|
|
Michel Foucault - Sintesi della Storia della Follia nell'Età Classica
"Stultifera Navis" E’ a partire dalla scomparsa della lebbra in Europa che, anche se ancora a livello inconscio, l’esperienza dell’isolamento della follia e dell’internamento cominciano a farsi strada nella mentalità medioevale, fino all’esplosione che avranno nell’Età Classica. Gli ospedali e gli edifici sanitari che erano destinati ad ospitare i malati di lebbra si riveleranno allora i luoghi più adatti per quell’esperienza correzionaria di isolamento e prigionia che contraddistinguerà la follia nel XVII secolo. Ma nel Medioevo la concezione di follia era ancora inserita nell’antica contrapposizione Bene/Male come parte inscindibile dell’umana tragicità, e sebbene già sulla via dell’alienazione e della punizione, il folle era largamente ammesso nella società come parte costitutiva di essa. L’isolamento non gli precludeva un ruolo sociale e simbolico che l’arte e la cultura dell’epoca non mancheranno di concedergli, e la sua fascinazione sulla filosofia e sulla religione era ancora molto influente. Ancor più che uomo in carne ed ossa, nel Medioevo il folle è un personaggio, oggetto di rappresentazione artistica e di allegoria, stereotipo dell’insensatezza della condizione umana e ricettacolo delle paure dei propri contemporanei. Il campo in cui più la figura del folle ebbe successo fu sicuramente la pittura. "Sotto la superficie dell’immagine s’insinuavano tanti significati diversi a tal punto che essa non presentava più che un volto enigmatico. Ed il suo potere non era più di insegnamento ma di fascinazione". La definizione presente nel libro mostra in modo evidente il tipo di rappresentazione della follia che andava diffondendosi nei primi secoli dell’anno mille, e che saranno poi definitivamente codificati da geni visionari come Durer, Brueghel e Bosch. Proprio quest’ultimo è l’autore di un quadro fondamentale, la "Nave dei Folli", attorno a cui Foucault fa ruotare la propria interpretazione dell’esperienza medioevale della follia, analizzandone i significati impliciti. Nel dipinto di Bosch il folle è in tutto e per tutto stereotipo della sregolatezza e dell’insensatezza della condizione umana, reso protagonista di un viaggio insulso alla volta del nulla, o forse del sapere universale. La navigazione è al contempo simbolo dell’isolamento e della purificazione, preludio dell’internamento e rito misterioso che si riconduce ad antiche magie e cabale che nel Medioevo affiancavano costantemente l’immagine del folle. Al fianco del viaggio verso l’ignoto, nella rappresentazione della follia di Bosch troviamo anche la tendenza a raffigurare animali fantastici ed il più delle volte mostruosi, uomini dai visi deformi e dagli arti mutilati, ed una serie di altre visioni sconcertanti in cui sono sfogate le paure inconsce della società sua contemporanea. Le figure fantastiche diventano allegoria delle incertezze dell’uomo, dell’incapacità di rispondere alle domande della vita, anche se a volte sono semplicemente sfruttate per la satira sociale o per l’esaltazione del mondo alla rovescia carnevalesco. Emblematici di questo sono anche alcuni quadri di Brueghel ed il sinistro libro di Brandt, il Narrenschiff, odissea dantesca della follia a bordo di una nave carica di tipi umani e personaggi simbolici. Ma il folle è visto anche come il possessore di un sapere oscuro e proibito, capace di vedere realtà superiori che nascondono segreti misteriosi o rivelazioni religiose. Spesso è associato alla figura del mago e del sapiente, e non a caso è proprio la filosofia che tende a sconfinare nella follia durante il Medioevo; il primo canto del poema di Brandt è consacrato ai libri ed ai sapienti, e nell’incisione che appariva sulla copertina della prima edizione troneggia al centro della cattedra di libri il Maestro che porta dietro il suo berretto di dottore il cappuccio dei pazzi tutto cucito di sonagli. Anche Erasmo dedica molto spazio ai filosofi ed ai teologi nella sua ronda dei folli, come d’altra parte l’infinito di Cusano, che è la saggezza di Dio, non si distacca molto nella sua definizione dall’abisso della follia: "Nessuna espressione verbale può esprimerla, nessun atto di comprensione farla comprendere, nessuna misura misurarla, nessun compimento darle un compimento, nessun limite limitarla, nessuna proporzione proporzionarla, nessun paragone paragonarla, nessun simbolo simboleggiarla, nessuna forma darle forma…". Anche la teologia si trova quindi implicata nel paradosso della follia; la ragione umana al confronto di quella di Dio non è che follia. La complementarità della follia con la ragione si ritrova nella distinzione che veniva fatta, a partire da Erasmo, di due tipi di follia: da una parte una "folle follia", che rifiuta la follia caratteristica della ragione e rifiutandola la raddoppia, cadendo nella più semplice, chiusa ed immediata delle follie; d’altra parte una "saggia follia" che accoglie la follia della ragione, la ascolta e la lascia penetrare nei propri pensieri: ma così facendo si difende dalla follia più di quanto possa fare l’ostinazione di un rifiuto sempre sconfitto in partenza.
Il grande internamento E’ con l’avvento dell’Età Classica e con le riflessioni di Cartesio e di Montaigne che l’orizzonte medioevale della follia comincia a restringersi, e l’autorità del pensiero prevale sull’interpretazione allegorica della follia. "Se l’uomo può sempre essere folle, il pensiero, come esercizio della sovranità da parte di un soggetto che si accinge a percepire il vero, non può essere insensato. Viene tracciata una linea di separazione che renderà ben presto impossibile l’esperienza di una Ragione sragionevole e di una Sragionevole ragione". La follia comincia ad allontanarsi dalla comunità, e ben presto i privilegi culturali ed il potere di suggestione del folle lasceranno spazio alla sua visione come minaccia, o semplicemente come individuo superfluo da allontanare e rimuovere dalla coscienza sociale. Le strutture lasciate libere dai lebbrosi rivelano finalmente la loro utilità nell’accogliere una vasta umanità di individui respinti dalla città, diventando ospedali ed al contempo carceri per individui di ogni tipo ed estrazione sociale. Emblema delle nuove strutture dedicate all’isolamento è l’Hopital General di Parigi, fondato nel 1656, che viene definito da Foucault "il terzo stato della repressione". Si tratta appunto di uno dei primi ospedali destinati ad accogliere e "correggere" i folli e gli alienati, ma è in realtà l’emanazione di un’autorità assoluta che il re crea ai limiti della legge tra la polizia e la giustizia. Fin dall’inizio è evidente che non si tratta di un’istituzione medica, ma di una sorta di entità amministrativa dotata di poteri autonomi, che ha diritto di giudicare senza appello e di applicare le sue leggi all’interno dei propri confini. I malati sono trattati senza rispetto per le condizioni in cui versano, e tutta l’organizzazione ricorda molto da vicino quella di un carcere. Una testimonianza racconta: "Io li ho visti nudi, coperti di stracci, senz’altro che un po’ di paglia per proteggersi dalla fredda umidità del selciato sul quale sono distesi. Li ho visti grossolanamente nutriti, privati d’aria per respirare, d’acqua per spegnere la loro sete, e delle cose più necessarie alla vita. Li ho visti in balia di veri carcerieri, abbandonati alla loro brutale sorveglianza. Li ho visti in stambugi stretti, sporchi, infetti, senz’aria, senza luce, rinchiusi in antri dove si temerebbe di rinchiudere le bestie feroci…". E’ qui che nasce davvero l’esperienza dell’internamento, destinata ad essere emblema di tutto il modo di pensare e di reagire alla follia durante l’Età Classica. Ben presto le case di correzione cominceranno a diffondersi dappertutto, in Francia ed in Europa, e a diventare strumento del potere, che non esiterà a ricorrere ad arbitrarie misure d’internamento: nell’arco di breve tempo un parigino su cento vi si troverà rinchiuso. Con l’esperienza correzionaria si assiste al ribaltamento di concezioni etiche e religiose proprie del Medioevo, e ad una nuova presa di posizione della Chiesa riformata davanti all’intero problema della carità. Un tempo la povertà era vista come mezzo divino per manifestare la propria fede: aiutando il povero e compiendo atti di carità ci si poteva guadagnare la salvezza in cielo. Ma con la negazione del valore delle opere attuata da Lutero e dalla Riforma, da occasione di gloria la povertà cade nell’ambito della semplice colpevolezza di chi ne è vittima, passando dunque ad una concezione morale che la condanna. La povertà, e con essa la follia, diventa odiosa, non tanto per le sue miserie corporali, di cui è ammessa la compassione, quanto per quelle spirituali, che fanno orrore. E’ al termine di questa evoluzione che si incontrano le grandi case di internamento, figlie della laicizzazione della carità e indubbiamente della punizione morale della miseria. La carità è ora un dovere di stato sanzionato da leggi, e la povertà una colpa contro l’ordine pubblico. Nascono così due modi di intendere la povertà/follia: da un lato esiste la regione del bene, dove la povertà è sottomessa, e conforme all’ordine che le viene imposto; dall’altro la regione del male, cioè la povertà ribelle che a quest’ordine cerca di sfuggire. La prima accetta l’internamento e vi trova la sua pace, la seconda lo rifiuta, e rifiutandolo lo merita. "L’opposizione tra poveri buoni e cattivi è essenziale alla struttura e al significato dell’internamento. L’Hopital General li designa come tali e la follia stessa è ripartita secondo questa dicotomia, e può entrare in tal modo, a seconda dell’atteggiamento morale che essa sembra manifestare, tanto nella categoria della beneficenza quanto in quella della repressione". Un’altra grande caratteristica dell’età Classica fu trovare nell’espiazione del lavoro una solida giustificazione alla costruzione delle case d’internamento. Nella concezione cristiana il lavoro è un’espiazione che l’uomo è costretto a pagare in seguito al peccato originale, ed ha quindi valore di penitenza e riscatto. Il povero, il folle e tutti coloro che nella società del XVII secolo erano refrattari alla logica del lavoro "tentavano oltremisura la potenza di Dio": dal momento che la grazia è concessa quotidianamente all’uomo in virtù del suo lavoro, non lavorare era come forzare in un certo senso la grazia divina. L’ozio e la pigrizia diventano quindi emblema del male e dell’eresia nell’Età Classica, e non a caso la follia è vittima di questa concezione. Mentre nel Medioevo la sensibilità verso il folle era legata a trascendenze immaginarie, ora il folle è giudicato secondo l’etica dell’ozio, ed in virtù della sua inutilità sociale viene condannato ed escluso, insieme ai poveri, ai malati ed ai criminali. Dunque l’Età Classica diventa il momento in cui la follia è percepita nell’orizzonte sociale della povertà, dell’incapacità al lavoro, dell’impossibilità di integrarsi al gruppo; è cioè il momento in cui essa comincia a far parte dei problemi dell’ordinamento civile. Viene tracciata una linea di demarcazione tra spazio sociale e follia, e a quest’ultima si riserva una zona neutrale dove potersi manifestare all’oscuro di tutti, negandole così la sua libertà.
Il mondo correzionario Vediamo quindi come l’Età Classica abbia neutralizzato in un colpo solo e con efficacia sicurissima, tanto più sicura quanto più cieca, coloro che noi normalmente distribuiamo nelle prigioni, nelle case di correzione, negli ospedali psichiatrici o negli studi degli psicoanalisti. Il mondo degli internati era costituito da ogni sorta di personalità, ed entrando in uno qualunque dei numerosissimi edifici dedicati all’alienazione si potevano incontrare folli, criminali, dissidenti politici fra le varie migliaia di persone che vi erano rinchiuse. Nell’internamento non ci si chiede se ad essere colpita è la ragione: ogni forma sociale che si scontra contro la lucida razionalità secentesca viene imprigionata. Anche certe stravaganze "libertine" come quelle di De Sade saranno viste affini con la problematica della follia e del delirio; saranno ammesse facilmente la magia, l’alchimia, le pratiche profanatrici e pure certe forme di sessualità verranno apparentate con la sragione. L’omosessualità e la sodomia erano punite come sintomi di follia, e l’Età Classica giunse a imporre una distinzione fra amore di ragione e quello di sragione, ponendo l’omosessualità entro i confini di quello di sragione. Il suicidio era posto alla stregua delle altre manifestazioni di follia, in uno sconcertante ribaltamento della stessa etica cristiana: "Il tentativo di suicidio indica in sé stesso un disordine dell’anima che bisogna domare con la forza. Non si condannano più coloro che hanno tentato di uccidersi; li si rinchiude, e si impone loro un regime che è ad un tempo una punizione ed un mezzo per prevenire un altro tentativo". A loro volta però l’empietà e la bestemmia saranno duramente punite dall’etica correzionaria, così come per l’ateo l’esperienza dell’internamento avrà una funzione di riforma morale in favore di un attaccamento più fedele alla verità. Addirittura i sifilitici, in virtù dell’oscurità della loro malattia venivano ammessi all’Hopital General in quanto corrotti, vittime della punizione di Dio e dunque bisognosi di castigo e penitenza. Secondo Thierry de Hery infatti nessuna causa comune poteva spiegare questa misteriosa malattia: "Per questo dunque noi dobbiamo riportare la sua origine all’indignazione ed alla volontà del creatore di ogni cosa, il quale, per frenare la troppo lasciva, petulante, libidinosa voluttà degli uomini, ha permesso che tale malattia regnasse fra di loro, per vendetta e punizione dell’enorme peccato di lussuria". La concezione del male come legato al corpo giustificava dunque le punizioni fisiche, tanto diffuse nella pratica dell’internamento: era giusto castigare la carne dal momento che essa legava il malato al peccato, e così facendo si curava la malattia rovinando la salute che favoriva la colpa stessa. L’Età Classica aveva così trovato un luogo di redenzione comune ai peccati della carne ed agli errori della ragione, secondo l’astuzia della ragione medica che procura il bene attraverso la sofferenza. Ma così come la parentela fra medicina e morale era ammessa fin dal mondo greco, nel XVII secolo questa parentela venne sfruttata nella maniera meno greca possibile: nella forma della repressione, della coercizione, dell’obbligo di meritare la salvezza. Il folle torna così ad essere personaggio, tipo ideale dell’isolamento: omosessuale, ateo, bestemmiatore, mago, suicida. Ma non si tratta più dei personaggi che popolavano la Nave dei Folli, che erano tipi morali come il ghiottone, il sensuale, l’orgoglioso. "A partire dal XVII secolo l’uomo di sragione è un personaggio concreto, tratto da un mondo sociale reale, giudicato e condannato dalla società… la follia è stata bruscamente investita da un mondo sociale nel quale essa trova il suo luogo privilegiato ed esclusivo di apparizione; le è stato attribuito un territorio limitato dove ognuno può riconoscerla e denunciarla". Mentre nel Medioevo il problema della follia era ancora inserito nella problematica del Bene e del Male, giustificandola con la tragicità umana, nell’Età Classica l’analisi etica dell’uomo contrappone fortemente la ragione alla sragione, escludendo e condannando irrimediabilmente quest’ultima, e compiendo così la più grande delle follie: pretendere di poter eliminare la follia isolandola e definendola.
Esperienze della follia Finora l’analisi della strutture e dei criteri dell’internamento lascia supporre che alla follia si siano applicate misure di correzione generali e indifferenziate per aver misconosciuto la sua natura, senza riconoscerne i segni positivi. Ma in realtà questa cecità propria dell’Età Classica nasconde una coscienza precisa ed esplicita. Sebbene dopo due secoli di internamento ci si sia resi conto che la "confusione" applicata nel XVII secolo alla reclusione era assolutamente arbitraria ed il più delle volte profondamente sbagliata, bisogna analizzare il perché di questo errore, e soprattutto mettere in luce l’omogeneità di un processo che si è cominciato a criticare soltanto dopo la sua conclusione. Analizzando i libri dell’internamento ci si accorge che una delle parole più usate per caratterizzare il folle era quella di "furioso", già termine tecnico della giurisprudenza e della medicina. "Nell’internamento esso fa allusione a tutte le forme di violenza che sfuggono alla definizione rigorosa del delitto e alla sua catalogazione giuridica; esso mira ad una specie di regione indifferenziata del disordine, a tutto il dominio oscuro di una rabbia misteriosa che appare al di qua di una possibile condanna". Sebbene ciò possa apparire una nozione confusa, è abbastanza per motivare alcuni aspetti polizieschi e morali dell’internamento, e a farci comprendere come una follia che era misconosciuta nell’ambito della malattia fosse accomunata al libertinaggio o alla dissolutezza. Ciò non giustifica però la totale assenza di cure mediche specifiche all’interno delle case di correzione, dove i medici erano presenti solo ed esclusivamente in virtù di un decreto che era poi lo stesso che regolava la sanità delle prigioni. La gente non veniva rinchiusa per guarire, dal momento che il problema non veniva nemmeno posto, ma solo per terminare i propri giorni secondo le abitudini della vita correzionaria e lontana dalla società. "In tutti gli ospedali od ospizi sono stati abbandonati agli alienati alcuni edifici vecchi, cadenti, umidi, mal disposti e non costituiti a questi fine… in un piccolo numero di ospizi, dove si rinchiudono i prigionieri nei padiglioni detti di forza, questi internati abitano coi prigionieri e sono sottoposti allo stesso regime". La sottile presenza della concezione della follia come malattia, seppur ridotta e limitata, è contemporanea alla generale concezione della follia come appartenente all’internamento, all’alienazione ed alla punizione. Secondo Foucault è proprio questa giustapposizione che pone il problema della follia durante l’Età Classica, e che contemporaneamente può servire per comprendere a fondo quale fosse lo statuto del folle in quest’epoca. Da un lato, nonostante le attuali conquiste mediche e psicanalitiche nel campo della sragione, non si può ignorare il fatto che da sempre la follia non si è mai esaurita nel dominio della medicina. Il folle non ha mai avuto bisogno delle determinazioni della medicina per accedere al proprio reame di individuo, ed anzi lo ha ottenuto nel Medioevo in un ambito del tutto estraneo alla cultura medica e correzionaria. Con la Renaissance il folle cominciava ad essere definito in una prospettiva propria e molto più individuale, dove l’aspetto della malattia si configurava per la prima volta nella sua immagine. L’Età Classica ha riassorbito il folle confondendolo nuovamente in un orizzonte generale, ma questa volta si tratta dell’orizzonte generale dell’internamento e della cura, anche se nelle sembianze della punizione e della mescolanza con personaggi che nulla hanno a che vedere con la follia vera e propria, o per meglio dire, medica. L’involuzione dell’Età Classica dunque, pur mantenendo tutti i suoi aspetti negativi ed i suoi clamorosi errori, è il passaggio necessario alla moderna coscienza medica della follia, che prende a sua volta le mosse dall’isolamento e dall’ospedale psichiatrico come principio di cura. Non è giusto riconoscere all’internamento i caratteri della modernità solo liberandolo dei caratteri punitivi e di imprigionamento, ma ugualmente non si deve negare l’originale esperienza classica della follia che, privata della sua individualità, si appresta ad entrare nel campo della cura medica. Ciò che però non si deve dimenticare è la prevalenza che fu accordata alla giurisprudenza rispetto alla medicina in tutta l’Età Classica. L’internamento non era decretato dal medico quanto dal magistrato, tant’è che i folli erano ammessi nelle case di correzione solo in seguito ad una sentenza di tribunale. Questo perché nel XVII secolo la follia era un problema di sensibilità sociale; ed avvicinandosi al delitto, allo scandalo ed al disordine essa poteva essere giudicata secondo i loro canoni. Qui si contrappongono alla concezione classica tutte le nozioni di diritto romano e canonico che erano già state elaborate secoli prima, e che riconoscevano al folle un’immunità giuridica dettata dal suo stesso stato di impotenza mentale. "Come soggetto del diritto, l’uomo si libera delle sue responsabilità nella misura stessa in cui è alienato: come essere sociale, la follia lo compromette nelle vicinanze della colpevolezza". Da un lato dunque vediamo una concezione del diritto che scagiona la follia nella misura dell’incapacità, dall’altro una concezione sociale che confina la follia nello scandalo e nell’internamento. Quando nel XIX secolo l’uomo di sragione passerà negli ospedali e l’internamento diventerà semplicemente un atto terapeutico volto alla guarigione del malato, perderemo per sempre la distinzione che l’Età Classica concedeva al palesarsi di questi molteplici volti della follia.
Gli insensati In definitiva l’internamento emblema dell’Età Classica si configura particolarmente come punizione etica, così come nell’orizzonte etico si pone l’intera problematica della follia. Non ci si deve stupire dell’indifferenza che nel XVII secolo viene opposta alla separazione di follia e colpa, di alienazione e malvagità. Essa non deriva da un sapere insufficiente, ma da un’equivalenza decisa lucidamente: follia e delitto non si escludono, ma si implicano l’un l’altro. E’ interessante in merito la vicenda dell’abate Bargedè, che venne internato nel manicomio di Saint-Lazare nel 1704 per crimini di usura, e che si rifiutava fermamente di pentirsene facendosi onore di essere avaro: "Bargedè è insensato. Ma non come i personaggi imbarcati sulla Nave dei Folli, che lo sono nella misura in cui sono stati trascinati dalla forza viva della follia. Bargedè è insensato non perché ha perduto l’uso della ragione, ma perché malgrado sia uomo di Chiesa, pratica l’usura, perché non dimostra nessuna carità e non prova nessun rimorso, perché è caduto ai margini dell’ordine morale che gli è proprio. Ciò che si tradisce in questo giudizio non è l’impotenza a portare a termine un decreto di malattia, non è neppure una tendenza a condannare moralmente la follia; ma il fatto, essenziale indubbiamente per capire l’Età Classica, che la follia diviene per essa percepibile nella forma dell’etica ". Nel mondo dell’internamento la follia non spiega e non scusa niente; essa entra in complicità col male per moltiplicarlo, per renderlo più insistente e pericoloso, per prestargli nuovi volti. La follia che non intende esserlo o la semplice intenzione senza follia hanno lo stesso trattamento, forse perché hanno oscuramente la stessa origine: il male o perlomeno una volontà perversa. Così, poco importa sapere se la ragione è stata effettivamente colpita, l’importante è punire il cedimento di volontà che è alla base della follia. L’entrata della volontà nell’orizzonte della follia non è esplicita nei testi che si sono conservati fino ad ora, ma si tradisce attraverso le motivazioni e le modalità dell’internamento. La follia è offesa alla morale. La follia è anche scandalo della condizione umana abbassata a quella animale, il rinnegamento di quei valori che fin dall’antichità distinguevano l’uomo dalle bestie egli donavano la dignità di cui l’Età Classica faceva manifesto. L’animalità è il limite assoluto della ragione incarnata e lo scandalo stesso della condizione umana. "La psichiatria positiva del XIX secolo, ed anche la nostra, se hanno rinunciato alle pratiche, se hanno lasciato da parte le conoscenze del XVIII secolo, hanno ereditato segretamente tutti quei rapporti che la cultura classica nel suo insieme aveva instaurato con la sragione; li hanno modificati e spostati; hanno creduto di parlare della sola follia nella sua oggettività patologica; loro malgrado, avevano a che fare con una follia ancor tutta abitata dall’etica della sragione e dello scandalo dell’animalità".
Michele Brusasca PARTE II La trascendenza del delirio Un problema filosofico che delizia il XVII secolo è in che modo si trovi implicata l’anima nella follia. Prendiamo in esame due teorie contrapposte una legata alla tradizione dei teologi giuristi e dei giudici, l’altra esposta da Voltaire. La tradizione dei giuristi e dei teologi fa leva sull’innocenza del folle: qualora questo dà qualche segno di pentimento si deve supporre che "lo Spirito ha illuminato la sua anima per vie che non sono sensibili e materiali, e quindi il folle è salvo qualsiasi cosa abbia commesso perché la sua anima è rimata in ritiro, e preservata dal male". Si arriva così alla conclusione che l’anima di folli non è follia. Opposta è la teoria di Voltaire, il quale riprendendo questo dialogo risponde che dotti e dottori, per preservare la purezza dell’anima, vorrebbero convincere il folle che la sua follia si limita solo ai fenomeni del corpo: "Amico mio benché tu abbia perduto il senso comune, la tua anima è altrettanto spirituale, altrettanto pura, altrettanto immortale della nostra; ma la nostra è bene alloggiata, mentre la tua lo è male; le finestre della casa sono tappate… l’aria le manca, essa soffoca". Ma il folle d’altro canto sa bene che la sua anima è colpita e controbatte affermando: "Amici miei, voi supponete secondo le vostre abitudini ciò di cui stiamo discutendo. Le mie finestre sono aperte come le vostre, poiché io vedo gli stesi oggetti e ascolto le stesse parole. Occorre quindi necessariamente che la mia anima faccia un cattivo uso dei sensi". Quindi o l’anima dei folli è folle o i folli non hanno anima. Lasciando da parte questa problematica, Foucault esamina ora le follie che appartengono in proprio alla follia, cominciando dalle più esteriori (il ciclo delle causalità) alle più inferiori (passione immagine) per arrivare infine al momento essenziale del delirio. Il ciclo delle causalità si distingue in cause prossime e cause lontane.
Giraudy nel 1804 farà al ministro dell’interno un rapporto sulla situazione di Charenton, in cui dichiara di aver potuto stabilire attraverso informazioni sicure la causa della malattia in 476 casi: "150 sono caduti malati in seguito a vive emozioni dell’anima; 12 per l’abuso dei piaceri di Venere; 31 per abuso di liquori alcolici; 2 per la presenza di vermi nell’intestino…". La lista delle cause remote della follia dunque non cessa di allungarsi. Il XVIII secolo le enumera disordinatamente, senza distinzione, in una molteplicità poco organizzata.
Aspetti della follia In questo capitolo Foucault descrive quattro aspetti della follia, esaminandone le cause, gli effetti e i sintomi e introduce l’argomento che sarà proprio di tutto il successivo capitolo, descrivendo le tecniche mediche utilizzate contro la follia nei secoli XVII e XVIII.
Medici e malati Nonostante le scoperte fisiologiche di Harvey, Des Cartes e Willis, le tecniche mediche non hanno potuto usufruire di nessuna invenzione importante. Il mito della panacea, ossia il rimedio che guarisce tutti i mali non è del tutto scomparso, la panacea veniva considerata "la natura stessa che agisce e cancella tutto ciò che appartiene alla contronatura". Nel secolo XVII si apre una discussione sull’oppio che viene utilizzato in un gran numero di malattie e specialmente nel caso della malattie di testa. Whutt ne esalta i meriti e l’efficacia contro i mali nervosi, in quanto esso indebolisce la facoltà di sentire che è propria dei nervi e di conseguenza è utilissimo per tutte le agitazioni, le convulsioni, la debolezza. L’effetto dell’oppio è quindi l’insensibilizzazione. L’effetto dell’oppio è totale perché la sua decomposizione chimica lega degli elementi che nel loro stato normale determinano la salute, e nelle loro alterazioni le malattie. Hacquet rimane dell’idea che l’oppio guarisce per virtù di natura in quanto in esso è depositato un segreto che lo mette in comunicazione diretta con le fonti della vita, c’è un’essenza, uno spirito che è lo spirito della vita stessa: esso agisce secondo una meccanica naturale e visibile, poiché ha ricevuto un dono segreto della natura. Durante tutto il XVIII secolo l’idea dell’efficacia del farmaco si stringeva attorno a questo tema della natura, e il mondo della guarigione rimaneva in gran parte in questo spazio della generalità astratta. E’ una vecchia idea quella secondo cui non esiste al mondo una forma di malattia che non sia possibile guarire una volta trovato il suo antidoto, che d’altra parte non può non esistere. Tuttavia ci fu nell’età classica un settore di resistenza: il dominio della follia. L’immaginazione classica non si è ancora sbarazzata del tema della follia legata a forze oscure, e moltissimi schemi simbolici sopravvivono ostinatamente nei metodi di guarigione dell’età classica. Il vigore di questi temi morali e immaginari spiega senza dubbio perché fino al termine dell’Età Classica vengono usati farmaci umani e minerali: il lapislazzulo, per esempio, che rallegra il cuore e fortifica la memoria. Nella convulsione la violenza deve essere sconfitta con la violenza stessa, ecco perché si usano i crani degli impiccati uccisi da mano umana, oppure sangue umano ancora caldo. Certi sistemi puramente simbolici quindi conservarono la loro solidità fino alla fina dell’età classica. Particolare è il valore che viene dato al serpente: esso, forma visibile della tentazione, nemico per eccellenza della donna, è per lei, allo stesso tempo, rimedio contro i vapori e le malattie della donna; Madame de Sevignì scrive: "E’ alle vipere che io debbo la piena salute di cui godo". Ella teneva in casa delle vipere e ogni mattina tagliava la testa a uno di queste, che mangiava nel pomeriggio. Proprio l’età classica, tuttavia, ha dato pieno significato alla nozione di cura. Si sostituisce il concetto di panacea con quello di cura, che sopprime l’insieme di ciò che nella malattia è determinante e determinato: i momenti della cura devono dunque articolarsi sugli elementi costitutivi della malattia. Le tappe, le fasi della cura devono articolarsi sulla natura visibile della malattia e andare in cerca di ognuna delle sue cause. Ogni cura è una riflessione sulla malattia e su se stessa e sul rapporto tra esperienze. A proposito delle malattie nervose. Idee terapeutiche che hanno organizzato le cure della follia.
Margherita Pisapia
PARTE III La grande paura Nel XVIII secolo i rapporti "classici" tra ragione e sragione prendono un aspetto interamente nuovo e la Follia assume, per il mondo moderno, un significato diverso. Improvvisamente a metà del XVIII secolo sorge una paura: ci si spaventa a causa di un male misterioso che si propaga, si dice, a partire dalle case d’internamento situate al di fuori delle città. Si parla di febbri delle prigioni, si accusano le carrette di condannati e gli uomini incatenati, si attribuiscono allo scorbuto contagi immaginari…La grande immagine dell’orrore medievale s’impone di nuovo: è un male prettamente morale ma, trasformato dalla gente, ricompare come forma di epidemia e contagio; intere città sono minacciate da questa atmosfera carica di "vapori malefici". Per il momento la soppressione delle case d’internamento non è ancora in questione; si tratta piuttosto di neutralizzarle come cause eventuali di un nuovo male, di riformarle purificandole. Nell’epoca classica, la coscienza della follia e quella della sragione non erano molto autonome l’una rispetto all’altra, ma nell’inquietudine della seconda metà del XVIII secolo la paura della follia cresce di pari passo con lo spavento provocato dalla sragione; la sragione diventa delirio del cuore, la follia del desiderio. Questa coscienza ha tuttavia uno stile molto particolare, quella della sragione è molto affettiva e immaginaria mentre quella della follia si accompagna a una certa analisi della modernità che la situa in una cornice temporale, storica e sociale. Questa coscienza storica della follia non si è realizzata di colpo, essa ha reso necessaria l’elaborazione di tutta una serie di concetti nuovi e antichi:
La nuova separazione La nuova paura del XVIII secolo non è una vana ossessione: la follia sta di nuovo affiorando, in una presenza confusa, ma che mette chiaramente in dubbio la funzione delle "classiche" case d’internamento. E’ difficile stabilire con esattezza se il numero dei folli si sia realmente accresciuto nel suddetto secolo in proporzione all’aumento della popolazione o alle misure d’internamento; infatti sembra che la cifra dei folli segua una curva molto particolare caratterizzata da un aumento fino agli anni 1785-1788 e poi da una brusca caduta. Questa diminuzione non vuole dire che i malati di mente stanno pian piano guarendo, ma che si inizia a fare una netta distinzione fra folle, ammalato e criminale e a teorizzare asili esclusivamente destinati agli insensati. Queste nuove strutture assomiglieranno solo in parte a quelle progettate da Pinel e Tuke nel XIX secolo, in quanto non lasciano ancora molto spazio alla medicina il cui ruolo è fondamentale. L’essenziale del movimento che si sta compiendo non consiste dunque in una riforma completa delle istituzioni e del loro spirito, ma nel fatto di aver isolato la follia e di averla resa autonoma nei confronti della sragione. La sragione quindi diviene sempre più un "potere d’incanto", mentre la follia un vero e proprio oggetto di percezione. Si inizia a parlare di una "percezione asilare" con la quale appaiono nuove definizioni della follia e distinzioni tra folle e folle:
Da questo momento in poi i folli finalmente riescono ad trovare un loro spazio, indipendente e distaccato dal resto della società e dal mondo che prima lo circondava. Questo cambiamento è la prima testimonianza di quel grande movimento di riforma che si concluderà solo cent’anni dopo con la costituzione del primo manicomio; ma prima di analizzare dettagliatamente tutto questo, bisogna capire il movimento con cui la follia si è affacciata nella percezione del XVIII secolo. Se tale secolo fa posto, a poco a poco, alla follia e se ne differenzia per certi aspetti, lo fa non avvicinandoseli, ma allontanandosene: è stato infatti necessario circoscrivere un nuovo spazio, una nuova solitudine in cui la follia potesse riconoscersi e finalmente parlare: essa quindi acquista più importanza ma nello stesso tempo si allontana e si isola dalla realtà quotidiana. Man mano che si procede nel secolo le proteste contro l’internamento si fanno sempre più vive, la polemica si dirige sulla funzione e l’essenza dell’internamento e soprattutto sulla promiscuità di folli e sani di mente. La presenza dei folli tra i prigionieri non costituisce il limite dell’internamento, ma la sua verità; non ne è l’abuso ma l’essenza. La follia diviene così soggetto e oggetto, immagine e scopo della repressione. La critica che viene fatta all’internamento dipende anche da un orizzonte economico e sociale, esso diviene il magazzino in cui si tengono in riserva anche gli emigrati che, al momento opportuno, saranno inviati nei territori coloniali. Nello stesso periodo avviene nelle campagne un mutamento nelle strutture agricole: con la scomparsa delle terre comunali tutta una popolazione rurale si trova senza la sua terra e obbligata a condurre la vita dei braccianti agricoli, esposti alle crisi di produzione e alla disoccupazione. Le strade delle città si affollano di mendicanti e poveri, per porre fine a questo pauperismo si ricorre all’internamento, ancora una volta il folle si trova mischiato con persone che non appartengono al suo mondo. Questa parte di povertà però è necessaria perché non si può sopprimerla internandola, ma anche perché rende possibile la ricchezza: lavorando, e consumando poco, la classe dei bisognosi consente a una nazione di arricchirsi, infatti nell’economia mercantilista il povero, né consumatore né produttore, non aveva posto, mentre con l’industria nascente che ha bisogno di braccia, egli fa parte di nuovo dello stato. Così il nuovo pensiero economico elabora una differente nozione di popolo e povertà:
Internare la popolazione sarebbe un controsenso, la si deve invece lasciare nella piena libertà dello spazio sociale; essa si riassorbirà da sola nella misura in cui formerà una manodopera a buon mercato. La LIBERTA’ diviene quindi la sola forma di assistenza valida. Il XVIII secolo riscopre la distinzione tra "povero valido" e "povero malato", la cui differenza non è solo di grado di miseria, ma di natura del miserabile; il povero che può lavorare è un elemento positivo, il malato, al contrario, è esclusivamente un peso morto nella società. Occorre dunque dissociare, nel concetto di ospitalizzazione, l’elemento positivo dell’indigenza e il fardello della malattia e bisogna che l’assistenza ai poveri prenda un nuovo significato. L’assistenza deve divenire il primo dei doveri sociali, ma per "dovere sociale" si intende l’obbligo assoluto per la società o per lo stato? Ci fu tutta una polemica a riguardo negli anni che precedettero di poco la Rivoluzione e si arrivò ad affermare che il "dovere sociale" è un dovere dell’uomo in società che l’assistenza non è una struttura dello stato, ma un legame personale da uomo a uomo e che il luogo naturale della guarigione è la famiglia.
Del buon uso della libertà Arrivati a questo momento non si sapeva più in quale punto dello spazio sociale situarla: prigione, ospedale o assistenza familiare? I provvedimenti adottati successivamente rispecchiano questa indecisione; ne vediamo ora una serie che porteranno a una sempre più decisiva riforma dell’internamento:
Se si obbligano i poveri validi a lavorare, se si affidano alle famiglie le cure dei malati, non si può consentire ai pazzi di mescolarsi alla società; tutt’al più si può cercare di mantenerli nello spazio familiare, ma la protezione è in tal caso assicurata solo in parte. La società borghese, mentre si senta innocente davanti alla miseria, riconosce la propria responsabilità davanti alla follia e intuisce che deve proteggerne l’uomo privato. Nell’epoca in cui malattia e povertà diventano per la prima volta "cose private", appartenendo esclusivamente alla sfera degli individui, la follia invece reclama uno "statuto pubblico" e la definizione di uno spazio di confino che garantisca la società dai suoi pericoli. Bisogna dunque rinchiudere i dementi che le famiglie povere non sono in grado di sorvegliare, ma bisogna anche lasciare loro il beneficio delle cure che potrebbero ricevere sia presso i medici se fossero più ricchi, sia negli ospedali. In alcuni progetti del tempo il raccordo tra l’internamento e le cure non è che di natura temporale, essi si succedono: si cura fin a quando è possibile e subito dopo l'internamento riprende la sua funzione repressiva. In altri progetti, che arriveranno posteriormente, la funzione medica e quella di esclusione si trovano in un’unica struttura. A metà strada fra questi due momenti un passo essenziale è stato fatto da due personaggi importanti: Tenon e Cabanis. In Tenon si trova ancora la vecchia idea che l’internamento dei folli non debba essere decretato in modo definitivo se non dopo che le cure mediche siano fallite; ma l’internamento non è già più abolizione totale e assoluta della libertà, esso deve essere piuttosto una libertà ristretta e organizzata che permetta alla follia di esprimersi liberamente: "Il primo rimedio per la guarigione consiste nell’offrire ai folli una certa libertà, in modo che essi possano abbandonarsi misuratamente agli impulsi naturali" (pag. 369). Il passo essenziale è compiuto: l’internamento è divenuto un luogo di guarigione e solo adesso la medicina può prenderne posto dal momento che l’asilo, d’ora in poi si chiamerà così, assume un valore terapeutico. Queste modificazioni fanno sì che la follia si alteri a sua volta e intrecci rapporti nuovi con questa semilibertà offertale e che faccia corpo necessariamente con questo mondo chiuso che è per essa la sua verità e soggiorno. Cabanis afferma che il problema della follia non è più considerato dal punto di vista della ragione e dell’ordine, ma del diritto dell’individuo libero: "Bisogna provvedere alla libertà e alla sicurezza delle persone; esercitando la beneficenza non bisogna violare le regole della giustizia… Quando gli uomini godono pienamente delle loro facoltà razionali nessuno ha il diritto di portare la benché minima insidia alla loro indipendenza." La scomparsa della libertà, che prima era una conseguenza, ora diventa il fondamento, l’essenza della follia; l’asilo dovrà funzionare come una specie di misura permanente della follia, adeguandosi sempre alla sua mutevole verità, la giustizia che regnerà nell’asilo non sarà più quella della punizione, ma quella della verità: Cabanis infatti arriva alla curiosa idea di un "diario d’asilo" in cui saranno annotati con esattezza il quadro di ogni malattia, gli effetti dei rimedi, i risultati delle autopsie…La follia conquista così alcune regioni della verità che la sragione non aveva mai raggiunto: essa s’inserisce nel tempo e acquista un aspetto autonomo nella storia. Il suo passato e la sua evoluzione fanno parte della sua verità e ciò che la rivela non è più quella rottura sempre istantanea con la verità per cui si riconosceva la sragione.
Nascita del manicomio La fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX hanno visto il compimento del grandissimo movimento di riforma conclusosi con la nascita dell’asilo moderno o manicomio, la conclusione di questo enorme cambiamento ha visto come protagonisti Tuke e Pinel. Tuke è un quacchero, un socio di una di quelle innumerevoli "Società di Amici" sviluppatesi in Inghilterra alla fine del XVII secolo. Essi organizzano gruppi di assicurazione e società di soccorso, chiamate "ritiri" in cui si inserisce il malato in una dialettica semplice della natura e lo si mantiene nel mito della famiglia patriarcale. Essi vogliono essere una grande comunità nella quale i malati saranno i bambini della famiglia nella sua idealità primitiva; nel ritiro il gruppo umano è ricondotto alle sue forme originarie e più semplici, si tratta di riportare l’uomo ai rapporti sociali elementari e assolutamente conformi all’origine e questo grazie anche alla religione. Tuke e gli altri ricostruiscono in modo artificiale intorno alla follia un simulacro di famiglia. Pinel vuole abolire le forme immaginarie della religione, non il suo contenuto morale; in essa infatti c’è, una volta decantata, un potere di combattere l’alienazione il quale dissipa le immagini, calma le passioni e restituisce l’uomo a ciò che vi è in lui di immediato e di essenziale: essa può avvicinarlo alla sua verità morale. L’asilo deve riprendere il compito morale della religione, al di fuori del suo contesto fantastico, esclusivamente sul piano della virtù, del lavoro e della vita; esso è dominio religioso senza religione e dominio della moralità pura. L’asilo di Pinel è organizzato in tre modi principali:
Al silenzio, al riconoscimento nello specchio e al giudizio perpetuo si aggiunge una quarta struttura fondamentale: il personaggio medico. Fra tutte esso è senza dubbio l’elemento più importante perché guiderà infine tutta l’esperienza moderna della follia e diverrà la figura essenziale dell’asilo. L’homo medicus acquisterà autorità come sapiente e come saggio; sarà colui che delimiterà, conoscerà e dominerà la follia. L’opera di Tuke e Pinel, così diverse nello spirito e nei valori, si incontrano proprio in questa trasformazione del personaggio medico.
Il cerchio antropologico "Concludendo, la libertà dei folli è nello stesso tempo precaria e ostinata." Essa rimane sempre sull’orizzonte della follia, ma sparisce non appena si tenti di delimitarla, essa non è che meccanismo del corpo, incatenamento dei fantasmi, necessità del delirio. Alla fine del XVIII secolo quindi non si assiste a una liberazione dei folli, ma a una "oggettivazione del concetto della loro libertà". Una volta liberato, il folle non può sottrarsi alla propria verità; egli è gettato in essa ed essa lo confisca interamente. La follia classica apparteneva alle regioni del silenzio, non possedeva un suo linguaggio autonomo, si riconosceva soltanto il linguaggio segreto del delirio. Nel XVIII secolo la follia si appropria di un suo linguaggio, in cui le è concesso di parlare in prima persona e di enunciare qualche cosa che aveva un rapporto essenziale con la verità. Ciò che la follia dice di se stessa è una verità elementare dell’uomo, in quanto lo riduce ai suoi desideri primitivi e ai suoi meccanismi più semplici, e, allo stesso tempo, una verità terminale dell’uomo, in quanto gli mostra fino a dove possono spingerlo le passioni e la vita di società. Il folle non lo si potrà riconoscere senza riconoscersi, senza sentire in sé le sue stesse voci e forze.
Alice Scandellari
Da: http://www.liceoberchet.it/ricerche/foucault/lafollia.htm
|
|