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Attaccamento ed equanimità
È ovvio che proprio perché si tratta di temi importanti e complessi non è possibile che vengano esauriti in un tempo così circoscritto.
L'attaccamento porta sofferenza ed è comunque
una cosa sbagliata. Ma come si fa a non essere attaccati a un figlio o alla
vita? Come riconoscere dove confina un giusto amore con l'attaccamento? Possiamo poi immaginare una forma intermedia, in cui c'è amore di attaccamento ma c'è anche una forma molto diversa di amore, ovvero l'amore di sollecitudine: che ci induce anzitutto a dare tempo ed energia per la crescita dell'altro. Qualcosa di molto attivo, non basato sulla paura e sull'identificazione, come è invece l'attaccamento. Oppure possiamo pensare a un'ulteriore situazione, certamente più rara, in cui l'amore di sollecitudine è quello che prevale.
Dato che questa problematica viene posta di frequente, mi è venuto da riflettere sul fatto che a volte sembra che chi fa questo tipo di domande, pensi: "È estremamente chiaro quello che è l'attaccamento, mi rimane da risolvere questo dubbio: e con un figlio come la mettiamo? Per il resto è tutto chiaro".
Perciò vorrei prendere lo spunto - avrete
notato come noi insegnanti insistiamo molto sui temi dell'attaccamento,
dell'avversione, eccetera - per dire che l'attaccamento in realtà è un po' come
un pianeta sommerso che attraverso la pratica è tutto da scoprire. Noi
immaginiamo di conoscere più o meno, all'ottanta per cento, le storie, l'entità
dei nostri attaccamenti. Può darsi che noi conosciamo la dolorosità insita in alcune delle nostre abitudini, ma altre, più sottili, non le conosciamo e le scopriamo proprio in virtù della pratica: piano piano il pianeta sommerso dell'attaccamento ci si rivela, con i frutti di conoscenza e di liberazione che questo comporta. È quindi certamente importante comprendere la differenza tra attaccamento e amore di sollecitudine, ma, messo in chiaro questo, deve cominciare il lungo viaggio della pratica per incontrare, capire e trascendere tanti nostri attaccamenti.
Questo tema è molto importante. Nella vita quotidiana le Quattro Dimore Sublimi, i quattro brahmavihara - metta, karuna, mudita, upekkha - sono ottimi agganci. Anche praticate in maniera informale, secondo modalità sintetiche e ridotte, sono ottimi modi di ricordarci della pratica del Dharma, dell'essere presenti qui e ora, di quello che conta. Quindi raccomando sempre la pratica di metta o di karuna o di mudita o di upekkha, non solo nelle sedute, ma anche in azione. E sono contento ogni volta che mi viene data l'occasione di raccomandarlo di nuovo, perché è una pratica di una importanza estrema, oltre a essere di grande bellezza. Un altro modo è quello di praticare con il 'respiro in azione', cioè ricordandoci della possibilità di essere attenti al respiro anche quando siamo in azione. Ovviamente non si può pretendere grande continuità in questo, ma, come molti di voi sanno, bastano a volte uno o due respiri consapevoli, per rinvenire alla consapevolezza da uno stato di confusione o di reattività. Un terzo punto che vorrei sottolineare è la possibilità di rifarsi al corpo: se stiamo camminando, attraverso la consapevolezza del camminare, se stiamo seduti, attraverso la consapevolezza dei punti di contatto sulla sedia. Richiamarsi al corpo, a parti del corpo, ci rende più vivi, è un varco abbastanza immediato per la consapevolezza. Un ulteriore punto tra i vari possibili è la consapevolezza delle nostre emozioni negative, della nostra tendenza giudicante (ossia compulsivamente critica e censoria), della nostra reattività, cioè di tutti i momenti in cui proviamo emozioni negative, come frustrazione, rabbia, paura, anche se molto piccole. Anzi, meglio se molto piccole, perché sono più facili da investire con la consapevolezza rispetto a quelle molto potenti.
Le piccole frustrazioni, i piccoli disappunti
sono di grande utilità per addestrare la consapevolezza, perché il grande
disappunto è come una grande onda che ci travolge e magari quando ci ricordiamo
della pratica siamo già scoraggiati, per cui la pratica ci cade di mano,
l'andiamo a raccogliere esitanti e ci ricade di mano un'altra volta. Se invece
stiamo davanti a qualcosa di più piccolo e modesto l'addestramento è più
possibile.
Con la pratica da una parte sento sempre di più che le chiavi per la felicità sono dentro di me, dall'altra sono sempre più cosciente di un qualcosa di insostituibile che avviene nel rapporto tra insegnante e studente, al di là dell'insegnamento di tecniche o nozioni. Potresti dire qualcosa riguardo al rapporto, all'importanza dell'insegnante nella pratica?
Quindi si tende più a un rapporto di
amicizia-guida spirituale, piuttosto che a un rapporto più 'regale', che è
invece tipico dei sistemi in cui il maestro è centrale.
Diciamo però che costituiscono l'eccezione e
quindi la grandissima maggioranza degli aspiranti spirituali ha un serio bisogno
di guida per camminare nel sentiero. Altre volte sentiamo che un insegnante ci può dare cose importanti nell'ambito del cammino, ma abbiamo molta paura che se ci affidiamo a questa persona, poi non siamo più liberi. In realtà si sono verificati casi in cui un cieco abbandono a personaggi che poi si sono rivelati tutt'altro che spirituali ha creato molto dolore. Quindi la cautela è sempre ragionevole. Però se la cautela è, piuttosto, un timore costante, se davanti a qualsiasi figura di guida sentiamo questa paura di darci, perché pensiamo che se ci diamo poi siamo finiti, allora c'è un nodo psicologico da investigare. Si possono dire tante cose in questo campo, per esempio la nascita della gratitudine per chi ci ha insegnato qualcosa di importante. Questa gratitudine da un lato è personale, ma se il nostro è un vero rapporto di Dharma, se la persona è un vero insegnante di Dharma e noi siamo dei veri studenti di Dharma, questa gratitudine diventa più ampia, cioè passa dalla gratitudine alla persona, a una gratitudine al Dharma, al fatto che esiste la possibilità della liberazione. Questo passaggio dal personalistico al più ampio, mi pare molto specifico di un percorso spirituale e anche questo è un segno della 'dharmicità' sia dell'insegnante sia dello studente e della sua maturazione. Per riassumere, la questione è di tale complessità e delicatezza che non può in nessun modo essere semplificata: bisogna travagliarsi un po' nella ricerca di chi da un lato sia qualificato a insegnare e dall'altro ci sia in qualche modo affine, perché possiamo stare davanti a ottimi insegnanti ma non sentirli affini. E possiamo magari stare davanti a insegnanti meno famosi e sentirli più affini a noi e allora proprio da questi possiamo prendere di più.
Tante volte in questi giorni si è parlato del giudicarsi, del dubbio su se stessi, cioè del contrario di perdonarsi, di come sia frequente questo atteggiamento di svalutazione di sé, di sfiducia in se stessi. È un tema cruciale. Da un lato lo è sempre stato, ma forse oggi c'è qualche cosa in più. Sono finite o stanno finendo le società tradizionali, nelle quali c'è una gran quantità di supporti per ogni individuo, dai ruoli ai riti, eccetera. Oggi l'individuo è più libero di scegliersi la propria vita, ma è molto più privo di supporti, di punti di riferimento e questo aumenta l'ansia, la sfiducia, la facilità a sentire di non valere, con tutto il disorientamento che questo comporta. Tutto il cammino della pratica, poiché ci porta gradualmente a cogliere qualche cosa di grande valore che è dentro di noi, e che, al tempo stesso, non è personale, va nella direzione di ingenerare fiducia, sia nel senso di fiducia in se stessi, sia in un senso più grande, di fiducia incondizionata, radicale. E questo senso di fiducia si manifesterà anche come capacità di perdonarci, e dunque di essere meno giudicanti, innanzitutto verso di noi e di conseguenza, organicamente, verso gli altri. Poi naturalmente, oltre a coltivare la nostra pratica abituale, possiamo prendere iniziative specifiche: rivolgere la metta verso noi stessi e rivolgere parole di perdono esplicite verso noi stessi. Anche questa è una vera e propria pratica: rivolgere parole di perdono verso noi stessi. È un aiuto. Però senza il fondamento di una pratica che va avanti un mese dopo l'altro, un anno dopo l'altro, è difficile che queste cose possano andare in profondità; infatti il condizionamento della nostra mente è molto forte e di esso fa parte, non di rado, la facilità ad autodisprezzarci: non è una tendenza di cui ci liberiamo tanto facilmente. Occorre dunque da un lato il lavoro lungo e paziente della pratica nel suo complesso, dall'altro occorre una pratica specifica: la metta verso di sé, il perdono verso di sé.
C'è bisogno di tutto questo per aiutarci a
sviluppare una comprensione sempre più profonda di quanto inutilmente doloroso
sia il nutrire l'avversione per noi e per altri. Tale comprensione ci porta in
primo luogo a riconoscere l'odio per se stessi. Poi a comprendere quale carico
di dolore ciò porti con sé e poi - per usare la terminologia del buddhismo
classico - a concepire un sereno disincanto nei confronti di questa tendenza
negativa che ci abita. Accettazione è un nome che la spiritualità contemporanea, non soltanto buddhista, usa per indicare dimensioni che, nel linguaggio spirituale classico, sono indicate con equanimità e pazienza, in campo buddhista, e con abbandono, umiltà e pazienza, in campo cristiano. Oggi si usa molto la parola accettazione, che da un lato ha il pregio di essere una parola meno logora, dall'altro ha il difetto di potersi confondere con quello che non ha niente a che fare con l'accettazione, ossia la passività. Ma quale virtù particolare potrebbe esserci nella passività? La passività fa capo alla paura, la quale è un 'oggetto' da investigare seriamente con la pratica della consapevolezza. L'accettazione è un atto di coraggio, la passività è un atto di paura. L'accettazione non significa né subire a tutti i costi, né inghiottire, ma, davanti a una ingiustizia, significa la consapevolezza del turbine interno che questa ci suscita e quindi la capacità di rispondere a essa, non da una dimensione di reattività (che crea solo un'altra ingiustizia), ma di equanimità e di accettazione. Ora, avere come punto di partenza l'accettazione invece della reattività rende molto più alte le probabilità di rispondere con un'azione giusta, non violenta e giusta. Da tutto ciò si può comprendere come l'accettazione sia esattamente il contrario della passività. L'accettazione, il calore, la tenerezza, sono parti integranti della consapevolezza che si sviluppa. Tanto che noi possiamo definire la consapevolezza come una dimensione discernente e accettante, che ha insieme luce e calore, soprattutto quando si sviluppa e matura.
Upekkha, l'equanimità, è fondamentale per gli
altri tre brahmavihara, è alla base della benevolenza (metta), della compassione
(karuna), della gioia compartecipe (mudita). Quando si parla di metta si intende una capacità di benevolenza sempre più incondizionata, ma se non abbiamo uno sfondo di equanimità non potrà essere incondizionata e sarà basata invece su preferenze. La metta, invece, deve essere sempre più qualcosa che abbraccia tutti allo stesso modo. Anche la compassione, se non ha una forte base di equanimità, non è la compassione vera, serena, dotata di una specifica forza di sostegno: è, piuttosto, cordoglio, angoscia e smarrimento per il dolore altrui. È realmente ciascuno "possessore del proprio karma?" Può realmente la felicità di ciascuno dipendere solo dalle proprie azioni? È un'idea che istintivamente rifiuto. Il bambino che vive vicino alla centrale elettrica e per questo ha contratto una malattia ai polmoni, quale responsabilità può avere? Non si preclude la sua felicità a causa della malattia, ma certo essa è più difficile. Sono portato a credere che la responsabilità e la felicità di tutti sia condivisa, ciò mi fa sentire anche meno impotente di fronte alla infelicità e alla malattia altrui. Non mi trovo bene con le frasi tradizionali sull'equanimità, per il semplice fatto che non le posso sperimentare in prima persona, come suggerisce il Buddha.
L'infelicità di alcune persone mi sembra anche causata dalle azioni di altri, vedi violenze subite in tenera età. Devo per forza credere a vite precedenti, o ci sono forme meno tradizionali di coltivare l'equanimità senza ricorrere alla parola karma?
La meditazione di equanimità è basata su
affermazioni e non su un augurio. Tali affermazioni mi lasciano però confuso.
Che vuol dire "io possiedo il mio karma"? Se tutto è interconnesso e non esiste
nulla a sé stante, nulla di io-mio, in che senso il karma è posseduto?
Cercherò di dire qualcosa di essenziale su
questa tema. Anzitutto esistono frasi meno tradizionali di upekkha e sono state
menzionate anche queste; ad esempio: "Che tu possa accettare te stesso così come
sei", "Che tutti gli esseri possano accettare le cose così come sono". Anche
queste sono perfette frasi di equanimità, che tuttavia non coinvolgono il karma.
Queste azioni creano infelicità e richiedono molto tempo per essere viste e comprese, e perché scatti il disincanto nei loro confronti, perché si diventi meno ipnotizzati e meno assuefatti a esse.
Allora la pratica, la dottrina dell'upekkha,
dell'equanimità, comincia anzitutto a richiamarci a una responsabilità nei
confronti delle nostre azioni, intese in questo senso globale. Ma per questo
bisogna conoscere e comprendere come queste azioni funzionano ed essere capaci
di accedere a una progressiva liberazione da quelle negative.
Allora il mio punto di partenza è quello di
una persona menomata a causa di un brutto incidente stradale, in cui io non ho
alcuna responsabilità. Bene, in ambito di pratica da questo punto di partenza si
possono sviluppare due tragitti completamente diversi.
È pure vero che nella teoria completa del
karma si dice anche che se io sono oggetto di un incidente, questo ha a che fare
con qualcosa che io ho fatto in vite precedenti. Ma mentre questa è una
credenza, la comprensione del karma qui e ora, in questa vita, è un'esperienza
di portata notevole quanto a capacità trasformante.
Questo è il nucleo portante della dottrina del
karma. Poi il buddhismo ci dice che il karma si estende oltre una vita - e a me
questa sembra un'ipotesi importante - ma quello che è fondamentale dal punto di
vista della pratica è lavorare col karma ora qui. La dottrina antica relativa al karma sostanzialmente dice che noi compiamo in questa vita azioni - karma significa azione - ancora una volta, fisiche, vocali e mentali, che producono un'energia. Quando moriamo questa energia prodotta non muore, ma continua e foggia in qualche maniera un altro individuo. Allora questo individuo è lo stesso o è un altro? La scuola antica dice: è lo stesso ed è un altro. Allora a rigori non mi sembra che si possa parlare letteralmente di una persona che possiede il karma, poiché questa persona si dice è la stessa, ma anche che non è la stessa, per cui la frase tradizionale verosimilmente è solo una modalità di esprimere qualcosa di complesso: "Siamo possessori del nostro karma, siamo eredi del nostro karma", quindi è soprattutto un richiamo alla responsabilità, cioè alla comprensione saggia e compassionevole delle azioni mentali, vocali e fisiche che compiamo.
Che cosa dobbiamo comprendere, l'impermanenza o la sua cessazione?
La comprensione sempre più vissuta, intuitiva, cioè non intellettuale o razionale, dell'impermanenza, del carattere cangiante e fluttuante delle cose, è molto importante. Questa comprensione deve avere come suo effetto evidente non un minor rapporto con la vita, ma un maggior rapporto con la vita. Perché comprendendo l'impermanenza, il fluttuare continuo delle cose, tendiamo meno ad attaccarci, a solidificare, a identificarci, quindi c'è meno sofferenza, più contatto con la vita e più apprezzamento. Se invece, poiché tutto è impermanente, per noi la vita perde di significato, non abbiamo capito l'impermanenza, siamo semplicemente depressi.
Quindi entrambe le cose sono importanti, ma quella più accessibile è una comprensione sempre più vissuta dell'impermanenza.
Da: http://xoomer.virgilio.it/karuna/cp-attaccamento%20ed%20equa.htm
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