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Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un accattone"
(Yun Men)

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Introduzione al Fukan zazengi

di Aldo Tollini

 

Il presente lavoro, presentato al II Corso di Studi Buddhisti organizzato dal Centro Studi Maitreya di Venezia nel 1994 sul tema "Etica e consapevolezza" e raccolto nel 1997 in Quaderni buddhisti, ha lo scopo di introdurre e commentare la traduzione italiana del Fukan zazengi di Dògen, presentata nelle pagine precedenti.

Biografia di Dogen (1200-1253)
Dogen era figlio di una potente famiglia aristocratica. La perdita della madre in tenera età lasciò in lui un profondo senso dell’evanescenza delle cose umane. All’età di 13 anni entrò nell’ordine Tendai sul monte Hiei Poi si trasferi al Kenninji fondato da Eisai per la pratica della nuova scuola zen. Purtroppo però Eisai mori l’anno successivo alla sua venuta. Nel 1223 con Myòzen, discepolo di Eisai, andò in Cina.
Dògen sembra che fosse attanagliato da un grande dubbio: se tutti gli uomini hanno la Natura-di-Buddha, perché devono sforzarsi così strenuamente per realizzarla?
Dògen visitò molti monasteri cinesi e giunse a disperare di trovare un vero maestro. Ma nel 1225 giunse a Tien-t’ung dal maestro Ju-ching (1163-1228) dove si dedicò alla pratica dello zazen.
Nel 1227 tornò in Giappone. Rientrato in patria, passò vari anni al Kenninji, poi dal 1231 ritiratosi dal Kenninji, visse lontano dai grandi centri dello zen. Nel 1244 fondò lo Eiheiji tuttora uno dei più grandi e importanti templi del Giappone e tempio principale della scuola soto. Mori a Kyoto durante un viaggio il 28 agosto 1253 nel tempio Seido-in di Takatsuji.
Secondo la tradizione, egli è il fondatore della scuola soto dello zen giapponese. 

 

 Dògen e il Buddhismo nel periodo Kamakura

Parlando di Dògen non si può fare a meno di collocarlo nell’ambito della situazione religiosa del suo tempo, quella del periodo Kamakura (1192-1333).
Il Buddhismo entrò in Giappone dal continente attorno al V-VI secolo d.C., in seguito al grande interesse per le cose cinesi manifestato attorno a quel periodo. Tuttavia, nei primi secoli delle sua storia nell’arcipelago, la nuova religione ricalcò sostanzialmente le forme e le caratteristiche continentali. Fu solo a partire da attorno al XII-XIII secolo, che questa tendenza si interruppe e fu invece la cultura giapponese a dare al Buddhismo le connotazioni tipiche della propria tradizione culturale. Nel periodo Kamakura, nacque un Buddhismo nipponizzato, il quale riuscì a inserirsi nel tessuto profondo della società giapponese divenendo una forza viva e vitale e un’espressione della creatività giapponese.

In una situazione politica di anarchia e guerre endemiche, di confusione sociale e morale, in cui i valori tradizionali erano stati spazzati via e sostituiti da un approccio alla vita più diretto, più concreto, si assiste ad una profonda riforma religiosa di cui sono protagonisti alcuni grandi riformatori religiosi, tra cui Dògen, che influenzarono il buddhismo giapponese per tutto il resto del corso della sua storia. Fu un risveglio spirituale di grandi dimensioni, che ereditava il modello cinese e lo trasformava, come nel caso di Dògen, o che faceva ricorso direttamente alla sensibilità autoctona come nel caso di Hònen Shònin (1133-1212), ShinranShònin (1173-1263) e Nichiren (1222-1282).
Le principali caratteristiche di questa nuova religiosità erano il rifiuto delle complicate cerimonie e delle pratiche simboliche, un approccio alla religione diretto e alla portata di tutti, la centralità della pratica e l’esperienza diretta e personale. Inoltre, la consapevolezza di star vivendo in un mondo di decadenza, inaffidabile e transitorio, in cui le certezze erano svanite acuì la sensibilità dei giapponesi verso un percorso spirituale più concreto e che non rimandasse a un futuro imperscrutabile la possibilità della salvezza.

Vi è un filo conduttore che unisce i grandi riformatori religiosi del periodo Kamakura, pur nelle rispettive profonde differenze. Per prima cosa sia Dògen, sia Hònen e Shinran, sia Nichiren prendono l’avvio dalla stessa esperienza in quanto tutti originariamente monaci della scuola Tendai.
Da questa comune esperienza ognuno di essi si avvia verso un percorso personalizzato, ma tutti pongono al centro del proprio insegnamento la pratica, in quanto metodo supremo di espressione religiosa. La pratica diventa il centro dell’esperienza religiosa relegando in secondo piano gli aspetti dottrinali: ma questa pratica diventa qualcosa di diverso e di più di quanto era stata fino al quel momento. Intanto perché al posto di una serie di pratiche si elegge una sola quale vera e unica pratica. Lo zazen per Dogen, la recitazione del nenbutsu per Shinran e del nome del Sutra del Loto per Nichiren. E poi, perché questa unica pratica viene vista non solo come la via diretta per la salvazione, ma anche - ed è il caso di Dogen e di Shiran - come espressione della propria buddhità. La pratica, insomma, cessa di essere upaya, strumento che fa accedere alla salvazione, e assume un significato più profondo: da strumento si trasforma in meta (o espressione della raggiunta meta).

 

Il Fukan zazengi

Il Fukan zazengi (Principi dello zazen consigliati a tutti) è un breve trattato di circa 800 caratteri scritto in stile kanbun elaborato, in cui Dògen spiega i principi della pratica dello zazen, sia dal punto di vista teorico che pratico. Si ritiene che esso sia il primo insegnamento di Dògen (e il primo trattato che scrisse) dopo il suo ritorno dalla Cina nel 1227. Esso è anche la prima descrizione dello zazen fatta da un giapponese. Il fatto che Dògen come primo atto dopo il suo rientro abbia voluto scrivere un manifesto sulla pratica dello zazen, dimostra che egli voleva porre lo zazen alla base del suo insegnamento in Giappone.
Il contenuto da una parte si rifà alla tradizione del ch ‘an cinese, ma d’altra parte esso ha anche aspetti fortemente innovativi come vedremo tra breve.
Dògen scrisse molto sullo zazen, in particolare tre interi trattati di varia lunghezza: oltre al Fukan zazengi che è il più famoso, il Zazanshin e il Zazengi che sono due capitoli dello Shobogenzo e numerosi altri riferimenti in molte parti della sua vasta opera.
In realtà vi sono due versioni del Fukan zazengi: la prima scritta subito dopo il rientro dalla Cina e un’altra scritta parecchio più tardi, probabilmente negli ultimi anni di vita.
La scoperta della prima versione agli inizi di questo secolo ha chiarito che la versione comunemente utilizzata - e recitata giornalmente nei monasteri - era quella posteriore. Tra le due versioni vi sono alcune interessanti differenze, che non tratterò in questa sede. Tuttavia, si noti che la mia traduzione (che avete potuto leggere a pag. ndr) si riferisce alla versione posteriore, sia perché è quella più comunemente utilizzata e conosciuta, sia perché anche sotto il profilo contenutistico, mostra una visione dello zazen più ricca e matura.
Il Fukan zazengi non è certamente un manuale pratico che descrive la tecnica dello zazen: esso è piuttosto il manifesto dell’insegnamento del Buddhismo di Dògen. Il testo è divisibile in tre parti distinte: di cui la intermedia è quella che descrive la pratica dal punto di vista puramente tecnico, cioè la posizione fisica, l’ambiente e simili.

Lo zazen di Dogen

Il percorso e la ricerca sprituale di Dògen prendono l’avvio da un grande dubbio (daigi): se tutti gli uomini hanno la Natura-di-Buddha, perché devono sforzarsi così strenuamente per realizzata?
Questo dubbio conduce Dogen a riflettere sul cammino dell’uomo per realizzare se stesso e in particolare sul senso e sul valore della pratica. E’ la pratica un mezzo che porta alla realizzazione della Natura-di-Buddha? La risposta cui Dògen giunge è una risposta radicale: pratica (zazen) e illuminazione non sono due cose diverse: praticare non significa mettere in atto un upaya o "abile strumento", che conduce in qualche luogo, né significa sforzarsi di raggiungere alcunché. Semplicemente sedersi significa essere e attuare l’illuminazione che già è in noi. Non c’è bisogno di conseguire la Natura-di-Buddha che abbiamo già, è sufficiente darle attualizzazione.
Ecco perché il Fukan zazengi esordisce dicendo:

"Se investighiamo (a fondo), (vediamo che) il fondamento originario della Via è completo in sé e onnipervasivo, perché quindi usare definizioni posticce come pratica e illuminazione? Perché sprecarsi nella ricerca di mezzi abili dato che l’insegnamento è in sé libero da lacci? Neanche a dirlo, la realtà sta al di là della polvere, (perché, allora) vi sono persone che pongono fiducia nei mezzi (rappresentati dal) del pulire?"

Quindi la pratica non è più uno strumento che conduce a una meta, poiché essa non va esercitata con uno scopo in mente: è shikantaza ossia "sedersi per sedersi", tutto qui. Si tratta di spezzare il meccanismo perverso che alberga dentro di noi, quello per cui si fa qualcosa al fine di ottenere qualcos’altro. E proprio questo meccanismo che ci porta a perderci perché esso comporta il fatto che io e la meta da raggiungere siamo separati, siamo due. Quindi l’io va verso l’altro da sé. Invece Dògen ci dice che la Natura-di-Buddha è in noi (come dicono le scritture) e basta lasciare che si manifesti. Nello Zazenshin dello Shobogenzo Dògen scrive "Dobbiamo sapere che il vero studio della Via è la pratica dello zazen. il punto importante è di praticare il Buddha senza cercare di diventare un Buddha. Poiché praticare il Buddha non è diventare il Buddha, (una tale pratica) è l’attualizzazione del grande koan (l’illuminazione). Il corpo-Buddha (cioè il corpo che già è buddha) non diventa un Buddha, se si spezzano gli impedimenti (ossia se ci si libera del voler diventare un Buddha sedendosi,), il Buddha seduto (la pratica dello zazen) non impedisce di diventare dei Buddha."

La pratica della meditazione (zazen) è l’argomento centrale del Fukan zazengi, ma è anche il perno attorno a cui si svolge il pensiero di Dògen. Lo zazen è il compendio di tutte le attività religiose, l’essenza della pratica, ma anche la manifestazione della Natura-di-Buddha: è nella pratica dello zazen che si trova la realizzazione del sé perché la Via del Buddha non sta nella comprensione di testi, né nei discorsi e nelle parole, e neppure nelle altre pratiche accessorie. Dice il Fukan zazengi:

"Quindi, bisogna, in modo naturale, smettere di dedicarsi alla comprensione dei testi inseguendo i discorsi e rincorrendo le parole; in modo naturale, bisogna imparare a tornare sui propri passi girando la luce e riflettendola verso l’interno. Il corpo e la mente in modo naturale vengono lasciati cadere e apparirà il vostro volto originario. Se desiderate ottenere questa cosa, dovete darvi da fare in quel senso in fretta."

In questo senso, è chiaro che la pratica dello zazen come la intende Dògen assume connotazioni molto particolari rispetto alla tradizione, anche rispetto all’insegnamento di Eisai che poco prima di Dògen aveva portato in Giappone la tradizione cinese del ch’an lin-chi detto rinzai, e che era stato suo maestro prima della partenza per il continente. Non solo per la sua posizione di centralità nel contesto religioso che Dògen gli attribuisce, ma anche per la forma e il contenuto. Per Dògen la corretta pratica meditativa è detta shikantaza, termine col quale egli intende il fatto di sedersi per il solo fatto di sedersi, senza attribuire a questa azione alcuna aspettativa, cosi potremmo chiamare shikantaza il "solo-sedersi" abbandonando tutti gli oggetti di riferimento e ogni sforzo. Nel momento in cui ci si siede senza attaccamenti, senza aspettative, senza pensare al bene e al male, senza dualismi e senza coinvolgimenti sul piano mentale, fisico, della coscienza e delle sensazioni, ecco dischiudersi da sé la porta della realizzazione. Dògen usa il termine shinjin datsuraku che letteralmente significa "spogliarsi del corpo e della mente". Ciò vuol dire che la pratica corretta non ha l’io al suo centro, ma è invece, una in cui ci si è spogliati di tutto quanto ci appartiene, sia degli attaccamenti corporei sia di quelli mentali. Dice in Genjokoan dello Shobogenzo :"Studiare la via del Buddha significa studiare se stessi. Studiare se stessi significa dimenticare se stessi. Dimenticare se stessi significa risvegliarsi alla realtà. Risvegliarsi alla realtà significa spogliarsi della propria mente e corpo e della mente e corpo degli altri." Lasciare andare tutto e semplicemente diventare coscienti del nostro essere un Buddha è la realizzazione della Via.

"Dunque, per fare zazen va bene una stanza tranquilla. Siate moderati nel bere e nel mangiare. Lasciate da parte tutti i legami. Lasciate che tutte le cose si acquietino (dentro di voi). Non pensate al bene e al male. Non fatevi prendere (dal dualismo) dell’ "è così e non è così ". Interrompete i rivolgimenti delle sensazioni, dell’intenzionalità e della coscienza. Smettere di dare valutazioni sul pensiero, le idee e le percezioni. Non abbiate intenzione di diventare un Buddha. perché mai allora attaccarsi caparbiamente allo zazen?"

Anche l’intenzione di diventare un Buddha è deleteria: si lasci da parte anch’essa e semplicemente ci si sieda e si lasci che il nostro volto originario si presenti da sé davanti a noi. Perché mai allora attaccarsi caparbiamente allo zazen? Perché mai allora fare dello zazen una pratica su cui esercitare la nostra ostinazione - praticando con ostinazione come se stessimo scalando con tutte le forze una montagna per giungere alla vetta? Lo zazen non è una pratica PER IL RISVEGLIO, ma la pratica DEL RISVEGLIO. NON E RESPONSABILE DEL RISVEGLIO, È ESSA STESSA IL RISVEGLIO, quindi è la pratica del non-sforzo, ossia, come dice il Fukan zazengi ‘la pratica della pace’.

Lo zazen non consiste in una tecnica da imparare: è semplicemente il dharma della pace; è la pratica e la realizzazione della bodhi finale.

Per Dògen lo zazen è l’espressione della ricerca del significato della vita ed è espressione del fatto che come ‘semplicemente sedersi’ non ha altro senso che quello letterale di ‘semplicemente sedersi’, e quindi è senza senso poiché non gli si può attribuire alcun senso tranne il fatto in sé, allo stesso modo il senso della vita è di vivere senza dovergli attribuire un senso qualunque. È il vivere il significato del senza- significato.

Pensiero, non-pensiero, a-pensiero

"Fate pensiero il non pensiero. Il non pensiero! come pensarlo? Con l’a-pensiero. Questa è quindi la tecnica essenziale dello zazen".

Questa famosa frase è una delle chiavi interpretative più importanti del Fukan zazengi e quindi un riferimento fondamentale per comprendere lo zazen di Dògen. La stessa frase, che è presa da un aneddoto cinese è riportata anche negli altri testi dedicati alla presentazione dello zazen, a sottolinearne l’importanza. È molto difficile tradurla e interpretarla, nel primo caso per la mancanza di coincidenze tra le due lingue e nel secondo per la profondità del concetto, il quale riveste, com’è evidente, anche forti connotazioni psicologiche.
Dògen distingue tre livelli di pensiero: 1. pensiero (shiryo) 2. non-pensiero (fushiryo) e 3. a-pensiero (o oltre-pensiero) (hishiryo)
Il primo è riferito al normale pensiero, quello dualista e logico-discorsivo, per intendersi. Il secondo è il tipo di pensiero, o meglio di non-pensiero, ossia di attività, o stato mentale tranquillizzato. Infine, il terzo, l’a-pensiero, è lo stato mentale che sta oltre il dualismo di pensiero e non-pensiero, perché questi, in definitiva sono elementi opposti. Esso non solo indica quello stato della mente che semplicemente (si fa per dire!) trascende pensiero e non-pensiero, ma uno stato basato sul vuoto, in cui entrambi gli opposti vengono realizzati e allo stesso tempo rimane inalterata - e se mai acuita - la capacità percettiva e la presenza a se stessi e alla realtà che ci circonda. L’a-pensiero non è solo un andare oltre il dualismo, è soprattutto un porsi al di fuori (hi) in completa libertà, senza attaccamenti, nè egoismi, nè mete da raggiungere in cui si realizza la libertà sia del pensiero che del non-pensiero,ovvero la libertà sia dal pensiero che dal non-pensiero.
Il fatto di ‘semplicemente sedere’ pone il praticante al centro di una dimensione di libertà dove, ‘abbandonato corpo e spirito’, e ‘dimentico di sé’ è in completa libertà di pensare o non-pensare, perché queste due azioni non ci si impongono più come alternativa dualista senza scampo. In questo senso gli opposti vengono realizzati perché pur rimanendo opposti, non sono più vissuti e sofferti come tali. È questo lo stato mentale dello zazen corretto, quello che per Dogen è sinonimo di illuminazione perché è lo stato mentale dei Buddha e dei Patriarchi e chi lo manifesta attinge alla realtà del Sé e ne viene a far parte.
Questo stato è uno in cui il proprio io viene dimenticato assieme a ogni oggetto e pensiero egoistico ed egocentrico: la visione passa dalla ristrettezza del proprio corpo-mente ad una enormemente più vasta, quella in cui non vi è più nulla e al contempo tutto è contenuto: la dimensione del vuoto. Dògen esprime questo stato con il termine jijuyu zanmai, ossia 'samadhi auto-originato" (in contrapposizione con il tajuyu zanmai che è il 'samadhi ricevuto da altri").

È importante comprendere la posizione originale di Dògen espressa nel concetto di jijuyu zanmai. Per Dògen esiste una dimensione della mente umana che trascende il dualismo: l’attaccamento, l’opposizione, il dualismo non sono immanenti alla realtà, ma in definitiva, sono condizioni della nostra mente, sono cioé il risultato del modo limitato di operare della nostra mente che in condizioni normali non sa trascenderli. Tuttavia, nella condizione di zazen, col risvegliarsi della saggezza, si è in grado di oltrepassare questi limiti e porsi in una posizione in cui pur vedendo una realtà limitata e il suo modo di operare, si è in grado di superarla. Quando si comprende che pensiero e non-pensiero non sono diversi, né in opposizione, allora si dimora nell’a-pensiero, Il mondo delle opposizioni dualiste rimane saldo, ma nel jijuyu zanmai samadhi la mente NON È OSTRUITA da questo stato di cose: pur prendendo atto che il dualismo esiste, non si fa condizionare da esso ed è libera.
Si veda il seguente brano tratto da: "Zazenshin" in Dogen zenjì Goroku:

"La saggezza del Buddha è la manifestazione nel mondo del pensiero che ha trasceso il pensiero, è la manifestazione nel mondo delle cose che stanno in opposizione avendo trasceso l’opposizione. Essendo la manifestazione nel mondo del pensiero che ha trasceso il pensiero, quel pensiero manifestato è uno col non-pensiero ed essendo la manifestazione nel mondo delle cose che stanno in opposizione avendo trasceso l’opposizione, quelle cose manifestate sono uno con la non-opposizione. Poiché il pensiero è uno col non-pensiero, nel pensiero non si deposita nessuna sporcizia e poiché le cose sono uno con la nonopposizione, nelle cose non è presente alcuna opposizione. Poiché è un pensiero in cui non si deposita nessuna sporcizia, per quanto quel pensiero sia un pensiero, sfugge all’attaccamento del pensiero. Essendo le cose senza alcuna opposizione, per quanto l’opposizione delle cose si manifesti vanno oltre l’attaccamento alle cose. "

L’originalità di Dògen risiede nella sua visione unitaria della realtà. La quale non va trascesa gettandone via una parte - per esempio quella dell’illusione in contrasto con quella della realtà - ma nell’accettazione di TUTTA la realtà in quanto è essa stessa tutta intera la terra dell’illuminazione. Dogen non fa una selezione per accettarne una parte e per scartarne un’altra, l’operazione che egli fa è invece di unire, ossia di vedere la stessa dimensione nelle contraddizioni. In questo modo pur stando dentro le contraddizioni, non si è più ‘ostruiti’ da esse, ma si è liberi di muoversi in mezzo a tutti i dualismi e a tutte le contraddizioni, vedendole, comprendendole, ma non facendosi condizionare da esse. Il mondo del dualismo non deve essere abbandonato, invece, dobbiamo noi liberarci dal condizionamento che esso ci impone per poter agire autenticamente in libertà. Il jijuyu zanmai viene realizzato NEL dualismo e agisce DENTRO il dualismo, perché la libertà non è abbandonare, ma è accettare senza farsi ostruire e limitare da alcunché. In definitiva, Dogen vuoI dire che siamo noi che creiamo la nostra stessa realtà, quindi, se ci comportiamo come se il dualismo e le opposizioni non esistessero, ecco che non ci faremo condizionare da esse: allo stesso modo se pensiamo di avere già dentro di noi l’illuminazione, succederà che essa si manifesterà. In questo senso "pratica e illuminazione" non sono considerate due cose separate, ma la stessa realtà inscindibile, il bene e il male anche sono due aspetti relativi della stessa realtà: essi sorgono e declinano a seconda delle circostanze e delle situazioni. L’illuminazione anche, non è uno stato acquisibile e quindi separabile da uno stato di non-illuminazione. Piuttosto essa è sempre presente e quando partecipiamo all’attività auto-originata jijuyu della Natura-di Buddha, lo stato dì illuminazione si manifesta apertamente e completamente.

 

 

Da: http://www.maitreya.it/menurivista/dharma2/intrdogen.htm
 

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