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1. L'Archeologia del sapere e la riflessione sul linguaggio Michel Foucault nasce in Francia, a Poitiers, nel 1926. Si tratta di un intellettuale dal profilo complesso e difficilmente catalogabile. Molti sono i suoi interessi, e per le più svariate tematiche: dalla follia e dalle pratiche di reclusione dei malati mentali, all'analisi del linguaggio, alle forme di potere, alle pratiche sessuali, ecc... Nelle sue opere confluiscono, dunque, le molteplici ricerche che Foucault ha condotto, nel corso della sua vita, immergendosi in letture che riguardavano campi molto differenti del sapere. Tali letture egli rielaborava sempre in una prospettiva filosofica originale e costantemente attenta al confronto con l'attualità. La riflessione del pensatore francese si propone in effetti anche come lettura e interpretazione del mondo contemporaneo e delle sue dinamiche, come testimoniano la ininterrotta attività di giornalista (è il caso di ricordare, a questo proposito, la corrispondenza per il "Corriere della sera" sulla rivoluzione in Iran) e la sua partecipazione agli eventi più significativi della seconda metà di questo secolo. Tra i suoi primi scritti, ricordiamo la Storia della follia nell'età classica, che analizza le pratiche di internamento nell'età moderna, La nascita della clinica, dedicata alla stessa tematica, Le parole e le cose, che studia i fondamenti comuni alle varie dimensioni del sapere in epoca moderna e contemporanea. Per comprendere i principi che sono alla base della ricerca foucaultiana negli anni sessanta, molto importante è L'Archeologia del sapere. In questo scritto teorico l'autore si propone di chiarire e sistematizzare le linee guida dei suoi precedenti lavori. Si tratta di un'opera in cui Foucault presenta, argomentandola, la sua interpretazione del linguaggio, inteso come l’insieme dei discorsi che vengono pronunciati o scritti in un determinato periodo storico. Il "discorso" non deve essere inteso come la traduzione, la traccia esteriore di un significato nascosto, ma deve essere studiato semplicemente in base alle caratteristiche che regolano la sua comparsa reale. L’interrogativo guida di questa ricerca è: perché e come in "questa" circostanza è comparso "questo" linguaggio? Quali sono le sue caratteristiche reali? Come e quando si parla di determinati argomenti? Con questa analisi, Foucault mette in questione le funzioni tradizionalmente assegnate dalla filosofia al soggetto del discorso e all'oggetto di cui si parla. Piuttosto che credere che il linguaggio prenda forma a partire dagli oggetti ai quali si riferisce, Foucault ritiene infatti che sia il linguaggio stesso a dare luce ai propri oggetti, a definirli e a renderli argomento del sapere. Analogamente, non esiste un soggetto pensante che si riconosca autore del discorso, ma è quest'ultimo a individuare delle posizioni da cui in un determinato momento storico è possibile parlare ed essere ascoltati: Così concepito il discorso non è la manifestazione, maestosamente sviluppata, di un soggetto che pensa, conosce e dice: si tratta, invece, di un insieme in cui si possono determinare la dispersione del soggetto e la sua discontinuità con se stesso. E' una specie di esteriorità in cui si manifesta una rete di possibili posizioni distinte. (L'Archeologia del sapere, ed. Rizzoli, Milano1971, pag. 74) Questa analisi, come si è appena notato, presenta il discorso come un universo indipendente, capace di creare oggetti e di individuare posizioni di soggettività. In questo modo, viene messa in discussione la centralità del soggetto tipica della filosofia moderna e contemporanea. Questa ostinata critica dell'antropocentrismo è una costante delle opere di Foucault, che lo accompagna nella sua analisi del linguaggio, come in quella del potere e della libertà. Tutta la riflessione del filosofo francese può essere interpretata come un tentativo di pensare in un orizzonte non più dominato dalla presenza centrale dell'uomo e di fondare una nuova immagine del soggetto, come si evidenzierà soprattutto dall'analisi delle sue ultime ricerche. Nella sua indagine sull'archeologia del sapere Foucalt, inoltre, sofferma la sua attenzione analitica sul "livello preconcettuale". Quest’ultimo rappresenta l'insieme delle regole che individuano le condizioni di comparsa del linguaggio. Qual è la ragione per cui in una determinata epoca si discute di certi argomenti piuttosto che di altri, per cui ci sono oggetti di discussione più importanti e altri meno? Esistono delle regole che condizionano il linguaggio nella sua apparizione e articolazione . Esse non sono universali e trascendentali, ma hanno un carattere storico e culturale e regolano le condizioni di comparsa del discorso, dei suoi argomenti e di coloro a cui è concesso formulare discorsi veritieri in una determinata epoca. In conclusione, dunque, l'analisi dell'archeologo si propone di individuare le caratteristiche della superficie anonima del linguaggio. Questa operazione ci rivela il carattere storico e culturale di ciò che siamo abituati a considerare estremamente familiare e naturale, come il nostro modo di parlare: è una analisi che si rivolge a una regione privilegiata, che è al tempo stesso vicina a noi, ma differente dalla nostra attualità, che è il bordo del tempo che circonda il nostro presente, ciò che sta fuori di noi e ci delimita (L'Archeologia del sapere, cit., pag. 175)
2. La concezione del potere Negli anni '70, con opere come Microfisica del potere, Sorvegliare e punire e La volontà di sapere, Foucault dirotta i propri studi dall'analisi del linguaggio a quella del potere. L’Archeologia del sapere è un’opera ancora fortemente condizionata dallo strutturalismo. Fortemente strutturalista è, per esempio, l’isolamento del campo discorsivo dal resto del mondo e la ricerca di leggi impersonali tutte interne ad esso che ne individuano il funzionamento. In queste nuove ricerche dedicate al potere, invece, viene meno la forte ispirazione. Lo studio delle "forme di potere" portato avanti negli anni '70 intende dunque anche superare l'isolamento del discorso e ricercare un terreno comune da cui provengano le pratiche discorsive, così come quelle istituzionali, politiche, sociali, intellettuali, ecc... Il terreno comune fra tutte queste differenti pratiche è ora individuato da Foucault nei "rapporti di potere". Bisogna chiarire cosa intenda il filosofo francese quando parla di potere. Si tratta, prima di tutto, non di un'unica forza centrale che si irradi dall'alto verso il basso, secondo il modello del potere regio che si esercita sui sudditi: non esiste, infatti un potere unico, ma siamo in presenza di una "rete di rapporti di potere" che si applica a tutti i livelli della nostra vita. Scrive Foucault: l'analisi in termini di potere non deve postulare, come dati iniziali, la sovranità dello Stato, la forma della legge o l'unità globale di una dominazione, che ne sono solo le forme ultime; si deve invece intendere, con il termine potere, la molteplicità dei rapporti di forza immanenti al campo in cui si esercitano. (La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano 1978, pag. 82) Bisogna quindi liberarsi di una concezione unicamente politico-istituzionale del potere, che non è nemmeno più in grado di spiegare i fenomeni in atto in una società complessa come la nostra. La onnipresente "rete di poteri", che Foucault traccia in queste opere, assomiglia alla lotta tra le forze che Nietzsche nella Genealogia della morale, un secolo prima, individuava come origine storica del divenire. Foucault stesso, in Microfisica del potere, dedica un saggio alla genealogia di Nietzsche, la cui lettura ha fortemente influenzato i suoi studi sul potere. Dalla ricerca di Nietzsche egli ha infatti tratto l'immagine del divenire come una lotta perpetua tra forze, origine di tutte le forme e di tutte le istituzioni: nell'interstizio tra queste forze, nella loro battaglia, si produce potere. Tutto ciò che avviene è dunque preso all'interno di rapporti di forza, i quali regolano la comparsa del linguaggio, le forme del sapere - che non è più un territorio neutro sottratto al potere - come anche i rapporti più intimi tra uomo e donna, tra genitori e figli, ecc... Non ci si può mai sottrarre al potere, che non è qualcosa di negativo, che agisca unicamente reprimendo o soffocando, ma è prima di tutto una forza attiva e creatrice, la legge di apparizione di ciò che accade: Come sarebbe indubbiamente facile smantellare il potere, se esso si limitasse a sorvegliare, spiare, sorprendere, proibire e punire; ma esso incita, suscita, produce; non è semplicemente occhio e orecchio, ma fa agire e parlare. (La vita degli uomini infami, in Archivio Foucault, vol. II, Feltrinelli, Milano, pag.259) Il potere, come già il discorso nell'analisi archeologica, non è esercitato da un soggetto, non ha una unica origine, ma è il risultato sempre ribaltabile della lotta tra le forze. All’interno di questa battaglia si producono gli oggetti sui quali il potere si esercita e le posizioni nelle quali ci si riconosce e ci si colloca come soggetti dei discorsi e delle azioni. E’ all’interno dei rapporti di potere, dunque, che si creano gli spazi per l’azione e la formazione dell’individuo. Foucault inoltre ha più volte insistito sul carattere sempre reversibile dell'esercizio del potere: il dominio è stabile e violento, ma il potere è fluido e ribaltabile. Questo implica che, se pure siamo presi sempre all'interno di una rete di poteri, non per questo siamo paralizzati e impediti nell'azione. Tutte le nostre azioni avvengono all'interno di rapporti di potere e sono esse stesse un modo per ribaltare questi rapporti e crearne di nuovi.
3. L'ultimo Foucault e la morale Successivamente alle ricerche sul potere Foucault è intervenuto più volte per chiarire il carattere non paralizzante della sua teoria del potere e spiegare come essa lasci ampi margini ad una azione sempre possibile per il ribaltamento della situazione attuale. La lotta tra le forze, che produce potere, è una battaglia sempre in divenire e mai conclusa; è in effetti la vita stessa nei suoi esiti mai definitivi. In questo contesto, all'intellettuale, come all'uomo qualunque, non resta altro che farsi guerriero e prendere parte a questa eterna battaglia, nel tentativo di condizionarne gli esiti, ossia, inserirsi come parte attiva nella danza del potere. Ai giornalisti che gli chiedevano, data la sua analisi che colloca tutto e tutti in una rete di poteri, quale fosse il destino della libertà e dell'azione umana, Foucault rispondeva che dove c'è potere non c'è dominio nè costrizione e c'è sempre, invece, la possibilità della resistenza: Nel cuore della relazione di potere, e a provocarla costantemente, c'è la resistenza della volontà e l'intransigenza della libertà (Postfazione di M. Foucault alla monografia di Dreyfuss e Rabinow intitolata La ricerca di Michel Foucault, cit. pag. 248) In realtà le ultime due opere di Foucault, L'uso dei piaceri e La cura di sé, dedicate all'analisi dell'etica classica nelle sue dimensioni più semplici e quotidiane, sono una risposta a questi interrogativi sulla libertà, sul margine di azione riservato all'uomo in un contesto di lotta perenne e, soprattutto sul significato della soggettività umana. Cosa intende, dunque, il filosofo francese, quando parla di libertà? E' chiaro che non si tratta di contrapporre ad una immagine statica e centrale del potere, una libertà intesa come processo di emancipazione da esso. La libertà non è liberazione dal potere, non è inconciliabile con esso, ma si dà all'interno dei rapporti di forza. Essa non è altro che il modo in cui scegliamo di vivere questi rapporti e di collocarci in essi. Non c'è bisogno di lunghi processi per conquistarla. La libertà è semplicemente il modo in cui scegliamo di vivere giorno per giorno e, soprattutto, il modo in cui ci costituiamo come soggetti. Il fatto che Foucault, dopo anni in cui ha tentato di liberarsi dallo spettro della soggettività e da quello dell'antropocentrismo – propri di tutta la tradizione filosofica moderna europea – , torni a parlare di soggettività, può stupire. È chiaro che non intende il soggetto come un'interiorità sempre identica a sé, stabile, collocata al centro della scena filosofica, sempre in grado di riconoscersi e di ricondurre alla propria identità il differente. La soggettività di cui Foucault parla è piuttosto un insieme di molteplici processi di individuazione che si producono all'interno dei rapporti di forza. Come scrive Deleuze, si tratta di una piega, sempre fluida e modificabile, sulla superficie del potere, quasi come una imbarcazione dispersa nel mare. Non si tratta dunque di un soggetto identico a sé, dominatore del mondo; ma piuttosto di una soggettività che si costituisce attraverso molteplici pratiche, che si modifica continuamente assumendo svariate identità, che si disperde nelle sue infinite attività, per mutare continuamete volto e forma. La morale di cui Foucault parla, nelle sue ultime opere, è una pratica della creatività, un invito a mutare sempre volto, a inserirsi e prendere posizione nella lotta sempre fluida tra le forze, a cambiare e modificare la propria vita, in una creazione permanente di se sessi: Quello che mi colpisce, è il fatto che nella nostra società l’arte sia diventata qualcosa che è in relazione soltanto con gli oggetti, e non con gli individui, o con la vita. E che l’arte sia un qualcosa di specializzato, e che sia fatta da quegli esperti che sono gli artisti. Ma perché la vita di tutti i giorni non potrebbe diventare un’opera d’arte? Perché una lampada o una casa potrebbero essere un’opera d’arte, ma non la nostra vita? (Postfazione, cit., pag. 265)
Da: http://www.filosofia.unina.it/tortora/sdf/Quattordicesimo/XIV.1.html
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