"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
Con queste riflessioni, che desidero sottoporre alla vostra
attenzione, è mia intenzione cercare di penetrare, possibilmente in profondità e
nei vari meandri quella ricca e variegata significanza che è celata dietro il
termine ESICASMO, detto anche la “Preghiera del Cuore”.
L’esistenza di una mistica del Nome divino è abbastanza conosciuta presso le
varie tradizioni spirituali dei vari popoli; è a tutti noto che il “Nome” ha un
rilievo del tutto particolare nel Vecchio Testamento, dove acquista una
indiscussa funzione di “Rivelazione” e di “Manifestazione” di tutto quello che
non può essere esprimibile con il normale linguaggio umano.
Ma una vera e propria “Teologia del Nome” la troviamo nel Nuovo Testamento, ad
esempio negli Atti (2, 21 e 4, 12) ed in S. Paolo (Rom. 10, 12-13); sembra quasi
di trovarsi di fronte all’applicazione del passo evangelico di Giovanni: “Padre
glorifica il tuo Nome” (Gio. 12, 28) che comporta una esegesi tesa ad
identificarlo con il Cristo, cioè la Rivelazione per eccellenza.
La teologia del Nome è notevolmente sviluppata nella 1 Lettera di Clemente:
concedi a noi di essere soggetti al tuo Nome onnipotente ed eccellentissimo” ed
è parte integrante ed essenziale del Pastore di Erma in cui le espressioni
“portare il Nome” oppure “ricevere il Nome” vengono accostate al rito della
“rinascita battesimale”: “se porti il suo Nome, ma non hai le sue virtù, a nulla
ciò ti gioverà, infatti le. pietre che hai visto scartare avevano il Nome, ma
non indossavano l’abito delle vergini” (Sim. IX, 13, 2- 3).
È interessante notare che anche presso S. Simeone, il Nuovo Teologo, si trova la
dottrina che accosta il Nome, il “Carisma dei Santi”, a un arcaico rituale della
“vestizione” dell’abito monastico come elementi centrali dell’antico Esicasmo.
Questa dottrina si trova anche nel Cristianesimo delle origini, dove la
questione del battesimo e della vestizione dell’abito bianco relativa alla
“rinascita”, che si opera appunto nel rito stesso, ha una particolare
centralità.
L’invocazione del Santo Nome è intrinseco a tutti gli antichi movimenti
spirituali, fino al momento in cui nella cerchia dei monaci bizantini è
formalmente presente come tecnica di meditazione che prolunga l’uso rituale
delle mistiche giaculatorie dei Padri.
Forse le radici dell’invocazione del Santo Nome si ritrovano
nell’interiorizzazione rituale che diventa preghiera tra gli asceti del deserto;
la preghiera, infatti, costituisce non un semplice “atteggiamento” di
adorazione, ma uno stato di ascolto, di percezione del Nome divino che è
“teologia” e “conoscenza” di Dio, che é contemplazione dell’Ineffabile per il
tramiate della Sua essenza che svela se stessa nell’arcano del cuore umano.
Evagrio ci dice: “la preghiera è una conversazione dell’intelletto con Dio”, gli
fa eco S. Macario l’Egiziano dicendo: “l’inesprimibile ed incomprensibile Dio si
è abbassato: nella sua bontà ha rivestito le membra del corpo ed ha posto lui
stesso un limite alla sua gloria, nella sua clemenza e nel suo amore per gli
uomini si trasforma e s’incarna, si unisce profondamente ai Santi, ai pii, ai
fedeli e diviene uno stesso Spirito con essi”.
L’importanza dell’invocazione del Nome divino sta proprio in questo valore
rituale, nell’intrinseca capacità di trasformare “in interiore” il senso di
tutte le altre preghiere e funzioni sacre.
La preghiera di Gesù assume un valore direi universale per la “presenza” che
essa veicola ed anche per la “Rivelazione” divina che in essa è contenuta; il
nome di Gesù assume un carattere di Totalità perché unifica il Divino e l’umano,
partecipa alla natura dell’archetipo universale nelle sue due “dimensioni”:
l’infinita e la finita, trovando nel Cristo la sintesi misteriosa ed ineffabile.
Perciò l’invocazione del Nome permette una partecipazione reale, metodica ed
attiva dalla “essenzialità” divina, che si traduce in un’azione creativa della
Grazia unificante le “potenze” dell’orante e lo conduce alla scoperta del “Dio
in noi” testamentario, come dice S. Giovanni Crisostomo: “persevera senza sosta
nel Nome di Nostro Signore Gesù, affinché il tuo cuore beva il Signore e che il
Signore beva il tuo cuore, e cosi i due diventino uno”.
È facile capire che cosi articolata la preghiera di Gesù, nell’ambito della
élite esicasta, rappresenta un vero e proprio aspetto “realizzativo del
sacramento eucaristico”, quando si hanno tutte le condizioni indispensabili fra
le quali la trasmissione regolare da parte di un Maestro della formula sacra, la
cui invocazione acquista una “impronta” non presente in una semplice funzione
sacra.
La tradizione esicasta permane in seno al Cristianesimo Orientale non certamente
per un caso fortuito, bensì è il frutto di una precisa azione “provvidenziale”,
può considerarsi il vero “cuore” del monachesimo ortodosso.
Questa tradizione è rintracciabile nei Padri del deserto che attraverso S.
Gregorio giunge fino a S. Giovanni Climaco che sul Sinai attesta lo stretto
legame tra il Nome ed il respiro; custodita, poi, tra gli asceti del Monte Athos
troverà in S. Gregorio Palamas colui che darà una precisa ed articolata
“teologia” esicasta”, nella quale molti monaci hanno ritrovato il vero
significato della propria silenziosa esperienza.
D’altra parte il termine “hesychia” in greco significa quiete, si allude cioè a
quella quiete che è “silenzio”, cessazione di ogni tensione, che è “apertura e
disposizione” a farsi permeare dall’influsso dello Spirito di Dio.
Questo stato di quiete designa contemporaneamente due diverse esperienze: la
prima è relativa a chi tende ad abbandonare il mondo e allude ad una uscita dal
transeunte, la seconda è il raggiungimento della meta stessa, cioè la pace
interiorizzata.
Questa designa il grado di partecipazione “eucaristica” del monaco, è il “punto”
in cui egli ha trasformato il rituale e la vita culturale in ritmo interiore,
nel quale “vive” il Nome stesso del Creatore, cioè la Sua Misericordia resa
“operante” dal simbolo pentecostale.
La condizione idonea perché possa realizzarsi lo “status operandi” è sempre
stata indicata nella fuga, in altre parole è il distacco anche fisico dalle
apparenze illusorie del mondo che, non va dimenticato, condizionano tutta la
vita interiore in maniera, direi, determinante.
È una fuga, un distacco dagli uomini, addirittura dalla stessa comunità monacale
che si spinge fino al rifiuto di avere discepoli, la stessa, sul piano interiore
è una fuga da se stessi, da ciò che è ancora umano, personale ed egoistico.
È quindi una tensione costante alla ricerca dell’incontro con Dio che è unità,
è la scoperta del mistero della condizione di “Figli di Dio”, ed i simboli
evangelici del “deserto” e della “montagna” qui esprimono come apparente
contrapposizione: “morte e rinascita”, “dispersione ed unità”.
È comunque vero che se il ritiro nel deserto prefigura la “morte”, la sparizione
dell’individualità profana, esso è solo la proiezione vissuta di una condizione
interiore del monaco, nella quale egli mette a tacere oltre alle tensioni e
conseguenti reazioni, che fanno percepire il mondo nella sua apparente dualità e
molteplicità, anche tutti gli stati psichici che danno origine alle suddette
contrapposizioni.
Tutto quel vasto ed articolato complesso di sensazioni che siesprimono
nella sfera della vita psichica, causa determinante per ogni uomo della sua
specificità ed individualità, viene “abbandonato” rifiutato in quello stato di
solitudine.
Questa solitudine, infatti, interiormente si esprime con il silenzio, con il
ridurre tutto all’essenzialità di ogni gesto comunicativo, alla cessazione di
ogni tensione espressiva.
Ma questa solitudine, questo silenzio, non ha solo l’aspetto “negativo” ma
rivela anche una dimensione positiva ed attiva se viene “usato” dall’esicasta
quando vuole annullare un’altra contrapposizione: “soggetto-oggetto”.
Il silenzio diventa cosi un precetto di raccoglimento, di unificazione, dove gli
stessi rapporti logico-mentali, nei quali la preghiera costituisce l’oggetto da
meditare, diventano un’unità liturgica che è orazione continua, è ritmo e
salmodia nella quale non vi è più il monaco che desidera pregare, ma vivendo la
condizione dello “status orandi” è una fusione impersonale del sovrannaturale
(l’orazione) con l’elemento umano (il monaco).
Questi monaci si possono considerare veri e propri “pellegrini in terra”, si
sentono cittadini del “Regnum”, la loro presenza nel mondo si può assimilare a
quella degli antichi profeti, incarnazioni viventi della misericordia di Dio,
vera e propria carità che veicolata per il loro tramite nel mondo mediante una
testimonianza che in realtà è una “offerta sacrificale” per la redenzione del
mondo.
Essendo creato ad immagine e somiglianza di Dio, l’uomo è quel microcosmo che
sintetizza in sé tutti i piani dell’essere del mondo, della manifestazione.
Il punto di equilibrio spirituale, il centro di questo universo è il cuore, esso
non va confuso con la sede degli impulsi e delle emozioni, anzi nell’esperienza
esicasta si ha la vera percezione del “cuore” quando si è raggiunto un grado di
purificazione delle limitazioni umane sufficiente a delimitare in un ristretto
ambito le percezioni sensoriali.
Con l’appellativo di “altare di Dio”, il cuore è la naturale sede della Presenza
divina nell’umano, è quindi l’organo per eccellenza della conoscenza spirituale,
è il punto di confluenza e di unione del sovrannaturale con il naturale.
È possibile percepire la presenza del “Padre tuo che è nel segreto” come dice
Matteo, quando nel centro spirituale dell’uomo apertosi sul cuore, si trova il
nome di Gesù in virtù di una costante preghiera della quale quel Nome, appunto,
costituisce il centro e la vera ragion d’essere.
Incentrata sulla ripetizione ritmica della formula “Signore Gesù, figlio di Dio,
abbi pietà di me” questa preghiera tende a focalizzare nel cuore l’attenzione
dell’orante, “svegliando” dentro di sé i contenuti dogmatici presenti in essa.
È’ un vero e proprio “ricordo” di una condizione metafisica, che abolisce ogni
condizionamento temporale e fa “agire”, svegliandole, le Virtù divine che il
Nome veicola.
Come ci fa notare Evdokimov, l’invocazione del Nome contiene tutti gli elementi
costitutivi della tradizione cristiana, per cui il riconoscimento della signoria
del Cristo, la filiazione divina e la Sua incarnazione, permettono la giusta
“apertura” escatologica e quindi la percezione del mistero trinitario che è
l’essenzialità più profonda e misteriosa.
Un altro aspetto dell’invocazione è di pertinenza della creatura, la quale
rinuncia ai suoi limiti umani, riconosce il proprio stato ed implora il perdono
misericordioso di Dio.
È con questa predisposizione che può comprendere il principio e la fine della
creazione, pertanto è, con gli elementi che costituiscono l’invocazione, che si
riuniscono il Creatore e la creatura riscattata e ne configurano la Gloria
trasfigurante.
Non va dimenticato quanto asserisce S. Gregorio Palamas a proposito de1 corpo
che non costituisce una oscura e, certamente, non gratificante prigione dello
spirito, ma anzi è il ricettacolo del divino, il quale “poiché è confuso in noi
ed esiste in noi, illumina l’anima proprio dal di dentro”.
Nella quotidiana esperienza umana il fluire delle sensazioni, delle percezioni
logico-mentali, determina una continua mobilità ed agitazione del corpo che vive
nel disordine del continuo divenire, che altera l’equilibrio delle potenze
dell’anima.
L’esicasta, pertanto, tende ad instaurare nel proprio corpo una condizione di
quiete che è l’equivalente della “fuga” in precedenza citata, è necessario
ricondurre il corpo alla stasi, ad una condizione di cessazione dei moti
psicofisici per trovare l’equilibrio che “ferma” le correnti animiche che si
esprimono nel continuo movimento del corpo.
In realtà questo placarsi del continuo divenire è già insito nella posizione
dell’orazione, imprimendo una condizione ieratica simile a quella delle sacre
icone, la quale “ferma” un archetipo e fa nascere nell’orante l’impronta eterna
di Dio.
Dai diversi testi, si può apprendere che il monaco orante deve ritirarsi in un
luogo appartato, sedere su uno sgabello abbastanza basso, appoggiare il mento
sul petto con tutto il corpo curvato in avanti ed in quella posizione portare
tutta la sua attenzione sull’ombelico; infatti ci dice Simeone il Giovane: “il
mento ti si configga bene al petto, volgi il tuo occhio sensibile con la intera
tua mente al mezzo della tua pancia, all’ombelico”.
Questa posizione, forse un po’ strana, è presente in altre forme religiose: come
nello sciamanesimo cinese, nella mistica ebraica della merkavà e nella
tradizione talmudica; queste ultime forse sono il perpetuarsi e l’esplicitarsi
delle pratiche che hanno il loro archetipo nella preghiera del profeta Elia sul
monte Carmelo, profeta che, certamente, rappresenta una figura di primo piano
del monachesimo esicasta.
Concentrare il pensiero e gli stessi occhi sull’ombelico è condurre la volontà
alla ricerca del “centro” del corpo, il centro è l’asse da cui si diparte
l’equilibrio dell’uomo; bisogna tuttavia distinguere questo “centro” da quello
del cuore dove viene a scoprirsi, come si è già detto, l’ “altare di Dio”.
L’ombelico infatti è da intendersi come il centro più propriamente psichico
dell’essere umano; portare in modo costruttivo la propria attenzione in esso,
propizia l’acquietarsi fino alla cessazione della sete di divagazione e
dispersione, è lo spegnimento del fuoco che alimenta le passioni, è la
riconversione della loro potenza in fiamma di amore e conoscenza di ordine
superiore.
È necessario ed insostituibile affinare il metodo che mira a non annullare in
modo coercitivo le passioni, bensì a trasformare quella forza neutra ed abissale
che è alla base di esse in potenza, che l’asceta durante la meditazione utilizza
per la sua purità in un mondo di pure potenze interiori.
È scoprire la forza pura dell’intelletto, che dissolve la nebbia
dell’attaccamento alle cose, agli esseri, alle proprie illusioni oltre che a se
stessi e fa scoprire la cristallina gioia di una contemplazione pura, in un
particolare rapporto di conoscenza, non più mediata dalle costruzioni
logico-mentali.
Un altro aspetto molto importante è la regolarizzazione del respiro che porta a
ottenere lo stato adatto a propiziare la “scoperta” prima detta.
A dare una chiara indicazione sull’esistenza di precise tecniche di controllo
del respiro è S. Giovanni Climaco, che cosi ci dice: “che il ricordo di Gesù sia
unito al tuo respiro, e allora capirai l’utilità della solitudine”.
Questa tecnica del controllo del respiro non è una mera ginnastica fisiologica,
bensì un mezzo per realizzare quella sinergia con le stesse parole della
invocazione del Nome, fino al punto in cui la sacra formula viene essa stessa
respirata scandendone i ritmi con le pulsazioni del cuore, cioè il centro
spirituale dell’uomo.
Cosi attestano i racconti di un pellegrino russo: “sentii che la preghiera
passava direttamente nel mio cuore, ossia che il cuore, battendo regolarmente,
in qualche modo si metteva egli stesso a recitare le parole sante ad ogni
battito”.
Tutto questo presuppone il superamento della “realtà” corporea, l’apertura
dell’occhio della mente rivolto alla parte piùinterna dell’uomo che si
attua grazie ed in virtù di quei legami strettissimi che esistono fra la
respirazione, la circolazione del sangue ed i processi “animici” che si
sviluppano nell’essere umano.
Per dirla con E. Zolla: “la respirazione esicastica riproduce, in senso opposto
ed ascensivo, l’attività cosmologica divina: quando espira, Dio crea il mondo,
lo plasma, lo trae in essere; quando inspira riassorbe il mondo, lo riprende.”
L’esicasta, secondo quanto è detto nella parte finale della giaculatoria, dovrà
perciò inspirare per ricevere il Nome di Gesù ed espirare per cacciare il
peccatore.
L’esperienza quotidiana è impregnata di una quantità di percezioni e di
sensazioni che si mescolano alle immagini insorgenti dalla vasta area
dell’affettività, determinandone l’attività vitale, coerente, ovviamente, con le
“tendenze” di colui che percepisce una tale esperienza.
Queste “tendenze” sono messaggere di stati di coscienza, associazioni di idee,
relazioni logiche, e tutte insieme formano la normale vita psicomotoria dello
uomo odierno.
In questo articolato caleidoscopio psico-percettivo, è necessario inserire
ancora quelle inclinazioni ed eredità connaturate, che la “memoria” gelosamente
custodisce e conserva, ottenendo come risultante da tutta questa congerie quel
pensiero che, come una scimmia impazzita, non è possibile “fermare” e
controllare.
Il pensiero cosi strutturato crea dei “nodi” che presiedono alle formulazioni
logiche, ingabbia ogni pensiero unificato e non permette cosi all’essere umano
di sottrarsi a quella rete di catene mentali che riducono la creatività fino ad
annullarla.
Ne consegue che ogni giudizio è necessariamente “legato”, quindi il suo nascere
è già condizionato dalla stessa condizione percettiva che mette in moto altre
associazioni e giudizi, facendo nascere ulteriori “coaguli o nodi” secondari,
che a loro volta determinano dei giudizi di valore, tali da rendere del tutto
impossibili ogni vera attenzione ed ulteriore concentrazione.
Credo, comunque, che tutto questo “stato depressivo” e teso all’esteriore sia il
risultato di un subdolo condizionamento che il nostro corpo mentale riceve dalla
nostra struttura psichica.
Per poter uscire da questo stato “errante” è necessario che il nostro pensiero
ritorni in quella “zona” nella quale non si produce più associazioni, rapporti
logici o pseudo tali; si tratta di svincolarlo da ogni attaccamento,
riportandolo a quella “nudità” ed essenzialità che lo rende puro pensiero, il
quale unifica il campo della coscienza dispersa.
L’azione sul pensiero non è solo frutto di una attitudine ascetica, ma è basata
su una precisa dottrina della “teoria della Parola” e scaturisce dalla
riflessione sulla teologia del Verbo.
Verbo che trova nel pensiero e nella parola umana il suo pallido riflesso senza
luce e senza calore, che si cristallizza nell’articolazione della logica e dei
suoni.
Questa teoria ha la sua origine mistica, ancora una volta, nella dottrina del
Nome divino quale “incontro” dell’Infinito con il finito, dell’Eterno con il
temporale ed umano.
Questa particolare, articolata e continua invocazione del Nome di Gesù non è
certamente frutto di un atteggiamento episodico ma, piuttosto, una concreta e
completa dottrina trasmessa dai Padri; infatti presuppone un “metodo”, cioè una
particolare disciplina sempre identica a se stessa, seppure adottata ad ogni
orante, che i maestri spirituali hanno trasmesso, attraverso i secoli, per vie
non sempre coincidenti con la normale prassi sacramentale.
Infatti S. Simeone, il Nuovo Teologo, parla esplicitamente di rito con
“imposizioni delle mani”, che è il mezzo veicolante, da maestro a discepolo
dell’influenza divina cioè della presenza dello “Spirito Santo”.
Questo rito si distingue da quello del battesimo e acquista uno spessore
iniziatico perché va ricordato che una tale trasmissione, non elargita
indistintamente a tutti i monaci, è fatta risalire ad una catena ininterrotta di
“Dispensatori di Grazia”, di Santi Uomini Illuminati.
L’essere esicasta comporta pertanto due modalità, due momenti: il ricevere la
trasmissione della Santa Grazia con le rispettive giaculatorie ed il loro uso
“tecnico” per il concreto risveglio interiore del monaco.
Questa tecnica si basa sulla conoscenza fisiologica occulta dell’uomo, nel corpo
del quale vengono riconosciuti alcuni “centri” sui quali la particolare
attenzione agisce come mezzo per staccare il pensiero da ogni forma di
attaccamento, quindi intervenendo direttamente sui “nodi” che presiedono la sua
attività e sulle sue formulazioni.
L’esicasta, per svincolare il pensiero da ogni attaccamento, porta la sua
attenzione su quattro particolari centri occulti che sono: Regione
cerebro-frontale, Laringe, Splenica, Cardiaca; ognuno di questi punti è
l’espressione di uno “status” intellettuale e di purificazione a cui l’esicasta
si porta.
L’asceta cosi facendo è in grado di sperimentare la conoscenza da cui scaturisce
e si articola il pensiero e di liberarsi da tutte le sue implicazioni, nonché
dalla sua tensione comunicativa.
Le esperienze che l’esicasta prova localizzando la sua attenzione sui quattro
centri sono le seguenti:
1) Regione cerebro-frontale: è la sede nella quale il pensiero agisce
spontaneamente ed astrattamente, qui ogni spunto meditativo viene insidiato,
minacciato dalle associazioni logiche, reso vago dal movimento del pensiero che
siesaurisce in una continua e sfuggente mobilità inafferrabile.
L’attenzione è molto difficile, passiva e discontinua, il pensiero lavora su se
stesso, ma è ancora muto.
2) Laringe: è il centro in cui il pensiero tende a formularsi e ad esprimersi,
si tratta però ancora di una dimensione non espressa della parola, di un suono
non vocalizzato che, tuttavia, ha una notevole autonomia e forza anche se
legandola alle immagini riflesse si disperde nella discorsività. Qui il pensiero
può essere fermato con la preghiera articolata su un tema trascendente e
rivelato bloccandone cosi la divagazione, purificando al contempo le forze
psichiche che vi si esprimono.
3) Regione Splenica: a questo punto l’esicasta giunge ad un bivio: restare nel
“movimento del proprio mentale” e delle emozioni ad esso legate, oppure andare
oltre superando tutte le articolazioni ed associazioni ascoltando la sua
intensità. È questo il centro della trasformazione del pensiero, della
contemplazione di esso come unità; la sua purificazione è abbastanza facile
perché è stato staccato dagli attaccamenti per cui non ci sono più molteplicità
di espressioni. L’attenzione non è più rivolta al molteplice, alle emozioni ed
al divenire, ma cambia polarità dirigendosi verso il mondo intellettuale.
4) Regione Cardiaca: il pensiero è ormai libero da ogni attaccamento, è fisso e
vigile affinché non vi siano più perturbamenti. Ogni percezione o analisi sarà
considerata alla luce di questo stato di calma, vista nel suo significato più
profondo e vero, perciò riconvertita alla luce spirituale da cui essa ha avuto
origine.
In questo “centro” la preghiera non presenta più dissonanze fra il pensiero, la
parola ed il gesto: essa “si recita”, utilizza i mezzi vocali ed intellettuali
dell’asceta per fondersi con i suoi ritmi interiori, con lo stesso battito
cardiaco che scandisce la vita quotidiana.
È facile capire che i metodi appena descritti non possono essere oggetto di
un’improvvisazione spontanea ed individuale, perché essi presuppongono la figura
di un Maestro il quale già possiede quella “impronta” divina che permette di
trasmettere all’orante la Presenza Divina e la benedizione necessaria a
sostenere l’arduo lavoro interiore.
La difficoltà a trovare oggi Maestri qualificati per una simile opera è,
semplicemente, perché essi si sono per cosi dire “ritirati”, non trovando più
nel mondo l’adeguata “materia” su cui intervenire e plasmare.
È comunque opinione di molti che esistono ancora dei Maestri di questa speciale
via spirituale, attraverso i quali si è conservato l’antico rito delle
imposizioni delle mani, che, come si è visto, è una caratteristica peculiare del
vero Esicasmo e costituisce una via di trasmissione spirituale con caratteri
sacramentali che è risalente al periodo apostolico ed è il veicolo specifico
della discesa dello Spirito Santo.
È in quella ristretta élite sempre più inavvicinabile che bisogna cercare quei
“Mediatori e Dispensatori della Grazia”, essi hanno la stessa “ricchezza” delle
sacre Icone venerate nel mondo ortodosso, anzi costituiscono delle vere e
proprie “Icone Viventi”, essi sono dispensatori di una Grazia senza la quale il
mondo non sarebbe che il fuggevole bagliore di una fiamma che si spegne.
La straordinaria vitalità della teologia mistica orientale trova la propria
ragion d’essere nell’esistenza di simili monaci che, se anche hanno lasciato
frammenti e aforismi, hanno tuttavia vivificato “dal di dentro” quella
tradizione spirituale, rendendola viva fino ai nostri giorni.