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Venerdì
15 ottobre 1999 zazen
ore 7:00 Non dimenticate di oscillare energicamente sette otto volte, da sinistra a destra e da destra a sinistra; i pollici all’interno dei pugni, i pugni sulle ginocchia con le palme rivolte verso il soffitto. Si oscilla sul piano verticale con dei movimenti ampi all’inizio e più veloci alla fine e poi facciamo gassho con le mani giunte all’altezza del viso. Ci si inclina profondamente a partire dalla vita, non soltanto la testa, ma tutto il corpo si inclina in avanti. Poi ci si raddrizza mantenendo l’inclinazione del bacino in avanti: questo consente alle ginocchia di premere bene sul suolo ed è ciò che conferisce stabilità alla postura. Con il bacino bene inclinato in avanti il peso del corpo preme sullo zafu nella zona del perineo; l’ano non tocca lo zafu. Si rilassa bene il ventre lasciando che il peso del corpo prema sullo zafu e a partire dalla vita, dalla quinta vertebra lombare, si estende bene la colonna vertebrale. Si tende anche la nuca e si spinge il cielo con la sommità del capo. Questa estensione deve essere fatta in modo morbido, non si deve rimanere rigidi nella postura. In zazen concentrarsi sulla postura vuol dire ritornare costantemente alla verticalità della schiena. Il mento rientrato, la testa sulla verticale, che non cade in avanti. Questo vuol dire che le orecchie sono sulla verticale delle spalle e il naso su quella dell’ombelico. Concentrarsi sulla postura vuol dire anche aggiustare costantemente il tono della postura, in modo da essere né troppo rilassati né troppo tesi. Concentratevi bene anche sulla posizione delle mani. La mano sinistra nella mano destra con le quattro dita che si sovrappongono. I pollici si toccano orizzontalmente formando un ovale con gli indici: un ovale ben largo, ben aperto. Dopo aver trovato il tono giusto della propria postura possiamo concentrarci sul contatto dei pollici. Inspiriamo ed espiriamo profondamente insistendo nell’andare fino al fondo di ogni espirazione. Come in kin hin accompagniamo l’espirazione con una spinta della massa addominale verso il basso, poi rilasciamo la pressione e lasciamo che l’inspirazione si faccia, naturalmente. Il taglio delle mani è bene in contatto con il basso ventre e possiamo sentire una leggera espansione sotto l’ombelico alla fine della espirazione. Concentrarsi su questi differenti punti permette di calmare l’agitazione mentale, abbandonando il modo di funzionare dualista del nostro pensiero ordinario. Possiamo così trovare una grande calma che non è disturbata dai fenomeni; i fenomeni esteriori, come i rumori, ma nemmeno dai fenomeni interiori, come i pensieri, le emozioni. Questo non significa che questi fenomeni scompaiano, ma se rimaniamo concentrati sulla postura e sulla respirazione, possiamo percepire chiaramente questi fenomeni senza essere disturbati da essi, senza essere destabilizzati. Per ottenere ciò il metodo migliore è rimanere in contatto con la propria respirazione, che è come il filo conduttore della concentrazione in tutta la nostra esistenza. Questa respirazione può essere praticata non soltanto in zazen o kin hin, non solo nel dojo, ma anche quando camminiamo, quando lavoriamo, quando riposiamo, ci permette di ritornare costantemente al qui e ora della nostra esistenza reale, in contatto con il nostro ambiente, senza rimanere chiusi nei nostri pensieri. Seguire la respirazione è lasciar passare i pensieri. Significa che non pensiamo alla respirazione, ma siamo semplicemente attenti ad essa, senza costruire dei giudizi, ad esempio: “ora la mia respirazione è corta” oppure “ora è lunga”. Se siamo veramente con la nostra respirazione, l’espirazione si allunga naturalmente e l’inspirazione diventa più ampia, senza aver bisogno di uno sforzo di volontà, senza voler fare qualcosa di speciale. Semplicemente lasciando cadere gli ostacoli ad una respirazione profonda, e questi ostacoli sono l’attaccamento ai nostri pensieri e alla nostra attività mentale. L’essenziale in zazen è ritrovare uno spirito fluido, che non dimora su nulla e che comunque percepisca tutto chiaramente. Questo legame tra la pratica di zazen e la vita quotidiana è il punto essenziale dell’insegnamento del Maestro Hyakujo, in cinese il suo nome è Pai-chang Huai-hai. La traduzione della sua opera principale è legata al suo nome cinese, quindi potete ritrovarlo. Visse in Cina nell’ottavo secolo, nacque nel 720 e morì nel 814, molto vecchio. Era discepolo del Maestro Baso, che era stato a sua volta discepolo di Nangaku, che era discepolo di Eno, Hui-neng, il sesto Patriarca. Fu lui che stabilì la regola di vita nei monasteri Zen, e la regola di Hyakujo è quella che ispira ancora oggi tutti i templi Zen, un po’ come la regola di San Benedetto nei monasteri cristiani. In questa regola egli ha stabilito la necessità imperiosa del lavoro nella vita del tempio, samu allo stesso livello di zazen, allo stesso livello dello studio dei sutra e delle cerimonie. Ha scritto un’opera, che commento da tempo, che riguarda l’essenza del Risveglio, del Risveglio immediato. E continueremo nel corso della sesshin. Venerdì
15 ottobre 1999 Zazen ore 11:00 Nel suo trattato sul Risveglio immediato il Maestro Hyakujo pone a se stesso un certo numero di domande fondamentali, cercando di rispondere ad esse. Si chiede quali siano i “tre metodi di pratica da realizzare allo stesso livello” e che cosa significhi “compierli allo stesso livello”. La risposta è: i precetti, la meditazione e la saggezza, ciò che in giapponese si chiama: kai, jo, e. Queste tre pratiche riassumono l’insieme delle pratiche insegnate dal Buddha, come ad esempio l’Ottuplice Sentiero. Spesso i discepoli vogliono privilegiare una pratica rispetto alle altre, ad esempio: “solo zazen è importante”, “i precetti non sono così importanti”, “la comprensione e la saggezza non sono così importanti”, “è importante solo concentrarsi sulla pratica”. La Via del Buddha è una via completa, che armonizza i differenti livelli dell’esperienza umana. Certe scuole buddhiste considerano come prima la saggezza, cioè le due prime vie dell’Ottuplice Sentiero: innanzitutto comprendere le Quattro Nobili Verità, poi praticare i precetti secondo le tre vie seguenti dell’azione giusta, parola giusta e modo di vita giusto. Così possiamo purificare la nostra vita e praticare veramente la meditazione, che implica lo sforzo, l’attenzione e la concentrazione giuste: sono le ultime tre vie dell’Ottuplice Sentiero. Alcuni considerano che i precetti debbano venire per primi, e generalmente i discepoli dello Zen considerano che sia la meditazione, zazen, a dover venire per prima. Per Hyakujo, come per il Buddha Shakyamuni, questi tre metodi di pratica devono essere trattati, praticati e realizzati allo stesso livello. Hyakujo dice: “I precetti implicano una purezza senza macchia, la concentrazione – o la meditazione, jo – implica di calmare il proprio spirito in modo da non essere trascinati dai fenomeni che ci circondano, e la saggezza significa che la vostra calma dello spirito non è disturbata dal fatto di pensare a questa calma, che la vostra purezza non è macchiata dai pensieri a proposito di questa purezza e che, nel mezzo di tutte queste paia di opposti – così come il bene e il male – siete capaci di distinguere tra di loro, senza essere turbati da loro. Raggiungete così lo stato in cui siete perfettamente a vostro agio e liberi da ogni dipendenza”. In più, se comprendete che i precetti, la concentrazione e la saggezza sono simili, poiché la loro essenza non cambia, rimane la stessa e dunque, non sono separati, questo significa che i tre metodi di pratica sono compiuti allo stesso livello. I precetti implicano una purezza senza macchia, e certamente la purezza consiste in primo luogo nel non seguire i propri bonno, ma al contrario nel vederli e lasciarli passare, come in zazen. Ad esempio vedere i desideri, la propria avidità e non sentirsi obbligati a realizzarli, senza per questo diventare necessariamente ascetici. Realizzare la Via di Mezzo, capaci di percepire la propria aggressività, talvolta il proprio odio, la propria gelosia, senza tuttavia essere diretti da essa, senza agire a partire da questa aggressività e senza nemmeno scacciarla, reprimerla, ma trasformandola in energia positiva, per trasformare le cattive situazioni. Se pratichiamo così possiamo prendere coscienza di ciò che avvelena la nostra vita e trasformare questi veleni in fonte di saggezza. Purezza significa anche non attaccarsi troppo alla purezza, altrimenti ci si colpevolizza senza sosta, non ci si ritiene mai abbastanza puri, abbastanza adatti e diventiamo assolutamente intolleranti nei confronti di noi stessi e degli altri. L’attaccamento al bene si trasforma in male e talvolta può causare le guerre di religione e l’intolleranza. Per realizzare realmente i precetti, per realizzare questa purezza senza macchia, bisogna praticare allo stesso livello la concentrazione e la saggezza. Concentrazione che permette di lasciar passare gli impulsi negativi, e la saggezza che permette di capire se stessi. In particolare di comprendere la concatenazione delle cause e degli effetti del nostro karma, comprendere la sofferenza che ne deriva e desiderare così di mettervi fine. Concentrazione implica di calmare il proprio spirito in modo da non essere trascinati dai fenomeni circostanti. Certo è il cuore stesso della pratica di zazen, ma se non rispettiamo i precetti allora la nostra vita diventa dolorosa, complicata e, anche durante zazen, gli effetti di questo karma si manifestano e disturbano la concentrazione. Allo stesso modo, se crediamo all’esistenza sostanziale dell’oggetto dei nostri desideri, allora è difficile rinunciarvi e lasciar passare. Ma se attraverso la pratica della saggezza ne osserviamo la vacuità, allora il lasciar passare non è più un sacrificio, diventa l’espressione della nostra libertà, della nostra armonia con l’ordine cosmico. Allora la concentrazione diventa facile e non siamo più disturbati né dalle illusioni né dal cattivo karma. Infine la saggezza, la comprensione, se non è messa in pratica attraverso i precetti, diventa solamente teorica. Anche se abbiamo compreso ciò che è giusto, senza concentrazione è difficile praticarlo. Ed è per questo che le tre pratiche, i precetti, la concentrazione e la saggezza, devono essere realizzate allo stesso livello. Questa è l’essenza stessa della pratica di una sesshin, dell’armonia tra zazen e la vita quotidiana vissute allo stesso livello. Venerdì
15 ottobre 1999 Zazen ore 16:30 Quando il Buddha Shakyamuni ha praticato zazen sotto l’albero della Bodhi, ha realizzato il Risveglio e questo vuol dire che tutto il suo insegnamento, per 45 anni, non fu altro che l’espressione di questa esperienza di zazen. Dopo 25 secoli, la domanda di sapere cos’era in fondo il Risveglio del Buddha si è spesso posta e ci porta a domandarci qual è il senso profondo della nostra pratica di zazen. Hyakujo si è posto anch’egli questa domanda leggendo i sutra, dicendo: “I sutra parlano non solo del “Risveglio completo”, che chiamiamo Sarnak Sanbodhi, ma anche del “Risveglio meraviglioso” che è al di là. Allora per piacere spiegateci questi termini”. Hyakujo risponde egli stesso: “Il "Risveglio completo" è la realizzazione dell’identità della forma e del vuoto. Per quanto riguarda il "Risveglio meraviglioso", è la realizzazione dell’assenza di opposizioni. Vuol dire che è lo stato in cui non c’è né Risveglio né assenza di Risveglio”. E allora: “Ci sono forse due tipi di Risveglio diversi oppure no?” si chiede. Hyakujo risponde: “Queste espressioni sono usate perché provvisoriamente pratiche, ma in fondo sono uno, non sono diversi. Questa unità, questa identità, caratterizza tutti i fenomeni, quali che siano.” Il punto di vista è sicuramente scioccante e apparentemente paradossale, e consiste nel negare le differenze tra due cose apparentemente opposte, quali la forma e il vuoto, il Risveglio e l’assenza di Risveglio. Ed è chiaro che dal punto di vista della nostra mente ordinaria, siamo abituati a percepire le differenze, per esempio a percepire le forme, a riconoscere il nostro corpo come diverso da quello degli altri, è ciò che ci conferisce il primo sentimento della nostra identità, ed è certamente importante realizzare questo, altrimenti rimarremmo nella confusione. Anche le nostre sensazioni ci consentono di apprezzare gli stati piacevoli o spiacevoli, ciò che è buono per noi o che non è buono, ciò che è importante per la nostra sopravvivenza. Se non trovassimo sgradevole il fatto di bruciarci, saremmo costantemente nel pericolo di distruggere noi stessi. Le percezioni dei nostri organi di senso, ci insegnano a distinguere con finezza i colori, le forme, i suoni, gli odori: se sentiamo odore di bruciato in cucina spegniamo il gas rapidamente… Allo stesso modo siamo animati da bisogni, desideri, impulsi che ci portano verso degli oggetti, delle cose inanimate o degli esseri animati e se non fossimo capaci di volere qualche cosa saremmo ridotti ad un’esistenza vegetativa. Finalmente siamo coscienti di tutto ciò, la nostra coscienza è sempre coscienza di qualche cosa. Questo vuol dire che attraverso la nostra coscienza e tutti gli altri elementi che ci compongono, che costituiscono la nostra personalità, il nostro ego, siamo completamente abituati, condizionati a vivere nella dualità. A tal punto che, specialmente in occidente, questa dualità non è nemmeno messa in dubbio. E’ qualcosa di evidente che va da sé, che non è da mettere in questione. Giustamente il Risveglio realizzato in zazen dal Buddha, è un’apertura verso un al di là rispetto a questa dualità, che viene percepita come causa delle nostre sofferenze. E allora diventa importante potersene liberare. Non negarla, ma vedere che è soltanto un aspetto, un versante della realtà. Zazen ci mostra l’altro versante. Ci permette di armonizzare differenza e identità, forma e vacuità, così come tutte le coppie di opposti. Ed è ciò che cantiamo nell’Hannya Shingyo, non è solo un esercizio respiratorio, ma l’espressione del Risveglio in zazen. A questo proposito continuerò dopo. Venerdì
15 ottobre 1999 Mondo Domanda: parlo spesso a Savona nel dojo del fatto che bisogna essere attenti e ricordo le parole del Maestro Deshimaru che diceva: “Non bisogna essere distratti”, e devo anche notare che, benché io parli spesso di questa cosa, cado nello stesso errore e… Roland Rech: forse è per questo che ne parli molto. D.: Forse. Questa non è proprio una domanda, ma un modo per scusarmi, perché ci ho pensato bene e mi sono accorta che, questa mattina, ho mancato di attenzione e di rispetto verso gli altri. Ho capito chiaramente che è molto facile parlare ed è anche facile costruirsi un ruolo, una funzione, ma questa funzione non è sempre la stessa, cambia ed io non devo metterla dentro a delle categorie. E’ facile per me tradurre dal francese durante i kusen, ma dimentico delle cose forse per paura … per molti motivi, forse perché sono pigra, può essere. Volevo solo dirlo. L’altra domanda è… R.R.: Questa non era una domanda. Questa era una confessione. D.: si. Allora la domanda, la prima domanda è: ho letto un racconto Zen nel quale il Maestro Hyakujo incontra un vecchio uomo, che parla a proposito del karma. Il Maestro Hyakujo gli dice – è una storia lunga, ma alla fine gli dice – “Non nascondere le tue tracce”, a proposito del karma. Cosa significa esattamente? R.R.: Significa che anche un essere risvegliato non può ignorare il karma, la causalità karmica. La storia è brevemente questa, così che tutti capiscano: questo vecchio uomo andava tutti i giorni alle conferenze di Hyakujo al dojo, non diceva mai niente, ma un giorno rimase solo alla fine, tutti se ne erano andati ed è a quel punto che si confessò con Hyakujo dicendo: “Molto tempo fa ero io il capo di questo tempio e qualcuno venne a chiedermi se anche un essere risvegliato è sempre sottomesso al karma. Io avevo risposto di no. A causa di ciò, a causa di questa risposta sbagliata, mi sono reincarnato per 500 esistenze come volpe. Potete liberarmi?”. Hyakujo gli disse: “Poni a me la stessa domanda”. “Un essere risvegliato è sempre sottomesso al karma?”. E Hyakujo gli rispose: “Un essere risvegliato non ignora il karma”. In quel momento il vecchio uomo fu risvegliato. Si è molto discusso a proposito di questa risposta di Hyakujo. E’ diventato un celebre koan. In effetti la risposta è chiara e netta, molto semplice. E’ che effettivamente un essere risvegliato è sempre soggetto, sottomesso al karma e bisogna accettarlo. Significa semplicemente che non ci si può sottrarre alla causalità karmica, finché si esiste. D.: e anche quando non si esiste più? R.R.: Se non si esiste più il problema non si pone. Se non c’è né soggetto né oggetto, non c’è azione, non c’è karma né risultato. Il problema si pone per la nostra esistenza. Finché esistiamo in questo mondo, anche se siamo risvegliati, anche se abbiamo compreso profondamente noi stessi, l’interdipendenza, la vacuità, etc. anche se pratichiamo zazen, anche se abbiamo abbandonato il nostro ego, non possiamo essere completamente liberi dal karma. Per esempio il karma passato deve necessariamente produrre i suoi frutti, ed è per questo che a volte vediamo dei grandi maestri – come anche ora nel XX secolo – maestri spirituali che muoiono giovani, anche di malattie gravi come il cancro. Allora ci possiamo chiedere, ma che cos’è questo karma effettivamente? Effettivamente è il risultato del karma passato e il karma passato non può essere completamente tagliato. L’autentico Risveglio è giustamente accettare questo e a quel punto si soffre molto meno. Perché la sofferenza, la più grande sofferenza, in effetti è il rifiuto, il rigetto dell’azione del karma, allora si crea una tensione molto forte, se lo si accetta invece, gli effetti del karma sono meno dolorosi. Può darsi che cadiamo ammalati, ma vivremo questa malattia con meno sofferenza. Questo non vuol dire che l’effetto del karma sia un determinismo assoluto. Hyakujo rispose che “un essere risvegliato non ignora il karma”, significa che ne tiene conto nella sua vita presente. Per esempio praticare zazen è proprio risvegliarsi al karma, prendere coscienza di questa causalità karmica. Vedere nello specchio di zazen è riflettere il fine della nostra vita attraverso le cause e gli effetti karmici. Ed è la base del cambiamento, è quando si prende coscienza di ciò che si può cambiare. A quel punto si può utilizzare la causalità al meglio; perché si pensa sempre al karma come a qualcosa di cattivo, di doloroso, ma c’è anche il buon karma, non è solo negativo. Per esempio concentrarsi sulla pratica giusta, rispettare i precetti, produce dei buoni effetti karmici e diminuisce gli effetti cattivi. Dunque se prendiamo coscienza della legge del karma – come disse Hyakujo, non ignorare il karma – possiamo diventare più responsabili nella nostra vita e dunque più liberi. Questo significa non essere determinati automaticamente dal karma, ma prendere in mano la propria vita, prendendo coscienza di questa causalità. Credo che la risposta di Hyakujo sia semplice, ma molti dei commentari che la hanno seguita, la hanno oscurata. Alle volte i cinesi rendono oscuro e complicato quello che è semplice. Tra gli insegnamenti che ha dato alla fine
della sua vita, Dogen ha ripreso questo tema del karma
dell’insegnamento di Hyakujo, e lo ha chiarito spiegandone il vero
significato. Domanda: ho fatto molte sesshin dall’anno scorso e il comfort del gaetan lascia sempre a desiderare rispetto al dojo. Roland Rech: vuoi delle poltrone? D.: Non lo dico per me, ma perché penso che ci sono dei principianti ed è scomodo. R.R.: ci sono delle coperte. D.: c’è soltanto una coperta e se ne portiamo una noi, rimaniamo senza nella camera. Vorrei sapere per quanto riguarda questa causalità karmica, qual è il posto della compassione. Perché suppongo che il karma voglia dire che quello che ho fatto ha degli effetti più tardi, se ho fatto delle cattive azione devo restituire e soffrire per questo. R.R.: sì, dei cattivi effetti, perché non sono per forza delle cattive azioni. Se ti ammali non è una cattiva azione. Non è necessariamente una punizione che ti è inflitta da qualcuno, può essere un incidente. D.: ma se sono malato ora è perché ho fatto qualcosa prima. R.R.: si, certamente. D.: e in questa situazione, dov’è la compassione, che vivendo fa sì che io non cada malato. R.R.: ah, attenzione! La legge del karma non è manipolata da Dio, non c’è un essere che è là che giudica e arbitra e che punisce qualcuno. E’ una legge del tutto impersonale, dunque non c’è compassione nella via del karma, è un qualche cosa di automatico. E’ la differenza con la nozione di peccato. Nella nozione di peccato c’è il peccato in rapporto a Dio e Dio che punisce, dunque si può implorarlo, gli si può domandare di essere compassionevole, di avere pietà di noi e sperare che ci ascolti. Ma la legge del karma è completamente impersonale, non c’è nessuno che determina, succede da solo, è automatico. E’ la forza stessa del karma passato che produce degli effetti. E’ come un seme che cade per terra, con l’umidità e il calore finisce per germogliare, automaticamente. Non c’è nessuno che vuole che il seme germogli, egli germoglia automaticamente: è un processo naturale ed il karma è un processo naturale. La questione della compassione si pone diversamente: se comprendiamo la nostra sofferenza attraverso il nostro karma negativo, allora possiamo avere compassione per noi stessi e per gli altri, tenendo conto di ciò e correggendo i nostri errori. Aiutando anche gli altri a limitari gli errori: possiamo dire loro: “attenzione il karma fa male”. E dirlo anche a noi stessi. La saggezza del Buddha è anche insegnare agli esseri umani: “fate attenzione, il karma ha degli effetti!”. La saggezza è prendere coscienza di ciò e dirigere la propria vita di conseguenza e la compassione è proprio insegnare tutto ciò. Risvegliarsi e Risvegliare gli altri a ciò. D.: e posso modificare gli effetti? R.R.: certamente. Il karma non è determinista, può essere attenuato, trasformato grazie alla pratica, altrimenti il Buddha non avrebbe insegnato: se il determinismo fosse stato una legge assoluta, saremmo tutti fatalisti e aspetteremmo tutti quello che avviene. Al contrario l’insegnamento del Buddha è un insegnamento ottimista. Se prendiamo coscienza della legge del karma possiamo trasformarla. D.: mi da fastidio a livello del seme, che germoglia... R.R.: si, ma vuol dire che gli effetti di un cattivo karma passato vanno necessariamente a prodursi. Non si può evitare. Si dice che, per esempio il pentimento, la confessione, possono diminuire questi effetti, ridurre l’energia del cattivo karma, ma sopprimerlo completamente, no. Questo significa semplicemente che dobbiamo accettare, subire, questi cattivi effetti, che però sono necessariamente limitati nel tempo. Una volta che saranno passati, potranno prodursi i buoni effetti di un karma migliore. Dunque il seme che ha dato delle ortiche ha finito di germogliare, le ortiche sono passate – per continuare la comparazione vegetale – altri semi possono nascere, non c’è un solo seme nella nostra vita, ma ci sono semi di cattivo karma e di buon karma. D.: riguardo alla pratica di zazen, si dice che si deve fare zazen senza scopo, senza andare a ricercare niente. Come cambiano gli effetti a livello del cattivo karma?. R.R.: è difficile essere mushotoku. D.: essere cosa? R.R.: mushotoku. Significa senza attese, senza scopo. E’ vero. D.: come posso io, come essere assolutamente “innocente”, praticare la Via senza attese, senza scopo pur sapendo e non volendo niente, eventualmente… R.R.: credo che, in realtà, non siamo senza scopo quando iniziamo a praticare la Via. Il punto importante è che quando questo scopo che abbiamo circa la sofferenza, di risolvere la sofferenza, di ridurla, allora se vogliamo andare veramente meglio ci sono due cose: innanzitutto è importante abbandonare la nostra avidità, l’attitudine mentale che è la causa di molto cattivo karma, di molta sofferenza. Vuol dire che se anche la nostra storia, il nostro desiderio ci hanno portati fino là, davanti al dojo, nel momento in cui oltrepassiamo la soglia con il piede sinistro, in quel momento, dobbiamo concentrarci solo sulla pratica e dimenticare anche lo spirito, che è arrivato lì per ottenere qualcosa – anche se è qualcosa di positivo –, per concentrarci solo sulla pratica. Ed è proprio in questa pratica, essendo totalmente uno con la pratica, dimenticando le nostre attese, i nostri scopi, i nostri desideri, il cattivo karma, etc., è proprio in quel momento che la trasformazione avviene. E’ lì che la radice del karma è recisa, a livello del qui e ora. Non sono gli effetti del karma passato ad essere recisi, ma la radice, quello che li produce, che qui e ora viene recisa. Questo vuol dire che qui e ora possiamo realizzare uno stato di libertà interiore, al di là del karma, anche se il karma esiste sempre. Vuol dire che in zazen non produciamo karma: è il nirvana. Questo se produciamo lo stato giusto, vale a dire lo stato di astensione dall’avidità e dall’odio che provocano, in ogni caso, un karma negativo, doloroso. Il secondo aspetto è che lo scopo che perseguiamo, il desiderio di stare meglio, di risolvere la sofferenza, se in zazen comprendiamo che, in ultima analisi, ciò che costituisce il nostro ego, non è un “io” isolato, separato, ma che l’essenza della nostra vita è vivere in relazione d’interdipendenza con gli altri, allora, il nostro desiderio diventa molto più vasto. Non è più un desiderio personale per risolvere il nostro karma, la nostra sofferenza, ma diventa il desiderio di risolvere la sofferenza. Ed attraverso la nostra esperienza, aiutare gli altri a risolvere la propria sofferenza; attraverso il nostro Risveglio, aiutare gli altri a realizzare il Risveglio. In quel momento la nostra pratica, anche se non è senza scopo, ha uno scopo generoso, vasto e altruista, che include tutti gli esseri. Ed è quello che pronunciamo con i voti del bodhisattva. Diventa il senso della nostra pratica, il senso profondo. Non nella pratica per noi stessi, ma nella pratica per tutto il cosmo, la nostra dimensione. D.: La mia domanda di prima sul gaetan era proprio per gli altri, non per me che sono sempre qui, ma per gli altri che sono andati via.
Venerdì
15 ottobre 1999 Zazen ore 20:30 Dunque il Maestro Hyakujo diceva che il “Risveglio completo” è la realizzazione dell’identità della forma e del vuoto, e il “Risveglio meraviglioso” la realizzazione dell’assenza di opposti, che significa lo stato nel quale non c’è né Risveglio né assenza di Risveglio, cioè lo stato nel quale cessiamo di opporli. E’ il cuore stesso della grande saggezza cantata nell’Hannya Shingyo – shiki soku ze ku, ku soku ze shiki. I fenomeni – shiki – le forme, – soku ze – non sono differenti da ku, il vuoto; ku non è differente dalla forma – shiki –: dunque tutto ciò che è forma è vacuità, tutto ciò che è vacuità è forma. Ed è lo stesso per le sensazioni, le percezioni, gli atti di volontà e la coscienza, cioè i 5 skandha che compongono la personalità. La forma e il vuoto significa che non c’è forma senza vuoto; ad esempio un vaso di fiori ha una forma perché c’è il vuoto all’interno, e lo possiamo utilizzare perché è vuoto. Questo dojo ha una forma, dei muri, un tetto, un pavimento, ma questa forma non esiste se non perché c’è il vuoto all’interno ed è il vuoto all’interno che permette di utilizzarlo. E anche se non ci fosse vuoto all’interno, come ad esempio per le montagne, le montagne esistono perché ci sono le valli e le valli esistono in rapporto alle montagne e ciascuno è vuoto di sostanza propria ed esiste solo in interdipendenza con l’altro, come il giorno e la notte, la vita e la morte, sé e gli altri, così come il Risveglio e le illusioni, il samsara – il mondo dei fenomeni – e il nirvana. Anche in zazen, possiamo inspirare perché abbiamo cominciato con l’espirare. E il pensiero esiste solo in rapporto al non pensiero. Se non ci fosse altro che pensiero non si potrebbe più pensare. Come il silenzio, che permette di sentire il suono. Dunque, identità della forma e del vuoto significa che tutte le forme hanno esistenza solo in relazione con altre cose, con il vuoto interiore oppure esteriore. In più, nessuna forma esiste durevolmente; l’impermanenza di tutte le forme, la costante trasformazione, significa anche la vacuità di ogni forma, la vacuità di sostanza fissa. L’insistenza nell’insegnare ciò non è per il piacere di filosofeggiare, ma è la chiave della liberazione, dell’esperienza pratica di cessare di opporre, forma e vuoto, esistenza e non esistenza, satori e illusioni. Smettere di creare opposizioni è la porta dell’autentica liberazione, della pace, del nirvana. Tradizionalmente si insegna che abbandonare l’ego è l’essenza stessa della realizzazione spirituale, ma finché si combatte con il proprio ego per abbandonarlo, non si fa altro che creare conflitti, opposizioni, colpevolizzazioni e ci si ritrova esattamente all’opposto della liberazione. La sola via possibile è abbandonare lo spirito che crea queste opposizioni, vedere che se le differenze esistono a un certo livello, non hanno esistenza propria. Così possiamo smettere il combattimento immediatamente, concentrarci solo sulla pratica e dimenticare l'ego nella pratica stessa. Lasciare che la pratica ci trasporti al di là della dimensione dell’ego ordinario. Allora, come dice Hyakujo, il “Risveglio meraviglioso” è la realizzazione dell’assenza di opposti, la pratica al di là del Risveglio e del non Risveglio, cioè senza attaccarsi né all’uno né all’altro, poiché sono inseparabili. Sabato
16 ottobre 1999 Zazen ore 7:00 Dall’inizio di zazen concentratevi bene sulla vostra postura; tendete bene le reni, la colonna vertebrale, la nuca e rientrate bene il mento. All’inizio di zazen inspiriamo profondamente ed espiriamo due o tre volte. Questo permette di distendere bene il plesso solare e di svegliarsi, soprattutto al mattino. Durante il sonno non siamo coscienti del nostro corpo, lo spirito può sognare, andare altrove; al mattino svegliarsi significa riunire corpo e spirito, tornare ad essere completamente coscienti del proprio corpo, di essere questo corpo qui e ora. Dunque, concentratevi bene sulla vostra postura e non lasciate che la testa cada in avanti. La domanda successiva del Maestro Hyakujo è: “Che cosa significa il passaggio del Sutra del Diamante che dice: ‘non avere assolutamente nulla di descrivibile a parole è chiamato predicare il dharma’”? Hyakujo risponde a se stesso: “La saggezza del Risveglio, prajna, è assolutamente pura e non contiene nulla su cui appoggiarsi, nulla da afferrare. E’ il senso di "nulla di descrivibile con le parole". Tuttavia, questa saggezza immateriale e immobile è capace di tutte le funzioni, tanto numerose quanto le sabbie del Gange, cosicché non c’è nulla che non comprenda. Ed è ciò che significa “predicare il dharma”. Così il dire di non avere nulla di descrivibile con le parole è chiamato “predicare il dharma”. La saggezza del Risveglio è ciò che si realizza in zazen quando smettiamo di attaccarci alle nostre categorie mentali, quando smettiamo di creare opposizioni, separazioni, quando smettiamo di attaccarci alla nozione di un piccolo ego, separato dal resto dell’universo, che passa il suo tempo a cercare di rafforzare la propria illusione. La causa è che prendiamo una formula di linguaggio per la realtà. Quando diciamo “io”, “me”, “è mio”, pensiamo che questo “io” sia qualcosa di sostanziale, ma nel fondo di noi stessi sappiamo bene che non è vero. Abbiamo paura di vedere ciò e allora sciupiamo tantissime energie per non vederlo. Accumuliamo ogni sorta di cose per cercare di dare una consistenza a questo “io”, mentre invece la sua realtà è di non esistere che in interdipendenza con tutti gli esseri. Così quando il Buddha insegnava a proposito del distacco, della liberazione – che era il cuore stesso del suo insegnamento – insegnava essenzialmente a distaccarsi dalle nozioni false, prodotte dalla nostra mente. Queste false nozioni sono pericolose perché, se ci attacchiamo alla nozione di un ego, tendiamo a diventare egoisti, a crederci minacciati, ad avere paura di perdere e ogni sorta di conflitti sorge a causa di questo: ingiustizia, guerra. L’insegnamento della liberazione, la liberazione dalle nostre illusioni, non è semplicemente qualcosa di personale, poiché la nostra persona è costantemente collegata agli altri. Se una persona si Risveglia e si libera dalle sue illusioni, questo ha un’influenza positiva su tutto l’ambiente. Così praticare per se stessi non ha senso, pratichiamo insieme, con e per gli altri. Per esprimere questa saggezza al di là di ogni concetto, il Buddha Shakyamuni quando ha trasmesso l’essenza del suo insegnamento, secondo la tradizione Zen, ha semplicemente preso un fiore tra le dita e lo ha fatto girare. In silenzio. In una totale concentrazione – la stessa concentrazione di quando pratichiamo zazen – totale attenzione alla realtà così com’è, nell’istante. E in quell’istante Mahakasyapa ha sorriso, e il Buddha ha dichiarato: “Possiedo l’occhio del tesoro della vera legge, dell’autentico dharma, lo spirito sereno del nirvana, ed ora è trasmesso a Mahakasyapa”. Fu la prima trasmissione i shin den shin di questa “saggezza del Risveglio assolutamente pura, che non contiene nulla sul quale appoggiarsi”. Anche se utilizziamo delle frasi per fare dei kusen o delle conferenze, scrivere dei libri, le parole sono usate per indicare un’esperienza che è al di là del linguaggio, per mostrare il cammino della pratica giusta e non potranno mai sostituire la pratica stessa. Un giorno il Maestro Seppo aveva sentito dire che uno dei suoi discepoli era diventato eremita e che viveva sulla montagna con lunghi capelli e lunga barba. Un monaco, che lo aveva incontrato, gli aveva chiesto qual era il senso della sua vita sulla montagna ed egli aveva risposto: “L’acqua del torrente è profonda, il manico del mestolo è lungo”. Seppo, che aveva sentito parlare di questa risposta, per verificare il Risveglio del suo discepolo, andò in montagna per incontrarlo, portando con sé un rasoio. Quando si trovò in presenza dell’eremita gli disse: “Se puoi esprimere la Via non ti raserò”. Allora il discepolo scomparve. Qualche momento dopo riapparve: si era lavato i capelli e la barba e, a mo’ di risposta, tese semplicemente la testa al suo maestro affinché lo rasasse. E Seppo gli rasò i capelli e la barba. Non cercando di rispondere con parole, porgendo umilmente il suo collo per essere rasato, il discepolo esprimeva completamente la Via, senza nessuna pretesa di averla capita. Significa non avere assolutamente nulla che si possa descrivere con le parole, che è chiamato “predicare il dharma”. In un certo senso possiamo dire che l’insegnamento del Maestro Deshimaru in Europa, per quindici anni, non fu che l’esposizione dei diversi aspetti della sua pratica di zazen, le espressioni infinite della saggezza che sorge dalla pratica di zazen. Sabato
16 ottobre 1999 Zazen ore 11:00 Per la maggior parte delle persone, quando soffrono, quando capita loro una disgrazia, ciò avviene a causa degli altri o della malasorte, e cercano di sopprimere il dolore senza cercare profondamente da dove viene, qual è il suo senso. Per coloro che si pongono domande sul senso, questa può essere l’occasione di entrare nella Via e di trasformare la sofferenza iniziale in fonte di Risveglio. E’
il senso del mondo seguente di
Hyakujo. La
domanda è: “Nel Sutra del Diamante
è detto: ‘se un uomo virtuoso possiede, studia e
recita questo sutra
e se è disprezzato dagli altri, la persona soffre di questo cattivo destino a
causa dei suoi errori passati. Ma questi errori
passati sono ora cancellati dal disprezzo degli altri, e può raggiungere
il Risveglio supremo’. E allora, per favore, spiegateci tutto ciò”. Hyakujo risponde: “Questa storia assomiglia a quella di un uomo che, non avendo incontrato un maestro risvegliato, continua a produrre del cattivo karma per se stesso, in modo che il suo spirito puro, originario è oscurato dai tre veleni, radicati nell’ignoranza fondamentale. E dunque questo spirito puro e originario non può apparire. Ed è la ragione per la quale è disprezzato. Ma se proprio a causa di questo disprezzo, in questa vita, egli diventa determinato a ricercare la Via del Buddha senza ritardo, allora la sua ignoranza può essere superata e i tre veleni non saranno più prodotti. Allora il suo spirito originario appare luminoso. Il tumulto dei suoi pensieri è calmato, perché tutto il male in lui è stato distrutto. E’ il fatto d'essere stato disprezzato che lo ha portato a conquistare, a risolvere la sua ignoranza: così ha calmato la sua mente e realizzato la liberazione. E’ per questo che è scritto: ‘Il Risveglio è realizzabile nel momento in cui decidiamo di realizzarlo’. Cioè in questa vita, e non in una vita futura.” Attraverso questo insegnamento di Hyakujo, si può capire che c’è un buon uso delle crisi da fare. Invece di lamentarci, se ci diciamo che ciò che capita è la conseguenza dei nostri errori passati, invece di prendercela con gli altri o con il destino, possiamo decidere di cambiare la nostra vita, il nostro modo di vivere, e di seguire la Via. Così, la sofferenza non sarà stata inutile, sarà stata come un ago stimolante, per realizzare l’autentica conversione del nostro spirito. Impegnarsi
nella pratica di zazen ci aiuta a
illuminare la
nostra ignoranza e a smettere di oscurarci da
soli rimanendo obnubilati dalla nostra avidità,
dalla nostra aggressività, collera.
Ed è l’atteggiamento fondamentale
di zazen: smettere istantaneamente di
perseguire o rigettare alcunché, di voler ottenere
o aver paura di perdere, e
diventare così profondamente liberi. Smettere di preoccuparci senza sosta, di
agitare la nostra mente. Con questo ritorno alla calma, possiamo vedere più
chiaramente. Lo spirito puro, originario, non è quello che avevamo quando eravamo neonati, o prima della nostra nascita. L’origine non è lontana, non è qualcosa di storico, di passato. Lo spirito puro e originario è lo spirito del qui e ora, prima di cominciare a seguire le nostre illusioni, nel momento in cui – per esempio alla fine dell’espirazione – le lasciamo passare. In quel momento, istantaneamente, il contatto con lo spirito puro si realizza e non è necessario andare indietro, non c’è bisogno di rimpiangere una sorta di paradiso perduto, uno stato puro, originario e lontano dal qui e ora. Se facciamo così, non facciamo che vivere nella nostalgia, nel rimpianto e non vediamo che lo spirito puro e originario non ci ha mai lasciato: semplicemente, non abbiamo fatto altro che oscurarlo, istante dopo istante. Praticare
zazen, fare una sesshin,
è darsi l’opportunità di smettere di oscurare se stessi e di permettere allo
spirito puro e originario di esistere, di manifestarsi qui e ora. Questo spirito
non è qualcosa di sostanziale, che possiamo afferrare, ma è la nostra
coscienza quando non dimora su nulla, quando ritrova la sua fluidità nella
concentrazione sulla postura, sulla respirazione, lasciando passare i pensieri. Rientrate bene il mento: non è il caso di pensare allo spirito puro e originario; semplicemente smettere di seguire i propri pensieri e lasciare che zazen ci illumini.
Sabato 16 ottobre 1999 Zazen
ore 16:30 A
sinistra del dojo, bisogna dare il kyosaku
più forte, sollevandolo più in alto. Durante
zazen, anche se non guardiamo nulla
di speciale, gli occhi non sono chiusi; lo sguardo è posato davanti a sé, sul
suolo e vediamo chiaramente ciò che ci circonda senza attaccarci ad esso. Si
dice anche che lo sguardo è rivolto verso l’interno; questo vuol dire che
percepiamo il nostro corpo intimamente, tensioni, rilassamento, la respirazione,
i pensieri che appaiono: in breve le percezioni continuano durante la pratica di
zazen. A
questo proposito Hyakujo si pone ancora una domanda, poiché era scritto in un sutra
che il Buddha aveva cinque tipi di visioni, egli si chiede: “Che cosa sono?”
E risponde: “La percezione che tutte le apparenze sono pure è chiamata la
‘visione terrestre’”. Con
la pratica di zazen possiamo
purificare la nostra visione, cioè smettere di progettare le nostre opinioni,
le nostre emozioni sulle persone o le cose che vediamo, che percepiamo. Kodo
Sawaki chiamava questo abbandonare le lenti colorate del nostro karma,
dei nostri condizionamenti passati, per percepire le cose e gli esseri così
come appaiono, al di là di tutte le nostre proiezioni mentali, che creano
spesso ogni tipo di pregiudizio e malinteso. “La
percezione che la loro essenza è pura è la ‘visione
celeste’”. Questa essenza pura è anche la nostra essenza quando
smettiamo di oscurare noi stessi, quando il nostro sguardo diviene puro. Allora
tutto diviene puro, ed è quella che chiamiamo la “visione celeste”. Non è
vedere solo le lordure, gli errori, ma la purezza essenziale di tutti gli
esseri. Non essere come quelle persone, di cui parlava Kodo Sawaki, che avevano
un po’ di cacca sulla punta del naso e ovunque andassero chiedevano: “Che
cos’è che ha cattivo odore qui?”. In
seguito la capacità di distinguere le più piccole differenze tra le apparenze
che costituiscono il nostro ambiente; percepire ugualmente le più piccole
gradazioni di bene e di male e tuttavia non essere intaccati da queste
differenze, al punto da rimanere perfettamente a nostro agio in mezzo ad esse,
è chiamata la “visione della
saggezza”. Questo è un punto molto importante perché si è spesso
insegnato che la saggezza consiste nel non fare discriminazioni, ma in realtà
consiste nell’essere capaci di fare queste discriminazioni senza tuttavia
attaccarsi ad esse, cioè
senza attaccarsi al giudizio, senza rimanere costantemente
nell’esitazione tra scelta e rifiuto. Questo
non vuol dire avere una visione oscura o non essere in grado di distinguere le
differenze, come se avessimo costantemente la testa nelle nuvole. Avere
discernimento è molto importante, discernere in primo luogo la verità,
discernere ciò che è giusto, vedere gli errori, innanzitutto i propri, ma
anche quelli degli altri e della società. Il discernimento è molto importante
per poter poi agire di conseguenza, con saggezza, ma senza essere turbati,
sconvolti da queste differenze. E’
come ad esempio il medico, che deve essere capace di discernere i diversi tipi
di malattia, ma se è terrorizzato dalla malattia, se
sviene quando vede un
ferito, non può più aiutare nessuno. Il bodhisattva
deve essere capace di discernimento, senza essere tuttavia intaccato dai
fenomeni: è quella che Hyakujo chiama la “visione
della saggezza”. In
seguito, il quarto tipo di visione del Buddha, è la percezione che non c’è
nulla da percepire, ciò che si chiama la “visione
del dharma”. Infine la quinta, nessuna percezione, ma nulla che non sia
percepito, che viene chiamata la “visione
del Buddha”. Questi
ultimi tipi di visione fanno percepire che, in fondo, ciò che noi percepiamo
non ha sostanza fissa, propria. E’ ciò che fa dire che, in fondo, non c’è
nulla da percepire, quello che percepiamo non esiste eternamente, non esiste in
sé. Questo non vuol dire però che non esista del tutto. La
“visione del Buddha”
significa non attaccarsi ai fenomeni né alla vacuità; è ciò che consente di
rimanere in questo mondo, senza volerlo abbandonare, senza attaccarci alla
vacuità, senza sognare un nirvana al
di là del mondo, nel quale volersi rifugiare da soli, in modo egoista. Al
contrario fare voto di rimanere tra gli esseri per poterli aiutare, senza essere
turbati dalle lordure del mondo. Realizzare
questi differenti tipi di visione significa avere una visione vasta, non essere
prigionieri di un punto di vista ristretto, unilaterale, così da potersi
muovere e agire liberamente in questo mondo. E’ lo spirito del Grande Veicolo
del Mahayana. Sabato 16 ottobre 1999 Mondo Domanda:
su un tuo libro c’è scritto che noi non possiamo decidere della nostra
nascita, ma che possiamo domandarci che cos’è che nasce e contemporaneamente
possiamo renderci conto che, alla nostra morte, tutto ciò che costituisce la
nostra esistenza, ritornerà all’universo. E nel frattempo? E’ il nostro io
ad essere condizionato, a condizionare e a produrre karma?
Allora vorrei domandare: che cosa rinasce, se rinasce? Roland
Rech:
è una domanda molto difficile. Ciò che è importante piuttosto, è vedere che
cosa rinasce da un istante all’altro e che siamo sì differenti da un momento
all’altro, ma al tempo stesso c’è una certa continuità. Per
ciò che riguarda la continuazione dell’esistenza dopo la morte, innanzitutto
non posso parlarne perché non ho fatto l’esperienza, ma ciò che i buddhisti
e i filosofi hanno cercato di esprimere è che, è il karma
che continua, semplicemente gli effetti del karma
che continuano. Non è l’esistenza di una persona sostanziale, di un ego, ma
qualunque cosa sia è un argomento molto complicato. Penso che sia meglio
conservare questa visione di rinascita in secondo piano, come contesto della
nostra esistenza, ma concentrare la nostra attenzione sul qui e ora, come ci
incarniamo, come rinasciamo da un giorno all’altro e quale karma
creiamo. Se
ci rendiamo conto che, in definitiva, alla nostra nascita non è un ego
sostanziale che nasce e alla nostra morte tutto ciò che credevamo di possedere,
tutto ciò che identificavamo con il nostro ego si dissolve, allora la visione
ci aiuta a liberarci dai nostri attaccamenti egoisti, ed è questo che conta. Ciò
che è importante per quanto riguarda la dottrina, gli insegnamenti è ciò che
ci fa vivere e che cosa cambia nella nostra vita di ogni giorno ad ogni istante.
Non è perdersi in considerazioni filosofiche complicate, ma è importante
capire la nostra realtà di ogni istante sperimentandola. Per
quello che riguarda la rinascita, è solo la visione dell’estrapolazione di ciò
che succede da un istante all’altro ed è l’idea che, poiché tutti i nostri
pensieri, parole e azioni, tutto il nostro karma,
deve portare dei frutti, e la vita è troppo corta perché tutti questi frutti
possano manifestarsi in questa vita, allora per deduzione si è concluso che
deve esserci una rinascita, affinché questo karma
possa manifestarsi, perché si deve manifestare. Allora possiamo dire che è il karma
che si manifesta. Domanda:
volevo chiederti se c’è una relazione tra il karma
e il dharma. E se questa relazione
c’è, se è la stessa che esiste tra l’illusione e la realizzazione, tra il samsara
e il nirvana. Roland
Rech:
anche questa domanda è complicata! In che cosa ti riguarda direttamente? Perché
ho appena dato una risposta molto teorica…Che cosa ti preoccupa? D.:
mi preoccupa il fatto di comprendere il karma,
come dicevi ieri, cioè che in pratica il saggio ha la visione del karma.
Non basta per acquistare quella che tu dicevi la saggezza e allora, per quello
che mi riguarda, anche la comprensione degli errori che io posso aver fatto, non
mi impedisce di ripeterli e quindi di continuare a soffrire. R.R.:
non è sufficiente vedere gli errori, bisogna vederne la causa. Vedere gli
errori è solo un aspetto, bisogna vedere la causa profonda degli errori. Ho
parlato di questo con qualcuno ieri. Se vogliamo solo recidere i bonno
senza recidere la radice, allora siamo costantemente in lotta contro qualcosa
che ritorna di continuo. E’ come per le erbacce: se ci si accontenta di
tagliarle, le si stimola al contrario a ricrescere, se invece ne strappiamo la
radice, allora diventa molto più efficace. Quando noti che ci sono degli errori
che si ripetono, dovresti scoprire qual è la radice di questa ripetizione,
l’illusione profonda, l’attaccamento profondo che ne è la causa. E allora,
avere questa riflessione, questo approfondimento è ciò che permette di capire
il dharma. Il
processo di meditazione del Buddha, a partire dalla saggezza, è stato di
comprendere veramente le cause profonde, chiaramente, a partire dalla sofferenza
e dal karma. Per prima cosa ha
constatato che gli esseri soffrono, che ognuno rinasce in questo mondo a causa e
in funzione del suo karma passato.
Questa è la diagnosi, il sintomo, ma per guarire la malattia bisogna capirne la
causa, e questo è il dharma. Capire
il fondamento dei nostri errori, la non visione della vacuità del nostro ego e
allora li ripetiamo costantemente. D.:
avendone vista la ragione, o quella che sembra la ragione, bisogna fare un atto
di volontà, anche se contrario ai propri sentimenti? R.R.:
certamente. I sentimenti non sono sempre una buona guida: si dice che
l’inferno sia lastricato di buoni sentimenti. I buoni sentimenti non bastano.
D.:
quindi bisogna guidarli. R.R.:
certo, bisogna vedere anche la ragione: sono importanti tutti e due. Il
sentimento è importante nelle relazioni umane, in modo da essere toccati
dall’altro, provare compassione. E’ importante preservare questo sentimento,
ma ci sono altri tipi di sentimenti che ci fanno mantenere gli attaccamenti,
quindi non tutti i sentimenti sono necessariamente delle buone guide. Poi,
hai posto la domanda su l’atto di volontà. In effetti spesso si dice nello
Zen: “Ah, praticare zazen è
inconscio, naturale, non serve altro…”, ma non è vero. E’ in parte vero,
solo in parte. Talvolta bisogna anche decidere, prendere delle decisioni, di
smettere qualche cosa, per esempio. E’ per questo che nelle sei paramita,
una delle centrali è lo sforzo: se non si vuole fare lo sforzo non si può
progredire. E’ evidente che, se si segue
la Via solo
facendo degli sforzi, questa
non è la vera liberazione. Ci vuole lo sforzo al di là dello sforzo. In
partenza, per recidere delle cattive abitudini uno sforzo ci vuole. Kodo Sawaki
faceva l’esempio del tabacco: se uno ha capito veramente quanto è nocivo il
tabacco, allora smette e quando decide decide. E’ come al mattino quando ci si
deve alzare: quando bisogna alzarsi non è il momento di gettare la sveglia
dalla finestra, quando ci si deve alzare, ci si alza. E’ l’inizio della
giornata. Quindi è vero che ci vogliono degli sforzi – altrimenti si rimane a
letto tutto il giorno – ma se si passa tutta la giornata a fare degli sforzi,
alla fine si è esauriti. Lo
sforzo, la decisione, la volontà sono una parte, ma ci vuole anche la saggezza,
la comprensione profonda, che permette di essere motivati e di cambiare così il
proprio stato di coscienza, di essere meno attirati dai bonno,
per esempio, e se siamo meno attirati dai bonno,
abbiamo bisogno anche di meno energia per evitarli. E’ una combinazione dei
due: comprendere e poi decidere. Domanda:
vorrei proseguire questa nozione di volontà per ciò che riguarda il dolore
fisico e la sofferenza psicologica, mentale e dello spirito. Ho conosciuto zazen
nel giugno dell’anno scorso, perché penso che la vita mi abbia obbligato ad
un’apertura spirituale che non avevo assolutamente considerato e, man mano che
avanzo in zazen, nella postura
seduta, arrivo a dominare il dolore fisico e a fare progressi. [silenzio] Roland
Rech:
il dolore morale è più difficile, perché è più profondo. D.:
domino anche questo, ma lo trovo molto difficile. Ho trovato una scappatoia,
durante zazen, che mi permette di
sfuggire all’invasione di questo… R.R.:
un’invasione di cosa? In rapporto a cosa? D.:
lascio venire i pensieri, li lascio affiorare, li accompagno… mi permette di
rimanere nella posizione seduta. R.R.:
questa non è la pratica di zazen,
non è così che si deve praticare! Se tu pratichi così, attenzione, non è
sufficiente essere seduti per fare zazen. E’
bene fare questo mondo…perché non
posso lasciar passare questo tipo di errore. Se
per sfuggire al tuo dolore fisico ti attacchi a dei pensieri e continui a
seguirli, non è veramente zazen e
non c’è da stupirsi che, malgrado il dolore fisico, nel tuo spirito non
avvenga un cambiamento profondo. Il cambiamento profondo è smettere di seguire
qualsiasi cosa, ma se tu usi i tuoi pensieri come una specie di droga, per
sfuggire alla realtà, non fai zazen,
zazen non è questo. Bisogna andare
al fondo. D.:
utilizzo ciò nel momento in cui diventa impossibile mantenere la postura, poi
ritorno alla respirazione, ritorno all’inspirazione e all’espirazione. R.R.:
conviene fare così direttamente. D.:
non ce la faccio quando è troppo per me…poco fa ho fatto per alzarmi tanto
ero oppresso dal dolore fisico. R.R.:
fai zazen su una sedia…lo hai già
fatto, come oggi. Forse esageri, il tuo zazen
è troppo volontarista, è necessario che ti moderi nei tuoi sforzi: bisogna
fare degli sforzi, ma a mio avviso ne fai troppi, fisicamente. D.:
è un anno che sono arrivato a mettere un ginocchio per terra, che sono arrivato
a questo punto… R.R.:
non puoi sfuggire a tutto ciò, è la tua costituzione, la tua storia. Non è
grave. D.:
ho cominciato a fare zazen in modo
molto forte, ho fatto molte sesshin e
da gennaio ho preso un po’ le distanze. R.R.:
forse volevi arrivare rapidamente a dei risultati… D.:
ho superato questo stadio, lo stadio nel quale si arriva fino ad un certo punto
col pensiero, l’ho oltrepassato e faccio zazen
per zazen, senza nulla, ma questa
dualità…fa male dappertutto e mi scoraggia questo; e ora sta nascendo un
senso di abbandono, il desiderio di andarmene, di abbandonare, ma non voglio
fare questo. E’ successo qualcosa di molto bello prima. Nel secondo zazen
ero seduto su una sedia, perché il mio corpo non ce la faceva e interiormente
ero in collera contro il Buddha, o contro quello che mi si è detto del Buddha,
visto che mi è stato detto che quest’uomo è rimasto seduto 7 giorni e 7
notti, ma scientificamente so che dopo 2-3 giorni i muscoli cominciano a
“fondere”, le articolazioni dopo 48 ore, ci sono delle esigenze: bisogna
andare al gabinetto, bisogna mangiare e allora mi dicevo… R.R.:
7 giorni e 7 notti non impedisce di andare alla toilette, significa essere
concentrati a non fare altro che questo, è come una grande sesshin,
la stessa cosa si fa ancora adesso in Giappone, è molto dura, ma in certi
templi Rinzai, ogni anno, la prima settimana di dicembre, fanno 7 giorni e 7
notti in zazen. Certo mangiano un
po’, dormono in zazen: hanno una
specie di sostegno che mettono sotto il mento, per non cadere in avanti, dormono
in equilibrio, proprio per fare come il Buddha. D.:
mi sono detto: nel giro di qualche settimana si comincia ad avere problemi a
livello cerebrale. R.R.:
è possibile, ma mi sembra in ogni caso eccessivo, non vorrei seguire un metodo
così. E’ fare uno sforzo eccessivo, in certi casi voler troppo imitare il
Buddha non è giusto. D.:
non è nel senso di volerlo troppo imitare, è nel senso di ciò che mi hanno
raccontato… ma in quel momento ho alzato gli occhi e ho visto una foglia che
cadeva dal platano: questa foglia, invece di scivolare a terra, è caduta
volteggiando e penso che questo possa aiutarmi a continuare. Poi però ne ho
vista una che è caduta direttamente ed è rimbalzata. R.R.:
quello che devi capire è che la Via del Buddha è la Via del Mezzo, e il Mezzo,
per ognuno di noi, è diverso. Bisogna trovare l’equilibrio tra uno sforzo
eccessivamente caparbio e l’abbandonare la presa, come ti mostra la foglia e
che tu non riesci ad analizzare concretamente. D.:
ma concretamente, che cosa posso adesso, oggi? Per lo zazen
di stasera non ho voglia di venire, non ne posso più, fisicamente e moralmente.
Ho fatto una passeggiata in montagna per cercare di rimediare a questo stato.
Che cosa posso fare in quanto praticante? Per potermi muovere in una direzione
che non conosco ancora, te lo chiedo. R.R.:
penso che non si debba arrivare alla mortificazione, piuttosto allora è meglio
andare a dormire. Puoi fare zazen su
una sedia, l’hai fatto spesso, fallo di nuovo. D.:
faccio zazen così, ormai tutte le
volte. R.R.:
appunto, puoi farlo su una sedia. D.:
ho male alla schiena, quando sono seduto mi viene male alla schiena… R.R.:
allora questa sera vai a dormire, riposati. Domanda:
la mia domanda è a proposito della concentrazione nel samu:
vuol dire una concentrazione in rapporto al lavoro che facciamo e al tempo
stesso una vigilanza in rapporto alla respirazione? Roland
Rech:
sì, se possibile bisogna restare in contatto con la propria respirazione, ma
non deve diventare forzato o troppo complicato: diciamo piuttosto ritornare
costantemente alla propria respirazione, in particolare in certi gesti. Voler
rimanere sempre concentrati sulla respirazione e allo stesso tempo sul lavoro è
difficile, può richiedere uno sforzo eccessivo e alla fine si rischia di
scoraggiarsi, non è naturale. E’ meglio rendersi conto che, per esempio,
quando dobbiamo fare un gesto preciso, se lo facciamo sull’espirazione è
molto più facile, il gesto è più esatto; se si deve fare qualcosa
delicatamente è meglio farlo sull’espirazione. Se dobbiamo sollevare qualcosa
di pesante, se non vogliamo farci male, è meglio farlo sull’espirazione.
Dunque, anche se non si è sempre concentrati sulla respirazione, ritornarci
regolarmente, in particolare nei momenti importanti, nei momenti nei quali c'è
bisogno di precisione, di sforzo. A volte però dimentichiamo la respirazione.
La cosa più importante del samu tuttavia, è la concentrazione sui gesti
stessi: se sei concentrato sulla respirazione, ma ti tagli un dito non è
efficace. Se sei concentrato sulla respirazione, ma non fai attenzione a quello
che succede intorno a te, allora la tua concentrazione
diventa, in effetti, una distrazione. Anche qui bisogna trovare
l’equilibrio, ma in primo luogo viene la concentrazione sui gesti. Domenica 17 ottobre 1999 Zazen
ore 7:00 Durante zazen concentratevi bene sulla vostra postura. Tendete le reni, la colonna vertebrale, la nuca, spingete bene il cielo con la sommità del capo e non lasciate che la vostra testa cada in avanti. Rientrate bene il mento, rilassate le spalle e ritornate costantemente a questa attenzione alla verticalità della vostra postura, al tono giusto del vostro corpo. Inspirate ed espirate profondamente e seguite la vostra respirazione piuttosto che i vostri pensieri. Praticando così, molto rapidamente lo spirito si calma. Questo stato di calma interiore si realizza abbandonando ciò che turba il nostro spirito, ciò che chiamiamo gli ostacoli al raccoglimento. Sono i desideri che ci spingono sempre a voler ottenere qualcos’altro, che non ci lasciano in pace; l’odio, che ci fa detestare tutto ciò che disturba il nostro ego, ed è anche l’eccesso di mollezza o di durezza sia nella postura del corpo che nello spirito. E’ importante che il corpo e lo spirito rimangano flessibili, la postura non deve diventare rigida e nemmeno lo spirito. Ad esempio non è il caso di fare della competizione con se stessi, di imporsi delle prove troppo difficili, ma bisogna anche evitare l’eccesso contrario, la mollezza, la postura troppo rilassata, lo spirito senza costanza che abbandona fin dal primo ostacolo: trovare l’equilibrio tra questi due atteggiamento è molto importante nella pratica. Un altro ostacolo è l’agitazione mentale, così come il rimorso, pensare sempre a ciò che si è fatto, a ciò che si sarebbe voluto fare o ciò che non si sarebbe dovuto fare, quello che gli altri avrebbero dovuto fare o non fare. Con la concentrazione in zazen possiamo lasciare cadere questa agitazione e questi rimorsi. L’ultimo ostacolo è il dubbio. Ad esempio quando si ha troppo male alle gambe ci si chiede che cosa facciamo qui invece di andarcene. Quando si hanno questo genere di dubbi la pratica diventa evidentemente difficile, ma fa parte della concentrazione in zazen attraversare tutti questi stati: non bisogna combatterli, ma prenderne coscienza man mano che appaiono e non ristagnare in essi, andare costantemente al di là continuando a concentrarsi sulla postura e sulla respirazione, ritornando costantemente al centro della nostra pratica, qui ed ora, con questo corpo e con questa respirazione. E’ quella che nel buddismo tradizionale viene chiamata la pratica di dhyana – che è l’origine della parola zen –, concentrarsi in modo tale da non essere turbati dai fenomeni che sorgono dall’interno e dall’esterno. L’altro
versante della pratica è ciò che chiamiamo prajna,
saggezza, che nasce dall’osservazione: imparare a conoscere se stessi e
dissipare la propria ignoranza. Non è semplicemente capire il proprio karma,
comprendere i propri condizionamenti mentali, ma osservarne più profondamente
la non sostanza. A questo proposito è detto nel Sutra del Nirvana, citato da Hyakujo: “Un eccesso di dhyana sulla saggezza non procura alcuna Via per uscire dall’ignoranza primordiale. Mentre un eccesso di saggezza su dhyana conduce ad accumulare delle vie false. Quando dhyana e saggezza funzionano allo stesso livello, è quello che chiamiamo la liberazione”. E Hyakujo commenta: “saggezza significa la capacità di distinguere ad esempio il bene e il male – quindi Hyakujo considera qui la saggezza come discernimento – dhyana significa che nonostante si facciano queste distinzioni, benché si abbia questo discernimento, non si è intaccati dalla attrazione o dalla repulsione per queste distinzioni. Ciò che significa dhyana e saggezza che funzionano allo stesso livello”. Ad
esempio spesso nelle sesshin, i
praticanti sentono ogni sorta di emozioni, i vecchi ricordi che ricompaiono.
Osserviamo noi stessi, le nostre
ombre, tutto quello che di solito non vediamo di noi, osserviamo i nostri bonno,
i nostri attaccamenti,
dunque si sviluppa la lucidità, il discernimento. Se ci attacchiamo a ciò che
appare, allora questa comprensione di noi stessi diventa talvolta origine di
turbamento e di complicazione, ma se la osserviamo
rimanendo concentrati sulla
postura e sulla respirazione, esercitando un’osservazione
istantanea, intuitiva, che non ristagna sui
pensieri, ma al contrario
che appena una cosa è vista la lascia passare, immediatamente, allora anche se
non si sopprimono i bonno, i fenomeni
della nostra vita, la nostra
attitudine in rapporto ad essi cambia. Possiamo essere liberi in mezzo ai
fenomeni non perché li ignoriamo, perché non possiamo vederli, perché li
rifiutiamo o reprimiamo qualche cosa, ma semplicemente perché realizziamo lo
spirito che non dimora su nulla. Questo equilibrio fra concentrazione ed
osservazione è la fonte dell’autentica saggezza, non una saggezza
intellettuale o teorica, ma una saggezza che ha la facoltà di liberarci. Domenica 17 ottobre 1999 Zazen
ore 11:00 Quando
ci impegniamo nella pratica della Via del Buddha, pratichiamo questa Via
attraverso di noi, ma non semplicemente a partire dal nostro ego e dal nostro
sforzo personale, poiché c’è un insegnamento trasmesso, una pratica
trasmessa che sono là per aiutarci a realizzare la Via e li si chiama i Veicoli. Allora
Hyakujo si chiede: “E’ scritto che c’è un Grande
Veicolo e un Veicolo Supremo,
allora che cosa sono?” E risponde: “Il primo, cioè il Grande
Veicolo, è quello dei bodhisattva,
il Veicolo Supremo è quello del
Buddha. In quale modo possono essere realizzati?” E risponde: “I modi per
raggiungere il Veicolo del bodhisattva
sono quelli del Mahayana”, cioè
essenzialmente la pratica delle paramita:
dei precetti, del dono – il fuse,
che include il donare se stessi alla pratica –; la pazienza, pazienza con se
stessi, per sopportare i propri errori, le proprie insufficienze, le proprie
sofferenze, la pazienza con gli altri per aiutarli, la pazienza con la pratica,
ad esempio ora, concentrati su quest’ultimo zazen,
fino in fondo senza muoverci. Lo sforzo o l’energia che è la stessa
paramita,
l’energia che
mettiamo nel praticare, la meditazione, cioè zazen
stesso, e la saggezza che è la comprensione di se stessi e la comprensione
dell’insegnamento, ma soprattutto la comprensione pratica che ci porta a
praticare ciò che abbiamo capito. E’ meglio praticare una sola cosa che
abbiamo capito piuttosto che capirne mille senza praticarle. Allora
il bodhisattva si impegna in queste
pratiche, le paramita, a volte con il
desiderio di realizzare il Risveglio, ma non un Risveglio egoista,
non solo per se stesso, non per sfuggire al mondo: in realtà il bodhisattva
pratica per il Risveglio di tutti gli esseri, senza separarsi dagli altri. Si
dice sempre che rinuncia al nirvana
affinché tutti gli esseri siano liberati e attraverso i suoi voti altruisti
realizza in effetti il nirvana sin da
ora, in quanto estinzione del suo egoismo. Se si pratica questa Via del bodhisattva
utilizzando i mezzi
del Mahayana per raggiungere uno scopo, per quanto generoso sia, allora
la pratica rimane ancora limitata poiché creiamo una separazione tra i mezzi e
lo scopo da raggiungere. Così
Hyakujo aggiungeva: “Raggiungere questo Veicolo del bodhisattva
significa essere liberi da pensieri dualisti, in modo che anche la nozione di
mezzo non esiste più”. Questo significa che non si è più nella tecnica. Zazen
non è una tecnica spirituale per raggiungere il Risveglio, le pratiche delle paramita
non sono delle virtù per raggiungere il nirvana,
per salvare gli esseri, ma darsi completamente alla pratica di zazen
e concentrarsi sulle paramita
dimenticando ogni oggetto, in
questo modo la pratica stessa diventa satori,
Risveglio, liberazione e la pratica delle paramita
il nirvana stesso. E
Hyakujo concludeva dicendo, a proposito dell’abbandono di questa nozione di
mezzo: “Una tale tranquillità alla quale non vi è nulla da aggiungere né da
togliere, è chiamata raggiungere il Veicolo
Supremo, che è quello del Buddha”, cioè il Veicolo di mushotoku,
dello spirito libero da ogni oggetto, della pratica libera da ogni tecnica, che
diventa così realizzazione ad ogni istante. Se avete l’impressione che la vostra pratica non assomigli a questo insegnamento, cioè che non è in se stessa liberazione, allora osservate intimamente che cosa impedisce al vostro zazen di essere questa totale libertà e lasciatelo cadere. Ma se al contrario credete che la vostra pratica assomigli a questa liberazione, allora abbandonate l’idea di essere liberati, andate costantemente al di là dell’al di là di ogni attaccamento. E’ il senso della nostra pratica, questa la direzione.
Da: http://www.geocities.com/mokusho/hyakujo.htm
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