"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
L’equanimità è l’opposto
dell’attaccamento, è non-attaccamento. È una dimensione determinante del
sentiero interiore. Ovviamente, esistono diversi gradi di equanimità, ma anche
un’aspirazione, una sincera aspirazione verso di essa è già un inizio di vera
equanimità. Dunque, l’equanimità è l’anima del lavoro interiore, il cuore del
sentiero, il cuore della realizzazione e dell’adempimento. L’equanimità è
l’anima della presenza mentale che chiamiamo consapevolezza non-giudicante, cioè
una consapevolezza che tende all’equanimità. L’equanimità è il cuore della
saggezza, non si può guardare in profondità senza l’intimo equilibrio
dell’equanimità. E l’equanimità è anche il nucleo più profondo dell’amore, della
compassione, della gioia empatica.
Nell’insegnamento delle quattro dimore sublimi: metta, gentilezza
amorevole; karuna, compassione; mudita, gioia empatica; upekkha,
equanimità, l’equanimità viene per ultima, è l’ultima ad essere insegnata, come
per evidenziare che gli stati che la precedono, la gentilezza amorevole, la
compassione, la gioia empatica, non sono autentici se sono privi di equanimità.
Se è assente l’equanimità, può un sentimento di amorevole gentilezza essere
davvero incondizionato e privo di riserve? È impossibile. Non sarebbe
equilibrato. Si tratterebbe di una preferenza e non dell’apertura cui si allude
parlando di gentilezza amorevole incondizionata. Non possiamo nemmeno essere
sinceramente compassionevoli, se al cuore della nostra compassione non c’è una
reale presenza di equanimità. Saremmo identificati con la sofferenza, proveremmo
dispiacere, amarezza, cordoglio, commiserazione, ma tutto ciò non è compassione.
La compassione è una grande forza, perché è una combinazione di tenerezza e di
stabilità, la stabilità che proviene dall’equanimità.
Ci si può accostare all’equanimità attraverso tre stadi, ma ogni stadio può
anche essere praticato separatamente.
Il primo stadio riguarda la fiducia e la sfiducia. Se verifichiamo che c’è molto
scoraggiamento, molta sfiducia in noi stessi, o una tendenza generalizzata alla
sfiducia, è importante prima di tutto prenderci cura di questi sentimenti,
perché, per praticare l’equanimità, per generare equanimità, per svilupparla,
abbiamo bisogno di una base di fiducia, altrimenti risulta impossibile. Dunque,
ci proponiamo di osservare con gentilezza le onde di sfiducia, le onde di
scoraggiamento, che generano squilibrio e disorientamento, e minano la nostra
motivazione. Dobbiamo prenderci cura di queste onde di sfiducia, di
autosvalutazione, di scoraggiamento e per prima cosa praticare la vipassana.
Percepiamo con gentilezza e, se possibile, con tenerezza, la qualità di quest’onda
di sfiducia, cerchiamo veramente di incontrarla e di osservarla gentilmente. È
una cosa che facciamo raramente e alla quale non siamo affatto allenati. O ci
lasciamo sommergere dallo scoraggiamento e dalla sfiducia o cerchiamo di
respingerla e non di osservarla; mentre invece, nella nostra pratica, è
essenziale entrare in contatto, in intimità, con questi sentimenti, lavorando
seriamente a cambiare il nostro atteggiamento. Anziché rammaricarci di essere
scoraggiati, anziché biasimarci per il nostro scoraggiamento, ci dedichiamo a
osservare con gentilezza queste onde. E non dobbiamo esitare a infondere quanta
più gentilezza possiamo, a insinuare un tocco delicato, lieve, tenero.
È un atteggiamento completamente diverso di fronte alla sfiducia e allo
scoraggiamento, un atteggiamento che scardina alle radici l’identificazione,
ossia la nostra radicata tendenza a credere ciecamente ai pensieri e alle
conclusioni della sfiducia e dello scoraggiamento.
Dunque, io trovo che questo sia un lavoro essenziale, se vogliamo costruire
fondamenta che ci permettano di lavorare fruttuosamente allo sviluppo
dell’equanimità. Infatti, quando attivamente abbracciamo lo scoraggiamento e la
fiducia, succede che, almeno in parte, essi perdano il potere che hanno su di
noi. Ci sentiamo più liberi, anche se forse le onde di scoraggiamento ci fanno
ancora male. Tuttavia avvertiamo che ora possiamo intraprendere il cammino per
sviluppare l’equanimità.
Passiamo ora a quello che potremmo chiamare il secondo stadio, ma che può anche
essere il primo, se non dobbiamo lavorare preliminarmente allo scoraggiamento e
alla sfiducia. Il secondo stadio consiste nel portare la nostra capacità di
un’osservazione sempre più salda, sempre più gentile, su qualsiasi reattività,
su qualsiasi atteggiamento opposto all’equanimità, su qualsiasi momento di
avversione o di attaccamento. Talvolta, viene usato il termine ‘egoità’, per
sottolineare che il lavoro consiste nell’imparare ad osservare, sempre di più,
in modo sempre più accurato, e sempre più disteso, il sorgere dell’io-mio, che è
pura pratica di vipassana, e la pratica di vipassana è pratica di
equanimità.
Se lavoriamo in questo modo, rivolgiamo la nostra attenzione non-violenta in
particolare all’area della reattività, che è chiamata ‘il nemico lontano’, il
nemico antitetico dell’equanimità. Ma rivolgiamo l’osservazione anche a ogni
forma di indifferenza, che è tradizionalmente chiamata ‘il nemico prossimo’
dell’equanimità, ricordandoci che l’indifferenza è un indurimento, un’avversione
congelata e ricordandoci che, non di rado, per lavorare con l’indifferenza è
necessaria una buona capacità di investigazione.
Un’accresciuta energia investe la nostra motivazione, il nostro impegno,
allorché cominciamo ad assaporare momenti di vera equanimità, allorché
cominciamo a gustare la qualità speciale di libertà che si accompagna
all’equanimità. Si tratta di un primo assaggio della nostra libertà interiore,
che non dipende dalle condizioni esterne. È un profondissimo sollievo quando
cominciamo ad assaporarla e la nostra motivazione per la pratica del Dharma
cresce straordinariamente.
Più lavoriamo allo sviluppo dell’equanimità, e più la parola ‘rilassamento’
acquista un significato più vasto. Comprendiamo cosa possa essere un totale
rilassamento, anche se solo per pochi istanti, perché in generale pensiamo al
rilassamento come a un fenomeno fisico, ma il rilassamento può essere sia fisico
sia mentale. E può essere talora un’intuizione improvvisa e dirompente, perché
forse siamo stati contratti senza saperlo, per un’intera vita. E quando
cominciamo di nuovo a gustare qualche momento di vera distensione mentale, che
significa l’aprirsi del cuore, la forza di questa sensazione di sollievo ci fa
letteralmente trasalire.
Ci accorgiamo, allora, di quanta sofferenza crei la reattività, e più ce ne
accorgiamo e più diventiamo non-reattivi. Continuiamo, ogni volta di più, a
verificare la qualità separativa della reattività e generiamo quello che in
questa tradizione è chiamato ‘sereno disincanto’. Siamo sempre meno sedotti
dalla nostra reattività. Diventiamo più sereni. Sereno disincanto: meno
ipnotizzati dall’io-mio.
Quello che chiamo il terzo stadio è la pratica specifica del brahmavihara,
basata sul pronunciare alcune frasi, come negli altri brahmavihara.
Secondo la tradizione buddhista, quando si pratica upekkha, l’equanimità,
si porta alla mente qualcuno o se stessi e si pronuncia la frase: "La tua
felicità o infelicità non dipendono dai miei auspici, ma dalle tue intenzioni e
dalle tue azioni".
Dunque, noi auguriamo di cuore qualcosa a qualcuno, ma dobbiamo anche avere la
saggezza per comprendere che il nostro controllo sulle cose è molto limitato. E
in questo consiste l’equilibrio di upekkha, l’equilibrio dell’equanimità.
Possiamo anche usare un genere di frasi diverso, purché abbia la stessa forza
evocativa di equanimità. Possiamo pronunciare le frasi: "Che tu possa accettare
le cose così come sono, che tu possa accettare te stesso così come sei. Che io
possa accettarti così come sei. Che io possa accettare me stesso così come
sono".
Il Buddha ha spesso sottolineato la forza di un’intenzione chiara. Queste frasi
sono la formulazione di intenzioni chiare. La pratica dei brahmavihara,
in questo caso la pratica di upekkha, dell’equanimità, è basata
sull’attenta ripetizione di una, due o tre di queste frasi. Si tratta di
concentrarsi sulla ripetizione, la lenta e attenta ripetizione di queste frasi
colme di significato e di sostituire, sempre e di nuovo, alle proprie
proliferazioni queste chiare e positive intenzioni.
Si può praticare upekkha durante una seduta di meditazione, seguendo una
sequenza: si inizia da una persona neutra. "Che tu possa accettare le cose così
come sono. Che tu possa accettare te stesso così come sei. Che io possa
accettarti così come sei".
Si prosegue quindi con un benefattore, una persona cara, sé stessi, una persona
con cui si è in difficoltà, tutti gli esseri.
Si può praticare in modo formale, durante una seduta, o si può praticare in
azione e io personalmente raccomando vivamente la pratica in azione, in aggiunta
alla pratica formale. Nell’ambito dei corsi di meditazione abbiamo sperimentato
la pratica dell’equanimità nell’azione, ed è risultato estremamente utile, nel
corso delle nostre giornate più o meno affaccendate, tornare a quelle frasi:
"Che io possa accettarti così come sei. Che io possa accettarmi così come sono".
Accettare quello che c’è così com’è è una saggia rinuncia a ciò che non c’è.
Dunque, l’accettazione, il lasciar andare, la saggezza, la compassione, non sono
che diverse facce della stessa cosa. C’è una qualità particolarmente lenitiva,
non solo in uno stato mentale di equanimità pienamente sbocciata, ma, come già
si diceva, anche in una tranquilla aspirazione all’equanimità. È curativa, è
lenitiva, perché è un bisogno che costantemente reprimiamo, che costantemente
soffochiamo. E quando cominciamo a prenderci cura di questo bisogno, cominciamo
a respirare, veramente.
Il potenziale è all’interno, il potenziale è dentro di noi, e vuole essere
sviluppato, ci prega di essere sviluppato. È la nostra natura. La nostra vera
natura. E uno dei miracoli della pratica è che ci risvegliamo sempre di più a
questo potenziale che già possediamo e che ci chiede di essere sviluppato.
Dunque, che noi tutti si possa accettare noi stessi così come siamo, che
possiamo accettare gli altri così come sono. Che tutti gli esseri possano
accettare se stessi e gli altri esseri così come sono.