1. Nel Vangelo di Luca
si legge: “Nella pazienza, possiederai il tuo cuore” 1. La
parola greca per pazienza ha anche il significato di costanza,
perseveranza. È una parola forte. Cuore traduce psyche che ha
anche il significato di vita, mente, anima. Dunque, nella pazienza,
diverrai uno col tuo cuore. Ricordo quanto mi colpì questa frase quando
la lessi per la prima volta. Da questo passo la parola “pazienza”,
piuttosto grigia nel nostro linguaggio abituale, emergeva luminosa e
intensa. Anni dopo mi capitò di leggere alcune importanti riflessioni su
questo tema di un autore cristiano molto noto, Henry Nouwen, e di alcuni
altri autori, in un libro intitolato Compassione 2.
Dice Nouwen:
Se non siamo
pazienti, non possiamo diventare compassionevoli. Non possiamo essere
compassionevoli, se non siamo capaci di soffrire, se non sappiamo
soffrire con gli altri, che è il significato della compassione.
In linguaggio dharmico
potremmo dire che, se non siamo aperti alla nostra sofferenza, se non
siamo pronti a un’esperienza diretta della nostra sofferenza, non c’è
molta speranza che possiamo provare empatia per la sofferenza degli
altri.
E Nouwen continua sottolineando alcuni punti fondamentali:
La pazienza è la capacità di vedere, sentire, toccare, assaporare e
odorare il più pienamente possibile gli eventi interiori ed esteriori
della nostra vita. È entrare nella nostra vita con occhi, orecchie e
mani aperte in modo da conoscere veramente quello che accade. La
pazienza è una disciplina assai difficile proprio perché è un movimento
opposto al nostro impulso irriflessivo a fuggire o a combattere. – E
conclude: – La pazienza ci chiede di andare al di là della scelta tra
fuggire e lottare. È la terza via ed è la più difficile. Richiede
disciplina perché va contro la tendenza dei nostri impulsi 3.
Nelle scritture, la pratica del Dharma è definita patiloma, che
significa “controcorrente”. La pazienza comporta lo stare con, il vivere
interamente, l’ascoltare attentamente ciò che si presenta qui e ora. A
me sembra che l’affinità tra la descrizione di cos’è la vera pazienza e
la definizione di presenza mentale, o sati, nel Dharma, sia
molto forte, tanto che potremmo unire i linguaggi e parlare di
consapevolezza paziente, così come si parla di consapevolezza non
giudicante, di consapevolezza equanime, di consapevolezza affettuosa.
2. Ciò che va compreso è che queste qualità, la pazienza, l’equanimità,
la sollecitudine, l’attitudine non giudicante sono intrinseche alla
consapevolezza. In altri termini, se queste qualità non sono presenti,
la consapevolezza non è vera e autentica consapevolezza. Non esiste una
consapevolezza giudicante: non è consapevolezza. Dunque la vera pazienza
è una di quelle qualità intrinseche che caratterizzano il gioiello di
cui ci ha fatto dono il Buddha.
Come possiamo definire la consapevolezza, la presenza mentale, sati?
Sati è la capacità di entrare in intimità con le cose, ma secondo
un atteggiamento di non attaccamento e di non identificazione. Quindi
con sollecitudine ed equanimità. Dal punto di vista dell’io è una
contraddizione, è assolutamente incomprensibile, ma questa è per
definizione la struttura stessa della consapevolezza.
Va da sé che sviluppare vera consapevolezza richiede un addestramento di
immensa pazienza e un graduale affinamento della capacità di
comprendere, di vedere in profondità. Facciamo un esempio. Supponiamo di
essere tristi, che la tristezza sia il nostro stato emotivo
predominante. Cosa facciamo di solito? La nostra reazione è
condizionata, in ultima analisi, dall’ignoranza. Così, spesso, anche se
non necessariamente, ci perdiamo nella tristezza e ci identifichiamo con
essa. Con alcune variazioni sul tema: possiamo cadere
nell’auto-commiserazione o nell’irritazione, a causa della tristezza.
Finiamo così per accrescere la forza e il potere della tristezza. Ed è
la nostra reazione abituale. Potremmo chiamare tristezza impura queste
forme di tristezza, perché c’è un appesantimento dovuto a strati di
reazioni, paure, avversioni. Ora, dando per scontato che il
condizionamento basilare è l’ignoranza, se guardiamo in modo più
ravvicinato, cos’è più accessibile alla nostra comprensione immediata?
Prima di tutto notiamo il grandioso potere dell’abitudine. L’abitudine a
reagire in un certo modo crea profondi solchi dai quali diventa poi
difficile uscire. Perciò è importante sviluppare una sorta di
controabitudine, la pratica, e cioè una forza adeguata, proporzionata,
per neutralizzare le abitudini negative che causano la nostra
fondamentale sofferenza nella vita.
In aggiunta all’abitudine, se osserviamo da vicino, notiamo qualcosa di
più sottile, ma forse di ancora più importante. Si tratta della tendenza
a investire un’enorme quantità di energia nel desiderio di liberarsi
dello stato mentale spiacevole, per esempio la tristezza. Tale tendenza
è presente spesso. Certe volte ne siamo liberi, ma la nostra tendenza è
allora di indulgere nella tristezza: non solo non ce ne vogliamo
liberare, ma ne vogliamo addirittura di più. Non voglio dire che
rientrino nell’avversione alla tristezza piccole scelte di saggezza come
parlare con un amico o immergersi nella natura, mi riferisco piuttosto a
qualcosa di compulsivo, di ossessivo: pensare, giudicare, reagire per
trovare come liberarsi di questa emozione spiacevole. Si può definire
questa tendenza una totale non accettazione della tristezza o, appunto,
avversione alla tristezza.
3. Ricordiamoci dell’insegnamento del Buddha sulle due frecce 4.
Un uomo viene colpito da una freccia a una gamba. In breve
l’insegnamento dice che, chi ha coltivato la pratica, prova solo la
sofferenza dovuta al dolore fisico, una sofferenza pura. La persona
ordinaria, invece, soffre a causa di una seconda freccia, che è
l’intensa reazione mentale al dolore fisico.
Nella nostra vita ci sono infiniti esempi che illustrano questo
insegnamento della doppia freccia. La prima freccia è la tristezza, la
seconda è l’avversione alla tristezza. Nel sutta del Buddha viene
spiegato molto chiaramente che il problema sta nella seconda freccia.
Questa rafforza le tendenze latenti all’avversione e alimenta anche le
tendenze latenti all’attaccamento, attaccamento alla gratificazione
vista come unico antidoto alla frustrazione. La seconda freccia è il
desiderio intenso di liberarci da uno stato mentale spiacevole. Il
problema non è la tristezza, ma il desiderio di liberarcene, perché
questo desiderio è un’energia che ci separa dallo sperimentare in modo
diretto la verità della tristezza. Essendo tormentati dal desiderio di
liberarci da ciò che è spiacevole, anziché aprirci alla tristezza ci
chiudiamo. Proprio questa chiusura è la seconda freccia. Restiamo così
intrappolati nel nostro concetto di tristezza e nella nostra reazione a
questo concetto, ma non facciamo un’esperienza viva della tristezza.
Solo se decidiamo di fare questa esperienza reale il nostro rapporto con
la tristezza cambierà, come cambierà la qualità stessa della tristezza.
Il desiderio di liberarci da emozioni spiacevoli è energia, non un
semplice pensiero, ma qualcosa di denso e vischioso. Ecco perché il
Buddha ha tanto sottolineato la forza del desiderio nutrito
dall’ignoranza come causa prima della sofferenza nella nostra vita. Ed è
di questo che si tratta nell’esempio della tristezza. E più gli esempi
sono quotidiani più sono significativi, altrimenti tendiamo a
idealizzare dukkha, a pensare alla sofferenza solo in termini
di episodi drammatici, mentre dukkha, magari in piccole forme,
è raro che non visiti le nostre giornate, e iniziando a praticare lo
comprendiamo.
La via dell’impazienza è questo modo condizionato di reagire alle
cosiddette emozioni negative, è energia distanziante che ci mantiene
nell’immaginazione, nel pensiero della tristezza, anziché nella sua
realtà, nella sua verità.
4. Dice Henry Nouwen:
Quale che sia la natura della nostra impazienza, noi vogliamo
abbandonare lo stato fisico o mentale in cui ci troviamo e passare a un
altro meno disagevole. Essenzialmente, l’impazienza è sperimentare il
momento come vuoto, inutile, senza significato. È il desiderio di
scappare il più in fretta possibile dal qui e ora 5.
Come sarebbe invece una
risposta sveglia, consapevole e paziente alla tristezza o ad altri stati
mentali? Prima di tutto si tratta di investire moltissima energia nella
consapevolezza stessa, una consapevolezza immediata di cosa sta
accadendo. Se lo facciamo, cominciamo a risvegliarci, iniziamo ad avere
una percezione diretta, che è cosa ovviamente molto diversa dalla
reattività o dalla rimozione. È un punto di svolta e la chiave è un
interesse sempre più forte a rivolgersi alla consapevolezza, un
interesse diventato quasi un istinto a scegliere la consapevolezza.
Prendiamo per esempio la fame. La nostra mente e il nostro corpo sanno
che senza cibo si muore, dunque vogliamo il cibo, è un istinto. Quando
la pratica si sviluppa, comincia ad accadere qualcosa di simile. Ci
rendiamo conto che più la consapevolezza è disponibile, più la
scegliamo, meglio viviamo. È semplice, ma finché non capiamo che più c’è
consapevolezza meglio viviamo, questo interesse non si sviluppa e al
massimo ci innamoriamo di un concetto. Ci piace parlare della
consapevolezza, speculare sulla consapevolezza, leggere tutto il
leggibile su di essa. Punto. Ma per fortuna esiste la pratica.
Come individui e come cultura abbiamo assegnato il primato al pensiero,
alla parola e all’azione. Chi pratica, tuttavia, comincia a muoversi in
un campo diverso, cioè nel campo della contemplazione. La contemplazione
è essere consapevoli, è osservare in modo non giudicante, in modo
sollecito, equanime.
Torniamo al nostro esempio: sorge la tristezza e, questa volta, vogliamo
incontrarla, vogliamo entrare in intimità, vogliamo una relazione con la
tristezza, perché la vita è relazione. Dunque, vogliamo cambiare la
nostra prospettiva, il nostro atteggiamento riguardo agli stati mentali,
alle emozioni. Cominciamo a intuire che la mente è il nocciolo della
nostra vita. “La mente conduce, – dice il Dhammapada – e il resto
segue”. Ma se siamo posseduti dal desiderio di liberarci dalla
tristezza, come possiamo incontrarla? Tutta l’energia va nel desiderio
di respingere questa realtà, questo incontro, dunque non c’è energia
disponibile per la consapevolezza. È come cercare di accendere una
fiamma mentre c’è un forte vento. La consapevolezza viene continuamente
spenta, i nostri sforzi sono vani. Possiamo essere molto motivati, molto
determinati, vogliamo sinceramente essere consapevoli, ma restiamo
sempre più frustrati, perché la consapevolezza continua a spegnersi,
perché tutta l’energia va nella direzione opposta. Quindi, finché non ci
rendiamo conto di tutta l’energia che va nel desiderio di cacciare la
tristezza, non possiamo lavorare per lasciar cadere questa energia.
Quando finalmente la vediamo, allora e allora soltanto possiamo
cominciare a lasciarla andare e la consapevolezza ha la possibilità di
accendersi e di restare accesa.
5. L’esperienza diretta
non è facile da praticare. L’esperienza diretta può accadere solo
momento per momento. Lo sappiamo e insieme non lo sappiamo. Non appena
abbandoniamo il momento presente, ci ritroviamo nel mondo del pensare,
così spesso carico di giudizi e reattività. Non ci resta che ritornare
più e più volte, con generosa pazienza, alla realtà del presente. Si
tratta, dunque, di sentire direttamente, momento per momento, nel corpo
e nella mente ciò che definiamo come sentirci tristi. Sensazioni,
pensieri, emozioni: aprirsi a quanto sta accadendo a ogni istante.
All’inizio può essere doloroso, perché di solito siamo avvolti da una
tale quantità di pensieri e reattività che finiamo per avere una
sensibilità meno intensa. Se cominciamo a lasciar cadere tutti questi
strati, diventiamo più sensibili, meno protetti e dunque il primo
impatto può essere doloroso. Ma se restiamo fermi, se continuiamo a
sostenere la pratica, la dolorosità finisce per trasformarsi. Le
emozioni negative, una volta spogliate dagli strati di reattività, di
pensiero, e giudizio, cambiano. Sono più pure. Diventano sempre meno
minacciose, meno dolorose. Cambia la nostra relazione con le emozioni.
Siamo guidati da un interesse che è quasi un istinto a stare
con ciò che è presente e vogliamo imparare sempre di più a starci.
Certo, è facile scivolare indietro e regredire a modalità primitive,
primordiali, in cui la reattività sembra essere l’unica scelta
ragionevole e non ci interessa più l’esperienza diretta. In pochi
secondi possiamo creare un’intera ideologia e crederci ciecamente. È
quello che le scritture chiamano il potere di avijja,
dell’ignoranza, che nel linguaggio dharmico non è l’assenza di qualcosa,
ma piuttosto qualcosa di attivo. Ci vuole molta pazienza per affrontare
tutta l’ignoranza che ci portiamo appresso. La contemplazione paziente,
la contemplazione affettuosa della tristezza sono un invito in più a
praticare la consapevolezza anziché praticare la reattività, il
giudizio, la reazione verbale; un invito a coltivare il primato della
contemplazione anziché quello del pensiero e dell’azione. Quando la
consapevolezza affettuosa rivolta a ciò che è presente qui e ora
comincia a essere un valore, una vera priorità nella nostra vita,
finalmente ci accorgiamo di avere una sorgente affidabile per il retto
pensiero, per la retta azione, per la retta parola. Ma la contemplazione
viene per prima, intendendo per contemplazione non un vago termine
spirituale, bensì osservare ciò che si presenta momento per momento.
6. Questo è
controcorrente, è patiloma, perché come primo impulso noi
reagiamo, non contempliamo: dunque è necessaria una rieducazione. La
pratica è rieducazione, riallineamento, rivoluzione. Non è un termine
eccessivo: è una rivoluzione interiore, deve esserlo. Senza troppo
rumore. Dunque nella pazienza, nella consapevolezza paziente, possiamo
diventare uniti col nostro cuore, possiamo rasserenare il cuore.
Un’insegnante americana di tradizione Zen, Cheri Huber, ha detto:
Esplorare con accuratezza cosa significhi essere stanchi può
rivelarci quella parte della personalità che ha un’opinione sulla
stanchezza. Cosa c’è nell’essere stanchi che non mi piace? Quali sono le
mie convinzioni sotterranee sulla stanchezza? La paura di cadere a
pezzi? Di morire? E quali implicazioni comportano queste convinzioni
nella mia vita? Come mi limitano? Qualcuno mi ha parlato di aver svolto
un lavoro che richiedeva solo due movimenti e di che esperienza gioiosa
fosse stata. Aveva compreso che l’esperienza era stata gioiosa perché la
sua attenzione era pienamente concentrata su quanto stava facendo. Cosa
accadrebbe se concentrassimo la nostra attenzione sulla sensazione che
definiamo “stanchezza”? Potremmo avere la stessa gioiosa esperienza,
restando solo assolutamente presenti alle sensazioni del corpo: questo
genera di per sé energia. In ogni caso, se non ci precipitassimo a
etichettarle, queste sensazioni non sarebbero più percepite come
stanchezza 6.
Quindi, se continuiamo a contemplare, scopriamo che il problema
fondamentale è una sorta di nodo dentro il corpo e che quel nodo è una
resistenza a quanto sta accadendo. Il problema non è la stanchezza, ma
la resistenza alla stanchezza. Lo sappiamo? Sì e no.
7. Faccio un esempio personale. Nel corso
dell’anno conduco corsi di meditazione il lunedì e il martedì sera, il
che significa che almeno due volte a settimana vado a dormire tardi. Se
mi capita di andare a letto tardi anche il mercoledì e il giovedì, è più
che probabile che il venerdì mi trovi a essere completamente fuori
centro. E mi sono accorto che nasce in me un modo sottile di minare la
pratica, una voce che dice: “Se tu fossi più disciplinato, la pratica
andrebbe meglio”. Ma in quel momento la mia pratica è stare con la
stanchezza e con l’essere fuori centro! Il resto sono solo pensieri che
cercano di evitare ciò che è presente. Quando invece riesco ad aprirmi
alla stanchezza, allora mi risveglio a quello che è presente, anziché
battagliare, resistere o lamentarmi. Vedo la contrazione della
stanchezza nel corpo e nella mente, vedo l’attaccamento a ciò che
potrebbe dare sollievo, e continuando a restare presente, accade
talvolta qualcosa di bello ed è che sotto questo movimento mentale
dell’affaticamento c’è pace. Ma se non mi fermo, non posso percepirlo,
non posso sentire quella zona di pace. Dunque, la stanchezza è
spiacevole, ma non è la stanchezza in sé a essere un problema. Il
problema è la resistenza alla stanchezza, è l’autogiudizio a causa della
stanchezza. Non è la stanchezza il problema, altrimenti non ci sarebbe
alcuna possibilità di percepire la pace, di percepire la spaziosità. Non
è lo stato mentale il problema, ma il modo in cui lo trattiamo. È la
seconda freccia il problema, non la prima.
È anche interessante osservare cosa accade quando siamo pieni di energia
e ci sentiamo bene. È facile che finiamo per incanalare l’energia in
progetti, in pensieri, in qualche azione di immediata utilità, perché
questi sono i valori da seguire per non sentire di “sprecare” il
benessere. Il benessere è una cosa positiva, non ha di per sé niente di
manchevole. Il problema sta nella nostra reazione eccitata ad esso, nel
nostro non poter nemmeno concepire la possibilità di contemplarlo.
Meglio “goderselo”. Perché contemplarlo? Ma la consapevolezza è
consapevolezza di ciò che è presente e, se è presente il benessere,
perché non esserne consapevoli? Scopriremmo, tra l'altro, che in virtù
della consapevolezza, ce lo godiamo molto di più.
Abbiamo detto che il desiderio di disfarsi di uno stato negativo è
problematico perché è un’energia che distoglie dallo sperimentare in
modo diretto ciò che è presente, ma abbiamo anche aggiunto che è un
impulso comprensibile. Perché? Perché volersi liberare di uno stato
mentale negativo è anche un’espressione dell’universale aspirazione alla
felicità. Ma tale espressione è distorta e, come possiamo verificare
continuamente, non porta alla felicità. Ricordiamoci che uno degli scopi
primari della nostra pratica è purificare questo tipo di desiderio, in
modo che l’aspirazione alla felicità possa fiorire nel modo giusto,
sempre più purificato dall’ignoranza. È importante non essere giudicanti
nei confronti dei nostri attaccamenti, delle nostre avversioni dolorose
e di quelle degli altri, perché sotto questi attaccamenti e avversioni
c’è il nostro legittimo desiderio di felicità.
NOTE
1. Luca 21, 19.
2. H.J.M. Nouwen, D.P. McNeill, D.A. Morrison, Compassion, New
York 1983, p. 92.
3. Ivi, p. 93.
4. Sallasutta, Il discorso della freccia, Samyutta Nikaya,
36. 6.
5. Nouwen, cit. , p. 96.
6. Ch. Huber, Sweet Zen,
Present Perfect Books, 2000, pp. 33-34.