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Questa sera vorrei provare a parlare un po’ di alchimia spirituale. Voi sapete che c’è questa famosa immagine del vaso alchemico, del vaso ermetico, del vaso sigillato dentro il quale ci sono i metalli vivi, quali piombo e simili, i quali – debitamente cotti – nel vaso chiuso producono l’oro. Questa è la metafora alchemica. Letta nei termini della nostra pratica quelli che sono i nostri impedimenti, i nostri veleni, le nostre afflizioni – attaccamento, avversione, ignoranza e tutta la loro numerosa prole – cotti nel fuoco e nello spazio particolare della pratica generano l’oro della saggezza e della compassione. È un’immagine molto precisa, non è solo un’immagine suggestiva, ne vedremo meglio le implicazioni.
Qualche tempo fa mi veniva in mente che questo grande maestro vietnamita Thich Nath Hanh ha un modo più casereccio di parlare di questa cosa. Lui dice: «Abbiamo le patate crude della nostra avversione, della nostra tristezza, del nostro attaccamento però dobbiamo renderci conto che queste patate crude sono la nostra ricchezza e infatti se le cuciniamo al fuoco della pratica ce le cuciniamo cotte e ci fanno molto bene. Mentre se le mangiamo crude ci fanno male».
Thich Nath Hanh usa questa immagine per dire la stessa cosa, vale a dire che noi non docciamo amputare niente da noi e non dobbiamo aggiungere niente da noi, dobbiamo semplicemente trasformare quello che già c’è, cioè l’attaccamento, la paura, la rabbia sono forme di energia incapsulata in maniera distruttiva ma che può essere liberata in modo positivo. Questo è un po’ il discorso alchimistico di base che, evidentemente, è il discorso di base di qualsiasi serio lavoro interiore: la trasformazione delle energie che ci abitano, non l’aggiunta né l’amputazione.
Possiamo pensare ad altre espressioni, sempre lungo la stessa linea Chogyam Trungpa Rinpoche, scomparso da qualche anno, diceva che l’attaccamento, l’avversione e simili sono nient’altro che il concime per la liberazione: allora niente concime, niente liberazione. Le implicazioni unitarie di questo discorso sono molto importanti, ci aiutano ad andare al di là di una visione molto spaccata, molto dualistica. Queste cose dolorose che ci portiamo dentro sono cose dolorose, sono causa di sofferenza ma sono allo stesso tempo la materia prima del nostro lavoro, la materia prima del lavoro di liberazione, del lavoro interiore.
Possono venire in mente pagine taoiste dove si dice «dall’impurità viene la purità» allo stesso modo che dalle tenebre viene la luce, e vengono riferiti esempi di piante che marciscono fecondando il terreno. O del bruco che diventa farfalla, e così via.
Possiamo ricordare la tradizione del Vajrayana, nell’ambito del buddhismo, dove si parla della trasformazione dei veleni in virtù e dove si dice che quanto più forti sono i veleni tanto più forte è il potenziale per la liberazione, se sono debitamente trasformati.
Vedete, di nuovo abbiamo un campo unitario e non una spaccatura, una contrapposizione. Allora pensavo per guardare più da vicino questo settore, anche per rendere omaggio all’Istituto che ci ospita, di leggere una pagina di Lama Zopa Rinpoche, dalla sua opera Trasformare i problemi, ovvero come trasformare la sofferenza nel sentiero mahayana: «Dunque dovete smettere di generare avversione per la sofferenza e imparare invece ad apprezzare i problemi» Sembra una cosa enorme. Ripeto: «smettere di generare avversione per la sofferenza e imparare invece ad apprezzare i problemi, le difficoltà, gli ostacoli». Va oltre: «Quando ne sperimentate qualcuno dovete generare il pensiero della felicità. Non importa quanti problemi abbiamo, non ha senso lasciarsi irritare da essi. Non c`è beneficio o potere in ciò. Quando incontrate situazioni indesiderabili». Qui è molto preciso: «pensate ripetutamente ai grandi svantaggi del considerarle indesiderabili».
Cioè il nostro incessante considerare indesiderabile una situazione considerate indesiderabili è una fonte di debolezza anche se ci sembra qualcosa di ovvio da fare. Dice: «Pensate ripetutamente al risultato di questa abitudine errata», cioè quella di intingere il pane dell’avversione nelle situazioni difficili «pensate ai vostri problemi poi generate una determinazione molto intensa – “da ora in poi per quanti problemi possa avere, non mi irriterò, non li considererò una sfortuna” – con tale motivazione cercate di esercitare la mente finché non diventate come un cavaliere ben addestrato che quando il cavallo corre, anche se la sua mente è distratta, è naturalmente capace di cavalcare senza cadere». E che cosa vuole dire? Lo dice dopo: «In altri termini ogni qualvolta vi scontrate con degli ostacoli, senza sforzo e immediatamente, naturalmente sorga il pensiero “Va bene”». Evidentemente questo è alto dharma, molto alto, però è fondamentale parlarne perché chi percorre la via del dharma aspira a quello che è molto alto – la Liberazione. Se ci pensiamo questo cavaliere, come è descritto qui, ha mandato in circolo questo atteggiamento, gli è entrato sottopelle. Per cui come risposta alle difficoltà gli viene il “Va bene”. Vi ricordate l’altra sera si parlava tentando un’espressione che potesse indicare questa condizione di … fierezza umile. A me questo cavaliere ricorda questa idea della “fierezza umile”. Non si parla di una fierezza egoica, arrogante del tipo “io sono er più della vipassana per cui gli ostacoli li faccio a pezzi”. [risate]
Non è questo, qualcosa di più ampio, accettante, dolce e al tempo stesso ha una sua forza, una sua impuntatura. «Come l’apprezzamento per il gelato o l’apprezzamento per la musica. Quando una persona ha un apprezzamento per la musica e la sta ascoltano non ha alcun bisogno di pensare alle ragioni, ad esempio che la musica è dolce o altro. Allo stesso modo ogni qualvolta incontrate situazioni spiacevoli dovrebbe sorgere naturalmente il pensiero “Va bene”. E quindi la felicità. E quanti più benefici vedete, tanto più siete felici di incontrare ostacoli e difficoltà nella vostra vita». Penso che dovremmo riflettere su questa parola “felicità”. Se noi pensiamo un attimo a ostacoli grandi, dolorosi, dobbiamo capire di che felicità si tratta. Pensiamo a una grave malattia che coglie una persona che ci è cara. In che senso possiamo avere una reazione “positiva”? Penso che in questo caso felicità significhi reazione positiva che possiamo vedere in due direzioni: verso la persona che è stata colta da questa malattia la reazione positiva, non felice ma molto positiva, è quella di sostituire una sollecitudine compassionevole, molto intensa, all’apprensione, alla angoscia che non fa bene né a noi né alla persona.
Per quanto riguarda la seconda direzione, che riguarda noi in prima persona, è quella di lavorare attivamente alla disidentificazione da questa pena. Noi possiamo pensare che sia necessario lavorare alla disidentificazione nel caso in cui nutriamo un’avversione, un’antipatia ma la disidentificazione è un fatto generale. Allora lavorando alla disidentificazione da questa forma di pena otteniamo un dolore più pulito, un dolore più sorridente, un dolore meno identificato cioè meno incardinato nei pensieri negativi ovvero una capacità di restare più nel momento durante il dolore. Quindi è uno stato d’animo molto diverso da un dolore sovraccarico di egoità. Non riesco a pensare in altro modo: quando un ostacolo è di questa portata una risposta positiva la vedo così. Altri ostacoli, suparati e trasformati, possono veramente dare un senso di felicità.
Questo paradosso della felicità in mezzo alle difficoltà, in mezzo agli ostacoli, ricorda un’espressione usata da certi contemplativi cristiani: “Le avversità sono visite del Signore”. O noi abbiamo una forma di lavoro interiore e possiamo capire questa espressione, altrimenti o non la capiamo per niente o se crediamo di capirla possiamo sbagliare ed essere in presa a certe sindromi di masochismo religioso non infrequenti.
Perché sono visite del Signore? Perché sono, come spiega bene Lama Zopa Rinpoche, delle occasioni per aprirci ancora di più e quindi occasioni di apertura, di beneficio, di positività. In questo senso hanno a che fare con la felicità, con la possibilità di essere definite “visite del Signore”.
Continuando a riflettere su questo tema possiamo dire che è possibile lavorare subito in questo modo? Io non credo. Questa è una motivazione specifica - quella che ci è stata descritta da Lama Zopa – di riuscire a lavorare puntualmente e con precisione le energie negative; questa motivazione specifica a me pare che richieda che si sia consolidata la motivazione generale al lavoro interiore, cioè l’aspirazione alla liberazione, a quella che nel Buddhismo Mahayana si chiama Bodhicitta, mente del risveglio, l’aspirazione a contribuire il più possibile alla liberazione nostra e altrui. Questa motivazione generale attraverso la pratica si deve essere già consolidata e impiantata, dobbiamo avere questo sostegno, questa forza. Il cammino nel dharma deve avere raggiunto la priorità: questo è il sostegno di cui abbiamo bisogno per fare questo lavoretto, che non è uno scherzo.
Quando l’aspirazione alla liberazione è diventata una priorità, si è impiantata, allora noi dobbiamo pensare che il solo ricordarla porta pace, il solo ricordare questa aspirazione è rasserenante. Questo è un sostegno molto forte. Quindi: aspirazione consolidata e… un certo sviluppo di quel lavoro di semplificazione di cui si parlava ieri sera. Il lavoro di semplificazione o di lasciare andare e l’aspirazione interiore sono dimensioni molto intrecciate: in un certo senso quanto più ci semplifichiamo, tanto più facciamo spazio per quella aspirazione. E quanto più prende piede quell’aspirazione, tanto più ci viene da semplificarci.
Piano piano tendono a cader via, ad attenuarsi dal nostro orizzonte quelle varie cose, attività, occupazioni che non sono in linea con il cammino interiore cioè o che sono distruttive o che sono confuse. Tendono a diminuire e a cadere come rami secchi, a me a volte viene da dire, e questo crea ulteriore spazio alla aspirazione. La nostra mente è meno ingombra di cose, la nostra energia è meno attratta di qua e di là e l’aspirazione al risveglio può prendere più piede, può prendere più spazio e mettere più radici. Quindi semplificazione e aspirazione alla liberazione sono dimensioni molto reciprocamente collegate. Poi dobbiamo pensare che la semplificazione, se certamente raggiunge apici particolari nella vita monastica, tuttavia è possibile anche nella vita laica (che rimarrà comunque più complessa e meno semplice di una vita monastica), può andare molto avanti. E, quel che è importante sottolineare, con molta più soddisfazione di quanto uno all’inizio possa credere. Questa semplificazione – che a volte si chiama con un nome terrificante, rinuncia – può essere uno spauracchio, ma quando si capisce meglio è tutt’altro, diventa fonte di soddisfazione.
Ora noi abbiamo visto che il semplificarsi, il lasciar andare, richiede la comprensione. Per esempio dobbiamo comprendere che una certa nostra abitudine mentale genera sofferenza, cui siamo attaccati; man mano che capiamo il legame fra quest’ abitudine e la sofferenza, l’impulso a lasciare andare questa abitudine cresce. È molto importante la comprensione per lasciar andare, per semplificare. È ulteriormente facilitato il “lasciar andare” se ci appoggiamo a questa cosa buona, a questa spinta oscura e buona che è l’aspirazione alla liberazione. Se noi abbiamo questo appoggio dolce, questo gancio, il “lasciar andare” può avvenire più organicamente. Non è un caso che nell’ottuplice sentiero retta comprensione e retta intenzione siano sempre abbinate, perché occorrono entrambe, insieme: il capire e l’aspirare fortemente. Allora lasciar andare e semplificarsi cominciano a essere un fatto organico, ma dobbiamo avere questi due pilastri che ci appoggiano, la giusta comprensione e la giusta aspirazione.
Mi viene in mente una preghiera di San Tommaso d’Aquino che dice una cosa del genere “Signore io vedo in me da una parte molta tiepidezza però, al tempo stesso, vedo che tendo a dire sempre di più ‘non mi interessi‘ a qualsiasi luce diversa da te ”. E poi parla dell’aspirazione e del desiderio di Dio. Di nuovo l’aspirazione e il semplificarsi (non mi interessa una luce diversa da quella reale) appaiono come due dimensioni abbinate. Allora quando si consolida l’aspirazione, quando si consolida una certa comprensione e quindi una minore infelicità ecco allora penso che ci si trovi al punto critico, al punto di svolta, dove si inserisce molto bene il discorso di Lama Zopa, che è una sfida abbastanza radicale. Che non può essere collocata all’inizio ma che, se la comprendiamo sin dall’inizio, tanto di guadagnato. E, continuando a riflettere, ci conviene chiederci – oltre alle cose che abbiamo detto, l’aspirazione al bodhicitta, una certa misura di comprensione, una certa misura di semplificazione – che cosa occorra per imboccare questa strada direttissima della alchimia spirituale, della trasformazione degli ostacoli in benefici.
Dunque innanzitutto penso che noi dovremmo avere un interesse e una fiducia in questa proposta del lavoro interiore, del lavoro alchemico. Mi ricordo che le prime volte che mi capitava di imbattermi in discorsi di questo genere – come sia possibile trasformare le energie negative in energie positive – avevo una reazione molto entusiastica, ma era un entusiasmo molto cerebrale, molto astratto perché dopo due minuti passavo ad altro. Allora, a ripensarci dopo mi viene da ridere: uno si trova davanti una proposta enorme e dopo due minuti passa a qualcos’altro di sicuro infinitamente meno importante di una proposta di questo genere. Quindi, rosolandosi nella pratica, bisogna arrivare a un certo interesse e a una certa fiducia sulle possibilità di un lavoro del genere. Questo interesse e questa fiducia stanno alla base della capacità di “prendere la determinazione”, prendere e ri-prendere la determinazione di lavorare in questo modo tutte le volte che ci capita, tutte le volte che siamo ‘sotto tiro’. E non solo la determinazione, ma il gusto per la determinazione: nel lavorare più e più in questo modo è come se si generasse, a prescindere dai risultati, questo slancio del cavaliere, questo gusto nella difficoltà, nella sofferenza.
Arriva l’onda nera e noi formuliamo l'aḍḍhiṭhana che, nell’elenco delle pāramī (virtù), è la risoluzione, il prendere la risoluzione e anche la risolutezza. Quindi l’aḍḍhiṭhana è la determinazione a lavorare sull’ostacolo – piccolo o grande - che ci arrivando. Il “prendere la risoluzione”, il ri-prenderla, il riprenderla ancora, invece di darci in balia, di darci in pasto all’onda che arriva. Penso che ogni momento di aḍḍhiṭhana, ogni momento di risoluzione-risolutezza sia un momento di risveglio, una piccola o non tanto piccola concatenazione di momenti karmici positivi, di abbrivio positivo. È questo il senso della pratica della determinazione, della risolutezza. Quindi, numero uno, un certo interesse e fiducia su quella base generale di cui abbiamo detto prima, numero due una capacità di determinazione, un gusto della determinazione, della risoluzione, della risolutezza. Risolutezza a praticare sullo stato negativo. Che cosa vuol dire praticare sullo stato negativo? Tutta la pratica è coinvolta quindi potremo fare vari discorsi su questo, accenniamo alle varie possibilità che sono quelle di applicare una consapevolezza investigante, applicare una consapevolezza molto legata al respiro, applicare una pratica di benevolenza o metta, accompagnare o no queste pratiche con riflessioni dharmiche sulle quattro verità, sull’equanimità.
Il risultato del lavoro della pratica sugli stati negativi o su qualsiasi stato d’animo è il sentire meglio la sofferenza che è legata agli ostacoli – l’ostacolo porta sofferenza – in un certo senso unirsi, diventare “uni”, con la sofferenza e – l’altra faccia della medaglia – la disidentificazione dalla sofferenza. Sembra un paradosso: ma come, noi ci uniamo di più e ci disidentifichiamo? Certamente, perché la disidentificazione è l’attaccamento a quella situazione nella quale stiamo in difficoltà, attaccamento alla preoccupazione ma il momento in cui noi togliamo manovre evasive, di fuga e percepiamo attraverso la pratica, attraverso questa o quella pratica, percepiamo al nudo la sofferenza che è portata dall’ostacolo, invece che pensare compulsivamente all’ostacolo. Se ci mettiamo completamente di fronte all’ostacolo, sentendo al vivo la sofferenza che esso ci porta, questa manovra di contatto diretto semplifica le cose e aiuta la guarigione. La disidentificazione non viene dall’aggiungere pensieri, viene dal confrontarci direttamente.
L’identificazione significa non avere nessuna consapevolezza, significa credere ciecamente, al cento per cento, a tutto ciò che ci racconta la mente; ma se noi siamo in contatto con la sofferenza che c’è in quel momento e guardiamo i pensieri che passano senza montarci sopra aggiungendone altri mille, allora noi facciamo un’operazione che è completamente diversa, che è da un lato di unificazione con la realtà della sofferenza, e dall’altro di non identificazione (smettiamo di costruirci sopra). Quindi da un lato maggior contatto e dall’altro disidentificazione, inizio di guarigione; noi non creiamo mai questo contatto, pensiamo all’ostacolo, sfuggiamo all’ostacolo, reprimiamo l’ostacolo, cerchiamo di esorcizzare l’ostacolo - non lo guardiamo in faccia l’ostacolo. E quindi non possiamo mai disidentificarci, è solo quando cominciamo a guardarlo in faccia che possiamo cominciare la disidentificazione, il non considerarlo “mio”, permanente, solido, fermo lì. Cominciamo ad accorgerci della fluidità dell’ostacolo, come di tutto. Ma dobbiamo togliere le nostre costruzioni mentali, che ci impediscono questo lavoro. Naturalmente questo, che è il terzo elemento, richiede una certa “tenuta” della consapevolezza.
Tempo fa ci capitava di ricordare che nei Vangeli si dice “pregate sempre senza stancarvi, senza venir meno – sine deficere”. Non viene detto “pregate quando siete di buon umore” o “pregate solo quando ve la vedete brutta”, no; si parla di una cosa costante. Questa piccola frase è capita molto meglio da chi pratica da tempo e con una certa continuità che da persone che fanno grandi dichiarazioni di fede ma poi dicono “però non bisogna intenderlo letteralmente”, significa, non lo so, “due volte al giorno”.
Se noi pratichiamo ci rendiamo conto che la pratica meditativa formale è un “tempo forte” ma poi la consapevolezza, l’accettazione, deve diventare piano piano sempre più frequente; quindi pregare continuamente, pregare sempre per poterci disidentificare. La cosiddetta “tenuta”. Rifacendosi all’esempio che usavamo in questi giorni, noi dobbiamo innanzitutto “afferrare il vaso dell’ostacolo” e poi dobbiamo cominciare a lucidare il vaso, cioè dobbiamo continuare a tenerci sopra la consapevolezza, a lavorarci, a far coesistere la consapevolezza, l’accettazione o con il respiro (con la “metta” o senza) con questa “energia negativa”. Quindi è molto importante aver sviluppato una certa “tenuta” della consapevolezza. Un ostacolo che può esserci facilmente, anche se pratichiamo da tempo, nei confronti della tenuta della consapevolezza, cioè della durata, della continuità della consapevolezza in un caso di difficoltà sul quale vogliamo lavorare, è rappresentato da un nostro attaccamento alla sofferenza. Per esempio noi possiamo essere molto attaccati al “preoccuparci”, possiamo avere un vero e proprio attaccamento. E possiamo trovare molte razionalizzazioni: “preoccuparsi è da persone responsabili, in realtà io sto cercando una soluzione intelligente…” in modo da impedire l’accesso della consapevolezza, del lavoro interiore, che ovviamente incide sulla preoccupazione, “rischia di diradare la preoccupazione”! E noi allora come facciamo senza questa abitudine compulsiva a preoccuparci? Siamo attaccati, e quindi troviamo delle ragioni per tenercela, come quella che è, da parte nostra, un segno di particolare responsabilità.
Oppure noi possiamo essere letteralmente dipendenti da quella fiammata di energia che si accompagna alla rabbia, che magari abbiamo battezzato col nome più nobile di “indignazione”. Possiamo esserne letteralmente dipendenti, come si è dipendenti dall’alcool. Rinunciare a quella fiammata, a quell’irritazione che si accompagna alla rabbia ci fa sentire “vuoti”, del tipo: “cosa sono senza questa cosa? Divento una cosa molliccia, che non si preoccupa, che non si arrabbia”. Quindi, tranquillamente, noi sabotiamo o rischiamo di sabotare il lavoro interiore allo stesso modo di un alcolista che passa a sabotare il programma di riabilitazione di “alcolisti anonimi”, che arriva fino a un certo punto, i “dodici gradini”, e poi lascia perdere. E così noi, non per dipendenza dall’alcool ma da equivalenti psichici.
Quindi la tenuta della consapevolezza non è soltanto il “ricordarsi di essere consapevoli”, questo è un primo frutto del training (si affaccia l’onda nera e si affaccia contemporaneamente la consapevolezza), questo è “prendere il vaso”; dopo c’è la necessità di “lucidare il vaso”. Su questa seconda fase, cioè la “durata” della consapevolezza, può molto influire, nel bloccarla, il nostro attaccamento ai nostri stati negativi, del tipo: “un momento di consapevolezza va bene, adesso basta!”. Perché? Perché sennò “cambia le cose”. Ecco io penso che ci convenga ritornare un momento al tema della semplificazione: se riflettiamo insieme, se noi abbiamo l’energia investita in mille cose oppure in poche cose, ma queste poche cose hanno la priorità sulla pratica allora non c’è la semplificazione necessari per intraprendere questo lavoro di trasformazione delle energie negative, cioè non è organicamente possibile. Dobbiamo essere un po’ più contenti, un po’ più sgombri per intraprendere questa svolta così ben descritta – anche se in termini molto alti – da Lama Zopa. Immaginiamo di essere all’inizio di un cammino e di soffrire di continui sbalzi di umore, siamo troppo presi da questa altalena per poi avere l’energia necessaria davanti a un ostacolo imprevisto che ci si presenta. È un po’ come avere l’influenza e arriva l’ascesso al dente: ci rimettiamo a quel punto, è troppo. Oppure immaginiamo di avere un’attività lavorativa molto impegnativa, con la quale siamo molto identificati e che ha la priorità nella nostra vita. Pratichiamo, ci piace praticare, ma la priorità non ce l’ha il dharma, c’è l’ha questa attività professionale, questo giro d’affari o qualsiasi altra cosa. Allora cosa succede quando la priorità ce l’ha la cosa “x”? Salvo la via interiore, qualsiasi altra priorità non può che essere divisiva: se la priorità ce l’ha il lavoro, cosa succede? Da una parte c’è il lavoro, dall’altra il non lavoro, cioè quello che impedisce il lavoro. Se il lavoro fila liscio, bene, se c’è qualcosa che impedisce il lavoro e noi siamo identificati con il lavoro, siamo in grave difficoltà, siamo prostrati assolutamente. L’unica priorità che non è divisiva ma è unitiva è quella spirituale, perché include tutto. Non è che ci viene detto “devi essere consapevole di alcune cose e non si altre”, devi essere consapevole di tutto. Non è che ci viene detto “devi accettare alcune cose ma non altre”, devi accettare tutto. Non è che sia facile, ma è un fatto unitivo.
Se noi diamo la priorità alla concentrazione allora ci possono succedere qualcosa di analogo al lavoro, ad esempio: “Ah, la mia concentrazione. Ah, non valgo niente”. Noi stiamo identificando la pratica, il dharma, con uno dei suoi tanti fattori che è la concentrazione, e certamente non quella più importante. Ma se noi teniamo presente le dimensioni cardine, ciò la Consapevolezza, l’Equanimità, allora tutto quanto è incluso, per esempio: sono insoddisfatto, devo prendere consapevolezza della mia insoddisfazione. Sono soddisfatto, ah, uguale: prendo consapevolezza della mia soddisfazione. Allora se la priorità sta da un’altra parte il nostro grado di semplificazione, di semplicità, ha dei limiti molto precisi, per cui non ci troviamo quella base di contentezza che equivale alla “semplificazione” perché - se c’è una base di contentezza - significa che basta poco a farci contenti (semplicità). Ma se noi navighiamo in una scontentezza generale o in una grande facilità alla scontentezza, allora non possiamo pretendere questa energia di questo cavaliere. Versando in una situazione di facilità alla scontentezza, noi dobbiamo chiedere alla pratica una prima base di minor scontentezza.
Non dobbiamo pretendere cose che ci farebbero cadere soltanto nello scoraggiamento, del tipo “da domani tutti gli ostacoli, tutte le avversità, tutte le malattie scompariranno una a una”. Domani succederà che forse non ce ne ricordiamo e, quando ce ne ricordiamo, cadiamo a faccia avanti, ci scoraggiamo, molliamo la pratica, smettiamo di venire a Pomaia e finito tutto. Invece, realisticamente, prendiamo coscienza di uno stato d’animo di grande scontentezza – se ce lo ritroviamo – e cominciamo con la calma, con la metta, con lo studio, con i ritiri, un primo stato di minor scontentezza o di contentezza, cioè di maggior energia. Dopodiché è come se li avvistassimo più facilmente questi ostacoli da trasformare, come se li individuassimo in arrivo, questi missili che stanno arrivando e, con lo sviluppo della determinazione a lavorarci e del gusto a determinarci, a risolverci, a prendere l'aḍḍhiṭhana .
Di modo che l’energia della paura, l’energia della rabbia, l’energia dell’attaccamento piano piano si scolla, si dis-incapsula dalla distruttività, dalla negatività e comincia a rifluire in positivo, quasi a custodire uno spazio tranquillo, interno, dove le cose continuano a succedere ma senza esigere da noi quella identificazione soffocante che esigevano un tempo. Perciò questo spazio è più tranquillo, ed è la cosa ce vale e ci motiva, e quindi alimenta quell’aspirazione di cui parlavamo prima. Un tranquillo spazio interno. Questo sollievo, quando comincia ad apparire, mi fa venire in mente un’espressione di un poeta contemporaneo che dice “al fuoco calmo dei giorni”, è un’espressione che mi piace molto.
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