"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
Il significato acquisito
dalla «storia» nel quadro delle diverse civiltà arcaiche non ci è mai rivelato
così chiaramente come nella teoria del «grande tempo», cioè dei grandi cicli
cosmici, che abbiamo segnalato di passaggio nel precedente capitolo. Dobbiamo
riparlarne, poiché proprio in questo caso si precisano per la prima volta due
orientamenti distinti: l'uno tradizionale, presentito (senza mai essere stato
formulato con chiarezza) in tutte le culture «primitive», quello del tempo
ciclico che si rigenera periodi-camente ad infìnitum; l'altro, «moderno», del
tempo finito, frammento (sebbene se ciclico anch'esso) tra due infiniti
atemporali.
Quasi ovunque queste teorie del «grande tempo» si ritrovano in unione al mito
delle età successive, poiché l'«età dell'oro» si trova sempre all'inizio del
ciclo, vicino all'illud tempus paradigmatico. Nelle due dottrine - quella del
tempo ciclico infinito e quella del tempo ciclico limitato - questa età dell'oro
è recuperabile, in altri termini, è ripetibile per un'infinità di volte nella
prima dottrina, una sola volta nell'altra. Non ricordiamo questi fatti per il
loro interesse intrinseco, che è senza dubbio considerevole, ma per chiarire il
significato della «storia» dal punto di vista di ciascuna dottrina. Inizieremo
dalla tradizione indù, perché proprio in essa il mito della ripetizione eterna
ha trovato la sua formulazione più audace. La credenza nella distruzione e nella
creazione periodica dell'universo si trova già nell'Atharva Veda (10,8, 39-40).
La conservazione di idee simili nella tradizione germanica (conflagrazione
universale, ragnarók, seguita da una nuova creazione) conferma la struttura
indo-ariana di questo mito, che può quindi essere considerato come una delle
numerose varianti dell'archetipo esaminato nel capitolo precedente (le eventuali
in fluenze orientali sulla mitologia germanica non distruggono necessariamente
l'autenticità e il carattere autoctono del mito del ragnarók. Sarebbe d'altronde
difficile spiegare perché gli indo-ariani non hanno condiviso anch'essi,
dall'epoca della loro comune preistoria, la concezione del tempo con gli altri
«primitivi»).
La speculazione indù, tuttavia, amplifica e orchestra i ritmi che comandano la
periodicità delle creazioni e delle distruzioni cosmiche. L'unità di misura del
ciclo più piccolo è lo yuga, l'«età». Uno yuga è preceduto e seguito da una
«aurora» e da un «crepuscolo» che uniscono tra loro le «età». Un ciclo completo,
o mahàyuga, si compone di quattro «età» di durata ineguale, con l'età più lunga
all'inizio e la più corta alla fine. Così la prima «età», il krìta-yuga, dura
quattromila anni, più quattrocento anni di «aurora» e altrettanti di
«crepuscolo»; seguono poi tretà-yuga, di tremila anni, dvàpara-yuga di duemila
anni e kàli-yuga di mille anni (più, ovviamente, le «aurore» e i «crepuscoli»
corrispondenti). Quindi un mahàyuga dura dodicimila anni (Manu, 1, 69 ss.;
Mahàbhàrata, 3, 12, 826). Alle diminuzioni progressive della durata di ogni
nuovo yuga corrisponde, sul piano umano, una diminuzione della durata della
vita, accompagnata da un rilassamento dei costumi e da un declino
dell'intelligenza. Questa decadenza continua su tutti i piani - biologico,
intellettuale, etico, sociale, ecc. - acquista più particolarmente rilievo nei
testi puranici (cfr. per esempio Vàyu Puràna, 1,8; Vishnu Puràna, 6,3). II
passaggio da uno yuga all'altro avviene, come abbiamo visto, durante un
«crepuscolo» che segna un decrescendo anche all'interno di ciascuno yuga, poiché
ciascuno di essi termina con un periodo di tenebre. A misura che ci si avvicina
alla fine del ciclo, cioè alla fine del quarto e ultimo yuga, le «tenebre» si
infittiscono. Il kali-yuga, quello nel quale ci troviamo attualmente, è
considerato proprio l'«età delle tenebre». Il ciclo completo termina con una
«dissoluzione», un pralaya, che si ripete in un modo più radicale (mahàpra-laya,
la «grande dissoluzione») alla fine del millesimo ciclo. H. Jacobi1 ritiene a
ragione che, nella dottrina originale, uno yuga equivaleva a un ciclo completo
comprendente la nascita, il «logoramento» e la distruzione dell'universo. Una
tale dottrina era d'altronde più vicina al mito archetipico, di struttura
lunare, che abbiamo analizzato in altra sede2. La speculazione ulteriore ha
soltanto ampliato e riprodotto all'infinito il ritmo primordiale «creazione-distruzione-creazione»,
proiettando l'unità di misura, lo yuga, in cicli sempre più vasti. I dodicimila
anni di un mahàyuga sono stati considerati come «anni divini», ciascuno con la
durata di trecentosessant'anni, e questo da un totale di 4.320.000 anni per un
solo ciclo cosmico. Mille di questi mahàyuga costituiscono un kalpa; 14 kalpa
formano un manvantàra.
Un kalpa equivale a un giorno della vita di Brahma; un altro kalpa a una notte.
Cento di questi «anni» di Brahma costituiscono la sua vita. Ma questa
considerevole durata della vita di Brahma non giunge però ad esaurire il tempo,
poiché gli dèi non sono eterni e le creazioni e le distruzioni cosmiche si
susseguono ad infinitum (d'altra parte altri sistemi di calcolo ampliano ancora,
in ben più larga misura, le corrispondenti durate). Di tutta questa valanga di
cifre3, è necessario ricordare soltanto il carattere ciclico del tempo cosmico.
Infatti assistiamo alla ripetizione infinita del medesimo fenomeno (creazione-distruzione-ricreazione)
presentito in ogni yuga («aurora» e «crepuscolo»), ma realizzato completamente
da un mahàyuga. La vita di Brahma comprende così 2.560.000 di questi mahàyuga, e
ognuno di essi riprende le stesse tappe {krita, treta, dvàpara, kali) e finisce
con un pralaya, un ragnarók (la distruzione «definitiva», nel senso di una
regressione di tutte le forme in una massa amorfa che avviene alla fine di ogni
kalpa al tempo del mahàpralaya). Oltre al deprezzamento metafisico della storia
- che, in proporzione e per il solo fatto della sua durata, provoca una erosione
di tutte le forme, esaurendo la loro sostanza onto logica - e oltre al mito
della perfezione degli inizi, che ritroviamo anche qui (mito del paradiso che
viene gradualmente perduto, per il semplice fatto che si realizza, che prende
forma e che dura), merita di fermare la nostra attenzione, in questa orgia di
cifre, l'eterna ripetizione del ritmo fondamentale del cosmo: la sua periodica
distruzione e la ricreazione. Da questo ciclo senza inizio né fine l'uomo può
staccarsi solamente con un atto di libertà spirituale (poiché tutte le soluzioni
soteriologiche indù si riducono alla liberazione preliminare dall'illusione
cosmica e alla libertà spirituale).
Le due grandi eterodossie, il buddismo e il giainismo, accettano nelle sue
grandi linee la stessa dottrina panindù del tempo ciclico e lo paragonano a una
ruota con dodici raggi (questa immagine è già utilizzata nei testi vedici, cfr.
Atharva Veda, 10,8,4; Rig Veda, 1,164,115, ecc). Il buddismo adotta come unità
di misura dei cicli cosmici il kalpa (pàli: kappa), suddiviso in un numero
variabile di «incalcolabili» (asamkheyya, pàli: asankheyya). Le fonti pàli
parlano in generale di quattro asankheyya e di centomila kappa (cfr. per esempio
Jàtaka, 1, p. 2); nella letteratura ma-hàyànica, il numero di «incalcolabili»
varia tra 3, 7 e 33, e sono messi in relazione con il cammino del Boddhisattva
nei differenti cosmi4. La progressiva decadenza dell'uomo è segnata nella
tradizione buddistica da una continua diminuzione della durata della vita umana.
Così, secondo Di-ghanikàya, 2,2-7, all'epoca del primo Buddha, Vipassi, che fece
la sua comparsa 91 kappa or sono, la durata della vita umana era di 80.000 anni;
a quella del secondo Buddha, Sikhi (31 kappa or sono) di 70.000 anni, e così
via. Il settimo Buddha, Gotama, fa la sua comparsa quando la vita umana è
soltanto ormai di cento anni, cioè è ridotta al suo limite estremo (ritroveremo
lo stesso motivo nelle apocalissi iraniche e cristiane). Quindi, per il
buddismo, come per tutta la speculazione indù, il tempo è illimitato; e il
Boddhisattva s'incarnerà, per annunciare la buona novella della salvezza, per
tutti gli esseri, in aeternum. L'unica possibilità di uscire dal tempo, di
spezzare il cerchio di ferro delle esistenze, è l'abolizione della condizione
umana e la conquista del Nirvana5. D'altra parte, tutti questi «incalcolabili» e
tutti questi eoni senza numero hanno anche una funzione soteriologica; la
semplice contemplazione del loro panorama terrorizza l'uomo e lo forza a
convincersi che deve ricominciare miliardi di volte questa stessa esistenza
evanescente e sopportare senza fine le stesse sofferenze, e questo ha per
effetto di esacerbare la sua volontà di evasione, cioè di spingerlo a
trascendere definitivamente la sua condizione di «esistente».
Le speculazioni indù sul tempo ciclico mostrano con una sufficiente insistenza
il «rifiuto della storia». Sottolineiamo tuttavia una fondamentale differenza
tra queste e le concezioni arcaiche; mentre l'uomo delle culture tradizionali
rifiuta la storia per mezzo dell'abolizione periodica della creazione, rivivendo
così incessantemente nell'istante atemporale degli inizi, lo spirito indù, nelle
sue supreme tensioni, svilisce e respinge anche questa riattualizzazione del
tempo aurorale, che non considera più come una soluzione efficace del problema
della sofferenza. La differenza tra la visione vedica (quindi arcaica e
«primitiva») e la visione mahàyànica del ciclo cosmico è, per usare una formula
sommaria, quella stessa che distingue la posizione antropologica archetipica
(tradizionale) dalla posizione esistenzialistica (storica). Il karma, legge
della causalità universale, che, giustificando la condizione umana e spiegando
l'esperienza storica, poteva essere generatore di consolazione per la coscienza
indù prebuddistica, diventa col tempo il simbolo stesso della «schiavitù»
dell'uomo. Per questo, nella misura in cui si propongono la liberazione
dell'uomo, tutte le metafisiche e tutte le tecniche indù ri cercano
l'annullamento del karma. Ma se le dottrine dei cicli cosmici fossero state
solamente una spiegazione della teoria della causalità universale, saremmo
dispensati dal ricordarle in questa sede. La concezione dei quattro yuga apporta
infatti un nuovo elemento: la spiegazione (e di conseguenza la giustificazione)
delle catastrofi storielle, della decadenza progressiva della biologia, della
sociologia, dell'etica e della spiritualità umana. Il tempo, per il semplice
fatto che è durata, aggrava continuamente la condizione cosmica e implicitamente
la condizione umana. Per il semplice fatto che noi viviamo attualmente nel
kali-yuga, quindi in un'«età di tenebre», che progredisce sotto il segno della
disgregazione e deve finire con una catastrofe, il nostro destino è di soffrire
di più degli uomini delle «età» precedenti. Ora, nel nostro momento storico, non
possiamo dedicarci ad altre cose: tutt'al più (e qui si intravede la funzione
soteriologica del kali-yuga e i privilegi che ci riserba una storia crepuscolare
e catastrofica) possiamo svincolarci dalla servitù cosmica. La teoria indù delle
quattro età è di conseguenza rinvigorente e consolante per l'uomo terrorizzato
dalla storia. Infatti: 1) da una parte le sofferenze che gli vengono assegnate,
poiché è contemporaneo della decomposizione crepuscolare, l'aiutano a
comprendere la precarietà della sua condizione umana e facilitano così la sua
liberazione; 2) d'altra parte la teoria convalida e giustifica le sofferenze di
chi non sceglie di liberarsi, ma si rassegna a subire la sua esistenza, e questo
per il fatto che ha coscienza della struttura drammatica e catastrofica
dell'epoca nella quale gli è stato dato di vivere (o, più precisamente, di
rivivere).
Ci interessa particolarmente questa seconda possibilità per l'uomo di situarsi
in un'«epoca di tenebre» e di fine ciclo; infatti la si ritrova in altre culture
e in altri momenti storici. Sopportare di essere contemporaneo di un'epoca
di-sastrosa, prendendo coscienza del posto occupato da quest'epoca nella
traiettoria discendente del ciclo cosmico, è un atteggiamento che doveva
soprattutto mostrare la sua efficacia nel crepuscolo della civiltà
greco-orientale. Non dobbiamo occuparci qui dei molteplici problemi che
sollevano le civiltà orientali-ellenistiche. L'unico aspetto che ci interessa è
la situazione che l'uomo di queste civiltà si scopre di fronte alla storia, e
più precisamente di fronte alla storia che gli è contemporanea. Per questo non
ci attarderemo sull'origine, la struttura e l'evoluzione dei diversi sistemi
cosmologici, in cui il mito antico dei cicli cosmici viene ripreso e
approfondito, né sulle loro conseguenze filosofiche. Ricorderemo questi sistemi
cosmologici - dai presocratici ai neopitagorici - solamente nella misura in cui
danno una risposta al seguente problema: qual è il senso della storia, cioè
della totalità delle esperienze umane provocate dalle fatalità geografiche,
dalle strutture sociali, dalle congiunture politiche, ecc? Notiamo fin dal
principio che questo problema aveva un senso soltanto per una piccolissima
minoranza nell'età delle civiltà ellenisti-co-orientali, soltanto per quelli che
si trovavano svincolati dall'orizzonte della spiritualità arcaica. La stragrande
maggioranza dei loro contemporanei viveva ancora, soprattutto all'inizio, sotto
il regime degli archetipi; ne uscirà soltanto molto tardi (e forse mai in modo
definitivo, come è il caso, per esempio, per le società agricole), durante forti
tensioni storielle provocate da Alessandro e che terminano soltanto con la
caduta di Roma. Ma i miti filosofici e le cosmologie più o meno scientifiche
elaborate da questa minoranza, che comincia con i presocratici, conosce con il
tempo un'immensa diffusione. Quella che era nel secolo V a.C. una gnosi
difficilmente accessibile, diventa, quattro secoli dopo, una dottrina che
consola centinaia di migliaia di uomini, come testimoniano per esempio il
neopitagorismo e il neostoicismo nel mondo romano. Certamente ci interessano
tutte quelle dottrine greche e greco-orientali, fondate sul mito dei cicli
cosmici, per il «successo» che hanno ottenuto in seguito e non per il loro
merito intrinseco.
Questo mito era ancora trasparente nelle prime speculazioni presocratiche.
Anassimandro sa che tutte le cose sono nate e ritornano all'apeiron. Empedocle
spiega con la supremazia alterna dei due princìpi opposti philia e neikos le
eterne creazioni e distruzioni del cosmo (cicli in cui si possono distinguere
quattro fasi6, un poco analoghe ai quattro «incalcolabili» della dottrina
buddistica). La conflagrazione universale, l'abbiamo visto, viene accettata
anche da Eraclito. Per quanto riguarda l'«eterno ritorno» - la ri presa
periodica da parte di tutti gli esseri delle loro esistenze anteriori - vi è in
esso uno dei rari dogmi di cui sappiamo, con una certa sicurezza, che
appartenevano al pitagorismo primitivo (Dicearco, citato da Porfirio, Vita Pyth.,
19). Infine, secondo recenti ricerche, mirabilmente condotte e sintetizzate da
J. Bidez7, sembra sempre più probabile che almeno determinati elementi del
sistema platonico siano di origine irano-babilonese. Ritorneremo su queste
eventuali influenze orientali; per ora ci soffermiamo sull'interpretazione data
da Piatone del mito del ritorno ciclico, più precisamente nel testo
fondamentale, il Politico, 269c ss. Piatone trova la causa della regressione e
delle catastrofi cosmiche in un duplice movimento dell'universo, di «...questo
universo, che è il nostro... talvolta la divinità guida l'insieme della sua
risoluzione circolare, talvolta l'abbandona a se stesso, una volta che le
rivoluzioni hanno raggiunto in durata la misura che spetta a questo universo;
esso ricomincia allora a girare nel senso opposto, di suo proprio movimento...».
Il cambiamento di direzione è accompagnato da giganteschi cataclismi: «Le
distruzioni più considerevoli, sia fra gli animali in generale che nel genere
umano, di cui, come è giusto, non sopravvive che un piccolo numero di
rappresentanti» (270c). Ma questa catastrofe è seguita da una paradossale
«rigenerazione». Gli uomini si mettono a ringiovanire; «i bianchi capelli dei
vegliardi ritornano neri», ecc, mentre quelli che erano in pubertà cominciano a
diminuire di giorno in giorno in statura, per ritornare alle dimensioni del
fanciullo appena nato, fintanto che, «continuando ormai a consumarsi, si
annienteranno totalmente. I cadaveri di quelli che allora morivano «scomparivano
completamente, senza lasciare tracce visibili, in un piccolo numero di giorni»
(270e). Allora nacque la razza dei «figli della terra» (gegeneis), il cui
ricordo è stato conservato dai nostri antenati (27la). In quest'epoca di Cronos
non vi erano né animali selvatici né inimicizie tra gli animali (27le). Gli
uomini di quest'epoca non avevano né mo gli né figli: «Nell'uscire dalla terra
ritornavano tutti alla vita, senza aver conservato nessun ricordo delle
condizioni anteriori della loro esistenza». Gli alberi davano loro frutti in
abbondanza ed essi dormivano nudi sul suolo, senza aver bisogno di letti, perché
allora le stagioni erano miti (272a).
Il mito del paradiso primordiale, evocato da Piatone, trasparente nelle credenze
indù, è conosciuto sia dagli ebrei (per esempio, illud tempus messianico in Is.
11,6,8; 65,25) che dalle tradizioni iraniche (Dinkard, 7,9,3-5, ecc.) e
greco-latine8. D'altronde esso si inquadra perfettamente nella concezione
arcaica (e probabilmente universale) degli «inizi paradisiaci», che ritroviamo
in tutte le valorizzazioni dell'illud tempus primordiale. Non è certo
sorprendente che Piatone riproduca tali visioni tradizionali nei dialoghi
dell'epoca della sua vecchiaia; l'evoluzione stessa del suo pensiero filosofico
lo costringeva a riscoprire le categorie mitiche. Aveva certamente a portata di
mano il ricordo dell'«età dell'oro» di Cronos nella tradizione ellenica (cfr.
per esempio le quattro età descritte da Esiodo, Erga, 110 ss.). Del resto,
questa constatazione non ci impedisce affatto di riconoscere, anche nel Polìtico,
certe influenze babilonesi; quando, per esempio, Piatone imputa i cataclismi
periodici alle rivoluzioni planetarie, spiegazione che alcune recenti ricerche9
fanno derivare dalle speculazioni astro-nomiche babilonesi, rese più tardi
accessibili al mondo ellenico dalle Babiloniche di Beroso. Secondo il Timeo, le
catastrofi parziali sono dovute alla deviazione planetaria (cfr. Timeo, 22d e
23e, diluvio ricordato dal sacerdote di Sais), mentre il momento della riunione
di tutti i pianeti è quello del «tempo perfetto» {Timeo, 39d), cioè alla fine
del «grande anno». Come nota J. Bidez10, «l'idea che sia sufficiente ai pianeti
di mettersi tutti in congiunzione per provocare un capovolgimento universale è
sicuramente di origine caldea». D'altra parte Piatone sembra anche conoscere la
concezione iranica, secondo la quale queste catastrofi hanno per scopo la
purificazione del genere umano (Timeo, 22d).
Gli stoici riprendevano per i loro fini le speculazioni sui cicli cosmici,
insistendo sia sull'eterna ripetizione (per esempio, Crisippo, framm. 623-627),
sia sul cataclisma, ekpyrosis, con il quale terminano i cicli cosmici (già
secondo Zenone, framm. 98 e 109 von Arnim). Ispirandosi a Era-clito, o
direttamente alla gnosi orientale, lo stoicismo volgarizza tutte queste idee in
relazione con il «grande anno» e con il fuoco cosmico (ekpyrosis), che pone fine
periodi-camente all'universo per rinnovarlo. Col tempo, i motivi dell'«eterno
ritorno» e della fine del «mondo» finiscono per dominare tutta la cultura
greco-romana. Il rinnovamento periodico del mondo (metacosmesis) era d'altra
parte una dottrina favorita del neopitagorismo, il quale, come ha dimostrato J.
Carcopino, divideva con lo stoicismo i suffragi della totalità della società
romana dei secoli II e I a.C. Ma l'adesione al mito dell'«eterna ripetizione», e
a quello dell'apokatastasis (il termine penetra nel mondo ellenico dopo
Alessandro Magno), sono due posizioni filosofiche che lasciano intravedere un
atteggiamento antistorico molto fermo, e anche una volontà di difesa contro la
storia. Ci soffermeremo su ciascuno di essi.
Abbiamo osservato nel capitolo precedente che il mito dell'eterna ripetizione,
come è stato reinterpretato dalla speculazione greca, ha il senso di un supremo
tentativo di «statizzazione» del divenire, d'annientamento dell'irreversibilità
del tempo. Poiché tutti i momenti e tutte le situazioni del cosmo si ripetono
all'infinito, la loro evanescenza si rivela in ultima analisi come apparente;
nella prospettiva dell'infinito, ogni momento e ogni situazione restano fermi e
acquistano così il regime ontologico dell'archetipo. Quindi, fra tutte le forme
di divenire, anche il divenire storico è saturo di essere. Dal punto di vista
dell'eterna ripetizione, gli avvenimenti storici si trasformano in categorie e
ritrovano così il regime ontologico che possedevano nell'orizzonte della
spiritualità arcaica. In un certo senso si può anche dire che la teoria greca
dell'eterno ritorno è l'ultima variante del mito arcaico della ripetizione di un
gesto archetipico, proprio come la dottrina platonica delle idee era l'ultima
versione della concezione dell'archetipo, e addirittura la più elaborata. Vale
la pena di sottolineare che queste due dottrine hanno trovato la loro
espressione più completa all'apogeo del pensiero filo-sofico greco.
Ma soprattutto il mito della conflagrazione universale ha ottenuto un successo
notevole in tutto il mondo greco-orientale. Sembra sempre più probabile che il
mito di una fine del mondo per mezzo del fuoco, da cui i buoni usciranno
incolumi, sia di origine iranica (cfr. per esempio Bundahishn, 30,18), almeno
sotto la forma conosciuta dai «magi occidentali» che, come ha dimostrato
Cumont11, l'hanno diffuso in Occidente. Lo stoicismo, gli Oracoli sibillini (per
esempio, 2,253) e la letteratura giudeo-cristiana fanno di questo mito la base
stessa della loro apocalisse e della loro escatologia. Per curioso che possa
sembrare, questo mito era confortante; infatti il fuoco rinnova il mondo, per
mezzo suo verrà restaurato un «mondo nuovo, sottratto alla vecchiaia, alla
morte, alla decomposizione e alla putredine, che vivrà eternamente, che crescerà
eternamente, quando i morti risusciteranno, l'immortalità sarà data ai vivi e il
mondo si rinnoverà, secondo i desideri» (Yasht, 19,14,89, trad. Darmesteter). Si
tratta quindi di una apokatastasis da cui i buoni non hanno nulla da temere. La
catastrofe finale porrà termine alla storia, e quindi reintegrerà l'uomo
nell'eternità e nella beatitudine. Le recenti ricerche di F. Cumont e di H.S.
Nyberg12 sono giunte a rischiarare un poco l'oscurità dell'escatologia iranica e
a precisarne le influenze sull'apocalisse giudeo-cristiana. Come l'India (e, in
un certo senso, la Grecia), l'Iran conosceva il mito delle quattro età cosmiche.
Un testo maz-deo andato perduto, il Sudkarnask (il cui contenuto è stato
conservato in Dìnkart, 9, 8), parlava di quattro età: d'oro, d'argento, di
acciaio e di «misto di ferro». Gli stessi metalli sono ricordati all'inizio del
Bahman-yasht (1,3), che descrive tuttavia poco dopo (2,14) un albero cosmico a
sette bracci (d'oro, d'argento, di bronzo, di rame, di stagno, d'acciaio e di un
«miscuglio di ferro»), che corrisponde alla settuplice storia mitica dei
persiani13. Questa ebdomada cosmica è senza dubbio costituita in relazione con
le dottrine astrologiche caldee in cui ciascun pianeta «domina» un millennio. Ma
il mazdeismo aveva proposto ben prima, per l'universo, una durata di 9000 anni
(3x3000) mentre lo zervanismo, come ha mostrato Nyberg14, ha portato il limite
massimo della durata di questo universo a 12.000 anni. Nei due sistemi iranici -
come d'altronde in tutte le dottrine dei cicli cosmici - il mondo terminerà per
mezzo del fuoco e dell'acqua, per pyrosim et cataclysmum, come più tardi
scriverà Firmico Materno (3,1). Che nel sistema zer-vanita il «tempo
illimitato», zrvan akarana proceda e segua i 12.000 anni del «tempo limitato»
creati da Ormazd; che in questo sistema «il tempo sia più potente delle due
creazioni» {Bundahishn, c. l)15, cioè delle creazioni di Ormazd e di Ahriman;
che di conseguenza Zrvan akarana non sia stato creato da Ormazd e non gli sia
quindi subordinato - sono problemi che possiamo dispensarci dall'af-frontare in
questa sede. Vogliamo soltanto sottolineare che nella concezione iranica, sia o
no seguita dal tempo infinito, la storia non è eterna; essa non si ripete, ma
terminerà un giorno per opera di una ekpyrosis e di un cataclisma escatologici,
poiché la catastrofe finale, che porrà fine alla storia, sarà nello stesso tempo
un giudizio su questa storia. Allora - in illo tempore - tutti renderanno conto
di quello che avranno fatto «nella storia» e soltanto quelli che non saranno
colpevoli conosceranno la beatitudine e l'eternità16.
Windisch ha mostrato l'importanza di queste idee mazdee per l'apologista
cristiano Lattanzio17. Il mondo fu creato da Dio in sei giorni, e il settimo si
riposò; per questo, il mondo durerà sei eoni, durante i quali «il male vincerà e
trionferà» sulla terra. Durante il settimo millennio il principe dei demoni
verrà incatenato e l'umanità conoscerà mille anni di riposo e di giustizia
completa. Dopo ciò il demonio si libererà dalle sue catene e riprenderà la
guerra contro i giusti; ma infine sarà vinto e, all'inizio dell'ottavo
millennio, il mondo verrà ricreato per l'eternità. Evidentemente questa
suddivisione della storia in tre atti e in otto millenni era conosciuta anche
dai chiliasti cristiani18, ma non si può mettere in dubbio la sua struttura
iranica, anche se una simile visione escatologica della storia è stata diffusa
in tutto l'Oriente mediterraneo e nell'impero romano dalle gnosi greco-orientali.
Una serie di calamità annuncerà l'avvicinarsi della fine del mondo e la prima
tra queste sarà la caduta di Roma e la distruzione dell'impero romano,
previsione frequente nell'apocalisse giudeo-cristiana, ma che era conosciuta
anche dagli iranici19. La sindrome apocalittica è d'altronde comune a tutte
queste tradizioni. Lattanzio, proprio come il Bahman-yasht, annuncia che «l'anno
verrà accorciato, il mese diminuirà, e il giorno si contrarrà»20, visione del
deterioramento cosmico e umano che abbiamo ritrovato anche in India (in cui la
vita umana passa da 80.000 a 100 anni) e che le dottrine astrologiche hanno resa
popolare nel mondo greco-orientale. Allora le montagne crolleranno e la terra
diventerà liscia, gli uomini desidereranno la morte, invidieranno i morti, e
soltanto un decimo di loro sopravviverà. «È un tempo», scrive Lattanzio (Instit.,
7,17, 9)21, «in cui la giustizia sarà rigettata e l'innocenza sarà odiosa, in
cui i malvagi eserciteranno le loro ruberie ostili contro i buoni, in cui
l'ordine, la legge e la disciplina militare non verranno più rispettati, in cui
nessuno rispetterà i capelli bianchi, compirà i propri doveri di pietà, avrà
compassione della donna o del fanciullo, ecc». Ma dopo questo stadio
precorritore discenderà il fuoco purificatore che annienterà i malvagi e sarà
seguito dal millennio di beatitudine che attendevano anche i chiliasti cristiani
e che avevano già annunciato Isaia e gli Oracoli sibillini. Gli uomini
conosceranno una nuova età dell'oro, che durerà sino alla fine del settimo
millennio: infatti dopo quest'ultima lotta, una ekpyrosis universale riassorbirà
l'intero universo nel fuoco e questo permetterà la nascita di un mondo nuovo,
giusto, eterno e felice, non sottomesso agl'influssi astrali e liberato dal
regno del tempo.
Anche gli ebrei limitavano la durata del mondo a sette millenni (cfr. per
esempio Testamentum Abrahami, Ethica Eno-chi, ecc), ma i rabbini non
incoraggiarono mai la determinazione della fine del mondo con il calcolo
matematico. Si accontentarono di precisare che una serie di calamità cosmiche e
storiche (carestie, siccità, guerre, ecc.) annuncerà la fine del mondo. Poi
verrà il Messia: i morti risusciteranno (Is. 26,19), Dio vincerà la morte e ne
seguirà il rinnovamento del mondo (Is. 65,17; anche Jubil, 1,29, parla di una
nuova creazione)22.
Ritroviamo anche qui, come ovunque nelle dottrine apo-calittiche ricordate
sopra, il motivo tradizionale della decadenza estrema, del trionfo del male e
delle tenebre, che precedono il cambiamento di Eone e il rinnovamento del cosmo.
Un testo babilonese tradotto da A. Jeremias23, prevede in questo modo
l'apocalisse: «Quando queste cose avverranno nel ciclo, allora quello che è
limpido diventerà opaco e quello che è pulito diventerà sporco, la confusione si
estenderà sulle nazioni, non si sentiranno più preghiere, gli auspici si
mostreranno sfavorevoli...». «Sotto un tale regno gli uomini si divoreranno tra
loro e venderanno i loro figli per denaro, lo sposo abbandonerà la sua sposa e
la sposa il suo sposo, e la madre chiuderà la porta alla propria figlia». Un
altro inno annuncia che allora il sole non sorgerà più, la luna non apparirà
più, ecc. Ma nella concezione babilonese questo periodo crepuscolare è sempre
seguito da una nuova aurora paradisiaca. Spesso, come c'era da aspettarsi, il
periodo paradisiaco si apre con l'intronizzazione di un nuovo sovrano.
Assurba-nipal si considera come un rigeneratore del cosmo, poiché «dopo che gli
dèi, nella loro bontà, mi hanno posto sul trono dei miei padri, Adad ha mandato
la sua pioggia..., il grano è spuntato..., il raccolto è stato abbondante..., le
man drie si sono moltiplicate, ecc...». Nebuchadrezzar dice di se stesso: «Io
faccio in modo che vi sia un regno di abbondanza, anni di esuberanza, di
prosperità nel mio paese». In un testo ittita Murshilish si esprime così sul
regno di suo padre: «...Sotto di lui tutto il territorio di Khatti prosperò,
durante il suo regno si moltiplicarono la gente, il bestiame, le pecore»24. La
concezione è arcaica e universale; la si ritrova in Omero, in Esiodo,
nell'antico Testamento, in Cina, ecc.25
Molto semplicemente si potrebbe dire che, sia per gli iria-nici che per i giudei
e i cristiani, la «storia» assegnata all'universo è limitata e che la fine del
mondo coincide con l'annientamento dei peccati, con la risurrezione dei morti e
la vittoria dell'eternità sul tempo. Ma anche se questa dottrina diventa sempre
più popolare nel secolo I a.C. e nei primi secoli d.C, non giunge a eliminare
definitivamente la dottrina tradizionale della rigenerazione periodica del tempo
per mezzo della ripetizione annuale della creazione. Abbiamo visto nel capitolo
precedente che vestigia di questa dottrina si sono conservate presso gli iranici
fino a una data avanzata del medioevo. Dominante anche nel giudaismo
premessianico, questa dottrina non è quindi mai stata totalmente abolita, poiché
gli ambienti rabbinici esitavano a precisare la durata fissata da Dio al cosmo,
e si accontentavano di affermare che l'ìllud tempus un giorno sarebbe certamente
giunto. Nel cristianesimo, d'altra parte, la tradizione evangelica lascia già
intendere che BASILEIA TOU TEOU è già presente «in mezzo» (ENTOS) a quelli che
credono, e che di conseguenza l'illud tempus è eternamente attuale e accessibile
a chiunque, in qualsiasi momento, per metànoia. Siccome si tratta di una
esperienza religiosa totalmente diversa dall'esperienza tradizionale, poiché si
tratta della «fede», la rigenerazione periodica del mondo si traduce nel
cristianesimo in una rigenerazione della persona umana. Ma per colui che
partecipa a quell'eterno nunc del regno di Dio, la «storia» cessa in maniera
totale, come per l'uomo delle culture arcaiche che l'abolisce periodicamen-te.
Di conseguenza anche per il cristiano la storia può essere rigenerata da ogni
credente in particolare e attraverso di lui, anche prima della seconda venuta
del Salvatore, quando essa cesserà in un modo assoluto per tutta la creazione.
Un'adeguata discussione sulla rivoluzione introdotta dal cristianesimo nella
dialettica dell'abolizione della storia e dell'evasione dal dominio del tempo,
ci condurrebbe troppo al di là dei limiti di questo saggio. Notiamo solamente
che, anche nel quadro delle tre grandi religioni iranica, giudaica e cristiana,
che hanno limitato la durata del cosmo a un certo numero di millenni, e
affermano che la storia cesserà definitivamente in illo tempore, sussistono
tuttavia tracce dell'antica dottrina della rigenerazione periodica della storia.
In altri termini, la storia può essere abolita, e di conseguenza rinnovata, un
numero considerevole di volte prima della realizzazione dell'eschaton finale.
L'anno liturgico cristiano è infatti fondato su di una ripetizione periodica e
reale della natività, della passione, della morte e della risurrezione di Gesù,
con tutto ciò che questo dramma mistico comporta per un cristiano, cioè la
rigenerazione personale e cosmica attraverso la riattualizzazione in concreto
della nascita, della morte e della risurrezione del Salvatore.