D: So che non ti piace il termine "transpersonale",
parola che è molto usata per definire un particolare tipo di approccio alla
psicologia.
R: Credo che sia una parola evocativa. In
realtà l'ho utilizzata nel mio primo libro: "The one quest" prima
che entrasse in uso. Poco dopo aver scritto il capitolo in cui compariva la
parola "transpersonale", usciva la rivista di Psicologia
transpersonale e poi scoprii che anche Jung aveva usato questo termine. Forse
la prima persona ad usarla fu Rudhyar, un astrologo francese.
D: La ritieni una parola evocativa. Puoi dire
di più?
R: Nonostante sia una buona parola per
designare quello che si trova oltre la personalità, oltre il corpo e le
emozioni, oltre l'intelletto, mi sembra che sia stata usata come eufemismo per
evitare di usare il termine "spirituale" e, in questo senso, diventa
una parola propagandistica, un poco astuta, utilizzata per sembrare più
scientifici ed essere accettati nel mondo della psicologia, nel quale la
parola "spirituale" è associata al religioso e quindi potrebbe
risultare antiscientifica.
D: Quindi nutri dei dubbi sulla scientificità
del movimento transpersonale?
R: Di fatto non mi sembra che sia più
scientifico dei movimenti religiosi. Si potrebbe giustificare l'eufemismo e
questa strategia, se il movimento transpersonale fosse più scientifico di
quello che è. Io personalmente, sebbene sia stato definito uno dei pionieri
della psicologia transpersonale, non l'ho usata nel mio lavoro se non
raramente e non mi sento vicino alle persone che si definiscono
"psicologi transpersonali". Non ho una grande ammirazione per questo
"circolo".
D: Quali sono le tue idee circa la possibilità
di integrazione tra psicoterapia e psicologia transpersonale?
R: Invece di parlare di integrazione tra
psicoterapia e psicologia transpersonale, come se la psicologia transpersonale
fosse qualcosa di definito, preferisco rispondere alla domanda: come integrare
la psicoterapia con la spiritualità.
D: Mi sembra molto interessante, mi
piacerebbe che ne parlassi di più.
R: Otto anni fa, in occasione di un congresso
della Società di Psicologia Umanistica europea in Svizzera, ho avuto un
incontro con Keyserling che forse è il più interessante dei rappresentanti
della psicologia transpersonale in Europa. Egli parlò per primo e io gli
facevo da traduttore dal francese, cosicché feci molta attenzione a quel che
diceva.
Disegnò una piramide alla lavagna mostrando
l'evoluzione di tutte le psicologie, dal comportamentismo, attraverso la
psicoanalisi, alla maggiore sofisticazione della psicologia umanistica, poi le
diverse fasi della psicologia esistenziale culminando con la psicologia
transpersonale, come vertice della piramide.
Dopo di lui ho parlato io e ho detto che,
sebbene cronologicamente questo sia stato lo sviluppo delle tendenze nella
psicologia, mi sembrava che la psicologia transpersonale fosse una scatola
vuota. Se vogliamo trovare in essa un vero contenuto, meglio cercarlo nelle
psicologie transpersonali prescientifiche: nella psicologia del Buddhismo,
nella psicologia implicita nel Sufismo e addirittura nella comprensione
psicologica dei Rabbini, in generale in tutte quelle tradizioni spirituali che
hanno trattato gli aspetti psicologici in maniera "saggia".
Più si evolve la psicologia meno troviamo
quella che può chiamarsi "psicologia transpersonale" che oggi è
spesso, in definitiva, un modo di nascondersi e poter dire: " la
psicologia transpersonale lo dice ".
In realtà è un'intenzione molto buona
quella di avvalorare ciò che nel campo psicologico non rientra nell'orbita
scientifica, per avvalorare un interesse per il paranormale, la creatività,
la psicologia della religione e così via. L'intenzione esiste, però non
esiste un corpo unitario di conoscenze, anche se molte persone lavorano per
contribuire alla sintesi attingendo un po' da una parte e un po'' dall'altra.
Per esempio, in Svizzera, c'è uno psicologo ceco, il cui nome non ricordo in
questo momento, che conosce molto bene il Buddhismo Hinayana e che ha scritto
sull'integrazione tra la concezione della psicologia dell'Abhidarma e lo
Psicodramma. Egli conosce lo psicodramma profondamente e quindi scrive di una
psicologia antica stabilendo le connessioni con quella moderna. Allo stesso
modo altri stanno facendo piccole integrazioni. Stando così le cose, mi
sembra un poco artificiale parlare della "psicologia transpersonale"
come se fosse un corpo integrato di conoscenze.
D: Quindi si può dire che sono integrazioni
che vanno ad arricchire il corpo della psicologia occidentale classica
aprendola a nuovi e più ampi orizzonti.
R: La psicologia transpersonale afferma che
esiste il transpersonale, in altre parole che esiste lo spirituale, che esiste
un ambito di esperienze che vanno ben oltre le esperienze interpersonali o le
esperienze di relazione con gli oggetti del mondo fisico. Esiste il mondo che
a volte è detto "della coscienza", perché si usa molto chiamarla
"psicologia della coscienza", e al di fuori di questo il fattore
spirituale è anch'esso terapeutico. Non solo è terapeutico comprendere la
psicodinamica, non solo è terapeutico lo sforzo di cambiare il comportamento,
ma anche l'esperienza di coscienza espansa, la coscienza del divino e, per
ultimo, "la coscienza della coscienza" è un fattore importante
nella psicoterapia. Io aggiungerei che non solo questo ma anche la prospettiva
del cammino interiore è terapeutica. E' terapeutico, per una persona che si
trova in una fase di cambiamento, comprendere questo processo come qualcosa
che va più in là della cura dei sintomi, o più in là dell'adattamento
sociale, dunque, capire un po' la natura della trasformazione, del fine
ultimo. In termini molto generali, conoscere qualcosa che tradizionalmente è
stato chiamato "gli Insegnamenti": insegnamenti rispetto al destino
umano, alla natura del cammino interiore.
D: A volte, quando si parla in questi
termini, le persone più "scientifiche" pensano che si vada nel
misticismo, nell'astratto, in quello che solo la religione può raggiungere,
invece so che nel tuo lavoro c'è grande concretezza e attenzione ai risultati
verificabili. Quale potrebbe essere l'elemento terapeutico trasformatore, in
senso transpersonale, per come tu lo intendi?
R: Io credo che un fattore che si può
chiamare transpersonale è il fattore della coscienza in se stessa. In realtà
la coscienza non appartiene al mondo del corpo, non appartiene al campo
volitivo, non appartiene al campo affettivo né al campo cognitivo, secondo il
significato corrente.
L'attenzione a sé, quando diventa pratica
quotidiana, è un fattore transpersonale.
Direi di più: il livello di attenzione di
una persona è un'energia che si irradia e l'esperienza gruppale è un fattore
molto importante di questo passaggio di attenzione attraverso la quale anche
le parole producono un effetto amplificato, come se fosse puntato un faro
luminoso su ciò che si osserva.
Nella Gestalt, in modo particolare,
l'attenzione è molto più che un mezzo per scoprire qualcosa, l'attenzione è
un fattore di sanità in se stesso. Si può dire che la Gestalt ha la pretesa
di restaurare la capacità di attenzione, la capacità di stare nel qui ed
ora, che non è stare qui ed ora per capire qualcosa del passato, ma piuttosto
di capire "a volte" qualcosa del passato per poter stare qui ed ora.
E' fine a se stessa, è come un diritto, qualcosa che appartiene alla salute e
che merita di essere restituito all'uomo. Anche l'amore lo considererei un
fattore transpersonale, però la maggior parte delle volte quello che
chiamiamo amore è un amore in fondo seduttivo, un amore-piacere che significa
ricerca di gratificazione dei nostri impulsi istintivi o passionali. Il vero
amore è uno stato senza oggetto, il vero amore ama tutto quello che gli è
posto davanti. E' come un'allegria senza fine, senza finalità. E' anche parte
della salute, di modo che se c'è amore, uno ama se stesso e chi gli sta
davanti. Tanto è più grande l'amore quanto meno è condizionato. Con questo
non voglio dire che l'amore debba essere incondizionato, senza limiti, ma che
la natura del vero amore è come una luce che irradia in tutte le direzioni.
Non si ama "per la tale cosa", perché ci gratifica, perché ci
approvano, perché ci danno amore o perché una persona ha determinate
caratteristiche, determinati meriti, ma piuttosto si ama il "tu",
l'altro, si ama l'essere che c'è dietro ognuno. Questa qualità d'amore, che
è parte integrante di tutte le tradizioni religiose, è un fattore
transpersonale.
D: Mi sembra che nel tuo lavoro insegni a
sperimentare e a contattare le esperienze alle quali fai riferimento
attraverso tecniche specifiche e questo mi sembra il passaggio più difficile.
R: Si, io sono stato molto pratico nel mio
avvicinamento a questi argomenti e mi sono dedicato, per esempio, a tradurre
certi principi della meditazione sul piano interpersonale, sviluppando tutto
un capitolo sulla meditazione relazionale o estensioni interpersonali della
meditazione.
D: Questo vuol dire anche riportare il
livello cosiddetto transpersonale ad una concretezza immediata, a qualcosa cioè
che si può sperimentare subito, nella vita quotidiana.
R: Si dice nelle tradizioni antiche che la
meditazione idealmente dovrebbe espandersi in tutte le situazioni della vita.
In realtà è molto difficile, c'è bisogno dell'allontanamento dal mondo per
ritornare al mondo con un contatto più profondo con sé o con un maggior
sviluppo della propria capacità di attenzione. Però non è necessario
aspettare dieci anni affinché si compia lo sviluppo, come nel Buddhismo Zen
in cui la persona ha bisogno di sperimentare molti "satori"
progressivi prima di poter fare la pratica quotidiana spontanea.
Fin dall'inizio del mio lavoro ad Esalen,
negli anni '60, mi sono occupato di accelerare il processo di meditazione
nella pratica da soli ma anche "faccia a faccia" con un altro. E' un
po' come nello spirito di tutte le riunioni religiose nelle quali viene
validata la sacralità della comunità, come nel Vangelo quando Cristo dice:
"Se due si riuniranno nel mio nome io sarò presente". Io credo che
ciò sia valido anche se due persone meditano insieme. Stando uniti nasce un
potere speciale e nonostante ci sia una certa difficoltà ad entrare in
contatto con sé stesso stando di fronte ad un altro, ad entrare in contatto
con la propria esperienza di fronte alla potenziale distrazione di un
testimone, è anche vero che c'è un elemento di contagio e le due cose si
compensano.
Mi sembra che per certe persone sia più
facile la meditazione solitaria e per altre invece sia più facile la
meditazione condivisa, forse questo ha una relazione con l'introversione e
l'estroversione.
D: Come collochi il tuo lavoro, ormai
ventennale, con l'Enneagramma e la Psicologia degli Enneatipi nella concezione
che stai presentando di incontro tra spirituale e psicoterapia?
R: Tutto quello che è relativo
all'applicazione dell'Enneagramma è una psicologia prescientifica che però
facilmente si può tradurre in una terminologia scientifica, perché il fatto
che sia cronologicamente antica non vuol dire necessariamente che sia meno
scientifica della psicologia freudiana. Quello che ho fatto io rispetto a
questa particolare psicologia transpersonale è stato di svilupparla e
renderla più esplicita di quello che era quando l'ho ricevuta attraverso una
trasmissione orale, perché non esisteva niente di scritto in quel tempo, e
l'ultima tappa di questo sviluppo è la formulazione nella quale mi sono
impegnato, di una teoria transpersonale della nevrosi. Una teoria che mette
l'accento non sulle vicissitudini dell'istinto, come nella tradizione
freudiana, ma su un fattore molto centrale: la perdita dell'essere.
L'esperienza del vuoto o l'esperienza dell'alienazione di se stesso,
l'esperienza che R. D. Laing ha chiamato "insicurezza ontica" e che
io preferisco chiamare "carenza ontica". La mia visione è che tutto
il mondo passionale o tutto il mondo della libido, non di eros bensì della
libido, perché mi piace fare una distinzione tra queste parole, il mondo dei
desideri quindi, è un mondo che si alimenta del vuoto. E' come se tutta la
passionalità fosse stimolata dal desiderio di riempire il vuoto che resta a
causa della perdita del senso dell'essere, voglio dire per la perdita
dell'esperienza diretta dell'essere. Sebbene possiamo dire astrattamente
"sono", filosoficamente non abbiamo l'esperienza dell'"Io
sono", che si può dire sia ciò che appare come "il più
divino" nell'essere umano. Solo la parte divina nell'essere umano può
dire "sono quello che sono".
L'esperienza dell'essere è qualcosa che,
paradossalmente, più la persona cerca, meno riesce a raggiungere e viceversa.
L'esperienza dell'Io è un'esperienza molto fragile, quasi illusoria, è
qualcosa che si vede con la coda dell'occhio e appena si guarda di fronte,
scompare. Quanto più si cerca l'Io, tanto meno si trova. Dunque mi sembra che
il lavoro sulla carenza in questo senso, non la carenza amorosa che studia la
psicologia dinamica ma la carenza ontica, dia un'altra dimensione alla
psicoterapia, una dimensione peraltro piena di speranza perché l'amore di
vent'anni fa non si può ritrovare, però l'essere è sempre presente, solo
che dobbiamo sviluppare la capacità di rimuovere il velo che ci separa da
esso.
Una delle mie realizzazioni teoriche è stata
la formulazione di una teoria della nevrosi e degli aspetti caratterologici
che accompagnano gli stili nevrotici. Da questo punto di vista tutte le
nevrosi sono una ricerca disperata dell'essere che "riposa" in una
perdita dell'essere, e la perdita dell'essere si sostiene con la stessa
ricerca dell'essere là dove non c'è.
Ho lavorato sistematicamente a partire dal
carattere perché penso che la base della nevrosi sia caratterologica, non
credo, come qualcuno ha proposto, che la nevrosi del carattere sia una
complicazione della nevrosi, ma piuttosto che la nevrosi sintomatica sia una
complicazione della nevrosi caratterologica di base.
D: Hai fatto cenno poco fa al deficit
dell'essere definendolo come una carenza ontica, mi pare che in questo
discorso rientri la tua ricerca nel Buddhismo e l'approfondimento dei suoi
vari livelli.
R: E' vero, però mi piacerebbe dire al
riguardo che esistono due "vocabolari" nel mondo delle tradizioni
spirituali. L'attitudine del Buddhismo è trovare alla radice della vita un
"vuoto fondamentale". Con questo si vuol dire qualcosa di
trascendente, qualcosa che non si può definire concettualmente e che
fuoriesce da tutte le categorie di pensiero. Questo modo di vedere esiste
anche in altre tradizioni come ad esempio l'Induismo secondo il quale, al
centro della persona, si trova un "self" un sé stesso. Una delle
mie tesi, durante molti anni dalla pubblicazione di "The one quest",
è stata che questa polemica religiosa, se la verità si trovi nel
"self" o nel "non self", rifletta anche due stili di
simboleggiare, il che non comporta una differenza fondamentale rispetto alle
implicazioni pratiche. Tanto il meditare sul vuoto quanto il meditare sul self
indirizzano la mente verso il centro di sé stessa o il meditare su Dio. La
differenza non è così radicale come sembrerebbe. In tutti i casi è certo
che nel Buddhismo si abitua la persona a svuotarsi di sé stessa, si abitua la
persona a stare senza punti di riferimento, esiste una vera educazione a
lasciar andare l'attaccamento a forme di comportamento o idee. Lo stesso si può
dire del taoismo, il Tao è, nella sua essenza, vuoto e questa concezione di
vuoto ispira il coltivare la fluidità.
D: Cosa puoi dire di più su questa idea di
vuoto che spesso è difficile comprendere da chi non è dentro l'esperienza:
in generale si teme che il vuoto sia un non esistere.
R: Nel Buddhismo si parla in due sensi di
vuoto. La vacuità, la mancanza di significato del Samsara, la insostanzialità
del Samsara, che è un'idea che si sviluppa quanto più la persona è
risvegliata spiritualmente. Come diceva il sufi Bayasid Bistami, anche se
stiamo parlando di Buddhismo, "quanto più vivo, meno mi interessa il
mondo, più mi interessa Dio".
Si può dire che quando una persona matura
spiritualmente gli interessano sempre meno le cose del mondo, cominciano cioè
a sembrare superflue, come i giocattoli che un bambino lascia da parte, i
piaceri sensoriali, i piaceri della vanità, i piaceri legati al potere, di
fronte ad una soddisfazione più profonda che non può dare nessuna cosa al
mondo.
Questa può essere una nozione di vuoto: è
come svuotare il mondo di significato. Un altro senso è che il supremo,
l'assoluto, quello che cerchiamo ben oltre il mondo, ha una natura di vuoto.
In questo senso è qualcosa di cui non si può dire niente. Tutto quello che
possiamo dire di qualsiasi cosa si trova dentro una polarità: di tutto si può
dire il contrario. Allora il vuoto ha un senso di ineffabilità che non è un
niente ma che non ha caratteristiche denominabili, specifiche.
Io credo che questi due tipi di vuoto non
siano diversi come sembrano perché, se ci si permette di stare
nell'indefinito, nel vuoto che lascia il mondo e le sue soddisfazioni, si crea
un'apertura verso ciò che non è sullo stesso livello del concettuale, o
dell'emozionale, o del volitivo.
Ci si può chiedere cosa sia il
transpersonale se non è corpo, non è emozione, non è intelletto. Si può
dire che è niente, però non un niente negativo, bensì un niente in cui è
radicato l'essere.
Parlando in forma approssimativa si può dire
che la visione risvegliata della vita è una visione nella quale tutte le cose
che quotidianamente si dice "esistano", sono come ombre, sono
derivate, sono riflessi dell'essere, sono come la caverna di Platone, un mondo
che ha qualcosa della natura del sonno rispetto all'essere assoluto; ma in
questo senso si può dire che solo il non-essere, è. Solo quello che dal
nostro punto di vista ordinario sembra non essere, è quello nel quale può
trovarsi l'esperienza dell'essere. E' un poco come dire che solo consegnandosi
alla morte si può trovare la vera vita, mentre più ci aggrappiamo alla vita
più ci distruggiamo, più ci inibiamo nel flusso della vita.
D: Tu ti stai occupando di più tradizioni
spirituali, non solo del Buddhismo ma anche del Cristianesimo, del Sufismo,
dell'Induismo, dello Sciamanismo sudamericano. Hai trovato un punto di
connessione, un punto comune a tutte queste tradizioni?
R: Ho avuto la fortuna di avere maestri di
diverse tradizioni, ho avuto provvidenzialmente l'opportunità di conoscere
grandi rappresentanti dallo Sciamanismo fino al Taoismo e nel mio primo libro,
"L'unica ricerca" o "The one quest" mi sono proposto di
rispondere a questa domanda però non dal punto di vista che potremmo chiamare
teologico, o filosofico, o ideologico. Sebbene si possano trovare alcune cose
in comune a questo livello, non se ne trovano tante come sul piano
dell'esperienza. Io credo che il punto comune sia l'esperienza della
trasformazione, che è conosciuta in tutte le culture. Nello Sciamanismo viene
concepita come un'esperienza di morte e rinascita, così come presso gli
antichi egiziani, come nel Cristianesimo. Nel Buddhismo si propone come
un'esperienza di "annichilimento" che accompagna l'arrivo della
saggezza, la conoscenza trascendentale.
Nell'Islam sono usati i termini astratti di
"fanà" e "baqà", entrambi intesi come qualcosa che
arriva dopo la scoperta del proprio nulla, la scoperta che attraverso di noi
vive solo l'essere universale.
Io credo che la conoscenza del divino sia
presente in tutte le tradizioni ed è secondario se la si chiama
"divino" oppure no.
Lao Tze per esempio dice che il Tao è la
"nonna di Dio". Invece di essere chiamato Dio, Il Tao è come un
principio più arcaico che non si personalizza. Si può dire che Dio è un
antropomorfismo, il che è perfettamente permesso, anche se, per una mente
filosofica, può essere meno soddisfacente. Addirittura nel Cristianesimo ci
sono stati teologi come Dionisio Aeropagita, che insistono sul "Deus
Absconditus" e sull'oscurità del divino, sullo sconosciuto dal punto di
vista intellettuale, che si trova più in là dell'idea di Dio.
Ad ogni modo, che il divino lo si chiami Tao,
lo si chiami Dio o lo si consideri come la natura della mente, è qualcosa di
presente nella vita dei ricercatori di tutte le culture e se s'incontrassero
non ci sarebbe il limite delle parole per riconoscersi mutuamente.
Quelli che si sono risvegliati, nelle diverse
vie, scoprono che la coscienza è una e s'incontrano in una risonanza che non
ha bisogno di appoggiarsi sulla comparazione di teorie.
Anche a livello pratico e tecnico c'è una
grande somiglianza tra le vie, per esempio cose concrete come l'uso della
respirazione per entrare in contatto con una coscienza più sottile, si
trovano tanto nella tradizione Buddhista giapponese quanto nella tradizione
Sufi o nelle terapie corporali moderne. Includerei anche le vie di crescita
occidentali, sebbene non abbiano l'antichità né l'autorità così provata
attraverso i secoli delle vie orientali, si possono però vedere dei punti di
contatto, punti di somiglianza molto grandi.
In "The one quest" c'è un
chiarimento della natura del processo, io dico che uno degli aspetti è il
risvegliarsi. Tutte le vie hanno a che vedere con il passaggio
dall'incoscienza alla coscienza, si tratti della psicologia freudiana, della
via del risvegliarsi del Buddhismo o della via del risveglio del Sufismo. Si
tratta dello sviluppo della coscienza stessa.
Tutte le vie riconoscono anche il bisogno di
un cambio di identità, dal piccolo Io al grande Io, dall'Io fittizio, dalla
piccola mente con cui ci identifichiamo quotidianamente, a quella che si
potrebbe chiamare in alternativa la "grande mente" o il self o come
lo si voglia chiamare. E' un passaggio molto conosciuto, si tratti di Yoga o
di Psicoterapia o di Taoismo.
D: In quest'ottica si potrebbe considerare la
psicoterapia come un livello di una ricerca più ampia che sfocia nello
spirituale?
R: Io penso che la psicoterapia è uno Yoga
delle relazioni, uno Yoga relazionale, così come esiste il Karma-Yoga nelle
vie indù tradizionali, uno Yoga dell'azione concreta, cioè dell'azione
corretta.
La psicoterapia è come uno Yoga per la
revisione delle relazioni umane, non attraverso il dovere o il modello di
azioni derivanti da norme stabilite, ma piuttosto attraverso la revisione
delle motivazioni. Si tratta però di una correzione, di un affinamento delle
relazioni umane che hanno molto in comune con le vie dell'azione, è una via
d'azione attraverso l'insight psicologico, attraverso il guardare dentro la
sottigliezza del mondo interiore. E' un modo specificamente moderno, sebbene
sia esistito tradizionalmente nel contesto delle relazioni maestro-discepolo.
La relazione di un Rabbino con un allievo, la relazione di un Guru tibetano
con un allievo, sono estremamente sofisticate dal punto di vista psicologico,
non hanno meno senso e meno ricchezza di quello che ha il contatto
terapeutico, perché si tratta spesso di persone addirittura veggenti e molto
creative nel loro modo di influire o di far vedere qualcosa. Ma la specialità
del lavoro relazionale, la specialità di aiutare in maniera più
scientificamente delineata, è un contributo nettamente occidentale. Credo che
sia un apporto importante alle vie tradizionali, un apporto che prende in
considerazione l'aspetto espressivo, non solo comunicativo, attraverso le
parole ma anche mimico, come lo psicodramma per esempio. E' un mezzo per
conoscere meglio il mondo delle emozioni ma se si limitasse a questo potrebbe
essere insufficiente, nel contesto però di una concezione più ampia è molto
valido.
D: Cosa pensi del contributo cognitivo che
porta la psicologia?
R: Credo che c'è un gran futuro nella
terapia cognitiva applicata al carattere, si sta arrivando ad un punto molto
centrale che si incontra con il lavoro che si fa nella psicologia dell'Enneagramma.
D: Cosa pensi del discorso di Wilber a
proposito dei livelli di conoscenza transpersonale?
R: L'Associazione di Psicologia
Transpersonale ha fatto di Wilber il suo eroe, a volte si dice che sia il
William James dei tempi moderni e mi sembra che sia un uomo di molto talento
che però è stato sopravvalutato nel dargli un ruolo così importante. Ha
richiamato molto l'attenzione in parte perché è una persona erudita che
comprende Gebser e ha letto Piaget, Margaret Mahler e altri pensatori sul tema
dello sviluppo umano. Però egli ha suscitato molta impressione nei
transpersonalisti americani perché questi sono poco eruditi ed è eccezionale
avere un transpersonalista che legga libri e che comprenda le cose più
scientifiche. Wilber ha preso le fasi dello sviluppo di psicologi classici e
ha aggiunto fasi tradizionali dello sviluppo spirituale, come in una scala.
Questo è più o meno ovvio farlo, però mi sembra che ci sia una limitazione
nella forma in cui ha presentato le cose, oltre alla quantità di errori che
sono gli errori di una persona che ha conosciuto le tradizioni attraverso
studio accademico e reale interesse, ma poco come esperienza vissuta. L'errore
fondamentale mi sembra che sia la presentazione dello sviluppo come una
scalinata diretta verso uno stato supremo invece di riconoscere il processo
ciclico di ascesa e caduta, la cosiddetta notte oscura dell'anima.
D: Vuoi parlarne più dettagliatamente?
R: Ho appena finito un libro il cui primo
capitolo si chiama "Il viaggio dell'eroe come teologia mistica" e la
proposta è che il modello mitico, la struttura degli argomenti di molti miti
e fiabe, è l'eco di un'esperienza interiore riconosciuta in tutti i tempi.
Però in questo libro richiamo l'attenzione sulla visione più conosciuta, la
schematizzazione del viaggio dell'eroe che viene presentata da Joseph Campbel
in tre fasi: un andare, avere un'avventura in un mondo lontano e un ritornare.
Mi sembra che se facciamo un'analisi più
sottile delle fiabe e dei miti troviamo che nella storia dell'eroe ci sono due
tipi di vittoria: una prima vittoria che è transitoria e seguita da un
tradimento, da una perdita, da un viaggio all'inferno, da qualcosa di
terribile e dopo, alla fine, una vittoria definitiva, c'è quindi un'ascesa,
una caduta e poi di nuovo un'ascesa.
Questo corrisponde esattamente alla teologia
mistica cristiana dove si parla della via purgativa, il viaggio dello sforzo
che culmina con la via illuminata, il periodo in cui una persona si sente
piena di grazia, vicina a Dio, con accesso ad esperienze spirituali, che però
ha la caratteristica di essere un'esperienza che non dura, dura cioè per un
periodo limitato di tempo ed è seguita da quello che San Giovanni della Croce
chiamò "la notte oscura dell'anima ", un periodo di maturazione, di
morte interiore e, contemporaneamente, di gestazione di una nuova vita.
Ciò che sembrava essere la nascita di un
essere spirituale si trasforma nello sviluppo di un'agonia interiore e
l'esempio più conosciuto di tutto questo, al di là di tutti i miti, è la
storia di Cristo, che oggigiorno si ricomincia a capire come una storia del
Cristo interiore, dopo molto tempo di dominio letterale. Nell'età media si
sapeva molto bene qual era il senso del Calvario, al di là del letterale, e
la prova di questo era un detto: "Pochi arrivano a Betlemme e ancor meno
sono quelli che conoscono il Calvario", in pratica la nascita del Cristo
interiore, per rara che sia, è più comune dell'esperienza della morte del
Cristo interiore, vale a dire la perdita della spiritualità che è la porta
per accedere allo stato di completezza.
La "Vita Nova" di Dante rappresenta
una nascita spirituale. E' chiaramente un'opera simbolica su una nuova vita;
poi muore Beatrice e dalla morte dell'amore scaturisce una nuova vita che
porta Dante fino ad incontrarla nell'al di là. Dunque " La Divina
Commedia" non è il racconto del viaggio interiore per intero, bensì la
seconda parte. "La Divina Commedia" inizia con "la notte scura
della anima", con la discesa all'Inferno e il passaggio per il Purgatorio
per ritrovare il Paradiso, che è già stato conosciuto transitoriamente e un
po' meno profondamente all'inizio della sua vita.
D: Pensi che il ciclo dell'ascesa e caduta
dell'anima si ripeta più volte nel corso di una vita umana?
R: Sostanzialmente mi sembra che per quanti
cicli ci siano nella vita ordinaria e che per quanto possano esserci
addirittura oscillazioni cicliche dopo la realizzazione suprema,
essenzialmente sono cicli di un altro ordine.
La configurazione del viaggio non è molto
complessa, non consiste di cicli indefiniti. C'è un solo monte Sinai nella
vita di un uomo, un'iniziazione vera della via e, poi, la seconda nascita che
nel Cristianesimo si preferisce chiamare Resurrezione, una nascita più
radicale che è la finalità della via ed è, piuttosto che la morte dell'uomo
vecchio, la morte dell'ego; non solo un nuovo inizio, bensì il fine che
rappresentò l'Esodo con la morte di Mosè alle porte della Terra Promessa.
Arrivati a questa condizione ci possono
essere cicli, però questi sono contemplati in uno stato di comunione
universale. All'inizio del cammino l'uomo è soggetto alla grazia, c'è
un'alternanza, c'è un elemento di azzardo, alla fine del cammino la persona
ha guadagnato il suo diritto di entrare in cielo e per la sua stessa natura e
nonostante ci sia un elemento di fluttuazione della vita, nessuno potrà
disfare questa nascita. L'uomo non ritorna al ventre della madre un'altra
volta. Ciò non significa che l'evoluzione non continui. Io credo che lo
sviluppo spirituale possa continuare, però non mi sembra chiaro dai documenti
che esistono e nemmeno è qualcosa di cui io possa parlare personalmente perché
appena comincio a sentire l'odore della Terra Promessa.
Ci sono opere letterarie che suggeriscono
cicli, per esempio nella Bibbia dopo la Terra Promessa, dopo che sono crollate
le mura di Gerico, con il libro di Giosuè c'è di nuovo un periodo nero, ci
sono guerre, c'è disunione e poi c'è un nuovo periodo di gloria con la
unificazione del regno fatta dal re David e con la costruzione del tempio di
Salomone che è di nuovo il pinnacolo finale della Storia Sacra di cui è
stato specialista questo popolo, in particolare con la sua grande tradizione
nell'usare il materiale delle leggende per esprimere esperienze interiori. Io
credo però che si tratti piuttosto dello sviluppo come di un motivo musicale,
di una configurazione interna, non perché nella vita umana si ripeta
indefinitamente bensì perché, quale che sia il libro della Bibbia che uno
legge, può vedere la storia intera ripetuta attraverso il materiale di
un'altra storia. E' come un albero che si ripete nel ramo e il ramo che si
ripete nella foglia. Questi grandi libri sono come tessere, come le cattedrali
gotiche che possiedono una struttura globale e si possono ammirare anche
microscopicamente e vedere strutture particolari. Mi sembra piuttosto che si
tratti di un artificio letterario, di un ricorso letterario per riflettere il
tutto in ognuna delle parti.
* Psichiatra,
psicoterapeuta. Allievo di F. Perls, è stato uno dei primi componenti dell'Esalen
Institute. Insegna all'Università di Berkeley
** Psicologo, psicoterapeuta. Direttore dell'IGAT: Istituto
di Gestalt e Analisi Transazionale
Da:
http://www.in-psicoterapia.com/naranjoi.htm
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