribile concentrata nella vegetazione, la realtà manifestata in una creazione periodica ecc. (§ 124). Il fatto da porre fin d'ora in rilievo è che tutte le ierofanie conducono a un sistema di affermazioni coerenti, a una teoria della sacralità vegetale, e che questa teoria è implicita nelle ierofanie insufficientemente «aperte» non meno che nelle altre. Le conseguenze teoriche di queste osservazioni saranno discusse alla fine del libro, quando avremo esaminato un numero sufficiente di fatti. Per ora ci contentiamo di mostrare che l'intelligenza di una ierofania non è ostacolata né dall'eterogeneità storica dei documenti (alcuni dei quali provengono da élites religiose, altri da masse incolte, gli uni frutto di civiltà raffinate, gli altri creazioni di società primitive ecc.), né dalla loro eterogeneità strutturale (miti, riti, forme divine, superstizioni ecc.). Nonostante le difficoltà pratiche, questa eterogeneità è anzi la sola cosa capace di rivelarci tutte le modalità del sacro, perché un simbolo o un mito lasciano trasparire nettamente le modalità che un rito non può manifestare, che nel rito sono soltanto implicite. La differenza, per esempio, fra il livello di un simbolo e quello di un rito, è di tal natura, che il rito non potrà mai rivelare tutto quel che rivela il simbolo. Ma, lo ripetiamo, la ierofania attiva in un rito agrario presuppone la presenza dell'intero sistema, cioè l'insieme delle modalità della sacralità vegetale, rivelata in modo più o meno globale dalle altre ierofanie agrarie. Queste osservazioni preliminari saranno meglio comprese quando riprenderemo in esame il problema da un diverso punto di vista. Il fatto che la strega bruci un'immagine di cera contenente una ciocca dei capelli della «vittima» senza rendersi conto in modo soddisfacente della teoria presupposta dall'atto magico, non ha nessuna importanza per la comprensione della magia simpatica. L'importante, per capire questa magia, è sapere che simili atti furono possibili soltanto dal momento in cui certe persone si convinsero (sperimentalmente) o affermarono (teoricamente) che le unghie, i capelli o gli oggetti di un qualsiasi individuo intrattengono con lui una stretta relazione anche dopo esserne stati separati. Tale credenza presuppone uno « spazio reticolato » che colleghi gli oggetti più distanti, legandoli gli uni agli altri per mezzo di una simpatia retta da leggi specifiche (coesistenza organica, analogia formale o simbolica, simmetrie funzionali). Lo stregone (colui che agisce da mago) può credere all'efficacia della propria azione solo in quanto esiste un siffatto « spazio-rete ». Che conosca o no questo « spazio-rete », che sia o no a conoscenza della «simpatia » che lega i capelli all'individuo, non ha alcuna importanza. È probabilissimo che molte fattucchiere odierne non abbiano una rappresentazione del mondo in armonia con le pratiche magiche da loro esercitate. Però, considerate in sé, queste pratiche possono rivelarci il mondo dal quale provengono, anche se chi se ne serve non vi accede teoricamente. L'universo mentale dei mondi arcaici non è giunto fino a noi in modo dialettico, nelle credenze esplicite delle persone, si è invece conservato nei miti, nei simboli, nelle costumanze che, malgrado degradazioni di ogni specie, lasciano ancora vedere chiaramente il loro senso originario. Essi rappresentano, in un certo senso, dei «fossili viventi», e qualche volta basta uno solo di essi per ricostruire il complesso organico di cui è residuo.
4. Molteplicità delle ierofanie
Gli esempi che abbiamo qui citato saranno ripresi e approfonditi nel corso del libro: sono serviti finora a una prima approssimazione, non a delimitare la nozione di sacro, ma a familiarizzare con i documenti di cui disponiamo. Questi documenti li abbiamo chiamati ierofanie, perché ciascuno rivela una modalità del sacro. Le modalità di questa rivelazione, come pure il valore ontologico che le diamo, sono due questioni che potremo discutere soltanto alla fine della nostra ricerca. Consideriamo per ora ciascun documento - rito, mito, cosmogonia o dio - come formante una ierofania; in altri termini, cerchiamo di considerarlo come una manifestazione del sacro nell'universo mentale di coloro che lo hanno accolto. Certo, l'esercizio che ci proponiamo non è sempre facile. L'occidentale è avvezzo a riferire spontaneamente le nozioni del sacro, della religione, e perfino della magia, a certe forme storiche della vita religiosa giudeo-cristiana, e quindi le ierofanie straniere gli sembrano in gran parte aberranti. Anche se fosse disposto a considerare con simpatia certi aspetti delle religioni esotiche - anzitutto delle religioni orientali - soltanto con difficoltà riuscirà a capire la sacralità delle pietre, per esempio, o l'erotica mistica. Ε anche supponendo che tali ierofanie eccentriche possano in qualche modo giustificarsi (per esempio considerandole «feticismi »), è quasi sicuro che un uomo moderno sarà refrattario alle altre ierofanie, ed esiterà a riconoscere il loro valore di ierofanie, cioè di modalità del sacro. Walter Otto osservava nel suo Die Götter Griechenlands che riesce molto ostico all'uomo moderno afferrare la sacralità delle «forme perfette», una delle categorie del divino che erano di uso corrente presso gli antichi Greci. La difficoltà diventerà più grave quando si dovrà considerare un simbolo come manifestazione del sacro, o quando si tratterà di sentire che le stagioni, i ritmi, o la pienezza delle forme (di qualsiasi forma) sono altrettanti modi della sacralità. Tenteremo di mostrare, nelle pagine che seguono, che gli uomini delle culture arcaiche li consideravano tali. Ε quando ci saremo disfatti dei pregiudizi didattici, quando avremo dimenticato che questi atteggiamenti furono talvolta tacciati di panteismo, feticismo, infantilismo ecc., allora, nella stessa misura, saremo in grado di intendere meglio il senso passato o presente del sacro nelle culture arcaiche, e insieme aumenterà per noi la probabilità di capire egualmente i modi e la storia della sacralità. Dobbiamo abituarci ad accettare le ierofanie in qualsiasi luogo, in qualsiasi settore della vita fisiologica, economica, spirituale e sociale. In conclusione, non sappiamo se esista qualche cosa - og- [troncato].
[77] Rgveda, X, 18, 10.
Da:
http://gianobifronte.it/2_ARGOMENTI/2o_religioni/2o7_e_dintorni/a1_06_
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