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di Aldo Tollini
Il presente lavoro, presentato al II Corso di Studi Buddhisti organizzato dal Centro Studi Maitreya di Venezia nel 1994 sul tema "Etica e consapevolezza" e raccolto nel 1997 in Quaderni buddhisti, ha lo scopo di introdurre e commentare la traduzione italiana del Fukan zazengi di Dògen, presentata nelle pagine precedenti. Biografia di Dogen
(1200-1253)
Dògen e il Buddhismo nel periodo Kamakura Parlando di Dògen non si può fare a meno di
collocarlo nell’ambito della situazione religiosa del suo tempo, quella del
periodo Kamakura (1192-1333). In una situazione politica di anarchia e guerre
endemiche, di confusione sociale e morale, in cui i valori tradizionali erano
stati spazzati via e sostituiti da un approccio alla vita più diretto, più
concreto, si assiste ad una profonda riforma religiosa di cui sono protagonisti
alcuni grandi riformatori religiosi, tra cui Dògen, che influenzarono il
buddhismo giapponese per tutto il resto del corso della sua storia. Fu un
risveglio spirituale di grandi dimensioni, che ereditava il modello cinese e lo
trasformava, come nel caso di Dògen, o che faceva ricorso direttamente alla
sensibilità autoctona come nel caso di Hònen Shònin (1133-1212), ShinranShònin
(1173-1263) e Nichiren (1222-1282). Vi è un filo conduttore che unisce i grandi
riformatori religiosi del periodo Kamakura, pur nelle rispettive profonde
differenze. Per prima cosa sia Dògen, sia Hònen e Shinran, sia Nichiren
prendono l’avvio dalla stessa esperienza in quanto tutti originariamente
monaci della scuola Tendai.
Il Fukan zazengi Il Fukan zazengi (Principi dello
zazen consigliati a tutti) è un breve trattato di circa 800 caratteri
scritto in stile kanbun elaborato, in cui Dògen spiega i principi della
pratica dello zazen, sia dal punto di vista teorico che pratico. Si
ritiene che esso sia il primo insegnamento di Dògen (e il primo trattato che
scrisse) dopo il suo ritorno dalla Cina nel 1227. Esso è anche la prima
descrizione dello zazen fatta da un giapponese. Il fatto che Dògen come
primo atto dopo il suo rientro abbia voluto scrivere un manifesto sulla pratica
dello zazen, dimostra che egli voleva porre lo zazen alla base del
suo insegnamento in Giappone. Lo zazen di Dogen Il percorso e la ricerca sprituale di Dògen
prendono l’avvio da un grande dubbio (daigi): se tutti gli uomini hanno
la Natura-di-Buddha, perché devono sforzarsi così strenuamente per realizzata? "Se investighiamo (a fondo), (vediamo che) il fondamento originario della Via è completo in sé e onnipervasivo, perché quindi usare definizioni posticce come pratica e illuminazione? Perché sprecarsi nella ricerca di mezzi abili dato che l’insegnamento è in sé libero da lacci? Neanche a dirlo, la realtà sta al di là della polvere, (perché, allora) vi sono persone che pongono fiducia nei mezzi (rappresentati dal) del pulire?" Quindi la pratica non è più uno strumento che conduce a una meta, poiché essa non va esercitata con uno scopo in mente: è shikantaza ossia "sedersi per sedersi", tutto qui. Si tratta di spezzare il meccanismo perverso che alberga dentro di noi, quello per cui si fa qualcosa al fine di ottenere qualcos’altro. E proprio questo meccanismo che ci porta a perderci perché esso comporta il fatto che io e la meta da raggiungere siamo separati, siamo due. Quindi l’io va verso l’altro da sé. Invece Dògen ci dice che la Natura-di-Buddha è in noi (come dicono le scritture) e basta lasciare che si manifesti. Nello Zazenshin dello Shobogenzo Dògen scrive "Dobbiamo sapere che il vero studio della Via è la pratica dello zazen. il punto importante è di praticare il Buddha senza cercare di diventare un Buddha. Poiché praticare il Buddha non è diventare il Buddha, (una tale pratica) è l’attualizzazione del grande koan (l’illuminazione). Il corpo-Buddha (cioè il corpo che già è buddha) non diventa un Buddha, se si spezzano gli impedimenti (ossia se ci si libera del voler diventare un Buddha sedendosi,), il Buddha seduto (la pratica dello zazen) non impedisce di diventare dei Buddha." La pratica della meditazione (zazen) è l’argomento centrale del Fukan zazengi, ma è anche il perno attorno a cui si svolge il pensiero di Dògen. Lo zazen è il compendio di tutte le attività religiose, l’essenza della pratica, ma anche la manifestazione della Natura-di-Buddha: è nella pratica dello zazen che si trova la realizzazione del sé perché la Via del Buddha non sta nella comprensione di testi, né nei discorsi e nelle parole, e neppure nelle altre pratiche accessorie. Dice il Fukan zazengi: "Quindi, bisogna, in modo naturale, smettere di dedicarsi alla comprensione dei testi inseguendo i discorsi e rincorrendo le parole; in modo naturale, bisogna imparare a tornare sui propri passi girando la luce e riflettendola verso l’interno. Il corpo e la mente in modo naturale vengono lasciati cadere e apparirà il vostro volto originario. Se desiderate ottenere questa cosa, dovete darvi da fare in quel senso in fretta." In questo senso, è chiaro che la pratica dello zazen come la intende Dògen assume connotazioni molto particolari rispetto alla tradizione, anche rispetto all’insegnamento di Eisai che poco prima di Dògen aveva portato in Giappone la tradizione cinese del ch’an lin-chi detto rinzai, e che era stato suo maestro prima della partenza per il continente. Non solo per la sua posizione di centralità nel contesto religioso che Dògen gli attribuisce, ma anche per la forma e il contenuto. Per Dògen la corretta pratica meditativa è detta shikantaza, termine col quale egli intende il fatto di sedersi per il solo fatto di sedersi, senza attribuire a questa azione alcuna aspettativa, cosi potremmo chiamare shikantaza il "solo-sedersi" abbandonando tutti gli oggetti di riferimento e ogni sforzo. Nel momento in cui ci si siede senza attaccamenti, senza aspettative, senza pensare al bene e al male, senza dualismi e senza coinvolgimenti sul piano mentale, fisico, della coscienza e delle sensazioni, ecco dischiudersi da sé la porta della realizzazione. Dògen usa il termine shinjin datsuraku che letteralmente significa "spogliarsi del corpo e della mente". Ciò vuol dire che la pratica corretta non ha l’io al suo centro, ma è invece, una in cui ci si è spogliati di tutto quanto ci appartiene, sia degli attaccamenti corporei sia di quelli mentali. Dice in Genjokoan dello Shobogenzo :"Studiare la via del Buddha significa studiare se stessi. Studiare se stessi significa dimenticare se stessi. Dimenticare se stessi significa risvegliarsi alla realtà. Risvegliarsi alla realtà significa spogliarsi della propria mente e corpo e della mente e corpo degli altri." Lasciare andare tutto e semplicemente diventare coscienti del nostro essere un Buddha è la realizzazione della Via. "Dunque, per fare zazen va bene una stanza tranquilla. Siate moderati nel bere e nel mangiare. Lasciate da parte tutti i legami. Lasciate che tutte le cose si acquietino (dentro di voi). Non pensate al bene e al male. Non fatevi prendere (dal dualismo) dell’ "è così e non è così ". Interrompete i rivolgimenti delle sensazioni, dell’intenzionalità e della coscienza. Smettere di dare valutazioni sul pensiero, le idee e le percezioni. Non abbiate intenzione di diventare un Buddha. perché mai allora attaccarsi caparbiamente allo zazen?" Anche l’intenzione di diventare un Buddha è deleteria: si lasci da parte anch’essa e semplicemente ci si sieda e si lasci che il nostro volto originario si presenti da sé davanti a noi. Perché mai allora attaccarsi caparbiamente allo zazen? Perché mai allora fare dello zazen una pratica su cui esercitare la nostra ostinazione - praticando con ostinazione come se stessimo scalando con tutte le forze una montagna per giungere alla vetta? Lo zazen non è una pratica PER IL RISVEGLIO, ma la pratica DEL RISVEGLIO. NON E RESPONSABILE DEL RISVEGLIO, È ESSA STESSA IL RISVEGLIO, quindi è la pratica del non-sforzo, ossia, come dice il Fukan zazengi ‘la pratica della pace’. Lo zazen non consiste in una tecnica da imparare: è semplicemente il dharma della pace; è la pratica e la realizzazione della bodhi finale. Per Dògen lo zazen è l’espressione della ricerca del significato della vita ed è espressione del fatto che come ‘semplicemente sedersi’ non ha altro senso che quello letterale di ‘semplicemente sedersi’, e quindi è senza senso poiché non gli si può attribuire alcun senso tranne il fatto in sé, allo stesso modo il senso della vita è di vivere senza dovergli attribuire un senso qualunque. È il vivere il significato del senza- significato. Pensiero, non-pensiero, a-pensiero "Fate pensiero il non pensiero. Il non pensiero! come pensarlo? Con l’a-pensiero. Questa è quindi la tecnica essenziale dello zazen". Questa famosa frase è una delle chiavi
interpretative più importanti del Fukan zazengi e quindi un
riferimento fondamentale per comprendere lo zazen di Dògen. La stessa
frase, che è presa da un aneddoto cinese è riportata anche negli altri testi
dedicati alla presentazione dello zazen, a sottolinearne l’importanza.
È molto difficile tradurla e interpretarla, nel primo caso per la mancanza di
coincidenze tra le due lingue e nel secondo per la profondità del concetto, il
quale riveste, com’è evidente, anche forti connotazioni psicologiche. È importante comprendere la posizione
originale di Dògen espressa nel concetto di jijuyu zanmai. Per Dògen
esiste una dimensione della mente umana che trascende il dualismo:
l’attaccamento, l’opposizione, il dualismo non sono immanenti alla realtà,
ma in definitiva, sono condizioni della nostra mente, sono cioé il risultato
del modo limitato di operare della nostra mente che in condizioni normali
non sa trascenderli. Tuttavia, nella condizione di zazen, col
risvegliarsi della saggezza, si è in grado di oltrepassare questi limiti e
porsi in una posizione in cui pur vedendo una realtà limitata e il suo modo di
operare, si è in grado di superarla. Quando si comprende che pensiero e
non-pensiero non sono diversi, né in opposizione, allora si dimora
nell’a-pensiero, Il mondo delle opposizioni dualiste rimane saldo, ma nel jijuyu
zanmai samadhi la mente NON È OSTRUITA da questo stato di cose: pur
prendendo atto che il dualismo esiste, non si fa condizionare da esso ed è
libera. "La saggezza del Buddha è la manifestazione nel mondo del pensiero che ha trasceso il pensiero, è la manifestazione nel mondo delle cose che stanno in opposizione avendo trasceso l’opposizione. Essendo la manifestazione nel mondo del pensiero che ha trasceso il pensiero, quel pensiero manifestato è uno col non-pensiero ed essendo la manifestazione nel mondo delle cose che stanno in opposizione avendo trasceso l’opposizione, quelle cose manifestate sono uno con la non-opposizione. Poiché il pensiero è uno col non-pensiero, nel pensiero non si deposita nessuna sporcizia e poiché le cose sono uno con la nonopposizione, nelle cose non è presente alcuna opposizione. Poiché è un pensiero in cui non si deposita nessuna sporcizia, per quanto quel pensiero sia un pensiero, sfugge all’attaccamento del pensiero. Essendo le cose senza alcuna opposizione, per quanto l’opposizione delle cose si manifesti vanno oltre l’attaccamento alle cose. " L’originalità di Dògen risiede nella sua visione unitaria della realtà. La quale non va trascesa gettandone via una parte - per esempio quella dell’illusione in contrasto con quella della realtà - ma nell’accettazione di TUTTA la realtà in quanto è essa stessa tutta intera la terra dell’illuminazione. Dogen non fa una selezione per accettarne una parte e per scartarne un’altra, l’operazione che egli fa è invece di unire, ossia di vedere la stessa dimensione nelle contraddizioni. In questo modo pur stando dentro le contraddizioni, non si è più ‘ostruiti’ da esse, ma si è liberi di muoversi in mezzo a tutti i dualismi e a tutte le contraddizioni, vedendole, comprendendole, ma non facendosi condizionare da esse. Il mondo del dualismo non deve essere abbandonato, invece, dobbiamo noi liberarci dal condizionamento che esso ci impone per poter agire autenticamente in libertà. Il jijuyu zanmai viene realizzato NEL dualismo e agisce DENTRO il dualismo, perché la libertà non è abbandonare, ma è accettare senza farsi ostruire e limitare da alcunché. In definitiva, Dogen vuoI dire che siamo noi che creiamo la nostra stessa realtà, quindi, se ci comportiamo come se il dualismo e le opposizioni non esistessero, ecco che non ci faremo condizionare da esse: allo stesso modo se pensiamo di avere già dentro di noi l’illuminazione, succederà che essa si manifesterà. In questo senso "pratica e illuminazione" non sono considerate due cose separate, ma la stessa realtà inscindibile, il bene e il male anche sono due aspetti relativi della stessa realtà: essi sorgono e declinano a seconda delle circostanze e delle situazioni. L’illuminazione anche, non è uno stato acquisibile e quindi separabile da uno stato di non-illuminazione. Piuttosto essa è sempre presente e quando partecipiamo all’attività auto-originata jijuyu della Natura-di Buddha, lo stato dì illuminazione si manifesta apertamente e completamente.
Da:
http://www.maitreya.it/menurivista/dharma2/intrdogen.htm
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