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Erika Panaccione - Introduzione allo studio di Michel Foucault
Foucault 1954-1961 Il dio è giorno e notte, inverno e estate, guerra e pace,
sazietà e fame. Da tempi remoti, quindi, è innato negli uomini il reciproco
amore Lungo i sentieri del sogno e della follia: un cammino che incontra e supera la fenomenologia 1 . Il sogno e l’esistenza "L’antica nostra natura non era la medesima di oggi" riferisce Platone nel Simposio (189 d-193 d). In principio gli uomini erano l’uno e l’altro, la loro forma era circolare, il loro aspetto intero e rotondo, "non generavano per reciproca unione, ma per unione con la terra". Un giorno "Zeus, volendo castigare l’uomo senza distruggerlo, lo tagliò in due". Da allora "ciascuno di noi è il simbolo di un uomo, la metà che cerca l’altra metà, il simbolo corrispondente". Nell’antica Grecia (...) era diffusa la consuetudine di tagliare in due un anello, una moneta o qualsiasi oggetto, e darne una metà a un amico o a un’ospite. Queste metà, conservate dall’una e dall’altra parte, di generazione in generazione, consentivano ai discendenti dei due amici di riconoscersi. Questo segno di riconoscimento si chiamava simbolo. Tale è il senso originario della parola (1). Il primo scritto di Foucault risale al 1954 ed è una lunga introduzione alla traduzione francese di un testo di psicologia del 1930, Traum und Existenz di Ludwig Binswanger, psichiatra svizzero considerato il massimo esponente della corrente di psicologia e di psichiatria nota sotto il nome di Daseinsanalyse o analisi esistenziale. Centro di questa riflessione è - come ci dice Foucault stesso - "l’uomo, o meglio l’Essere-uomo, il Menschsein"(2), in una prospettiva antropologica esplicita, che si rifà all’analisi fenomenologica inaugurata da Husserl, attraverso la mediazione soprattutto di Heidegger e Merleau-Ponty. Questo orizzonte antropologico si propone di riscoprire una dimensione originaria ed autentica dell’uomo, concepito come una presenza al mondo dinamica, un essere-nel-mondo nel senso di abitarlo e proiettarsi continuamente verso di esso e verso le sue possibilità. Si tratta di riscoprire il contenuto esistenziale della presenza al mondo, di ritrovare una soggettività piena e integrale, che non si situa né dalla parte dell’io trascendentale, della coscienza pura, dell’intelletto razionale o della psiche (il cogito), né dalla parte dell’homo-natura che le scienze positive delineano. L’antropologia recupera una soggettività che si rivela irriducibile a tutte quelle categorizzazioni che ne riducono la portata ad un contenuto astratto, che delimitano il suo essere ad un solo aspetto, lacerandone la pienezza. L’uomo è una coscienza intenzionale situata e incarnata, dunque immanente, ma allo stesso tempo trascendente, perché si proietta sempre fuori di sé in uno scambio interminabile col mondo. Su questo terreno si colloca anche il problema epistemologico relativo alla scienza: crollato ormai il castello metafisico che rinchiude l’uomo nella pura coscienza universale ed astratta dell’Io trascendentale, rimane da valutare la prospettiva opposta ma speculare delle scienze dell’uomo, che ne fanno un oggetto fra oggetti. In quegli anni, l’interesse di Foucault si concentra soprattutto sulla scienza psicologica (3) - nelle sue molteplici correnti - che si inserisce nel grande solco del Positivismo. Anche la psicanalisi finisce per spogliare la soggettività della sua unicità e del suo senso autentico, esaurendo il contenuto significativo dell’uomo nel concetto riduttivo di homo natura: l’individuo freudiano è prima di tutto istintualità; l’inconscio come serbatoio pulsionale costituisce l’unica vera e autentica realtà della natura umana, tutte le altre manifestazioni assumono l’aspetto di un suo epifenomeno. Ma allora ha ragione Jaspers là dove dice che "Freud fraintende se stesso" perché la sua teoria, creata per l’interpretazione del singolo, finisce in realtà con lo "spiegare gli ipotetici riflessi delle singole modalità operative dell’apparato mentale", per cui non fonda come vorrebbe una psicologia che tenga conto della soggettività individuale, ma, "come nelle scienze naturali, cerca, mediante l’osservazione, la sperimentazione e la raccolta di molti dati, le relazioni di causalità che permettono di trovare le regole dell’evento"(4). I fatti psicologici allora non sono più espressione di una visione del mondo (Weltanschaung) individuale, modalità della presenza (Dasein) dell’uomo nel mondo, ma diventano processi energetico-pulsionali, sintomi, al pari dei fatti meramente fisiologici della medicina somatica, indici di misurazione oggettivi regolati da relazioni di causalità. Le strutture d’espressione della soggettività vengono così ridotte al determinismo delle pulsioni inconsce ma allo stesso tempo, paradossalmente, spiegate sulla base degli schemi della coscienza vigile, della razionalità. Già da queste prime osservazioni, ci accorgiamo che la prospettiva teorica da cui si muove Foucault, in questa primissima fase del suo percorso di ricerca, è una prospettiva antropologica, interamente concentrata sull’Uomo, nella sua dimensione esistenziale ed ontologica. Successivamente la lettura di Nietzsche e di Heidegger, e l’influenza delle correnti strutturaliste lo porteranno ad allontanarsi sempre più da questa prima posizione così vicina alla fenomenologia. Attraverso la filosofia di Heidegger soprattutto (5), Foucault supererà il discorso fenomenologico di Husserl, ma anche quello di Merleau-Ponty, poiché sposterà l’attenzione - e lo farà in maniera sempre più radicale - dalla soggettività ai regimi epistemologici; l’Uomo-soggetto verrà svuotato di tutta la sua pienezza ontologica ed esistenziale, diventerà una pura costruzione culturale, un prodotto dei discorsi, di quelle strutture epistemiche - del tutto impersonali e dotate di una sorta di onnipotenza rispetto all’individuo - che troveranno la loro piena elaborazione in Les mots et les choses e nell’Archéologie du Savoir. L’essere di Heidegger infatti - che supera l’individuo in quanto c’è già prima ancora che questo parli o conosca - è in qualche modo analogo ai regimi epistemici del Foucault successivo. L’essere sempre già gettato dell’uomo in una situazione storico-culturale, l’essere sempre necessariamente situato fa sì che il soggetto che conosce venga ad essere prodotto dalle pratiche che si propone di analizzare, dal linguaggio che egli utilizza; si trova sempre su di uno sfondo che lo precede. Già in Folie et Déraison è presente questa inversione di tendenza e l’eliminazione di ogni ricorso alla fenomenologia, che comunque giungerà al suo apice nella fase più "strutturalista", quella appunto di Les mots et les choses (6). In questo scritto introduttivo al testo di Binswanger, e in sintonia con questi, Foucault individua nell’esperienza onirica uno dei "luoghi" privilegiati in cui le strutture dell’esistenza si rivelano nella loro forma più autentica. E’ Foucault stesso a sottolineare il carattere solo apparentemente paradossale di questa posizione(7): un paradosso che consiste nel voler descrivere l’esistenza, nel suo spessore positivo e più significativo, proprio laddove essa sembra essere più dissimulata, più ingannevole e sfuggente. L’opinione comune - ma anche e soprattutto quella di una certa scienza - considera infatti la dimensione onirica - e con essa quella dell’immaginazione - come uno dei modi di esistenza meno inseriti nel mondo, meno significativi. Spetta proprio a Freud - nonostante le critiche che gli vengono mosse dallo stesso Foucault - il merito di aver riportato il sogno nella sfera del senso e dei significati umani, e avergli attribuito un’importanza fondamentale, che solo una certa letteratura, una certa mistica religiosa e soprattutto una certa parte della cultura classica greco-romana gli aveva riconosciuto e aveva saputo valorizzare. Prima della psicanalisi freudiana, il sogno era il non-senso della coscienza(8), poi esso ricompare, dopo secoli di oblio, al centro dell’analisi dei significati antropologici, ma soltanto in quanto manifestazione dell’inconscio, della libido, del rimosso. A Freud il sogno interessa solo per questi suoi rimandi semantici e non per il suo essere una forma piena ed autonoma di esistenza, di conoscenza e di esperienza. Il simbolismo del sogno pare essere per Freud solo materiale di traduzione, che riporta un contenuto latente il quale, per sfuggire ai meccanismi censori messi in atto dalla coscienza, si manifesta soltanto attraverso immagini camuffate. Il sogno sarebbe soddisfazione del desiderio in forma allucinatoria, sarebbe segno, più che simbolo, proposizione significativa sotto l’istanza assoluta del Desiderio. In realtà - ammette Foucault - Freud si era accorto del fatto che il sogno racchiudeva in sé una sovradeterminazione di senso, una polisemia che supera la "traduzione" che l’analisi ricostruttiva ne fa; tuttavia finisce poi per trattarlo come materiale da tradurre in un passato che continuamente ritorna, in una monotona ripetizione, in una temporalità bloccata, fossilizzata nel trauma di questo passato, incapace di superarsi e di proiettarsi nel presente. In questa prospettiva il sogno - e con esso la follia e l’immaginario - vengono misconosciuti, guardati solo attraverso il linguaggio monovalente dell’istanza raziocinante, resi oggetti inequivocabilmente interpretabili secondo le leggi della causalità. Il sogno è però inaccessibile alle regole ermeneutiche normalmente impiegate per interpretare i segni; la sua dimensione è quella del simbolico e non quella del segnico; i simboli non sono affatto "immagini" che "stanno per" qualcos’altro, sono al contrario densità incontrollate di senso, polivalenza ed eccesso di significati(9). Il termine "simbolo" deriva dal greco sýmbolon, composto da sým e bállo che significa io getto, metto insieme. Originariamente designava le due metà di un oggetto spezzato, che fungeva da segno di riconoscimento attraverso la ricomposizione delle due metà. Successivamente esso ha assunto sempre più una funzione rappresentativa ("stare in luogo di") simile al segno. In realtà esiste una differenza costitutiva tra simbolo e segno: il segno rappresenta un contenuto del tutto diverso da quello che ha in sé, cioè tra il segno e ciò che esso rappresenta vi è un rapporto convenzionale, formale e astratto; il simbolo invece è più o meno il contenuto che esso esprime come simbolo. Nel simbolo quindi il significato vi è già contenuto nella sua immediatezza, non è qualcosa di separato dal primo, ma di contemporaneo e costitutivamente affine (10). Per Foucault, il sogno appartiene all’ordine del simbolico perché è pre-categoriale e pre-riflessivo, vive cioè in quella dimensione originaria che precede le fratture che la ragione ha instaurato, quelle opposizioni disgiuntive soggetto-oggetto, anima-corpo, significato-significante, vero-falso, ragione-follia, ecc., che separano e frammentano l’unità originaria della presenza. L’universo onirico è l’universo dell’indifferenziato, perché in esso si dischiude l’indifferenza tra mondo vero e mondo apparente, tra oggettività e illusione, tra essere e linguaggio; qui non ci sono ancora differenze istituite, ma lo spazio originario del vissuto in cui si ritrova l’unità dell’esserci - corpo, sensi, desiderio, spirito, psiche, passato, futuro, presente, intenzionalità, ecc. - in una trama comune. Entro questa prospettiva che rintraccia un’unità simbolico-espressiva originaria, cui il sogno appartiene, Foucault stabilisce un parallelo interessante tra il sogno e la poesia - riprendendo in questo la tradizione romantica e surrealista - che testimonia l’irriducibilità dell’autentica dimensione esistenziale. La poesia - Foucault cita esplicitamente Herder e Novalis, ma si potrebbe aggiungere Vico - è concepita come la forma primitiva di linguaggio, la "lingua materna dell’uomo"(11), sul modello della primissima tradizione greca, che canta le origini del mondo, degli dei e degli uomini in forma lirica (si pensi ad Esiodo per esempio, ma anche a Omero). Nella Storia della follia Foucault riconferma più volte questo legame profondo, parlando in proposito non solo del sogno, ma anche della follia: Ciò che la follia dice di se stessa è, per il pensiero e la poesia dell’inizio dell’Ottocento, ciò che dice ugualmente il sogno nel disordine delle proprie immagini: una verità dell’uomo (...). Così, nel discorso comune al delirio e al sogno, si trovano congiunte la possibilità di un lirismo del desiderio e quella di una poesia del mondo(12). Rintracciamo qui una concezione esistenziale in qualche modo parallela a quella merleau-pontiana dell’espressione e della percezione, dove, nella dimensione del vissuto, l’individuo è un tutto incarnato e dove quindi l’universo che solitamente viene designato come psichico - tra cui anche il sogno e l’immaginario - non è il prodotto di una psiche separata dal resto dell’individuo, e dove questo individuo non è un elemento a se stante, separato dal mondo, dalle cose e dagli altri. In questa unità sintetica - ma non per questo indifferenziata - la corporeità riveste un ruolo di prim’ordine: per Merleau-Ponty - che per molti aspetti influenza Foucault, almeno in questi primi anni della sua ricerca -, il corpo è l’apertura originaria dell’uomo al mondo, un campo primordiale in cui viene a situarsi ogni esperienza. Se consideriamo il corpo nella sua totalità, vedremo che esso non è altro dai cosiddetti processi psichici e che lo "spirito" è impensabile al di fuori del suo concreto radicamento corporeo. (...) La dimensione in cui si muove il soggetto percipiente è una dimensione ambigua, che non conosce ancora le distinzioni tra organico e psichico, tra res extensa e res cogitans(13). Il corpo come "presenza", come apertura originaria sul mondo, è dunque anteriore ad ogni distinzione tra soggetto e oggetto, tra conscio ed inconscio, interiorità ed esteriorità, ecc., e mostra al contrario la sua coincidenza tra ciò che è e ciò che si manifesta, tra l’esistenza e il fenomeno - non in quanto mero fatto, ma in quanto evento significativo -, tra l’essere e l’apparire. La presenza incarnata, proprio per la sua unità, per il suo carattere "simbolico" (sým-bállo = mettere insieme), non viene mai compresa dalle scienze esatte, poiché queste colgono sempre un solo aspetto, riducono i fenomeni a oggetti fisici. Questo limite appartiene anche alla psicologia, sia nella sua forma organicista (per esempio quella assunta da Pavlov, che utilizza esclusivamente una spiegazione in termini di fisiologia), sia in quella più "spiritualista", proprio perché entrambe operano una frattura sull’unità costitutiva della presenza. Infatti, ci ricorda Binswanger: Le dottrine psicofisiche cercano di gettare un ponte tra due ambiti "cosali" che non corrispondono ad alcuna realtà umana, e in cui né l’uno né l’altro termine riesce a gettare luce rispettivamente sul primo o sul secondo, finendo anzi per occultarli entrambi(14). Entro questo orizzonte teorico, Merleau-Ponty caratterizza la percezione come analoga a quest’unione che il simbolico stabilisce, unione del soggetto e del mondo, del soggetto con tutte le sue facoltà e caratteristiche esistenziali. Per questo Merleau-Ponty può dire: ogni percezione è una comunicazione o una comunione, (...) come un accoppiamento del nostro corpo con le cose (...) l’unione del soggetto col mondo (15). E ancora: il mio corpo non è solo un oggetto fra tutti gli altri oggetti, un complesso di qualità sensibili fra altre, ma un oggetto sensibile a tutti gli altri, che risuona per tutti i suoni, vibra per tutti i colori, e che fornisce alle parole il loro significato primordiale (...). Noi non riduciamo quindi il significato della parola e nemmeno il significato del percepito a una somma di "sensazioni corporee", ma diciamo che il corpo, in quanto ha dei "comportamenti" è quello strano oggetto che utilizza le sue proprie parti come simbolica generale del mondo (16) e attraverso il quale, perciò, possiamo "frequentare" questo mondo, "comprenderlo" e trovargli un significato (17). Nella prospettiva esistenziale, l’interiorità e l’esteriorità non sono separabili, "il mondo è tutto dentro e io sono tutto fuori di me"; l’unità dell’io non può dissolversi in una molteplicità di atti e di elementi distinti, ma è un campo d’esperienza aperto e globale. Lo stesso Foucault ribadisce una posizione del tutto analoga a questa, rifacendosi a una tesi che Binswanger sviluppa in Traum und existenz: la psicanalisi freudiana riduce in maniera drastica la soggettività onirica, attribuendole un’identità limitata il più delle volte al personaggio protagonista del sogno, al personaggio che dice "io"; in questo modo si ricrea quella astratta separazione tra uno spazio interiore ed uno esteriore. Il soggetto del sogno - scrive Foucault - non è affatto uno dei suoi possibili significati o dei suoi personaggi, ma è al contrario il fondamento di tutti i significati, è la totalità del sogno: Il soggetto del sogno o la prima persona onirica, è il sogno stesso, è il sogno tutto intero. Nel sogno, tutto dice "io", anche gli oggetti e le bestie, anche lo spazio vuoto, anche le cose lontane e strane, che ne popolano la fantasmagoria. (...) Il sogno, è il mondo all’alba della sua prima esplosione quando esso è ancora l’esistenza stessa e non è ancora l’universo dell’oggettività (18). Si tratta di una soggettività radicale e piena, che abbraccia tutta la trama esistenziale e non si lascia ridurre a segno o a oggetto di analisi, così come l’esperienza onirica non si identifica con un materiale segnico da decodificare secondo la legge del desiderio rimosso, traducibile attraverso il vocabolario psicanalitico; e non costituisce nemmeno un’esperienza altra rispetto a quella del proprio mondo, un’esperienza della fantasia, concepita come illusione, come il negativo della realtà. Ancora una volta ci troviamo di fronte a categorie astratte, che scompongono l’esistenza in elementi oggettivabili e quindi manipolabili. Foucault sostiene invece che sognare non è un’altra maniera di fare l’esperienza di un altro mondo, è per il soggetto che sogna la maniera radicale di fare l’esperienza del proprio mondo (19). Si tratta inoltre di un’esperienza speciale, che mette in luce i significati fondamentali dell’esistenza in maniera ancora più autentica e piena delle altre forme di esperienza. E’ infatti un accesso privilegiato alla verità, all’unità del mondo; è una forma particolare - forse addirittura la più elevata - di conoscenza. Un simile valore e una simile importanza attribuita al sogno come esperienza di trascendenza è largamente presente nella letteratura, nella mistica cristiana, soprattutto nelle sue correnti popolari, e prima di tutto nella cultura greco-romana, nel mito e nella tragedia. Nella tragedia greca il sogno è considerato un momento supremo di conoscenza, in cui l’uomo si trova di fronte il proprio destino, il movimento originario della propria esistenza dispiegata, l’insolubile conflitto tra il destino e la propria libertà; o ancora i significati che lo legano al mondo, le sue leggi: Fin dall’antichità, l’uomo sa che nel sogno incontra ciò che egli è e ciò che sarà; ha scoperto quel nodo che lega la sua libertà alla necessità del mondo. Nel sogno e nel suo significato individuale, Crisippo ritrova la concatenazione universale del mondo e l’effetto di questa "sympatheia" che concorre a formare l’unità del mondo, e ad animare ogni frammento del medesimo fuoco spirituale (20). Analogamente, nella tradizione mistico-cristiana, il sogno si configura come una forma concreta di rivelazione divina, il momento in cui Dio comunica con gli uomini, per far loro conoscere i suoi comandamenti e la sua verità (si pensi alle molte forme di sogno profetico presenti nei testi sacri e nella letteratura). Foucault riprende questa modalità di concepire l’esperienza onirica e la applica all’analisi dei sogni, avanzando al tempo stesso una critica nei confronti della psicanalisi. Prende in considerazione un esempio di analisi di un sogno fatta da Binswanger (21): si tratta di una donna di 33 anni in cura per una grave depressione, crisi di collera e inibizione sessuale; a 5 anni ha subito un trauma sessuale, provocato dalle avances di un ragazzo. Il sogno che la paziente riferisce la vede sul punto di varcare un confine, quando il doganiere le fa aprire i bagagli, lei glieli porge uno dopo l’altro; per ultima estrae una coppa d’argento avvolta in carta di seta e a questo punto il doganiere le dice: "Perché mi porta per ultimo il pezzo più importante?". Inizialmente la donna non riesce a darsi delle spiegazioni riguardo al sogno, successivamente - in parte la sera stessa, in parte il giorno successivo, durante il racconto all’analista - le torna in mente la scena traumatica delle avances sessuali e il contesto in cui si svolsero: la casa di sua nonna, dove, su una vecchia credenza, stava una teiera d’argento avvolta in carta di seta. Ecco come Foucault commenta il sogno: E’ chiaro che a livello simbolico il sogno mette in scena la malata. (...) la coppa d’argento ricolloca la malata in una fase anteriore della sua storia e la indica come in un’esistenza minore che le appartiene a stento. Ma il punto essenziale del sogno non è ciò che esso resuscita dal passato, quanto ciò che annuncia dell’avvenire. Presagisce e annuncia il momento in cui la malata infine svelerà al suo analista quel segreto che non conosce ancora e che è tuttavia il carico più pesante del suo presente; questo segreto il sogno lo indica già anche nel suo contenuto con la precisione di un’immagine particolareggiata; il sogno anticipa il momento della liberazione. E’ presagio della storia, più ancora che ripetizione obbligata del passato traumatico. Ma come tale, esso non può avere come soggetto il soggetto quasi oggettivato della storia passata, il suo momento costitutivo non può essere che questa esistenza che si fa attraverso il tempo, questa esistenza nel suo movimento verso l’avvenire (22). Il tempo - così come lo spazio - si configura allora nella sua dimensione esistenziale di tempo vissuto, alla maniera di Merleau-Ponty, cioè come un movimento globale che non si frammenta in singoli istanti misurabili e quantificabili, come il tempo oggettivo, e nemmeno un tempo fossilizzato in un passato fermo e lontano, ma bensì un tempo in cui il passato è continuamente attuale, facendo parte della trama che mi costituisce ora come individuo, e un futuro verso cui continuamente mi proietto, coi miei progetti, le mie aspettative, ecc. Il sogno che Binswanger e poi Foucault hanno analizzato può così rivelare il suo significato attuale, contro il carattere regressivo che la psicanalisi attribuisce all’esperienza onirica - come ritorno ad un passato che la coscienza ha rimosso -, e anche alla malattia mentale, interpretata come un processo a ritroso, regressivo, nella sua connotazione negativa - verso stadi anteriori dello sviluppo psichico.
2. La malattia mentale In una prospettiva ancora vicina alla fenomenologia - ma solo in maniera parziale -, si colloca anche la riflessione sulla malattia mentale e sulla follia, viste entrambe come esperienze del vissuto individuale, modalità specifiche dell’esistenza, come presenza al mondo. Lo scritto a cui facciamo riferimento per quanto riguarda questa riflessione è un’opera la cui prima stesura risale al 1954, contemporanea, e forse di poco precedente, all’Introduzione scritta da Foucault all’edizione francese di Traum und Existenz di Binswanger. Tuttavia questo scritto venne più volte modificato dallo stesso Foucault - il quale si oppose perfino ad una sua ripubblicazione -, finché la versione definitiva uscì nel 1962, addirittura due anni dopo l’uscita di Folie et Déraison. Anche il titolo viene modificato: da Maladie mentale et Personnalité muta in Maladie mentale et Psychologie. Ma ciò che più interessa sono le radicali modifiche che Foucault vi apporta: elimina i numerosi riferimenti alla riflessologia biologista di Pavlov, e quindi a tutta una corrente psichiatrica e psicologica di stampo positivista, orientata verso un’interpretazione organicista della patologia mentale; inoltre riscrive interamente la seconda parte, allontanandosi non solo dalla riflessione pavloviana, ma anche dall’antropologia esistenzialista del 1954. Siamo ormai nel punto di intersezione, o meglio, di passaggio tra due periodi molto diversi del percorso di ricerca di Foucault: uno è appunto quello influenzato in maniera profonda dalla fenomenologia, soprattutto quella merleau-pontiana, l’altro è quello a partire dal quale assistiamo al superamento di questa prospettiva - attraverso Heidegger, attraverso la lettura di Nietzsche, ecc. - e all’aprirsi di quell’orizzonte così complesso, noto col nome di Strutturalismo. Nella prima parte di Maladie mentale et Psychologie, ritroviamo una lettura della malattia molto vicina all’interpretazione fenomenologica e alla posizione di Binswanger: la malattia va considerata all’interno dell’orizzonte esistenziale dell’individuo malato, è una forma di esistenza che non può essere definita in termini puramente negativi - cioè come deficit o come regressione -, come fanno la psichiatria e la stessa psicanalisi; non può essere compresa attraverso la distinzione rigorosa tra normale e patologico, non può essere trattata come un fenomeno fisico quantificabile e riducibile alle leggi della causalità. L’approccio scientifico alla malattia mentale finisce troppo spesso per essere o di tipo organicistico - allora la malattia è causata da una lesione o da un deficit fisico -, oppure di tipo "spiritualistico", entrambi riduttivi ed astratti perché rinnovano la scissione corpo-psiche, considerando questi aspetti come radicalmente separati. La malattia va invece compresa a partire dalla presenza globale e situata dell’individuo nel mondo, dalla storia individuale del malato, dalle sue modalità di abitare il mondo. Sarà allora necessario comprendere, per esempio, sia l’esperienza che il malato fa della propria malattia - cioè come egli si vive in quanto malato -, sia il mondo che la malattia osserva e costituisce insieme - cioè il complesso universo patologico del malato. Questo tipo di approccio rifiuta un’analisi della malattia che si identifica con lo sguardo distaccato e speculativo del medico, con quell’osservazione dall’esterno che tratta il malato e la malattia come puri oggetti. Se il patologico è una forma particolare di esistenza - che, pur deviandole e modificandole, conserva tutte le sue strutture -, allora è possibile interpretare le sue diverse tipologie come perturbazioni del tempo vissuto, dello spazio vissuto o del corpo vissuto (23): Da ultimo, la malattia può colpire l’uomo nella sfera individuale, quella dell’esperienza del corpo proprio. Il corpo cessa allora di essere quel centro di riferimento intorno al quale i percorsi del mondo si aprono come altrettante possibilità. Nel contempo la presenza del corpo all’orizzonte della coscienza si altera. Talvolta si ispessisce fino ad assumere la pesantezza e l’immobilità di una cosa; si trasforma in una oggettività nella quale la coscienza non può più riconoscere il suo corpo; il soggetto si percepisce solo come cadavere o come macchina inerte, e tutti i suoi impulsi sembrano provenire da una esteriorità misteriosa. (...) Talvolta anche la piena coscienza del corpo, con la sua spazialità e densità in cui si inseriscono le esperienze propriocettive, finisce per estenuarsi fino a non essere altro che coscienza di una vita incorporea (24). In qualche modo analoga a questa posizione è quella di Binswanger che, in uno scritto del 1956 intitolato Drei Formen Missglückten Daseins (25), prende in considerazione diverse forme di malattia mentale e le interpreta appunto come modificazioni generali di alcune strutture d’esistenza, quelle stesse che cita anche Foucault: tempo, spazio, corpo proprio, ecc. Questi casi non vengono visti come minorazioni, deviazioni morbose o sintomi - secondo la concezione medico-psichiatrica del patologico -, ma vengono guardate come fenomeno antropologico. Secondo questa prospettiva, che Binswanger definisce "antropoanalitica", è possibile considerare l’individuo nella sua globale presenza al mondo ed individuare la malattia come una sorta di "fallimento" dell’esistenza nella sua autenticità più piena, come un arrestarsi, un’incagliarsi delle molteplici possibilità che l’esistenza autentica dispiega. E qui Binswanger cita esplicitamente Heidegger: l’esaltazione fissata, la stramberia, il manierismo, non vengono giudicati in senso medico-psichiatrico, come "minorazioni" patologiche, "deviazioni" morbose o "sintomi". Vengono bensì considerate come forme di fallimento, di mancata riuscita dell’esistenza umana. (...) L’esistenza, l’Esserci è infatti per Heidegger "la possibilità di essere liberi per il più autentico potere-essere". Invece di parlare di fallimento, di mancata riuscita, Heidegger parla delle "possibilità dell’esistenza di darsi alle sue possibilità", di "afferrarle" ma, anche di "mancarle", di deragliare e di misconoscersi (26). Nel capitolo secondo di Maladie mentale et Psychologie, Foucault prende in esame quelle concezioni medico-psichiatriche (27) che considerano la malattia mentale nei termini puramente negativi di deficit, di perdita, di funzioni abolite, all’interno di un percorso evolutivo. Il fenomeno patologico sarebbe cioè una sorta di ritorno regressivo a fasi anteriori dell’evoluzione psichica, poiché le funzioni più complesse e recenti verrebbero cancellate, abolite, in un percorso a ritroso che procede sempre più verso gli stadi elementari, man mano che la malattia si aggrava. Lo svolgimento della malattia non sarebbe altro che il processo evolutivo dello stato normale, ma invertito. L’analisi di Freud segue anch’essa questa impostazione: Buona parte dell’opera di Freud è un commento delle forme evolutive della nevrosi. La storia della libido, del suo sviluppo, delle sue successive fissazioni è una specie di raccolta delle virtualità patologiche dell’individuo: ogni tipo di nevrosi è il ritorno a uno stadio della evoluzione libidica. E la psicoanalisi ha creduto di poter scrivere una psicologia del bambino attraverso una patologia dell’adulto (28). Ogni stadio libidico sarebbe così una struttura patologica virtuale, la quale, man mano che procede, andrebbe a disfare la trama della personalità e dell’individualità del malato, in maniera del tutto lineare e standardizzata. La critica di Foucault a questa impostazione non si rivolge tanto all’idea di un processo regressivo, quanto al fatto che essa non tiene conto del carattere assolutamente originale e "creativo" della malattia, e nemmeno prende in considerazione la struttura della personalità del malato, il suo essere globale come un’unità psico-fisica in continuo scambio col mondo. Il fenomeno regressivo non può che essere solo uno dei possibili aspetti descrittivi della malattia, lungi dal costituire l’essenza stessa del patologico. Esso non ha il significato riduttivo di caduta nel passato, di monotona ripetizione di questo stesso passato che le tesi di impostazione evoluzionista gli attribuiscono. Bisogna al contrario partire dall’individuo e dal suo presente attuale: si scoprirà allora che la malattia parte da una irrealizzazione di questo presente, da una situazione di difficoltà del vissuto attuale. La regressione fa parte dei tanti meccanismi di difesa - tra cui la rimozione, l’isolamento, la proiezione e l’introiezione, ecc. - che l’individuo mette in atto per proteggersi, per reagire alle difficoltà. Il patologico ha dunque un significato attuale e difensivo, che riguarda tutto l’individuo, nel suo sforzo di adattamento ad una situazione problematica di angoscia. Non è affatto un fenomeno puramente negativo di semplice sottrazione e perdita, ma, al contrario, un’azione di difesa, di reazione, di protezione - anche se fallimentare -, e quindi una forma necessariamente positiva. Con il suo taglio astratto, la psicologia del XIX secolo invitava a questa descrizione puramente negativa delle malattie, la cui semeiotica era molto facile, giacché si limitava a descrivere le attitudini scomparse (...). E’ vero, la malattia cancella; ma accentua. Abolisce da una parte per dare risalto dall’altra; l’essenza della malattia non sta soltanto nel vuoto che scava, ma anche nella pienezza positiva delle attività di sostituzione che vengono a colmarlo (29). Lo statuto della malattia va allora interamente rivisto; occorre superare le ordinarie constatazioni di ordine biologico e la caratterizzazione puramente negativa della malattia; occorre riconsiderare la più generale distinzione tra normale e patologico. E’ quello che ha fatto Georges Canguilhem, in uno studio, ormai classico, dal titolo appunto Le normal et le pathologique.
3. La lezione di Canguilhem Il primo studio di Canguilhem sul normale e il patologico risale al 1943, un periodo di molto precedente ai primi scritti di Foucault, il quale doveva sicuramente esserne a conoscenza all’epoca di Maladie mentale et psychologie, sia per una questione cronologica, sia per le influenze che vi si rintracciano fin da ora e che lo stesso Foucault documenterà negli anni successivi (30). L’influenza che Canguilhem esercita sul giovane Foucault si indirizza prima di tutto verso il rifiuto di un certo razionalismo scientifico, figlio della cultura positivista e, prima ancora, di quella illuminista, la quale inaugurerebbe una sorta di dogmatismo e dispotismo della ragione (31), una ragione che tende all’universale e alla propria incontrastata sovranità. Ogni fenomeno viene letto secondo strutture fisse e ricondotto a schemi quantitativi, a parametri matematici e semplificatori. Canguilhem prende per esempio in considerazione la tesi, sostenuta da A. Comte, secondo cui i fenomeni normali e quelli patologici, la salute e la malattia, si situerebbero in un rapporto di continuità caratterizzato da differenze puramente quantitative, e dunque misurabili e perfettamente trasparenti alla conoscenza. Questo ottimismo razionalista prende in considerazione soltanto l’aspetto puramente organico della malattia, la localizza in una "sede", per esempio al livello degli organi o dei tessuti, astraendo dunque degli elementi singoli dalla totalità organica di cui sono costitutivamente parte; ne fa un oggetto leggibile come qualunque altro fenomeno fisico, riduce la qualità alla quantità, nel tentativo di affermare una omogeneità quantitativamente esprimibile. Invece che essere una semplice modificazione quantitativa dello stato definito normale - un "più" o un "meno" rispetto ad una norma -, il patologico assume invece in Canguilhem l’aspetto di una struttura del tutto originale ed irriducibile alla prima: è cioè una modificazione complessiva dell’individuo - organico e psicologico -, l’istituzione di un ordine nuovo, che risponde a esigenze ambientali ed esistenziali nuove. E’ precisamente entro questa prospettiva che si situa Foucault quando critica, per esempio, la tesi psicanalitica secondo cui la malattia mentale non sarebbe altro che il processo evolutivo seguito dall’individuo sano, ma invertito, cioè in direzione regressiva (32). Il parallelo con la concezione del patologico di Canguilhem viene ancora di più in luce quando si confrontano direttamente i loro testi. Foucault scrive infatti: bisogna ammettere la specificità della personalità morbosa; la struttura patologica dello psichismo non è originaria; è rigorosamente originale (33). E Canguilhem: La malattia è un’esperienza di innovazione positiva dell’essere vivente e non più soltanto un fatto diminutivo o moltiplicativo. Il contenuto dello stato patologico non può essere sottratto (...) dal contenuto della salute: la malattia non è una variazione sulla dimensione della salute, essa è una nuova dimensione della vita (34). Anche Canguilhem ribadisce più volte la necessità di considerare la malattia alla luce della totalità dell’individuo, come modificazione del vissuto personale del malato. Ma l’essenziale della sua concezione del patologico risiede nel concetto di normativo, che egli spiega come la capacità di istituire delle norme di vita nuove, in relazione con l’ambiente - sia fisico che sociale. La vita - scrive Canguilhem - non è solo sottomissione ad un ambiente, ma anche istituzione del suo proprio ambiente, al fine di favorire il suo sviluppo e il suo benessere presi come norme, e di lottare contro ciò che ne ostacola la prosecuzione. La vita pone quindi essa stessa dei valori, delle preferenze, dei comportamenti o funzionamenti da evitare o da correggere; la norma è l’attività dell’organismo stesso (35), che deve rendersi malleabile, e la vita è lo sforzo spontaneo di difesa e di lotta contro tutto ciò che è di valore negativo (36). In questa prospettiva il normale e il patologico si configurano come norme di vita diverse: la sanità è la capacità di passare facilmente a nuove norme, relativamente alle fluttuazioni dell’ambiente; la malattia invece sarebbe, non mancanza di norme biologiche, ma una norma inferiore e ridotta, insufficiente rispetto all’ambiente. Esser sano significa non soltanto esser normale in una situazione data, ma esser anche normativo in questa ed in altre eventuali situazioni. Quello che caratterizza la sanità è la possibilità di superare la norma che definisce il normale momentaneo, la possibilità di tollerare delle infrazioni alla norma abituale e di istituire delle norme nuove in nuove situazioni. (...) La sanità è un margine di tolleranza delle infedeltà dell’ambiente. (...) Al contrario, la peculiarità della malattia è di essere una riduzione del margine di tolleranza delle infedeltà dell’ambiente (37). Nel secondo saggio contenuto in Le normale et le pathologique, Canguilhem allarga la sua analisi al campo delle scienze sociali. Se nel primo saggio la vita risultava essere "normativa", ora l’analisi della società porta Canguilhem a parlare di "normalizzazione", in termini molto simili a quelli che utilizzerà anche Foucault. Il normale non è un concetto statico o pacifico, ma un concetto dinamico e polemico. Gaston Bachelard (...) ha ben capito che ogni valore deve essere guadagnato contro un antivalore. (...) Così ogni preferenza di un ordine possibile si accompagna, il più delle volte implicitamente, all’avversione dell’ordine inverso possibile. Il diverso dal preferibile, in un campo di valutazione dato, non è l’indifferente, ma ciò che respinge, o più esattamente il respinto, il detestabile. (...) In breve, sotto qualunque forma implicita o esplicita che sia, le norme riferiscono il reale a dei valori, esprimono delle discriminazioni di qualità in conformità alla opposizione polare di un positivo e di un negativo (38). Nella seconda parte di Maladie mentale et Psychologie - che, come abbiamo ricordato, risale ad una fase di alcuni anni posteriore al resto dell’opera e di due anni successiva alla prima edizione della Storia della follia - troviamo un’impostazione del discorso sulla malattia mentale e sulla follia che ricalca quella dell’Histoire de la Folie, e si rifà appunto al concetto di ‘norma’ che Canguilhem ha sviluppato, oltre che alla sua metodologia di ricerca nel campo della storia delle scienze. La follia è vista come una dimensione ancora legata ad una certa qualità essenziale e ontologica, che rimane anche nell’Histoire de la Folie, ma allo stesso tempo come il prodotto di un’esclusione che la ragione, nel suo processo di autofondazione e autoaffermazione, ha operato. La ragione fonda se stessa attraverso un atto che trasforma una differenza (l’esperienza della sragione) in un’opposizione senza rimedio e senza alcuna possibilità di dialogo, e di conseguenza sull’esclusione di quella parte di negativo che essa rigetta, che costituisce come alterità metafisicamente negativa, come limite: La follia è il diverso della ragione, il suo limite, ciò che si trova dove la ragione cessa, ciò che la ragione non è; accoglierla dentro la ragione vuol dire distruggere la struttura stessa della razionalità (39). Comincia ad affacciarsi l’idea secondo cui la verità - in questo caso quella delle scienze esatte - non è altro che una certa distribuzione del vero e del falso, il prodotto di una serie di scarti e di selezioni di proposizioni che, di volta in volta, assumono lo statuto di verità o di falsità, di certezza o di errore, sulla base di determinate norme prestabilite da una certa situazione storico-culturale (40). La conoscenza nasce da un atto di crudeltà e di violenza - quella che ha operato la ragione nel suo processo di autofondazione e di esclusione di tutto ciò che essa ha respinto. In particolare, questa conoscenza sulla follia e sulla malattia nasce dalla reclusione, entro una struttura di carattere fondamentalmente punitivo, di milioni di cosiddetti folli; prende origine da un’esperienza di repressione, da un taglio operato all’interno dell’essere umano, da un’esperienza della follia come limite negativo del pensiero, da cui poi sorge questa nuova positività, quella del discorso medico, quella della psicologia. Non si tratta per Foucault, sulla scia di Canguilhem, di stabilire una filiazione, nei termini della continuità storica, tra le prime forme di reclusione dei folli e la moderna clinica psichiatrica; si tratta piuttosto di mettere in evidenza come il legame che intercorre tra le due sia al contrario di carattere discontinuo: quelle prime case d’internamento non erano affatto la prefigurazione delle attuali istituzioni mediche - e dei relativi saperi -, ma strutture completamente diverse, guidate da altre esigenze e motivazioni, rette da principi del tutto estranei ad esse. I movimenti che le pratiche e le teorizzazioni seguono lungo il corso della storia non si dispongono necessariamente nell’ordine della causalità diretta, come se la storia delle scienze fosse un concatenamento ordinato di teorie, che progressivamente si avvicinano alla scoperta della verità delle cose; tali movimenti sono al contrario guidati da cause molteplici e disparate, e seguono direzioni di volta in volta assai diverse tra loro. Vediamo dunque che Canguilhem imposta una epistemologia storica che si contrappone radicalmente alla maniera tradizionale di trattare la storia delle scienze, ovvero come un percorso lineare tracciato da precursori e continuatori; questo - dice - implica una ricostruzione storica astratta, in cui si proietta nel passato un inquadramento culturale che non gli appartiene affatto. Canguilhem inoltre propone una dimensione della storicità della produzione scientifica che si configura come "discontinua", e che procede per rotture e mutazioni piuttosto che per sviluppi lineari, progressivi ed anticipatori. Canguilhem insiste sul fatto che individuare le discontinuità non è per lui né un postulato né un risultato; è piuttosto un "modo di lavorare", una procedura intrinseca alla storia della scienza, giacché è richiesta dall’oggetto medesimo di cui questa deve occuparsi. La storia delle scienze non è infatti l’emergere della verità, della sua lenta epifania; essa non pretende di narrare la scoperta progressiva di una verità "iscritta da sempre nelle cose o nell’intelletto", a meno che non si voglia credere che la conoscenza attuale possieda definitivamente la verità, in una forma così completa e stabile, da poter essere adottata come misura del passato (41). Una delle principali problematiche che Canguilhem ha affrontato nello studio dell’epistemologia storica - problematica ripresa successivamente da Foucault - è quella relativa alla formazione dei concetti, cioè alla formulazione dei problemi scientifici, i quali aprono poi il campo, non solo a indirizzi di ricerca diversi, ma anche a soluzioni e a oggetti diversi. I concetti non sono entità già formulate una volta per tutte e disponibili alla conoscenza; essi acquistano un’esistenza quando un certo fenomeno diventa problematico, diventa oggetto di un certo interesse, di un certo sapere e di certe pratiche. Il concetto di malattia mentale per esempio, associato al fenomeno della follia - o meglio ad una certa percezione e concettualizzazione della follia -, prende forma solo a partire dal momento in cui la malattia e la salute diventano un problema di gestione della popolazione, dal punto di vista sociale e politico (42). In questo senso possiamo dire che Canguilhem pone una particolare attenzione alla dimensione "materiale" della produzione ideologica, cioè alle condizioni sociali, culturali e istituzionali in cui i concetti scientifici emergono e da cui dipendono (43); è quello che ha fatto anche Foucault già in Histoire de la Folie e successivamente in Les mots et les choses, Naissance de la clinique o in Surveiller et punir.
4. La follia Nel percorso che Foucault traccia sulle modalità con cui quella "cosa" chiamata follia è stata di volta in volta percepita, trattata e conosciuta, ritroviamo quelle categorie e quell’approccio critico che Canguilhem ha inaugurato. Vediamo di percorrere brevemente questo insolito ed interessante itinerario. L’epoca classica e la modernità spogliano la follia degli attributi in qualche modo positivi, conferiti ad essa nelle epoche precedenti. Durante il Medioevo e il Rinascimento, infatti, la follia è ancora libera di circolare ed esprimersi col proprio linguaggio, è considerata all’interno della ragione e non il suo opposto irriducibile, ma una sua forma relativa e complementare, che indica una verità profonda e nascosta sotto la superficie delle cose, per esempio, nelle sue forme simboliche, la paura del nulla e della morte (44). Nel XVII secolo, ha luogo un mutamento profondo e una frattura insanabile: la ragione costituisce la follia come il suo dis-valore assoluto e si separa definitivamente da essa. La follia si sposta verso la regione dell’insensato, dell’errore, della parola senza significato, della parola interdetta (45). Vengono create le prime grandi case d’internamento, che raccolgono i cosiddetti folli e tutta una massa eterogenea d’individui che si collocano ai margini della società, tutti coloro che, in rapporto alla ragione e alla morale, manifestano un elemento di disordine. Manca ancora a queste strutture uno statuto medico: lo scopo non è curare, ma soccorrere e allo stesso tempo recludere e punire. In queste condizioni, la follia viene separata dal suo proprio linguaggio e circoscritta in un luogo di silenzio. Successivamente, l’epoca della Rivoluzione francese, l’epoca dei Lumi, attua un progetto di riforma delle case d’internamento: sotto la veste filantropica - la stessa che spingerà a rivedere l’intero sistema penale (46) - vengono liberate tutte le categorie di rinchiusi (poveri, vagabondi, libertini, mendicanti, orfani, disoccupati, criminali, ecc.), tranne i folli, i quali rimangono soggetti ad un controllo che tende ad assimilare sempre di più un’osservazione, uno studio, e un sapere (47). Le case d’internamento diventano luoghi in cui si crea attorno al malato tutta una rete di controlli, di giudizi e osservazioni perpetue, un processo di infantilizzazione e colpevolizzazione del malato; un luogo in cui si applicano sanzioni punitive per ogni minima deviazione dalla condotta voluta. Cadono le catene e le inferriate che tenevano prigionieri gli internati, ma solo per far sì che il folle venga offerto quale oggetto per il nuovo sguardo della scienza medica. Con la nascita del personaggio medico, la follia si trasforma in malattia, osservata in maniera sempre più analitica; si formano discorsi che guardano da lontano la follia, discorsi che ne parlano col solo linguaggio della ragione. La follia si incontra e si confonde con la malattia mentale, e in questo connubio essa viene inserita in una nuova dinamica di rapporti: diviene in qualche modo controllabile - guaribile - e dominabile attraverso lo sguardo della scienza positiva; perde la sua veste di animalità, di alterità senza rimedio, per tramutarsi in una forma osservata, una cosa investita dal linguaggio, comunicabile e conoscibile; diventa oggetto posto a distanza e che si lascia investire da un sapere finalmente positivo. Pian piano, intrappolata nella rete delle scienze che si vanno formando, la follia assume uno statuto sempre più specifico: mentre prima veniva trattata come fenomeno globale che riguarda sia l’anima che il corpo - i rimedi utilizzati andavano sempre a toccare il corpo, proprio perché non era ancora nata una concezione psicologica della malattia -, ora essa comincia ad abitare sempre più solo l’interiorità dell’anima: nasce a poco a poco l’homo psycologicus: E fu a partire da quel momento che la follia cessò di essere considerata come un fenomeno globale che colpiva al tempo stesso, attraverso l’immaginazione e il delirio, il corpo e l’anima. Nel nuovo mondo manicomiale, in quel mondo morale del castigo, la follia diventa un fatto che concerne essenzialmente l’anima umana, la sua colpa e la sua libertà; essa si inscrive oramai nella dimensione dell’interiorità; in tal modo, per la prima volta nel mondo occidentale, la follia si ritroverà a godere di uno statuto, di una struttura e di un significato psicologici. (...) La scoperta di ciò che va sotto il nome di "psicologia" della follia non è altro che il risultato delle operazioni con cui la follia era stata investita. Senza il sadismo moralizzatore, con il quale la "filantropia" del XIX secolo ha circondato la follia sotto le ipocrite apparenze di una "liberazione", questa psicologia non esisterebbe affatto (48). Storia della follia si colloca in una vera e propria posizione di passaggio, tra un periodo ancora immerso nel fascino della fenomenologia - più che di Husserl, lo abbiamo visto, di Merleau-Ponty -, e un suo superamento definitivo. In questo scritto le strutture culturali ed epistemiche stanno per prendere il sopravvento sull’individuo: mentre prima l’attenzione era posta tutta sulla soggettività - nella sua libertà, nella sua singolarità e nella creatività e pienezza del suo vissuto -, ora questo soggetto - il folle - appare in qualche modo il prodotto di un certo sistema culturale, sociale e storico, il prodotto delle istituzioni dell’internamento. L’uomo verrà a poco a poco inghiottito dalle strutture epistemiche - lo vedremo benissimo in Les mots et les choses -, secondo una linea che congiunge Nietzsche e Heidegger, che si articola attraverso una elaborazione assai originale. Egli ci mostra così la follia nelle molteplici trasformazioni che essa di volta in volta subisce: i valori che va a ricoprire, le connotazioni e gli atteggiamenti che suscita, i modi in cui via via viene classificata e definita, gli statuti che assume, le parentele che stringe, le forme in cui viene riconosciuta. Sotto queste continue metamorfosi sembra sparire l’idea di una follia come realtà originaria, e configurarsi invece quella di una follia come prodotto, come concetto o fantasma culturale. Tuttavia, in Storia della follia e nella seconda parte di Maladie mentale et Psychologie - nate all’incirca nello stesso periodo - permane ancora un forte residuo di un carattere ontologico che apparterrebbe al sogno, alla follia, alla poesia, all’uomo in genere. Foucault parla ancora della follia come di un’esperienza originaria, che sarebbe stata alienata, separata dagli altri aspetti dell’esistenza umana, e con questo taglio, la nostra cultura avrebbe sottratto all’uomo una sua dimensione determinante e vera, avrebbe creato una frattura che lo porta all’alienazione della sua più autentica natura. Lo testimoniano le sue stesse parole: Il termine "malattia mentale" non indica altro che la follia alienata, alienata in quella psicologia che la follia stessa ha reso possibile. Si dovrà un giorno tentare uno studio della follia come struttura globale - della follia liberata e disalienata, restituita in un modo o nell’altro al suo linguaggio di origine (49). E ancora: C’è una buona ragione per cui la psicologia non potrà mai dominare la follia: perché il nostro mondo ha reso possibile la psicologia solo dopo aver dominato la follia, dopo averla anzitempo esclusa dal dramma. E quando ricompare, come nei lampi e negli urli di Nerval e di Artaud, di Nietzsche o di Roussel, la psicologia tace, resta senza parole di fronte a quel linguaggio che dà alle proprie il senso di quella lacerazione tragica e di quella libertà di cui già la sola esistenza degli "psicologi" sanziona per l’uomo contemporaneo il pesante oblio (50). La follia, così come essa si costituisce a partire dal XVIII secolo - a partire cioè dal periodo della riforma delle case d’internamento -, investita e ridotta dallo sguardo medico che la descrive, si vede spogliata dei suoi poteri, del suo carattere essenziale, del suo essere costitutiva del dramma umano. Essa finisce per manifestarsi ormai soltanto nel lirismo di opere come quelle di Artaud, di Nietzsche, di Nerval, ecc. Qui la follia sembra parlare proprio della verità più profonda dell’uomo, sembra dotata del potere di enunciare il suo segreto, la sua vicinanza estrema con la morte, col paradosso, con l’illogico; pare ricondurre a quell’esperienza del tragico di cui Nietzsche tanto ci ha parlato. Nell’epoca moderna assistiamo alla nascita di un processo di riassorbimento sempre più ampio di ciò che prima costituiva l’escluso, l’Altro assoluto, l’incomprensibile e l’incontrollabile, ma questo non avviene nell’ordine della riconciliazione di ciò che era stato separato, bensì nell’ordine del dominio e della vittoria di una parte sull’altra. Ora anche la follia viene fatta rientrare nello statuto dell’oggettività scientifica, e quindi non è più esclusa in quanto disordine incontenibile, ma riassorbita nelle maglie della ragione come suo oggetto, non più come suo opposto, come sua rivale e speculare nemica. Per questo Foucault potrà ipotizzare un futuro prossimo in cui la follia, nel suo essere trasgressione, essenza tragica dell’uomo, rischierà di scomparire quasi del tutto, lasciando di sé soltanto una traccia sfumata e silenziosa; assorbita nella monovalenza di una ragione ormai completamente trionfante: Forse, un giorno, non sapremo più esattamente che cosa ha potuto essere la follia. (...) Artaud apparterrà alla base del nostro linguaggio, e non alla sua rottura; le nevrosi, alle forme costitutive (e non alle deviazioni) della nostra società. Tutto quel che noi oggi proviamo relativamente alla modalità del limite, o della estraneità, o del non sopportabile, avrà raggiunto la serenità del positivo. (...) Quale sarà il supporto tecnico di questo mutamento? La possibilità per la medicina di padroneggiare la malattia mentale come una qualsiasi affezione organica? (...) O altre modificazioni ancora, nessuna delle quali forse sopprimerà realmente la malattia mentale, ma che avranno tutte il significato di cancellare dalla nostra cultura l’immagine della follia? So bene che avanzando quest’ultima ipotesi io contesto ciò che è comunemente ammesso: che i progressi della medicina potranno far scomparire completamente la malattia mentale, come già la lebbra e la tubercolosi; ma so che una cosa sopravviverà, e cioè il rapporto tra l’uomo e i suoi fantasmi, il suo impossibile, il suo dolore senza corpo, la sua carcassa durante la notte (51).
Note 1 U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima, op. cit., pp. 186-187.2 M. Foucault, Introduzione a Sogno ed esistenza (1954), SE, Milano 1993, p. 15.3 Si ricordi che la formazione culturale di Foucaut si innesta sul terreno della psicologia: si laurea in psicologia, occupa per anni il posto di assistente di psicologia e successivamente la cattedra di docente, oltre a svolgere numerose esperienze in campo psicopatologico; solo a partire dal 1966 gli viene offerta una cattedra in filosofia, e nel 1970 in storia dei sistemi di pensiero al Collège de France. In un secondo momento l’interesse di Foucault si sposterà dalla psicologia - che comunque non abbandonerà mai - alla medicina e successivamente alla stessa antropologia.4 L. Binswanger, Psicopatologia generale, Roma 1965, p. 327, citato in U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima, op. cit., p. 137.5 Foucault non cita mai esplicitamente Heidegger, tranne in una preziosa intervista -l’ultima rilasciata prima della morte -, in cui dice: "Heidegger è sempre stato, per me, il filosofo fondamentale. Ho cominciato leggendo Hegel, poi Marx e mi sono messo a leggere Heidegger nel ‘51 o nel ‘52; e nel ‘53, o nel ‘52, non mi ricordo più, ho letto Nietzsche. (...) Tutto il mio divenire filosofico è stato determinato dalla lettura di Heidegger. Ma riconosco che l’ha spuntata Nietzsche. (...) Probabilmente, se non avessi letto Heidegger, non avrei letto Nietzsche. Avevo provato a leggere Nietzsche negli anni cinquanta, ma Nietzsche da solo non mi diceva nulla. Mentre Nietzsche e Heidegger insieme sono stati uno shock filosofico! Ma non ho mai scritto nulla su Heidegger e su Nietzsche ho scritto solo un breve articolo; tuttavia sono i due autori che ho letto di più". (M. Foucault, Il ritorno della morale, in Archivio Foucault I, op. cit., pp. 268-269).6 Cfr. ivi, cap. II.7 M. Foucault, Introduzione a Sogno ed esistenza (1954), cit., p. 18.8 Ib., p. 21.9 U. Galimberti, Gli equivoci dell’anima, op. cit., p. 65.10 Cfr. la voce "simbolo" in Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Milano 1991².11 Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, citato in nota in M. Foucault, Introduzione a Sogno ed esistenza (1954), cit., , p. 47.12 M. Foucault, Storia della follia nell’età classica(1972), Rizzoli, Milano 1996, p. 443.13 A. Bonomi, Esistenza e struttura. Saggio su Merleau-Ponty, op. cit., pp. 34-3514 L. Binswanger, Ausgevählte Vorträge und Aufsätze, II, Zur Problematik der psychiatrischen Forschung und zum Problem der Psychiatrie, Franke, Bern 1955, p. 267, citato in U. Galimberti, Il corpo, op. cit., p. 144.15 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, op. cit., p. 418.16 Sottolineatura nostra.17 M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, op. cit., pp. 315-316.18 M. Foucault, Introduzione a Sogno ed esistenza (1954), cit., p. 60.19 Ib, pp. 60-61.20 Ib, p. 40.21 Si riferisce ad un’opera precedente Traum und existenz e risalente al 1928: Wandlungen in der Auffassung und Deutung des Traumes von den Griechen zur Gegenwart.22 M. Foucault, Introduzione a Sogno ed esistenza (1954), cit., p. 59.23 E qui il richiamo a Merleau-Ponty è del tutto esplicito.24 M. Foucault, Malattia mentale e psicologia (1962), Raffaello Cortina Editore, Milano 1997, pp. 62-63.25 Trad. it., Tre forme di esistenza mancata. Esaltazione fissata, stramberia, manierismo, op. cit.26 L. Binswanger, Tre forme di esistenza mancata, op. cit., pp. 12-13. Le citazioni da Heidegger sono tratte da Sein und Zeit (Essere e Tempo), p. 144.27 Foucault cita J.H. Jackson, R. A. Spitz, G. Guex, P. Janet.28 M. Foucault, Malattia mentale e psicologia, cit., p. 23.29 Ib., p. 20.30 Per esempio vedi M. Foucault, Georges Canguilhem: il filosofo dell’errore, op. cit., apparso come Prefazione all’edizione inglese della stessa opera di Canguilhem, On the normal and the pathological, del 1978, oggi anche in Archivio Foucault 3, col titolo La vita: l’esperienza e la scienza, op. cit., pp. 317-329.31 Ib., p. 43 .32 Vedi sopra.33 M. Foucault, Malattia mentale e psicologia, cit., p. 30.34 G. Canguilhem, Il normale e il patologico, op. cit., p. 146.35 Ib., p. 93.36 Ib., p. 96.37 Ib., pp. 156-158.38 Ib., pp. 204-205. Per una trattazione più approfondita del concetto di "norma", rimandiamo alla terza sintesi, paragrafo III: Il sapere e la norma.39 V. Cotesta, Linguaggio, potere, individuo. Saggio su M. Foucault, op. cit., p. 93.40 Foucault, parlando proprio a proposito di Canguilhem, riprende il concetto di norma che questi ha sviluppato: " i processi di eliminazione e di selezione di proposizioni, teorie ed oggetti accadono di volta in volta in funzione di una determinata norma (...). Non è sulla base della "scienza normale", nel senso adoperato da T. S. Kuhn, che si può ritornare al passato e tracciarne correttamente la storia; bensì ridisegnando un processo "normato" in cui la conoscenza attuale è solo un momento il cui futuro non può essere previsto se non con delle profezie". M. Foucault, Georges Canguilhem: il filosofo dell’errore, op. cit., p. 46.41 Ib., p. 44.42 Questo aspetto è già assai evidente in Storia della follia, ma si approfondisce ancora di più in Nascita della clinica. A questo proposito si leggano alcuni brevi saggi contenuti in Archivio Foucault 2, in particolare La politica della salute nel XVIII secolo (pp. 187-201) e La nascita della medicina sociale (pp. 220-240).43 Non a caso - sostiene lo stesso Foucault in Georges Canguilhem: il filosofo dell’errore, cit., pp. 43-44 - egli si è occupato principalmente di quelle scienze, come la biologia e la medicina, che sono meno formalizzate rispetto alle "scienze nobili", e quindi più legate alle condizioni esterne, culturali, istituzionali, economiche, ecc.44 A questo proposito Foucault fa riferimento alla letteratura, alla pittura e alla tradizione popolare e cita la Danza macabra, il Trionfo della morte, la Nave dei Folli di Bosch, Margot la Folle di Bruegel, l’Elogio della follia Di Erasmo, il Don Chisciotte di Cervantes, ecc. (Cfr. M. Foucault, Malattia mentale e psicologia, cit., p. 77 e M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, cit., cap. I)45 "La follia non conserva con gli atti interdetti che una parentela morale (resta essenzialmente legata alle interdizioni sessuali), ma è inclusa nell’universo delle interdizioni di linguaggio; la reclusione classica racchiude, con la follia, il libertinaggio di pensiero e di parola, l’ostinazione nell’empietà e nell’eterodossia, la bestemmia, la stregoneria, l’alchimia: in breve tutto ciò che caratterizza il mondo parlato e interdetto della sragione; la follia è il linguaggio escluso: quello che contro il codice della lingua pronuncia parole senza significato (gli "insensati", gli "imbecilli", i "dementi"), o quello che pronuncia parole sacralizzate (i "violenti", i "furiosi"), o quello ancora che fa passare significati interdetti (i "libertini", i "testardi"). M. Foucault, La follia, l’assenza di opera, contenuto in appendice all’edizione italiana di HF, op. cit., p. 480.46 Vedi il capitolo terzo, soprattutto il paragrafo II.47 Per quanto riguarda il tema delle relazioni fra sapere e potere in Foucault, vedi il capitolo terzo, soprattutto al paragrafo III.48 M. Foucault, Malattia mentale e psicologia, cit., pp. 84-85.49 Ib., p. 87.50 Ib., pp. 100-101.51 M. Foucault, La follia, l’assenza di opera, op. cit., pp. 475-476.
Foucault 1961-1968 "Per la medicina, il corpo di riferimento è il cadavere.
In altre parole, il cadavere è il limite ideale del corpo nel suo rapporto con
il sistema della medicina. E’ esso che produce e riproduce la medicina nel suo
pieno esercizio, sotto il segno della preservazione della vita."
Lo sguardo che scruta oltre l'immediatamente vuisibile. Il corpo nella storia della medicina 1. I discorsi Verso la metà del XVIII secolo, Pomme curò e guarì un’isterica facendole prendere "dalle dieci alle dodici ore al giorno di bagni, durante dieci interi mesi". Al termine di questa cura contro il disseccamento del sistema nervoso e il calore che l’alimentava, Pomme vide che "delle parti membranose simili a pezzi di pergamena bagnata... si staccavano con leggeri dolori e uscivano giornalmente con le orine, mentre l’uretere dalla parte destra si spogliava a sua volta e usciva tutto intero per lo stesso condotto". Parimenti "gli intestini, in altro tempo, si spogliarono della loro tunica interna e vedemmo uscire dal retto. L’esofago, la trachea e la lingua s’erano a loro volta spogliati; e la malata aveva espulso diversi pezzi o col vomito o colla espettorazione"(1). Nascita della clinica si apre con questa insolita descrizione, gettata sulla pagina all’improvviso e senza nulla che introduca la crudezza corporea - un po’ raccapricciante - che la sua immagine evoca. Il lettore viene colto alla sprovvista, e la prima impressione che riceve è forse un senso di smarrimento, l’incapacità perfino di comprendere una simile descrizione, che un tempo veniva invece accettata come resoconto oggettivo. Il senso della distanza tra noi e la nostra scienza medica da una parte, e questa fantasiosa rappresentazione dall’altra, emerge qui con una certa forza. Una distanza caricata naturalmente di valore: la presunta oggettività della scienza contemporanea, raggiunta dopo un lungo cammino evolutivo fatto di progressive conquiste, contro l’ingenuità di una conoscenza empirica ancora da purificare da ogni sorta di errore. E’ proprio attraverso questa distanza che Foucault può utilizzare quelle strategie metodologiche - che ha sviluppato a partire dalla lezione di Canguilhem (2) -, per mettere in discussione l’edificio su cui poggia il nostro sapere. Distanza critica dalla verità e dal significato, che lascia emergere la struttura (3) che presiede alla produzione, al funzionamento, alla circolazione dei discorsi che ci attraversano; quella struttura silenziosa che organizza le pratiche, l’esperienza della percezione (lo sguardo), gli oggetti da conoscere e i soggetti della conoscenza. L’archeologia della medicina porterà dunque alla luce le fratture, i complicati ed eterogenei percorsi che i discorsi hanno tracciato, la filiazione dei concetti che vanno a formulare i problemi, le trasformazioni dello sguardo e della percezione, le modalità con cui questo sguardo ha plasmato il suo oggetto, le forme che la verità ha di volta in volta fatto proprie. Foucault smonta l’interpretazione ufficiale della medicina moderna che vede in Bichat un punto di svolta in senso evolutivo: con lui la medicina abbandonerebbe le superstizioni, si scrollerebbe di dosso gli innumerevoli errori che fino ad allora avevano incrostato il suo sguardo, per giungere finalmente ad una conoscenza oggettiva del corpo e della malattia. L’anatomia patologica di Bichat avrebbe svelato finalmente la verità del corpo, la cui malattia si situa e si esaurisce nello spazio concreto di questo stesso corpo, nella lesione dei suoi tessuti. Fine dunque di una medicina che ruotava intorno alle classificazioni per classi e famiglie di tutto il regno della natura, che intrecciava continuamente parentele tra il corpo e il cosmo, che ordinava tutto il visibile entro una quadrettatura coerente e trasparente (4). Si ha l’impressione che per la prima volta dopo millenni, liberi finalmente da teorie e da chimere, i medici abbiano acconsentito ad affrontare, di per se stesso e nella purezza di uno sguardo non prevenuto, l’oggetto della loro esperienza. Ma occorre rovesciare l’analisi: sono le forme di visibilità ad essere cambiate; il nuovo spirito medico, di cui senza dubbio Bichat reca la prima testimonianza assolutamente coerente, non è da iscrivere nell’ordine delle purificazioni psicologiche ed epistemologiche; esso non è altro che una riorganizzazione sintattica della malattia in cui i limiti del visibile e dell’invisibile seguono un nuovo disegno (5). Questa riorganizzazione ha delineato nuove esistenze, ha prodotto nuove configurazioni, tra le quali spiccano quelle relative al corpo: un corpo interamente spazializzato; una malattia che si materializza e diventa lesione di tessuti organici, abbandonando così il suo carattere di essenza; un nuovo concetto di vita e di morte; nuove forme di classificazione che separano l’organico dall’inorganico; un nuovo linguaggio. La clinica ci mostra una nuova distribuzione degli elementi nello spazio corporeo (per es. l’isolamento, all’interno dell’organismo, dei tessuti); una riorganizzazione delle componenti che costituiscono il fenomeno patologico (delle sedi anatomiche si sostituiscono a dei sintomi organizzati secondo il modello botanico). Intorno a questi nuclei si costituisce tutto un sistema di pratiche, oltre che di discorsi (6), che costituisce il metodo anatomico-clinico, ovvero la condizione storica di quella medicina che noi riceviamo come positiva. E’ importante sottolineare come Foucault respinga una concezione riduttiva del linguaggio - e quindi dei discorsi - semplicemente come insieme di segni, in termini cioè di referenti e di parole che ricalcano, in maniera neutra, gli oggetti; segni che rinviano a contenuti e rappresentazioni che esistono già, prima ancora di essere nominate. Per Foucault i discorsi sono piuttosto delle pratiche che formano sistematicamente gli oggetti di cui parlano (7), sono complessi macchinari capaci di escludere dalla loro trama tutto ciò che non sono in grado di assimilare; sono da considerare nell’ordine dell’evento (événement) (8), quindi non, ermeneuticamente, appartenenti al campo del testuale, della parola ridotta a puro segno, che riceve senso e significato a partire da qualcosa che le è esterno. Foucault parla piuttosto di enunciato, che include in sé, nella forma dela compresenza e della simultaneità, chi parla, il testo che parla, e ciò di cui si parla, in un immanenza che non necessita di alcun rimando a referenti originari (9). Un esempio interessante, che ci introduce un po’ più nel cuore del nostro oggetto di studio, ci è fornito ancora una volta da un’operazione di smontaggio, da parte di Foucault, di una ricostruzione storica che tende a dare alla scienza una conformazione lineare ed una direzione evolutiva. L’anatomia avrebbe cioè potuto pienamente svilupparsi, in seno alla scienza medica, solo dopo che l’interdetto religioso sui cadaveri e sulla sacralità della morte fossero finalmente caduti, dopo l’avvento rischiaratore dell’Illuminismo: Per centocinquant’anni si è ripetuta la stessa spiegazione: la medicina ha potuto avere accesso a quel che la fondava scientificamente solo aggirando, con lentezza e prudenza, l’ostacolo maggiore, quello che la religione, la morale e ottusi pregiudizi opponevano all’apertura dei cadaveri. L’anatomia patologica non ha vissuto che d’una vita di penombra, alle frontiere dell’interdetto, grazie al coraggio dei saperi clandestini che sopportano la maledizione (...). Poi vennero i Lumi; la morte ebbe diritto alla chiarezza e divenne per lo spirito filosofico oggetto e fonte di sapere: "Quando la filosofia introdusse la sua fiaccola tra i popoli civilizzati, fu infine consentito di portare uno sguardo scrutatore sui resti inanimati del corpo umano, e queste spoglie, un tempo vile preda dei vermi, divennero fonte feconda delle più utili verità" (10). In realtà, sostiene Foucault, già dalla metà del ‘700, non si ponevano grossi ostacoli alla dissezione dei cadaveri; si trattava al contrario di una pratica abbastanza diffusa, anche se non costituiva in alcun modo il supporto della medicina; lo dimostra il fatto che Morgagni (11), ufficialmente considerato il fondatore dell’anatomia patologica, pubblica la sua principale opera nel 1760. Tuttavia è soltanto a partire da Bichat, circa quarant’anni più tardi, che la lezione di Morgagni potrà essere ripresa. Questo intervallo di tempo coincide con un periodo di riassestamento e mutamento del metodo clinico, che costituisce quell’esperienza (12) su cui nasce la scienza moderna. Prima di questa riorganizzazione della pratica e del sapere clinico, lo sguardo medico era tutto concentrato sulla lettura dei sintomi, sulle loro frequenze, cronologie e parentele, sulla decifrazione del linguaggio della malattia, in una trasparenza che svelava tutto l’essere della malattia attraverso lo sguardo del medico che si posa sul malato ( e non ancora sul corpo, o ancora meglio sul cadavere) (13). Un tale tipo di sguardo era del tutto estraneo ad una figura del sapere quale è l’anatomia patologica, a questa investigazione dei corpi muti, delle masse opache, dei volumi segreti celati nelle profondità dei corpi. Proprio un pensiero clinico ha impedito per quarant’anni alla medicina d’intendere la lezione di Morgagni. Non si tratta di un conflitto tra un giovane sapere e vecchie credenze, ma tra due figure del sapere. Occorrerà un muto riassetto perché, dall’interno della clinica, si delinei e s’imponga il richiamo all’anatomia patologica (14). Più che il processo di assorbimento, da parte del modello epistemologico dominante in una determinata epoca, di tutti gli oggetti e i discorsi che proliferano, Foucault prende in considerazione il meccanismo solo apparentemente opposto, quello di esclusione. Porta alla luce tutta una teratologia (15) del sapere, che già nello studio sulla follia aveva mostrato tutta la sua fecondità: per comprendere cosa la nostra società intende per normalità occorre guardare a cosa essa esclude da sé per costituirsi come normativa, e non tanto assumere il punto di vista della sua razionalità interna; occorre cioè rovesciare la prospettiva dell’analisi. Così, ci accorgiamo che, per appartenere ad una disciplina (16), una proposizione deve rispondere a determinate condizioni, deve riuscire ad inscriversi ad un certo orizzonte teorico, deve utilizzare certi strumenti concettuali e fondamenti teorici - che assumono il valore di norma -, deve prendere in considerazione un certo campo di oggetti e non altri, e così via. Non si tratta semplicemente di dire il vero, ma di entrare nel vero (17), in quell’orizzonte teorico che una determinata disciplina storicamente definisce come vero, reale, oggettivo. Se sono questi discorsi-pratiche a formare l’oggetto di cui parlano (18) ; se è lo sguardo del medico - con tutta la struttura istituzionale ed epistemica (19) che gli sta dietro - a dire la verità del corpo e della malattia; se questo "oggetto" che chiamiamo corpo, pervaso da processi detti patologici o normali, penetrato dalla vita e dalla morte, assume di volta in volta, storicamente, una differente configurazione, allora, invece di porci la domanda "che cos’è questo corpo?" - domanda che Foucault considererebbe impropria e anacronistica - , occorre tentare di osservare più da vicino come questi discorsi lo attraversano, il percorso tortuoso che compiono e da dove provengono. In un certo senso, gli enunciati che "parlano" del corpo sono tutto ciò che il corpo è in una determinata epoca; tutto quello che si vuole ritrovare al di là di questa superficie dei discorsi è illusione ermeneutica. Lo studio sulla nascita della clinica si conclude con la tesi secondo cui, così come la ragione si innesta sullo scarto della follia, allo stesso modo, le radici su cui è cresciuta la scienza medico-biologica - la scienza e la conoscenza del corpo e della vita - quale noi oggi conosciamo e pratichiamo, sono da collocare nell’anatomia patologica, nel momento dunque della morte. La malattia, ma anche la vita, trovano la loro visibilità e dicibilità scientifica, la loro verità, nella violenza del cadavere dissezionato, nello spessore dell’atlante anatomico, attraverso la prospettiva del corpo morto. La leggibilità dell’individuo come oggetto del sapere positivo, la manifestazione della sua verità - della malattia, della sua fisiologia, del suo organismo - sono stati possibili solo dal momento in cui la morte è entrata nell’esperienza medica come oggetto dell’analisi. Aprite qualche cadavere - diceva Bichat - vedrete tosto scomparire l’oscurità che la sola osservazione non aveva potuto dissipare (20). Per tutto il XVIII secolo e per tutta una tradizione già familiare al Rinascimento, la conoscenza della vita si fondava di diritto sull’essenza del vivente, poiché non ne era, essa stessa, che una manifestazione. Ecco perché non si pensava mai la malattia se non a partire dal vivente, o dai suoi modelli (meccanici) o dai suoi costituenti (umorali, chimici); il vitalismo e l’antivitalismo nascevano entrambi da questa anteriorità della vita nell’esperienza della malattia. Con Bichat, la conoscenza della vita trova la sua origine nella distruzione della vita, e nel suo estremo opposto; solo alla morte la malattia e la vita dicono la loro verità (...) (21). A questo proposito, risulta interessante stabilire ancora una volta un parallelismo, o meglio, un confronto tra Foucault e Canguilhem. Nel suo celebre studio sui concetti di normale e patologico nella scienza medica (22), Canguilhem sottolinea ripetutamente come la conoscenza della fisiologia sia stata decifrabile a partire dalla patologia, dalla malattia dunque, dall’ostacolo, dall’infrazione ad una norma: Pensiamo con Leriche che la sanità è la vita nel silenzio degli organi, che quindi il normale biologico è rivelato, come abbiamo già detto, solo dalle infrazioni alla norma e che esiste una coscienza concreta o scientifica della vita solo attraverso la malattia (23). La vita è diventata storicamente l’oggetto di una conoscenza scientifica, solo passando attraverso l’esperienza della scacco, della malattia e della morte. Tuttavia, quello che sembrerebbe un punto di sintonia tra i due autori, si rivela essere, in questa fase della ricerca foucaultiana, piuttosto un punto di divergenza sostanziale: Canguilhem fa continuamente riferimento ad una dimensione del vissuto, che lo avvicina a posizioni decisamente fenomenologiche (24), posizioni da cui Foucault si è ormai distaccato. Naissance de la clinique e Les mots et les choses - nonché Archéologie du savoir - sono infatti le opere in cui si avverte maggiormente la forte influenza del movimento strutturalista. Canguilhem sembra attribuire alla malattia un una sorta di profondità, un significato carico di spessore, ed è l’individuo malato, nel suo essere soggetto vivente e corporeo, che dà ad essa significato - e quindi "essere" -, attraverso la propria personale esperienza vissuta della malattia, del limite, dello scacco, del depotenziamento delle sue capacità e possibilità operative. L’ostacolo a partire dal quale è nata la conoscenza medica è per lui la malattia vissuta dal malato, la malattia-dolore: La malattia è un comportamento di valore negativo per un essere vivente individuale, concreto, in rapporto di attività polarizzata con il suo ambiente (25). Ora noi pensiamo che non vi è nulla scienza che non sia prima apparso nella coscienza e che, in particolare, nel caso di cui ci stiamo occupando, è il punto di vista del malato che è in fondo quello vero (26). Per Canguilhem, i discorsi e le pratiche sono possibili solo a partire da un soggetto incorporato, empirico, vivente nel suo rapporto col mondo. La prospettiva di analisi di Foucault, invece, che pure ha abbracciato in passato posizioni simili a queste, si mantiene ora sempre al di là di questo spessore fenomenologico. Foucault non si pone mai il quesito sull’individuo, sul soggetto, anzi, questo scompare completamente, si dissolve nella trama dei discorsi e delle pratiche; diventa un loro effetto di superficie. Ritorneremo più avanti su questo problema del soggetto, poiché esso attraversa un po’ tutta la produzione di Foucault e costituisce uno dei noccioli più densi del suo pensiero e di tutta la contemporaneità. Quello che ci interessa per il momento è addentrarci un po’ di più nelle analisi che Foucault svolge sui discorsi medici e scientifici, e vedere le innumerevoli involuzioni che il corpo subisce, come esso emerge a seconda dei diversi campi di visibilità, delle strutture percettive che storicamente si incrociano e si succedono. Il presupposto da cui partire è, ancora una volta, l’arbitrarietà di ogni sistema di organizzazione del reale: Per i nostri occhi ormai frusti, il corpo umano definisce, per diritto naturale, lo spazio d’origine e di ripartizione della malattia: spazio le cui linee, i volumi, le superfici e i cammini sono fissati, secondo una geometria ormai familiare, dall’atlante anatomico. Tuttavia questo ordine del corpo solido e visibile non è per la medicina che uno dei tanti modi di spazializzare la malattia. Né il primo senza dubbio, né il più fondamentale. Ci sono distribuzioni del male diverse e più originarie (27).
2. Dal segno alla funzione Punto di partenza può essere l’episteme classica, che si situa nello spazio tra le due fratture che segnano il cammino della cultura occidentale: la prima si verifica intorno alla metà del XVII secolo e la seconda nel periodo che va dalla fine del XVIII all’inizio del XIX secolo (28). All’interno di questa struttura, tutto si svolge nel quadro continuo della rappresentazione; nulla, nell’età classica è dato fuori della rappresentazione, che organizza l’essere sulla base di una struttura della visibilità immediata. L’osservazione può raccogliere tutto quanto l’universo visibile, con chiarezza ed esaustività; può ordinarlo entro uno spazio continuo e quadrettato, che si stende su una superficie lineare senza profondità, e dove le identità e le differenze si dispongono all’interno di un reticolo fatto di elenchi ordinati, di classi e di famiglie. Conoscere è nominare, dare un nome, contras-segnare il visibile, e dunque classificarlo. Tutto ciò che non rientra in questo campo di visibilità - depurato da ogni altra forma di percezione - è escluso: il tatto, gli odori, il gusto, i suoni si ritirano, e la vista ottiene il privilegio esclusivo quale senso dell’evidenza e dell’estensione (29). In questo orizzonte, il corpo non può che essere anch’esso superficie di segni, che si mostrano allo sguardo, tassello di questo reticolo di classi e famiglie, nello spazio continuo della natura e degli esseri. Allo stesso modo, la malattia è l’insieme dei suoi sintomi e segni. Essa entra in contatto col corpo non attraverso il suo spazio, il suo spessore e i suoi volumi, ma attraverso le qualità che percorrono tutto il cosmo: secchezza, umidità, calore, freddo, fluidità, ecc. (30). Nulla fa ancora presagire una localizzazione del male nello spazio interno dell’organismo; l’anatomia di Vesalio e di Valverde, inaugurata almeno un secolo prima, non trova spazio in questo quadro. La malattia funziona anch’essa secondo il modello botanico: la sua leggibilità avviene in superficie, essa manifesta i suoi segni e i suoi caratteri, che lo sguardo raccoglie e collega. L’anatomia, nel XVII e XVIII secolo, ha perduto la funzione primaria che aveva durante il Rinascimento e che ritroverà al tempo di Cuvier; non che la curiosità sia nel frattempo diminuita, o che il sapere abbia regredito: ma la disposizione fondamentale del visibile e dell’enunciabile non attraversa più lo spessore del corpo. Di qui la priorità epistemologica della Botanica: il fatto è che lo spazio comune a parole e a cose costituiva, per le piante, una griglia assai più accogliente, assai meno "nera" che per gli animali; nella misura in cui molti organi costitutivi sono visibili sulla pianta mentre non lo sono negli animali, la conoscenza tassonomica fondata su variabili immediatamente percepibili è stata più ricca e più coerente nell’ordine botanico che nell’ordine zoologico. Occorre pertanto rovesciare ciò che solitamente si afferma: non è perché nel corso dei secoli XVII e XVIII ci si interessò alla botanica, che l’esame fu portato sui metodi di classificazione. Ma proprio perché nulla poteva essere saputo e detto se non all’interno d’uno spazio tassonomico di visibilità, la conoscenza della piante dovette necessariamente prevalere su quella degli animali (31). Quando poi questo quadro unitario della rappresentazione si spezza, l’essere, le cose, subiscono uno slittamento e un riassetto, assumono uno statuto nuovo. Il principio della classificazione - cioè la determinazione di caratteri che unificano gli individui e le speci in insiemi, le distingue le une dalle altre e le collega in un unico quadro generale, in cui tutti gli individui, noti e ignoti, possono trovare il loro posto - non muta la sua impostazione complessiva; ciò che cambia è il modo in cui viene stabilito il carattere: non più attraverso il confronto delle strutture visibili, ma attraverso quella che è l’organizzazione interna degli esseri. Con Cuvier (32), gli organi del corpo perdono la loro indipendenza e vengono raccolti all’interno di una struttura gerarchica e sulla base della funzione vitale che svolgono (respirazione, digestione, circolazione , locomozione, ...). Il corpo perde pian piano la sua leggibilità di superficie, diventa volume, massa; si aprono nuove profondità celate, a cui l’episteme classica non poteva dare l’importanza che invece i bagliori della modernità hanno conferito loro. All’interno di questo corpo, sono racchiuse funzioni primarie e funzioni ausiliarie, quindi anche organi primari e organi secondari; organi più superficiali connessi con altri più nascosti, che assicurano le funzioni vitali. L’organismo è perciò organizzazione, obbedisce ad un piano, ad un principio gerarchico che oltre a definire le funzioni preminenti, distribuisce gli elementi anatomici nelle aree privilegiate del corpo. Il campo della visibilità si offusca col subentrare di uno spazio interno, ad esso estraneo ma più importante, perché custodisce la vita, nel segreto della sua invisibilità. Infatti gli organi sono sì accessibili e visibili attraverso la dissezione, ma nemmeno questa riesce a mostrare quello che è la funzione - l’attività degli organi nel loro operare coordinato -; ed è proprio in essa che si cela la vita. Questa vita, principio misterioso che passa attraverso i corpi senza fermarvisi, abbandona a poco a poco i segni e l’armatura della botanica, le sue superfici che non si sottraggono mai allo sguardo, e si identifica con l’animalità; affonda nelle profondità del corpo, nei luoghi più remoti allo sguardo, in uno spazio di invisibilità. E’ questo il punto focale, l’unità sintetica che accomuna tutti gli esseri viventi. Quanto più si cercano gli elementi comuni tra i diversi gruppi, tanto più si deve scendere in profondità; in superficie invece, in ciò che è più vicino alla vista, si affollano le differenze, i caratteri più peculiari dei diversi esseri, ciò che definisce la molteplicità. Intorno a tale nocciolo prendono forma quelle che sono i presupposti teorici, le condizioni di possibilità della biologia, la scienza della vita e delle sue manifestazioni (33). Fino a che non è emerso un simile concetto di vita - come unità sintetica che può funzionare da comune denominatore per classificare e conoscere scientificamente gli esseri -, non è stata possibile una scienza come la biologia; essa, non solo era impensabile, ma non avrebbe mai avuto accesso ad un sapere che guardava al mondo come ad un quadro compatto e continuo di identità e differenze, tutte riconducibili ad uno stesso campo di visibilità e ordine. Quando questo quadro si disgregò, gli elementi che lo componevano - per esempio tutto ciò che rientrava nella storia naturale - si dispersero, per poi raccogliersi attorno a dei nuclei concettuali originatisi anch’essi a partire da questa frattura. La vita, come inaccessibile enigma che accomuna i viventi, è uno di questi nuclei. Allo stesso modo, quando l’analisi delle ricchezze si dissociò, tutti i processi economici si raggrupparono attorno ad una nuova entità che era la produzione (34). E’ in seno a questa frattura che nasce il pensiero moderno, l’episteme classica lascia il posto all’episteme moderna. Ma non si tratta di una scomparsa che si porta con sé tutto ciò che essa aveva prodotto, i retaggi di un’epoca vengono assorbiti e riutilizzati da quella successiva, mutano la loro forma, entrano in relazioni con nuove forme di organizzazione del reale e ne modificano il cammino. Così, per esempio, l’epoca dell’anatomia patologica che con Bichat prenderà il sopravvento, mantiene per molto tempo un’impostazione nosologica, una tendenza alla classificazione (35). Ci rendiamo conto, ancora una volta, come per Foucault (36) l’essere delle cose sia lontanissimo dal possedere un qualsiasi tipo di profondità intrinseca che si celerebbe al di là delle apparenze; uno spessore di natura il cui cuore permarrebbe, nel tempo, identico a se stesso; una sostanza interna ed originaria che precederebbe il movimento della storia. Tutto invece si svolge ed acquista un volto solo sulla superficie dei discorsi, sono questi, insieme ad un certo numero di pratiche non discorsive (37), che plasmano gli oggetti, danno loro un nome, una forma, un movimento, perfino un’esistenza. Anche i corpi, pur nella loro materialità, sembrano galleggiare su questo specchio d’acqua che sono i discorsi; vivono e assumono le loro forme sulla superficie di questa crosta in movimento. Lo stesso vale per quell’essere paradossale che è l’Uomo, in quanto figura epistemologica, in quanto Soggetto fondatore, tanto che Foucault può dire: Dal momento in cui ci si è accorti che ogni conoscenza umana, ogni esistenza umana, ogni vita umana, e forse persino ogni ereditarietà biologica dell’uomo, è persa all’interno di strutture, cioè all’interno di un insieme formale di elementi obbedienti a relazioni che sono descrivibili da chiunque, l’uomo cessa, per così dire, di essere il soggetto di se stesso (38).
3. Dalla funzione al tessuto Abbiamo lasciato il nostro discorso sulla medicina al punto in cui vengono gettate le premesse per la nascita della biologia. Sul piano delle pratiche, vediamo imporsi l’anatomia comparata e la fisiologia, che danno al corpo una nuova impronta, un nuovo funzionamento, una nuova conformazione: La prima di queste tecniche è l’anatomia comparata: questa fa sorgere uno spazio interno, limitato, da una parte, dallo strato superficiale dei tegumenti e delle conchiglie, e, dall’altra, dalla quasi invisibilità di ciò che è infinitamente piccolo. [Essa] (...) non si contenta di cercar di vedere al di sotto, e meglio, e più da vicino; instaura uno spazio che non è né quello dei caratteri visibili né quello degli elementi microscopici. In tale spazio, essa fa apparire la disposizione reciproca degli organi, la loro correlazione, il modo in cui i principali momenti d’una funzione si scompongono, si spazializzano, si coordinano gli uni agli altri. (...) l’anatomia, ritagliando realmente i corpi, frazionandoli in frammenti distinti, sminuzzandoli nello spazio, fa sorgere le grandi somiglianze che sarebbero rimaste invisibili. Essa costituisce le unità soggiacenti alle grandi dispersioni visibili (39). La seconda tecnica è la fisiologia: [Essa] consiste nello stabilire dei rapporti d’indicazione fra elementi superficiali, quindi visibili, e altri che sono celati nella profondità del corpo. In virtù della legge di solidarietà dell’organismo, si può infatti sapere che un dato organo periferico e accessorio implica una data struttura in un organo più essenziale. (...) essa può stabilire reticoli di necessità che vanno da qualsiasi punto del corpo a qualsiasi altro punto: di modo che un solo elemento può bastare in taluni casi a suggerire l’architettura generale d’un organismo (40). Si delinea un corpo come spazio chiuso e anonimo, fatto di volumi distinti e connessi l’uno con l’altro - simile ad un complesso reticolo -, e formanti grandi unità funzionali. Un’architettura organizzata su una gerarchia di organi, un tutto funzionante scomponibile in parti, ma il cui segreto - la vita che lo anima attraversandolo - sfugge allo sguardo. Un corpo la cui distruzione sta alla base del suo essere conosciuto: un corpo-cadavere quindi, che si offre, nella sua inerzia, alla mano che lo seziona e lo dissocia in parti singole, che estrae i pezzi dal loro luogo d’origine e dunque li astrae. Con Bichat, avremo un ulteriore passo in questa direzione che tende ad isolare sempre più le parti del corpo: nel Traité des membranes e poi nell’Anatomie générale (1801), Bichat sistematizza un principio di decifrazione nuovo dello spazio corporeo, il tessuto. Dal volume organico si passa allo spazio tissulare, un elemento anatomico bidimensionale - e non più a tre dimensioni -, che affonda nell’interno del corpo, ma che si estende come superficie. Vi sono diversi tipi di tessuti ed è sulla base di questi che ora Bichat classifica i sistemi funzionali. Questo spazio tissulare, differenziato in generi, finisce così per funzionare come una sorta di unità elementare che, associandosi e ripetendosi in un certo numero di combinazioni, va a formare i differenti organi. Abbiamo cioè una riduzione della complessità e dell’eterogeneità organica: il tessuto assume la valenza di variabile - simile in questo al modello matematico - che, semplificando, dissocia. A partire dai soli tessuti, la natura lavora con un’estrema semplicità di materiali (41). Si delinea così una lettura diagonale del corpo che isola elementi anatomici sempre più ridotti, sempre più generali, fino a quando, con Virchow, si arriverà alla cellula. Vediamo che si procede sempre più dal macro-sistema al micro-sistema (dal tutto organico, alla funzione, poi dagli organi ai tessuti e così via fino alla genetica micromolecolare): la scomposizione del corpo-organismo ritaglia frammenti via via più invisibili ed isolabili - nonché universalizzabili - che parcellizzano e disgregano il corpo. Il corpo scompare dietro le sue componenti. A questo proposito è Canguilhem che afferma: Nella misura in cui l’analisi anatomica e fisiologica dissocia l’organismo in organi ed in funzioni elementari, essa tende a situare la malattia al livello delle condizioni anatomiche e fisiologiche parziali della struttura totale o del comportamento d’insieme. Secondo i progressi dell’acutezza dell’analisi, si collocherà la malattia a livello dell’organo - lo fa Morgagni - a livello del tessuto - lo fa Bichat - a livello della cellula - lo fa Virchow (42). Ecco così introdotto il tema della malattia. A partire dall’individuazione delle unità tissulari, la malattia acquista un nuovo statuto: il male viene localizzato in un punto fisso del corpo - si introduce la nozione di sede patologica - e non è più disperso nelle serie cronologiche e senza luogo dei sintomi e dei segni. Questi hanno cessato di essere la verità della malattia e sono passati ad essere un fenomeno secondario e marginale, il prodotto di una causa anteriore: la lesione dei tessuti. La malattia, accompagnata da tutta la sua successione di sintomi, si organizza ora attorno ad un punto fisso del corpo, attorno alla lesione; il male viene regionalizzato e circoscritto, individuato in uno spazio concreto. Con la localizzazione della malattia in uno spazio sempre meglio determinato, ci si dirige anche verso una sempre maggiore misurabilità di qualcosa che, non essendo più essenza, si presta ad una lettura interamente spaziale. Questa tendenza si era già manifestata con Bichat, ma si radicalizza ancora di più con Broussais (43). Egli riprende il principio tissulare di Bichat, estendendolo anche alle febbri, che rientravano solitamente nella categoria di malattie nervose o comunque non organiche. Tutte le malattie sarebbero - secondo Broussais - provocate dall’infiammazione di un tessuto. Questo significa che anche le febbri, che conservavano ancora un attributo "ontologico" di morbosità, si dissolvono in un processo organico, acquisiscono un luogo ed un carattere di localizzabilità, quindi si spogliano del loro abito essenziale. Ormai lo spazio della malattia è, senza residuo né slittamenti, lo spazio stesso dell’organismo. Percepire il morboso altro non è che percepire il corpo (44). La malattia ha tuttavia anche un suo percorso, sue leggi di movimento, di nascita e di sviluppo; essa trova nel corpo il suo terreno di crescita, seleziona zone privilegiate dove proliferare, si estende con un suo ordine, ha proprie leggi, figure e modalità; sembra insomma avere una sua individualità vivente. Ma, come già avevamo sottolineato, è proprio dal punto di vista della morte (il cadavere aperto) che la malattia può mostrarsi allo sguardo. La morte assume il potere di gettare luce sulla sua verità. Finché il male aveva un carattere prettamente temporale (medicina dei sintomi), la morte costituiva il limite ultimo e assoluto sia della vita che della malattia; era l’annullamento del tempo, oltre il quale sparivano i segni e l’essere della malattia così come si estingueva la vita; era l’attimo in cui tutto cessava di essere. Il tempo della malattia terminava laddove cominciava la morte. Ma, una volta che il male acquista una spazialità visibile a partire dal cadavere sezionato, si scopre che il tempo della morte non è più il confine estremo di quello patologico; è un termine intermedio che trasforma una realtà negativa (la cessazione dell’essere corporeo) nella positività del discorso scientifico. La morte, da soglia ultima del tempo, diventa processo, fenomeno disperso nel tempo della malattia (nasce il concetto di degenerazione): La morte è dunque molteplice e dispersa nel tempo; essa non è il punto assoluto e privilegiato a partire dal quale i tempi s’arrestano per capovolgersi; essa ha come la malattia stessa una formicolante presenza, che l’analisi può distribuire nel tempo e nello spazio; a poco a poco, qui o là, ciascuno dei nodi, si spezza, finché cessa la vita organica, almeno nelle sue forme maggiori; poi, ancora per un pezzo dopo la morte dell’individuo, morti minuscole e parziali verranno a loro volta a dissociare gli isolotti di vita che ancora persistono (45). I tessuti mostrano esempi di morti lente, progressive, parziali; fenomeni di morti a catena, di morti successive, che si manifestano anche dopo che la vita dell’individuo nel suo complesso si è spenta: Si può stabilire che la morte del cuore non comporta quella del cervello per via nervosa, ma attraverso la rete arteriale (arresto del movimento che alimenta la vita cerebrale) o attraverso la rete vascolare (arresto del movimento o, al contrario, riflusso del sangue nero che ingombra il cervello, lo comprime e gli impedisce di agire). (...) Gli involucri successivi della vita si staccano naturalmente, enunciando la loro autonomia e la loro verità in ciò stesso che li nega. Il sistema delle dipendenze funzionali e delle interazioni normali o patologiche prende lume anche da queste morti in dettaglio (46). La morte e la malattia diventano così uno strumento tecnico di conoscenza del corpo, della sua fisiologia e dei fenomeni patologici che lo percorrono; attraverso queste innumerevoli micro-morti - che si svolgono a fianco della vita, sul suo stesso terreno e in un medesimo movimento - si getta luce sulla malattia, sulla sua evoluzione, sui fenomeni organici e le loro perturbazioni. Ci si accorge che è la malattia stessa che anatomizza il corpo, che lo taglia, lo decompone, ne isola parti, lo analizza spietatamente scomponendolo e mostrandone così le meraviglie. Essa assume lo statuto di situazione sperimentale spontanea. L’anatomia ha potuto diventare patologica solo nella misura in cui il patologico anatomizza spontaneamente. La malattia, autopsia della notte del corpo, dissezione sul vivo (47). Questa stessa visione del patologico la ritrova anche Canguilhem in autori posteriori all’epoca di Bichat, ma eredi comunque di uno stesso retaggio culturale (48): Il metodo patologico tiene allo stesso tempo dell’osservazione pure e della sperimentazione. E’ un mezzo di indagine potente e che è stato ricco di risultati. La malattia è, in effetti, una sperimentazione del genere più sottile, istituita dalla natura stessa in circostanze ben determinate e con procedimenti di cui l’arte umana non dispone: essa raggiunge l’inaccessibile (49). La malattia perde pian piano il carattere una natura malefica che irrompe dall’esterno e fronteggia, in un tutto compatto, la vita. Vita, morte e malattia si avvicinano fino quasi a mescolarsi, senza mai fondersi completamente: esse convivono in un intreccio continuo, nutrendosi l’una dell’altra. La malattia si nutre della vita stessa, è modificazione della vita, è una sua deviazione interna, è vita patologica. Esse perdono quel carattere di alterità che avevano l’una rispetto all’altra, diventano comparabili e finiscono per trovare perfino un comune denominatore, è Bichat stesso che ce lo insegna: Ogni fenomeno fisiologico si riconduce in ultima analisi alle proprietà dei corpi viventi considerati allo stato naturale; ogni fenomeno patologico deriva dal loro aumento, dalla loro diminuzione, dalla loro alterazione (50). E’ Canguilhem d’altronde a sottolineare questo aspetto, tipico del pensiero scientifico positivista. Come abbiamo già sottolineato, nel suo studio sul normale e il patologico, egli mette in rilievo come, negli autori più rappresentativi del Positivismo, i fenomeni patologici negli organismi viventi venivano considerati niente di più che variazioni quantitative dei fenomeni fisiologici - e quindi "normali", rispondenti cioè allo stato di sanità - corrispondenti. L’esempio tratto da Bichat conferma in pieno questa tesi. Vi è - dice Canguilhem - la necessità di stabilire una continuità, in qualche modo misurabile, tra salute e malattia, una omogeneità quantitativamente esprimibile, mossi dalla volontà di liberarsi da una concezione ontologica del male e animati da un certo ottimismo razionalistico. Malattia e salute verrebbero quindi incanalate in una griglia concettuale che le distanzia solo per meglio avvicinarle, attraverso cioè una gradazione impercettibile e scalare. Questo indirizzo epistemologico, che riduce la qualità alla quantità, è, secondo Canguilhem, un’operazione riduttiva e di astrazione estrema, perché è in grado di spiegare dei fenomeni quali la malattia e la sanità soltanto riducendoli ad una misura comune: La conclusione è che "se si vuole definire la malattia, bisogna disumanizzarla"; e più brutalmente che "nella malattia ciò che vi è di meno importante è in fondo l’uomo". Non è dunque più il dolore o l’incapacità funzionale e l’infermità sociale che fa la malattia, è l’alterazione anatomica o il disturbo fisiologico. La malattia si gioca a livello del tessuto e, in questo senso, può esistere malattia senza malato (51).
4. L’uomo, una creazione recente In questa fase della ricerca foucaultiana, la fenomenologia ha ormai lasciato il posto ad una prospettiva in cui l’individuo non è più concepito come presenza vissuta, come soggetto inserito in una dimensione esistenziale, al contrario esso si configura come un prodotto delle strutture epistemiche. L’Uomo - l’uomo dell’Umanesimo - è per Foucault un prodotto recente, nato all’alba dell’epoca moderna, in seguito ad una frattura epistemologica, quando il quadro unitario della rappresentazione si sfaldò e tutto ciò che vi rientrava si ritrovò disperso e dovette così rintracciare nuovi punti catalizzatori su cui costruire un nuovo ordine; per esempio, tutti i viventi si raggrupparono attorno all’enigma della vita, i processi economici si organizzarono intorno alla produzione e le parole nel divenire dei linguaggi (52). Uno stesso movimento archeologico ha rivelato la figura dell’uomo e quella dei saperi che intorno a lui si producono (le scienze del linguaggio, della produzione e della vita): l’uomo, quale essere che parla, vive, produce, quale fondamento di tutte le positività ma anche oggetto della loro osservazione, quale soggetto trascendentale kantiano, ma allo stesso tempo assoggettato a quegli stessi processi che non controlla e che lo circondano da ogni parte - i meccanismi della vita, della produzione e del linguaggio (53). Questa figura paradossale - Foucault lo definisce un allotropo empirico- trascendentale (54) - si forma quindi a partire dal ritirarsi di ciò che esso non è, da uno spazio lasciato vuoto. Nell’età classica, (dalla fine del Rinascimento alla Rivoluzione) l’uomo era un semplice oggetto empirico nel sistema della rappresentazione, garantita dalla trascendedenza divina; nel pensiero classico non esiste alcuno scarto fra cose e parole, fra reale e simbolico. La morte di Dio, prefigurata dall’uccisione del Re, inaugura la modernità. In essa, non esiste più un principio trascendente che garantisca l’adeguatezza della rappresentazione; di conseguenza, l’uomo diviene soggetto e oggetto del proprio sapere (...). Proprio nel momento in cui, con la rivoluzione borghese, l’uomo ha pensato di venir promosso a soggetto fondante del divenire della storicità, ha cessato di esserlo; (...). [Conseguenza di ciò è] la prossimità della morte dell’uomo: divenuto semplice funzione simbolica all’interno dei suoi saperi; l’uomo esiste soltanto nel discorso che fa su se stesso (...). Pertanto l’uomo non ha potuto raccogliere delle conoscenze su se stesso se non relativizzandosi arbitrariamente, ossia indicando nella sua finitezza fisica il principio positivo di ogni sapere (55). Quest’essere diventa l’oggetto dei saperi che egli stesso pretende di fondare, quei saperi, come la biologia, la medicina, ecc. che sono stati possibili solo a partire dal momento della morte, del cadavere, quindi dalla finitudine, dal limite di questo stesso essere che è l’uomo moderno. Probabilmente, al livello delle apparenze, la modernità comincia quando l’essere umano si mette ad esistere all’interno del suo organismo, nel guscio della sua testa, nell’armatura delle sue membra, e in mezzo a tutta la nervatura della sua fisiologia; quando si mette ad esistere nel cuore d’un lavoro il cui principio lo domina e il cui prodotto gli sfugge; quando infine colloca il proprio pensiero nelle pieghe d’un linguaggio tanto più vecchio di lui da non poterne dominare i significati pur ravvivati dall’insistenza della sua parola (56). L’emergere di questa nuova configurazione epistemica ha poi dato origine a due tipi di analisi che riguardano la conoscenza: da una parte le analisi che guardano e si collocano nello spazio del corpo, e situano le radici della conoscenza nelle strutture della percezione sensoriale, quindi nelle nervature del corpo, nelle configurazioni anatomiche e fisiologiche (meccanismi sensori, schemi neuro-motori, ecc.). Di qui, ogni sorta di empirismo - e di positivismo -, che studia il processo del conoscere come una sorta di estetica trascendentale. Dall’altro lato, si sono sviluppate quelle analisi che esaminano questo stesso processo come esperienza della cultura, quindi calato nel movimento del tempo e del divenire, sul modello dell’antropologia e come una sorta di dialettica trascendentale, rintracciando le condizioni storiche, economiche, sociali del sapere - è il discorso escatologico, come lo definisce Foucault, da cui il marxismo prende le mosse. Da una lato si ricerca dunque la natura della conoscenza, dall’altro la sua storia. L’uomo viene illuminato da una duplice luce: è soggetto e oggetto, incontra l’esperienza del corpo e quella della cultura. Ora, l’analisi del vissuto è stata capace di conciliare questi due aspetti, corpo e storia, natura e cultura, ponendosi come contestazione radicale sia dell’una corrente di pensiero che dell’altra, operanti nella loro autonomia. [L’analisi del vissuto] cerca di articolare l’oggettività possibile d’una conoscenza della natura sull’esperienza originaria che viene a delinearsi nel corpo; e di articolare la storia possibile d’una cultura sullo spessore semantico che a un tempo si cela e si mostra nell’esperienza vissuta. Non fa dunque che adempiere con maggior cura le esigenze premature che erano state poste, allorché si era voluto far valere, nell’uomo, l’empirico come trascendentale. Si vede quale reticolo serrato salda, a dispetto delle apparenze, i pensieri di tipo positivista o escatologico (in primo luogo il marxismo) alle riflessioni ispirate alla fenomenologia. (...) La vera contestazione del positivismo e dell’escatologia non è quindi un ritorno al vissuto (il quale, a dire il vero, li conferma piuttosto radicandoli); ma se potesse esercitarsi, lo sarebbe a partire da una domanda che indubbiamente sembra aberrante, tanto discorda da ciò che ha reso possibile l’intero nostro pensiero. Tale domanda consisterebbe nel chiedersi se veramente l’uomo esiste. (...) Siamo a tal punto accecati dalla recente evidenza dell’uomo, da non aver nemmeno più serbato nel nostro ricordo l tempo tuttavia poco remoto in cui esistevano il mondo, il suo ordine, gli esseri umani, ma non l’uomo (57). Foucault riconosce certamente alla fenomenologia il merito di aver messo radicalmente in discussione il cogito fondatore della rappresentazione, tuttavia ne individua i limiti nella pretesa di essere una metodologia filosofica totalizzante e di riconfermare il postulato del soggetto, dell’Uomo come duplicato empirico-trascendentale. La fenomenologia tenta infatti di comprendere l’uomo - invece che superarlo - come soggetto donatore di significato, la cui conoscenza trova le proprie condizioni di possibilità nel corpo e nei suoi limiti, nelle forme percettive del mondo quotidiano. Essa fa quindi valere l’empirico al livello del trascendentale (58). Siamo ancora - sembra dire Foucault - all’interno dell’orizzonte antropologico, all’interno del circuito del Soggetto. Il metodo strutturalista di Foucault invece, non solo cancella il primato dell’"Io penso", del cogito, ma, sostituendo al primato della coscienza vissuta quello del discorso, della "struttura", annulla lo scarto metafisico tra essere e linguaggio, tra le cose (il reale) e le parole. In questo orizzonte il Soggetto si dilegua: Soggetto di ogni sapere, e oggetto di un sapere possibile. Tale situazione ambigua caratterizza quella che potrebbe essere chiamata la struttura antropologico-umanistica del pensiero del XIX secolo. Mi sembra che questo pensiero stia disfacendosi, disgregandosi sotto i nostri occhi. In gran parte ciò è dovuto all’orientamento strutturalista. Dal momento in cui ci si è accorti che ogni conoscenza umana, ogni esistenza umana, ogni vita umana, e forse persino ogni ereditarietà biologica dell’uomo, è presa all’interno di strutture, cioè all’interno di un insieme formale di elementi obbedienti a relazioni che sono descrivibili da chiunque, l’uomo cessa, per così dire di essere il soggetto di se stesso, di essere in pari tempo soggetto e oggetto. Si scopre che quel che rende l’uomo possibile è in fondo un insieme di strutture, strutture che egli, certo, può pensare, può descrivere, ma di cui non è il soggetto, la coscienza sovrana. Questa riduzione dell’uomo alle strutture che lo circondano mi sembra caratteristica del pensiero contemporaneo, per cui, allora, l’ambiguità dell’uomo, in quanto soggetto e oggetto, non mi sembra più attualmente un’ipotesi feconda, un fecondo tema di ricerca (59).
Note 1 M. Foucault, Naissance de la clinique. Une archéologie du régard médical, Presses Universitaires de France, Paris 1963, trad. it. Nascita della clinica, Einaudi, Torino 1969, p. 3.2 Vedi Lungo i sentieri del sogno e della follia: un cammino che incontra e supera la fenomenologia, paragrafo III.3 Tutti conoscono le controversie del dibattito relativo al rapporto tra Foucault e lo Strutturalismo, inutile quindi riprenderne in questa sede gli argomenti, basti sottolineare che qui il termine struttura si riferisce alle condizioni storiche di possibilità e non ad una analisi strutturale atemporale e quindi pericolosamente astratta. C.f.r. Dreyfus-Rabinow, La ricerca di M. Foucault, pp. 39-40.4 Vedi M. Foucault, Le mots et les choses: une archèologie des sciences humaines, Gallimard, Paris 1966, trad. it. Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1994, pp. 141-181.5 M. Foucault, Nascita della clinica, cit, p. 221.6 Mentre in Le parole e le cose l’attenzione di Foucault si concentra interamente sull’analisi dei discorsi - e le cosiddette pratiche non-discorsive vengono del tutto escluse - , in Nascita della clinica, che pure precede Le parole e le cose, l’interesse è diretto sia ai discorsi, sia alle pratiche politiche, tecniche, istituzionali, ecc. In questa seconda opera Foucault si colloca già parzialmente in quel terreno di analisi che svilupperà pienamente nella metà degli anni ‘70, dove un ruolo predominante avrà lo studio delle pratiche e dei poteri ad esse intrecciati.7 M. Foucaul, L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969, trad. it. L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971, p. 60.8 "Di fatto l’eliminazione di tutte le unità date, permette innanzi tutto di restituire all’enunciato la sua singolarità di evento: esso non viene più considerato semplicemente come la messa in opera di una struttura linguistica, né come la manifestazione episodica di un significato più profondo; viene considerato nella sua irruzione storica; ciò che si tenta di mettere sotto lo sguardo, e l’incisione che esso costituisce, la sua irriducibile - e spesso minuscola - emergenza. Per quanto banale possa essere (...) un enunciato è sempre un evento che né la lingua né il senso possono completamente esaurire" (M. Foucault, Due risposte sull’epistemologia, op. cit., p. 36).9 Cfr., M. Ferraris, Differenze. La filosofia francese dopo lo strutturalismo, op. cit., pp. 164-168.10 M. Foucault, Nascita della clinica, cit., pp. 144-145. Il testo citato da Foucault è: J. -L. Alibert, Nosologie naturelle, Paris, 1817, preambolo, I, p. LVI.11 Giambattista Morgagni (Forlì 1682 - Padova 1771) lavorò come anatomista all’Università di Bologna e Padova. Fu lui a descrivere per la prima volta la struttura e la funzione di numerose formazioni anatomiche. Suo grande merito è nell’aver cercato le alterazioni anatomiche causate dalle malattie, quindi le sedi e le cause della forme patologiche. Sua opera principale è De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis (1760).12 Foucault parlerebbe di condizioni di possibilità.13 Si tratta di quella che Foucault chiama medicina dei sintomi: cfr. Nascita della clinica, cit,, pp. 106-125.14 Ib., p. 146-147.15 Teratologia: dal greco téras, di cui il genitivo è tératos (mostro) e logos (discorso); quindi letteralmente discorso su cose strane o mostruose.16 Il testo che prendo qui in riferimento è OD, dove Foucault definisce il termine nel seguente modo: "una disciplina vien definita da un campo di oggetti, da un insieme di metodi, da un corpus di proposizioni considerate come vere, da un gioco di regole e di definizioni, di tecniche e di strumenti: tutto questo costituisce una sorta di sistema anonimo a disposizione di chi voglia o possa servirsene, senza che il suo senso o la sua validità siano legati a colui che ne è stato il possibile inventore" (M. Foucault, L’ordre du discours, Gallimard, Paris 1971, trad. it. L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1972, pp. 24-25).17 Ib, pp. 27 e 28.18 M. Foucault, L’archéologie du savoir, Gallimard, Paris 1969, trad. it. L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1971, p. 60.19 Per il concetto di episteme, vedi Le parole e le cose, in particolare la prefazione, pp. 5-14, e Due risposte sull’epistemologia, op. cit., pp. 79-80.20 Bichat, Anatomie générale cit., prefazione, p. XCIX.21 M. Foucault, Nascita della clinica, cit., pp. 167-168.22 Mi riferisco naturalmente a Il normale e il patologico, op. cit.23 Ib., p. 85.24 E’ lo stesso Canguilhem a riconoscere un suo debito nei confronti di Merleau-Ponty, in Il normale e il patologico, op. cit., Prefazione, p. 3.25 Ib., p. 181.26 Ib., p. 62.27 M. Foucault, Nascita della clinica, cit., p. 15.28 Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose, cit, p. 12.29 Foucault sottolinea come il cambiamento non sia avvenuto all’insegna di un miglioramento o di un raffinamento dello sguardo, come potrebbe sostenere un’epistemologia continuista ed evolutiva; il mutamento prende forma a partire da delle esclusioni, da un restringimento del campo dell’esperienza. Cfr. M. Foucault, Le parole e le cose, cit, pp. 148-149.30 Cfr. M. Foucault, Nascita della clinica, cit., pp. 23-29.31 M. Foucault, Le parole e le cose, cit, p. 154.32 Georges Cuvier (Montbéliard 1769 - Parigi 1832), naturalista francese che fu ritenuto il fondatore dell’anatomia comparata e della paleontologia.33 Scrive Foucault in Le parole e le cose, cit, pp. 143-144:"Si vogliono scrivere storie della biologia nel XVIII secolo; ma non si avverte che la biologia non esisteva e che la sezione del sapere a noi familiare da più di centocinquant’anni non può valere per un periodo anteriore. E che se la biologia era sconosciuta, era per una ragione assai semplice: la vita stessa non esisteva. Esistevano soltanto esseri viventi: apparivano attraverso una griglia del sapere costituito dalla storia naturale".34 Ib. pp. 328-329.35 [Questa configurazione del corpo] "ha, in fondo, la stessa armatura logica del pensiero nosologico. E oltre la clinica da cui prende l’avvio e che vuol fondare, Bichat ritrova non la geografia degli organi, ma l’ordine delle classificazioni. L’anatomia patologica è stata ordinale prima di essere localizzatrice". (NC, p. 151).36 ...almeno per il Foucault degli anni Sessanta, e in particolare per il Foucault di Le parole e le cose e L’archeologia del sapere.37 In La nascita della clinica, Foucault accomuna ancora pratiche discorsive e non-discorsive come facenti parte di un’unica struttura; successivamente, in Le parole e le cose e L’archeologia del sapere, sono solo i discorsi che acquistano un’importanza determinante. Questo orientamento verrà poi nuovamente riveduto negli anni Settanta, si veda ad esempio Sorvegliare e punire e Microfisica del potere.38 Conversazioni con Lèvi-Strauss, Foucault, Lacan, a cura di P. Caruso, op. cit., pp. 107-108.39 M. Foucault, Le parole e le cose, cit, pp. 291-292.40 Ib., pp. 292-293.41 M. Foucault, Nascita della clinica, cit., p. 148.42 G. Canguilhem, Il normale e il patologico, op. cit., p. 181.43 F. J. V. Broussais (Saint-Malo 1772 - Vitry-sur-Seine 1838), medico francese. Elaborò la teoria per cui le malattie sono dovute ad infiammazioni; la sua terapia era perciò essenzialmente debilitante, basata sui salassi.44 M. Foucault, Nascita della clinica, cit., p. 218.45 Ib., p. 164.46 Ib., pp. 164-165.47 Ib, p. 152.48 L’analisi di Canguilhem prende in considerazione soprattutto autori quali Cl. Bernard e A. Comte, che derivano molte delle loro idee da Broussais, Bichat e Pinel, quegli stessi che Foucault studia in Nascita della clinica.49 Théodule Ribot (1839 - 1916), "Psycologie", in De la méthode dans les sciences, 1, par Bouasse, Delbet, ect., Paris, Alcan, 1909; citata in G. Canguilhem, Il normale e il patologico, op. cit., pp. 17-18.50 Bichat, Anatomie générale, cit., I, prefazione, p. VII, citata in NC, pp. 174-175.51 G. Canguilhem, Il normale e il patologico, op. cit., p. 62.52 "Nella grande disposizione dell’episteme classica (...)l’uomo, in quanto realtà densa e prima, in quanto oggetto arduo e soggetto sovrano di ogni conoscenza possibile, non vi ha alcun posto. i temi moderni d’un individuo che vive, parla e lavora secondo le leggi d’un’economia, d’una filologia e d’una biologia ma che per una sorta di torsione interna e di recupero, avrebbe ricevuto in virtù del gioco di queste medesime leggi, il diritto di conoscerle e di portarle interamente alla luce, tutti questi temi a noi familiari e legati all’esistenza delle "scienze umane" vengono esclusi dal pensiero classico: non era possibile a quel tempo che si ergesse, al limite del mondo, la strana statura d’un essere la cui natura (...) sarebbe di conoscere la natura, e se stesso quindi in quanto essere naturale" (M. Foucault, Le parole e le cose, cit, pp. 334-335).53 "Quando la storia naturale diviene biologia, quando l’analisi delle ricchezze diviene economia, quando soprattutto la riflessione sul linguaggio si fa filologia e viene meno il discorso classico in cui l’essere e la rappresentazione trovavano il proprio luogo comune, allora, nel movimento profondo d’una tale mutazione archeologica, l’uomo appare con la sua posizione ambigua di oggetto nei riguardi di un sapere e di soggetto che conosce: sovrano sottomesso, spettatore guardato, sorge là, al posto del re, assegnatogli anticipatamente dalle Meninas" (M. Foucault, Le parole e le cose, cit, pp. 336-337).54 Ib. , p. 343.55 Maurizio Ferraris, Differenze. La filosofia francese dopo lo strutturalismo, op. cit., pp. 154-155.56 M. Foucault, Le parole e le cose, cit, p. 342.57 Ib., pp. 346-347.58 Ib., p. 345.59 M. Foucault, in Conversazioni con Levi-Strauss, Foucault, Lacan, a cura di P. Caruso op. cit., pp. 107-108.
Foucault 1969-1979 "Nei fatti, ciò che fa che un corpo, dei gesti, dei discorsi, dei desideri sono identificati e costituiti come individui, è già questo uno dei primi effetti di potere. L’individuo cioè non è il vis-à-vis del potere; ne è, credo, uno dei primi effetti" (Michel Foucault).
Il potere: il corpo immerso nella disciplina 1. Nietzsche e la genealogia In Nietzsche, la genealogia, la storia, Foucault scrive: Infine la provenienza ha a che fare col corpo. S’iscrive nel sistema nervoso, nell’umore, nell’apparato digestivo. Cattiva respirazione, cattiva alimentazione, corpo debole e spossato di coloro i cui antenati hanno commesso errori; (...) perché è il corpo che porta, nella vita e nella morte, nella forza e nella debolezza, la sanzione di ogni verità e di ogni errore (...). Il corpo - e tutto ciò che ha a che fare col corpo, l’alimentazione il clima, il suolo - è il luogo della Herkfunft: sul corpo, si trova lo stigma degli avvenimenti passati, così come da esso nascono i desideri, i cedimenti, e gli errori; (...). Il corpo: superficie d’iscrizione degli avvenimenti (laddove il linguaggio li distingue e le idee li dissolvono), luogo di dissociazione dell’Io (al quale cerca di prestare la chimera di un’unità sostanziale), volume in perpetuo sgretolamento. La genealogia, come analisi della provenienza, è dunque all’articolazione del corpo e della storia: deve mostrare il corpo tutto impresso di storia, e la storia che devasta il corpo (1). Innanzi tutto abbiamo il distacco metodologico da una prospettiva orientata unicamente sul discorso e sul linguaggio, e l’aprirsi violento di un campo d’azione dove i giochi sono più eterogenei, dove i giocatori acquistano una consistenza ed un volume differenti, dove le pratiche e gli eventi non sono più prettamente discorsivi, ma vere e proprie pratiche sociali (2). La genealogia mostra come tutto è il prodotto di una lotta tra forze, dove le materialità e i discorsi giocano la loro battaglia allo stesso livello, intrecciandosi senza sosta. E’ allora che il corpo può acquisire una dimensione un po' più palpabile rispetto alle analisi foucaultiane degli anni Sessanta: là il corpo si polverizzava fino a scomparire dietro tutto ciò che di esso veniva detto, il suo ruolo e la sua esistenza non avevano peso e spessore, la sua materialità si perdeva al di là delle descrizioni che finivano per costituirlo (3). La genealogia sembra invece collocarsi in un territorio assai più tangibile e dare alla corporeità un’attenzione privilegiata. E’ sul corpo infatti che il genealogista ritrova le tracce della provenienza (Herkfunft), quelle tracce che, sedimentate nel tempo, hanno prodotto le forme, i movimenti, i gesti, le reazioni e le azioni che i corpi-individui compiono. E’ lì, dai corpi, che il passato della storia ci parla, è lì che si sono svolte e si svolgono le lotte, i rapporti di forza, le violenze, le dominazioni. Il corpo si ritrova a fluttuare nel vuoto, una volta caduto il postulato naturalistico che lo rappresentava come dato a-storico e a-culturale; la genealogia lo getta allora nel pieno della storia, della lotta, del gioco delle forze che tutto plasmano. Dentro questo campo di forze che la genealogia individua, il corpo si trova sì forgiato dalle molteplici pratiche storiche - e quindi perde anch’esso la sua "origine", il suo essere "natura" per diventare un prodotto -, ma allo stesso tempo recupera un’importanza che da sempre gli veniva negata dalla superiorità della coscienza, della conoscenza. Qui Foucault si accosta alla tesi radicale di Nietzsche per cui il soggetto è una falsificazione, un’unità inesistente, un aggregato eterogeneo che ha potuto imporsi solo grazie all’oblio della propria genesi. Allora tutto quello che rientrava nel campo gravitazionale del soggetto, l’unità e la continuità che gli permettevano di essere un tale centro catalizzatore, tutto questo insieme eterogeneo che unifica coscienza, desiderio, istinti, corpo, volontà, conoscenza - con il suo correlato di verità -, tutto questo si disperde e lo stesso vale per il loro disporsi in una gerarchia di valori. Nietzsche può così sostenere che nemmeno il corpo è in grado di fornire una solida base dell’identificazione del sé, visto che siamo il prodotto di duemila anni di pratiche che ci hanno costruito perfino il corpo che abbiamo (4). Inoltre, cadendo l’ordine gerarchico delle componenti del soggetto, Nietzsche demolisce il privilegio della coscienza - e dei suoi "derivati": sapere, verità, ecc. - sul corpo ed afferma non solo il suo carattere storico, arbitrario, ma il suo emergere a partire dal corpo: La coscienza è l’ultimo e più tardo sviluppo dell’organico e di conseguenza anche il più incompiuto e il più depotenziato. (...) Si pensa che qui sia il nocciolo dell’essere umano: ciò che di esso è durevole, eterno, ultimo, assolutamente originario! Si considera la coscienza una stabile grandezza data! Si negano il suo sviluppo, le sue intermittenze! La si intende come "unità dell’organismo"! (5). Oppure: La grande attività fondamentale è inconscia. (...) Le sanzioni e gli affetti dell’essere organico sono tutti da lungo tempo completamente sviluppati, prima che sorga il sentimento unitario della coscienza (6). Il corpo è un complesso campo di forze, in cui gli organi, le cellule, i tessuti "combattono" per una supremazia, per la sopravvivenza, per la riproduzione; a partire da quest’ordine biologico entra in scena anche tutto ciò che appartiene allo "spirituale", ancora una volta come prodotto di superficie di uno scontro di forze, interne ed esterne allo stesso tempo. Nietzsche demolisce così il primato metafisico della coscienza e della conoscenza in quanto caratterizzate dalla continuità e dall’unità. Questo riferimento al corpo non deve però essere letto in senso riduzionista, cioè come un mero ribaltamento dei piani del corporeo e dello "spirituale" - il che sarebbe un’operazione dialettica: non si tratta di una semplice riduzione della coscienza al corpo, ma piuttosto di una lettura che utilizza questa centralità del corpo come "filo conduttore" per mostrare la molteplicità dell’Io, il suo essere una sorta di precipitato storico, il suo derivare da qualcosa di eterogeneo e non appartenente al suo stesso ordine. E’ un modo per depotenziare questa illusione dell’Io, per farne la genealogia (7). Foucault si avvicina a queste tesi radicali di Nietzsche in maniera funzionale ai suoi obiettivi teorici; la genealogia diventa lo strumento metodologico principale con cui egli affronterà le ricerche condotte a partire dagli anni Settanta. Il corpo è il punto di partenza anche della genealogia foucaultiana, è il "luogo" in cui convergono e si scontrano le molteplici relazioni di potere (Emergenza, Entstehung) e nei cui interstizi si incontrano le tracce della Provenienza (Herkfunft). Noi pensiamo in ogni caso che il corpo almeno non ha altre leggi che quelle della fisiologia e che sfugge alla storia. Errore di nuovo; esso è preso in una serie di regimi che lo plasmano; è rotto a ritmi di lavoro, di riposo, di festa: è intossicato da veleni - cibo o valori, abitudini alimentari e leggi morali insieme; si costruisce delle resistenze (8). Il corpo diventa una sorta di centro gravitazionale attorno a cui e con cui si intrecciano le principali tematiche foucaultiane: il problema del Soggetto - e con esso i suoi innumerevoli prolungamenti, come il desiderio, la sessualità, i bisogni, gli istinti, l’identità, ecc. -; le relazioni di potere e le strategie disciplinari; i saperi che si articolano nell’intreccio delle relazioni di potere e circoscrivono il corpo e l’individuo come loro oggetto (le "scienze umane"); il tema delle resistenze al potere, quello che Foucault chiama l’elemento sfuggente; la genealogia. Il metodo genealogico distrugge le continuità progressive, ma allo stesso tempo fa pullulare nei luoghi della sua sintesi vuota mille avvenimenti ora perduti. Permette anche di ritrovare sotto l’aspetto unico d’un carattere o d’un concetto la proliferazione degli avvenimenti attraverso i quali (grazie ai quali, contro ai quali) si sono formati (9). Così Foucault mostrerà per esempio come alcuni dei dispositivi tipici delle discipline non siano del tutto nuovi, ma provengano (nel senso di Herkfunft) da tecniche più antiche, nate in contesti diversi, applicate ad oggetti differenti e germogliate su altri orizzonti epistemici. Il loro cammino lungo le fratture storiche si è svolto all’insegna delle metamorfosi; così, in corrispondenza di certe svolte locali della storia e sempre per un gioco di forze, è accaduto che alcune di queste tattiche siano ri-emerse (nel senso di Entstehung) in una veste nuova, siano state riadattate alle esigenze peculiari di una particolare situazione storica, abbiano prodotto ‘effetti di verità’ nuovi, discorsi nuovi, creato oggetti e soggetti nuovi. Così per esempio - ci spiega Foucault - quelle procedure di funzionamento della discipline moderne basate sulla trasparenza, sulla visibilità totale, sull’imperativo di dire tutto fin nei più piccoli particolari, risalgono ad un dispositivo attuato anche nelle pratiche di confessione della Pastorale cristiana (10). O ancora: dalle pratiche di organizzazione della città sotto il flagello della peste, sul modello quindi della quarantena, si sono impostati gli strumenti teorici e pratici per l’inquadramento globale della popolazione, per la sua distribuzione nello spazio urbano, il suo controllo, ecc. (11).
2. La disciplina della punizione: dal supplizio alla prigione La società disciplinare delineata da Foucault circonda il corpo da ogni parte, lo attraversa costantemente e ne fa suo strumento di applicazione e supporto di diffusione capillare. Il sistema carcerario rappresenta uno di quei "luoghi" - il cui modello viene riprodotto in molte altre strutture istituzionali (scuole, fabbriche, ospedali, caserme, ecc.) - dove si realizza più compiutamente la tecnologia disciplinare e l’investimento politico del corpo e dell’individuo. Il sistema carcerario, con tutto ciò che gli fa da supporto, è uno di quei "luoghi" che Foucault definisce eterotopici (12), dove cioè l’opposizione tra istituzioni e corpi assoggettati raggiunge il suo acme (...), i luoghi delle istituzioni totali, ove l’insieme delle manifestazioni vitali, organiche e psichiche di un individuo sembrano implodere in uno spazio esistenziale pienamente codificato (13). Ecco perché studiare la prigione. Anche prima che la struttura disciplinare si sviluppasse a pieno, il corpo è stato comunque una componente essenziale per il funzionamento dei meccanismi di potere. Foucault mostra come anche nella procedura punitiva del supplizio - fino alla fine dell’età "classica" - si instaurasse un dispositivo in cui potere, corpo e verità prendevano forma in una continua interazione. Surveiller et punir si apre sullo spettacolo a dir poco agghiacciante di un supplizio nella Parigi del 1757, riportato con minuzia di particolari quasi maniacale, da un periodico dell’epoca. Damiens, accusato di parricidio, è condotto sul patibolo delle esecuzioni, dove sarà giustiziato pubblicamente fino a che morte non sopraggiunga. E’ lo spettacolo del tormento fisico e dell’orrore estremo, della violenza che si scaglia con inverosimile brutalità e accanimento sopra il corpo di un condannato, distrutto pezzo a pezzo. Questo corpo è il bersaglio diretto di un potere che si identifica, o meglio, che converge con la giustizia sovrana, con la figura onnipotente del Re. Qui, il crimine è infrazione alla legge, atto di guerra contro il sovrano, il quale, per ricomporre il proprio potere sfidato, necessita di una vendetta esemplare e fastosamente spettacolarizzata, capace di mostrare la sua vittoria nella lotta contro la trasgressione del condannato. L’esecuzione non è tanto il ristabilimento della giustizia, di un equilibrio, quanto piuttosto la riattivazione del potere; una manifestazione ostentata della superiore e smisurata forza fisica e politica del sovrano, che prende il corpo del condannato e gli imprime il proprio marchio; la vendetta è realizzata attraverso la riduzione all’impotenza dell’avversario, la distruzione infinitesimale del suo corpo, messo in mostra pezzo a pezzo. La colpevolezza viene impressa fisicamente sul corpo del condannato: la liturgia punitiva del supplizio segue infatti un preciso codice di simboli che fa spesso corrispondere le parti del corpo colpite alla tipologia del crimine commesso. La punizione visibilmente inscritta sul corpo della vittima, mostra che il bersaglio è il corpo fisico, il corpo come Körper - supporto biologico dell’esistenza - e non, come più tardi avverrà, il corpo vivente dell’individuo, il corpo come Leib. Il castigo, esercitato con tutta una sua struttura sapientemente regolata, perseguita il corpo sofferente per poi giungere, solo dopo il lento rituale dell’atrocità, la calcolata graduazione delle sofferenze, alla morte del condannato. Il potere si esercita dunque come diritto di dare la morte, secondo un procedimento di lenta e graduata sottrazione - la vita viene trattenuta nella sofferenza suddividendola in "mille morti". Foucault recupera qui la nozione batailliana di dèpense improduttiva (14), quella perdita che sarebbe funzionale all’economia del potere nelle società non capitalistiche. Manca ancora infatti quello che sarà la trasformazione del corpo in elemento produttivo, di cui vengono utilizzate le energie, il tempo, i movimenti, ecc., come nella futura struttura carceraria. Qui prevale invece una logica della distruzione: il corpo del condannato, che pure assicurava potere e beni al il Re, non viene sfruttato produttivamente, ma annientato. Potere come diritto di dare la morte, a cui seguirà, dopo la svolta alla fine dell’età "classica", un potere che si esercita invece sulla vita, nelle sue molteplici forme; assisteremo al passaggio dalla distruzione all’utilizzazione funzionale dell’energia degli individui. Foucault, con una dettagliata indagine, mostra come il supplizio faccia parte di un’ampia procedura che mira non solo a punire e a far trionfare la giustizia e il potere del Re, ma anche a stabilire una verità, o meglio, a produrre la verità della colpa e il colpevole. Il momento culminante del rituale - l’esecuzione - è infatti quello che si incarica di mostrare con clamore quella verità la cui trama è stata precedentemente tessuta da un’istruttoria e un’inchiesta giudiziaria. Il magistrato, alle dirette dipendenze del sovrano, in sostanza costruisce da solo e con pienezza di poteri quella verità che andrà poi a investire l’accusato. Si tratta di una vera e propria macchina capace di fabbricare la verità della colpevolezza, senza alcuna possibilità d’intervento per l’accusato, e che mira ad ottenere la sua confessione finale. Essa deve darsi una veste di spontaneità, in modo che egli prenda interamente su di sé il proprio delitto, dichiarando ciò che l’istruttoria ha precedentemente prodotto in segreto. La confessione è l’ultimo prezioso tassello che sancisce definitivamente la colpa; l’accusato diventa così la verità vivente del proprio crimine. Naturalmente la confessione può essere ottenuta con qualsiasi mezzo, anche attraverso tortura. Ancora una volta è sul corpo fisico che si esercita e si concentra l’azione del potere, è il corpo sofferente che si arrende a ciò che gli si chiede, il corpo che, sotto tortura, pronuncia il proprio atto d’accusa; questo Körper è il punto di applicazione del castigo e il luogo di estorsione delle verità (15). Foucault mostra come nella cerimonia del supplizio si svolga un "duello", si giochi una lotta tra forze: lotta tra il condannato e il boia, da cui si snoda quello tra il Re e lo stesso condannato; appendice di questo è a sua volta il "combattimento" fra l’accusato e i magistrati che conducono l’istruttoria; ancora la forza terrifica che esercita lo spettacolo del supplizio sul pubblico, sia come minaccia esemplare, sia come modo per far partecipare il popolo intero alla vendetta del sovrano sul criminale, quindi forza esercitata per ottenere consenso; ma anche la forza che il pubblico esercita condizionando l’esito del "duello" tra condannato e sovrano, quando, invece del consenso, la collettività esprime il rifiuto per lo spettacolo punitivo e mostra solidarietà col condannato. Il "duello" è necessariamente impari: il Re acquista le dimensioni di un "supercorpo" politico - che può rappresentare la Corona, lo Stato, la Nazione, ecc. (16) -, e quel più di potere (17) che egli incarna ha il suo risvolto speculare nel corpo minimo del condannato su cui si scaglia la sua vendetta. Vediamo qui rappresentate due diverse simbolizzazioni del corpo, che giocano ruoli capovolti ma perfettamente simmetrici: l’eccesso di potere del Re ha bisogno, per sussistere e riprodursi, di quella sottrazione di potere che il corpo minimo del condannato rappresenta. Questo diventa il correlato simbolico dove il Re imprime il marchio del suo superpotere, utilizzando però non un simbolo ma il corpo del condannato nella sua fisicità. A partire dalla seconda metà del XVIII secolo (18) i supplizi cominciano a scomparire; si insinua un ritegno nuovo, una vergogna, da parte della giustizia che punisce; una nuova sensibilità collettiva avverte ora un senso più acuto di ripugnanza di fronte a tali esecuzioni. E’ mutato il campo di forze entro cui il supplizio trovava il proprio territorio vitale, come se le funzioni della cerimonia penale cessassero di essere comprensibili (19). L’economia dei supplizi, che aveva una sua specifica tecnologia del potere sul corpo - corpo come bersaglio e obiettivo diretto della punizione, corpo marchiato e ridotto in pezzi - cede lentamente il passo ad altre forme punitive, a nuovi equilibri di forze. Scompaiono i supplizi e si allenta la presa diretta e violenta sul corpo e sulla sua spettacolarizzazione; lo scontro fisico e cruento cessa; quella morte lenta e moltiplicata in "mille morti", dal calcolo minuzioso delle sofferenze calibrate, cede il posto ad una morte rapida, precisa, istantanea: la ghigliottina sarà il nuovo strumento usato per le esecuzioni capitali: Una morte che dura solo un istante, che nessun accanimento deve moltiplicare in anticipo o prolungare sul cadavere, un’esecuzione che tocca la vita piuttosto che il corpo. (...) Tra la legge o coloro che la applicano, e il corpo del criminale, il contatto è ridotto alla durata di un lampo. (...) Quasi senza toccare il corpo, la ghigliottina sopprime la vita, come la prigione toglie la libertà o una ammenda preleva i beni. Si presume che essa applichi la legge, piuttosto che a un corpo reale suscettibile di dolore, a un soggetto giuridico, detentore, fra gli altri diritti, di quello di esistere (20). Morte come sospensione del diritto di vivere; dalla ghigliottina alle prigioni, passando attraverso la parentesi dei "riformatori" della Rivoluzione (21), il passo è breve. Quel corpo minimo del condannato, contro cui la violenza del supplizio si scagliava, viene ora come a sdoppiarsi e dà origine ad un nuovo protagonista della scena penale: l’"anima". Con essa si attua tutta una complessa metamorfosi del modo in cui il corpo viene investito dai rapporti di potere, o meglio, l’ingresso dell’"anima" sulla scena della giustizia penale - e con essa tutto un sapere "scientifico" sull’individuo - è l’effetto di una trasformazione delle modalità di investimento del corpo, di una nuova tecnologia politica del corpo. Questo corpo diventa lo strumento - e non più il bersaglio diretto - della giustizia per raggiungere qualcosa che non è più solo il corpo fisico, ma l’"anima", l’individuo nei vari aspetti della sua esistenza (22). Il castigo deve ora correggere, non semplicemente punire - dicono i "riformatori" -, deve agire sul cuore, sul pensiero, sulla coscienza, sulla volontà. Questo nuovo soggetto della punizione diventa un soggetto giuridico, figlio di una concezione contrattualistica della società e del singolo; di qui l’attenzione particolare alla giustizia, la denuncia della sua lacunosità, parzialità e violenza ed il progetto di riforma di tutto l’apparato punitivo. I Riformatori attaccano la vergognosa barbarie dei supplizi e predicano una misura ed umanità dei castighi, una certa "dolcezza" delle pene, per punire non meno, ma meglio. In realtà - dice Foucault - si tratta piuttosto di una nuova volontà di rendere regolare, rigorosa e sistematica la giustizia, una giustizia non più concentrata nelle mani del sovrano e identificata col suo potere personale, ma sapientemente distribuita in tutto il corpo sociale attraverso una rete di controlli sottili e strategici, ripartita in circuiti omogenei e capillari (23). Il potere penale permea così tutto lo spazio sociale e circola, attraverso i segni del castigo - la cui forma corrisponde alla tipologia del crimine commesso - mostrato a tutti, leggibile da tutti perché codificato (24). Il sistema che poi prevarrà sarà qualcosa di molto diverso da questi programmi all’insegna dell’Umanesimo: sarà la prigione come punizione generalizzata, come pena applicata ad ogni tipologia di crimine; tuttavia anche qui l’"anima" gioca un ruolo di rilievo. Quest’"anima" non è più la componente essenziale dell’individuo in quanto soggetto giuridico del patto sociale, ma in quanto corpo-individuo utile, plasmabile nei comportamenti, nei movimenti, nei gesti; esso diventa bene sociale, oggetto di una appropriazione collettiva e utile. Il potere ora sfrutta delle risorse, non distrugge. Il punto d’applicazione della pena non è la rappresentazione, ma il corpo, il tempo, i gesti e le attività di tutti i giorni; l’anima anche, ma nella misura in cui essa è sede di abitudini. Il corpo e l’anima, come principi di comportamento, formano l’elemento che viene ora proposto all’intervento punitivo. (...) Alla fine ciò che si cerca di ricostituire in questa tecnica di correzione non è tanto il soggetto di diritto, (...) quanto il soggetto obbediente, l’individuo assoggettato a certe abitudini, regole, ordini, un’autorità che si esercita continuamente intorno a lui e su di lui e che egli deve lasciar funzionare automaticamente in lui (25). A partire da quest’"anima" - di cui l’Uomo moderno è in possesso e con cui si identifica (26) - si sono poi sviluppati quei saperi che il potere sempre produce, le "scienze umane"; è la società disciplinare. Foucault, ancora una volta, sintetizza questo punto con estrema efficacia: La storia di questa "microfisica" del potere punitivo sarebbe allora una genealogia o un elemento per una genealogia dell’"anima" moderna. (...) Non bisognerebbe dire che l’anima è un’illusione, o un effetto ideologico. Ma che esiste, che ha una realtà, che viene prodotta in permanenza, intorno, alla superficie, all’interno del corpo, mediante il funzionamento di un potere che si esercita su coloro che vengono puniti - in modo più generale su quelli che vengono sorvegliati, addestrati, corretti, sui pazzi, i bambini, gli scolari, i colonizzati, su quelli che vengono legati ad un apparato di produzione e controllati lungo tutta la loro esistenza. (...) Quest’anima reale e incorporea, non è minimamente sostanza; è l’elemento dove si articolano gli effetti di un certo tipo di potere e il riferimento di un sapere, l’ingranaggio per mezzo del quale le relazioni di potere danno luogo a un sapere possibile, il sapere rinnova e rinforza gli effetti del potere. Su questa realtà-riferimento sono stati costruiti concetti diversi e ritagliati campi d’analisi: psiche, soggettività, personalità, coscienza, ecc.; a partire da essa sono state fatte valere le rivendicazioni morali dell’umanesimo. (...) L’uomo di cui ci parlano e che siamo invitati a liberare è già in se stesso l’effetto di un assoggettamento ben più profondo di lui. Un’"anima" lo abita e lo conduce all’esistenza, che è essa stessa un elemento della signoria che il potere esercita sul corpo. L’anima, effetto e strumento di una anatomia politica; l’anima, prigione del corpo (27). In questo brano ritroviamo molte tematiche cruciali per il pensiero foucaultiano: la nascita dell’Uomo come prodotto della modernità; i rapporti di interdipendenza tra sapere e potere, nello specifico, le scienze che fanno dell’uomo il loro oggetto di indagine scientifica; la caduta dell’unità del Soggetto trascendentale e il suo frammentarsi in una molteplicità di prodotti eterogenei; la diffusione su scala globale dei meccanismi disciplinari, matrice non solo del sistema carcerario, ma delle più "insospettabili" istituzioni: scuole, ospedali, fabbriche, ecc. Infine, appena accennata, la polemica con le teorie di stampo freudo-marxista della liberazione della sessualità, dell’inconscio, dal sistema capitalistico; tutte quelle correnti di pensiero che concepiscono il potere come unicamente repressivo, come semplice interdetto, che si abbatte sul soggetto dall’esterno e che agisce "negativamente", per sola sottrazione (28), su soggetti "naturali" la cui struttura non viene indagata perché costituisce un immobile a priori. Ma andiamo con ordine: come si modifica il rapporto tra potere e corpi? Quali nuovi soggetti emergono? Se si facesse una storia del controllo sociale sul corpo, si potrebbe mostrare che, fino al secolo XVIII compreso, il corpo dell’individuo è essenzialmente la superficie su cui si iscrivono i supplizi e le pene; il corpo era fatto per essere castigato e suppliziato. Ma già nelle istanze di controllo che nascono a partire dal XIX secolo, il corpo acquista un significato completamente diverso; non è più ciò che va suppliziato, ma ciò che deve essere formato, plasmato, corretto, che deve acquisire delle attitudini, ricevere un certo numero di qualità, qualificarsi come un corpo in grado di lavorare (29). Il corpo degli individui viene visto come oggetto da analizzare e scomporre in pezzi, in unità funzionali, allo scopo di forgiare corpi "docili", che si prestano cioè ad essere utilizzati (come forza lavoro, come bene sociale ma non solo), ma anche trasformati e perfezionati, allo scopo di massimizzare e sfruttare al meglio le loro risorse, le loro forze, le loro energie. La disciplina fabbrica così corpi sottomessi ed esercitati, corpi "docili". La disciplina aumenta le forze del corpo (in termini economici di utilità) e diminuisce queste stesse forze (in termini politici di obbedienza). In breve: dissocia il potere del corpo; ne fa, da una parte, un’"attitudine", una "capacità" ch’essa cerca di aumentare e dall’altra inverte l’energia , la potenza che potrebbe risultarne, e ne fa un rapporto di stretta soggezione (30). E’ interessante notare come qui Foucault presenti il corpo non certo come substrato di materia biologica, ma nemmeno come potenzialità attiva e creativa, come corpo vivente alla maniera della fenomenologia. Questa corporeità - così come Foucault ne parla - rimane in una ambiguità nebulosa che non ci permette mai di scorgerla con chiarezza e sicurezza. E’ un prodotto vero e proprio, un prodotto di pratiche e di discorsi - tanto che sembra addirittura svanire dietro di essi (31) -, ma è anche un ricettacolo di forze ed energie insospettate, che - direbbe Nietzsche - pre-esistono a tutta la nostra attività cosciente, che la superano. Potere e corpo sono due nuclei centrali del pensiero foucaultiano, ma mentre la tematica del potere è stata trattata, dallo stesso Foucault e dai critici, in maniera abbastanza approfondita e articolata, quella della corporeità è rimasta un po’ nell’ombra: sempre presente ma ai margini del discorso, mai esplicitamente affrontata in maniera diretta. Potere e corpo tuttavia si intrecciano e si fronteggiano continuamente, in una battaglia che modifica incessantemente le sue forme e i suoi equilibri e in cui il potere, la griglia di relazioni che il potere costituisce, sembra sempre predominare. Il corpo plasmato nelle tante tipologie che Foucault descrive è infatti il suo primo prodotto, oltre che lo strumento con cui stabilisce le sue vittorie; ma questo corpo, apparentemente così inconsistente sebbene materiale, racchiude anche una straordinaria ed inesauribile capacità di resistenza (32). E’ un punto di attrito su cui la ragnatela del potere fatica a scivolare, e deve dunque trovare nuovi stratagemmi per proseguire; è un elemento che sfugge parzialmente alla presa del potere e lo costringe quindi ad elaborare nuove strategie di attacco, nuove modalità e forme di investimento. Questa lotta e queste forme di resistenza impongono al potere una continua metamorfosi che, da una parte, mette in luce il suo essere limitato e dimostrano che esso non è mai del tutto onnipotente, dall’altra parte costituiscono una sua risorsa di perfezionamento, poiché sono proprio gli ostacoli che continuamente incontra e i punti dove meno attecchisce a costringerlo ad evolversi, a ripiegare su se stesso per trovare nuove vie verso cui avanzare (33). La dinamica del potere e il problema del corpo sono posti nei termini di una relazione; non è dunque possibile concepirli come elementi a sé stanti, come entità assolute: il loro carattere primo è forse proprio questo essere relazionale. Entro questa prospettiva il corpo-resistenza assume una fisionomia stranamente vicina a quella del potere: un aggregato eterogeneo straordinariamente dinamico, immerso in una lotta che non giunge mai ad una conclusione ultima, ad un equilibrio statico, e che quindi non si cristallizza mai in una forma del tutto definitiva. Il campo di forze e la lotta che tra esse imperversa che Nietzsche ci ha descritto, costituisce il principale terreno concettuale su cui si innesta la concezione foucaultiana del potere e del corpo. Foucault respinge la visione naturalistica del corpo come un correlato di "natura" gerarchicamente organizzato attorno ad un nucleo centrale, composto di parti armonicamente disposte e funzionanti in maniera organica. In questo confronto-scontro con un potere che sempre lo attraversa, il corpo sembra essere diventato un aggregato di forze in movimento e in lotta, l’una contro l’altra - per esempio sotto forma di istinti contrapposti e rivali - e contro le forze che dall’esterno insorgono. Ci sembra tuttavia fuorviante parlare in questo caso di esterno e di interno, poiché se concepiamo tutta la dinamica delle relazioni di potere e dei corpi alla maniera di Nietzsche, come il prodotto di un conflitto tra diverse forze, come un complesso di forze, allora le categorie di esterno ed interno perdono significato e si rivelano essere anch’esse frutto di una struttura di pensiero metafisica. Deleuze, nel suo saggio su Nietzsche, si chiede: Che cos’è il corpo? Sarebbe inadeguato definirlo come campo di forze, luogo che una moltepicità di forze si contende per trarne alimento, giacché un "luogo", un campo di forze o un campo di battaglia non esistono di per sé; non c’è quantità di realtà, ma ogni realtà è già quantità di forze "in un rapporto di tensione" le une con le altre. Poiché ogni forza ha un rapporto di dominio o di obbedienza con altre forze, un corpo verrà a definirsi in base al rapporto tra forze dominanti e forze dominate. Affinchè si costituisca un corpo - chimico, biologico, sociale, politico - è sifficiente che due forze qualsiasi, diverse l’una dall’altra, entrino in rapporto tra di loro. (...) Essendo composto da una pluralità di forze irriducibili il corpo è un fenomeno molteplice la cui unità si determina in base a un "dominio" (34). Torniamo ora al tema specifico di questo paragrafo: la struttura punitiva e carceraria. Foucault utilizza la metafora del Panopticon elaborata da Jeremy Bentham per descrivere il funzionamento del potere così come si viene a delineare a partire dalla fine dell’età classica. Il panoptismo (35) - struttura architettonica che nasce come progetto utopico per l’istituzione carceraria e si ramifica pian piano in tutto il corpo sociale - è un ingranaggio che permea l’individuo ad un duplice livello: come corpo e "anima" individuali, e come corpo sociale collettivo. Esso opera mediante l’esercizio costante e meticoloso; il suo è un lavorio continuo e metodico le cui tracce si imprimono sopra e dentro il corpo, prolungandosi silenziosamente nell’automatismo delle sue abitudini, nei suoi movimenti, nel suo tempo, nello spazio. Questa tipologia di potere agisce senza clamore, senza fasto, silenziosamente e quasi di nascosto, mascherandosi (36), per meglio assorbire. Il panopticon ci mostra un tipo di funzionamento strategico del potere che agisce nel più completo anonimato: chiunque può prendere il posto del sorvegliante, al limite non è nemmeno indispensabile la sua presenza, perché i prigionieri, dalle loro celle non possono mai sapere se in quel momento sono osservati, quindi si devono comportare come se lo sguardo del sorvegliante fosse sempre posato su di loro. Che egli ci sia o non ci sia non modifica il meccanismo; ciò che conta non è l’operatore sociale o la sorveglianza in sé, ma la struttura, il marchingegno complessivo Non sono i soggetti che permettono il funzionamento della macchina del potere, ma questa stessa macchina funziona perfettamente senza l’ausilio di nessun soggetto e disegna i comportamenti e la posizione sia del sorvegliato che del sorvegliante. E’ un esempio questo di strategia senza soggetto, un soggetto che sparisce completamente nella sua duplice forma di individuo-soggetto-della-conoscenza e di intenzionalità di un potere da sempre concepito come istanza personificata (nella figura del Re, dello Stato, di una classe sociale (37), ecc.). Ritroviamo ancora una volta una delle principali tematiche che Foucault ha attinto da Nietzsche: l’abbattimento del postulato trascendentale del Soggetto, attraverso la ricostruzione della sua genesi, che ne mostra il processo di formazione a partire dall’accidente, dal caso, dai capricci della storia, dalla lotta delle forze, dalle relazioni di potere. Vediamo infatti che Foucault ci descrive l’individuo tutto immerso e permeato dalla rete disciplinare, che lo investe in maniera globale. Non si tratta affatto di una sorta di accerchiamento del soggetto da parte del potere - che si situerebbe così come entità esterna -; Foucault rifiuta di riconoscere come autentica quella presunta distanza che separa, come due entità a sé, pre-costituite, il potere e il soggetto individuale. In verità - ci avverte - sono l’uno coestensivo all’altro, non è possibile infatti studiare il soggetto, il corpo, separatamente dalle molteplici relazioni che con esso continuamente si intrattengono. Queste relazioni, sono relazioni di produzione, relazioni di significato, ma anche relazioni di potere. (...) Il soggetto stesso appare inevitabilmente come un precipitato di relazioni di potere, e questo in entrambe le accezioni del termine che concorrono a definirlo: quella cioè di "soggetto a qualcun altro" attraverso meccanismi di dipendenza, e quella di "legato alla propria identità" da procedure di autoconoscenza e di autocoscienza. Il soggetto insomma non è un’entità pre-sociale, indipendente dalle relazioni in cui è suscettibile di entrare con altri soggetti, ma esiste solo come una forma specifica di queste relazioni (38). I punti di applicazione privilegiati dal panoptismo sono i piccoli dettagli della vita quotidiana, ciò che è sempre stato nell’ombra, in una zona di insignificanza. Fino all’epoca dei supplizi il potere agiva in blocco, aveva bisogno del massimo di visibilità per produrre degli effetti di costrizione; doveva essere continuamente esibito e spettacolarizzato attraverso la figura del sovrano, o comunque di figure rappresentative che occupavano i vertici della gerarchia. Ora invece abbiamo un capovolgimento della visibilità: cessa lo spettacolo del potere, che si fa il più possibile invisibile e la luminosità si concentra sulle masse anonime, da sempre lasciate nell’ombra. Le discipline segnano il momento in cui si effettua quello che potremmo chiamare il rovesciamento dell’asse politico dell’individualizzazione. In altre società - di cui il regime feudale non è che un esempio - possiamo dire che l’individualizzazione è massimale dalla parte dove si esercita la sovranità e negli strati superiori del potere. Più vi si è detentori di potenza o di privilegio, più vi si è marcati come individui, attraverso rituali, discorsi, rappresentazioni plastiche. (...) In un regime disciplinare, al contrario, l’individualizzazione è discendente: nella misura in cui il potere diviene più anonimo e più funzionale, coloro sui quali si esercita tendono ad essere più fortemente individualizzati (39). Queste masse, da un lato vengono gestite come popolazione, quindi in blocco e in maniera compatta, in modo da assicurare un controllo totalizzante e diffuso, senza che nessuno sfugga (si configura una specie di corpo molare (40), un macrocorpo della popolazione); dall’altro lato prende forma un processo di individualizzazione massiccio (sono i piccoli corpi singoli, i microcorpi delle discipline): la massa viene scomposta nei suoi elementi costitutivi e l’attenzione si rivolge al singolo individuo, come cellula, quindi un individuo considerato come anonimo, come casella vuota e non certo nella sua singolarità e unicità di soggetto. La folla, massa compatta, luogo di molteplici scambi, individualità che si fondono, effetto collettivo, è abolita in favore di una collezione di individualità separate (41). Queste unità separate sono elementi funzionali dei meccanismi di potere, sono caselle intercambiabili - lo abbiamo visto nell’architettura panoptica -, "tipi sociali": lo scolaro, il criminale, il pazzo il malato, l’operaio, il cittadino, ecc., individui astratti, individui oggetti d’osservazione e utili. Una luce viene gettata sui dettagli più minuti, sui piccoli gesti quotidiani: dalla prigione alla scuola, dalla fabbrica all’ospedale e all’esercito, l’attenzione è ininterrotta e rivolta ai comportamenti (maleducazione, disobbedienza, ecc.), alle attività svolte (capacità, disattenzione, negligenza, lentezza, ecc.), ai discorsi (chiacchiere, insolenza, ecc.), al corpo (attitudini "scorrette", gesti non conformi, scarsa pulizia, ecc.), alla sessualità (immodestia, indecenza, ecc.) (42). Tutto questo viene fatto oggetto di controllo e di osservazione minuziosa, gettato in una trasparenza, in una luminescenza entro cui nulla sembra sfuggire: tutto, o il più possibile, viene attraversato da questo reticolo di potere che assume la forma dello sguardo. Ciò che di volta in volta emerge dall’ombra alla visibilità e alla dicibilità (43), è sottoposto a rapporti di forza, e dunque plasmato. L’individualità cade all’interno del campo d’osservazione, il potere la fissa, la normalizza, la rende anonima e omogeneizzata al tessuto sociale; e tuttavia la scruta fin nelle pieghe più riposte. Il controllo è cellulare, ma non si rivolge soltanto agli atti, alle infrazioni, in generale a ciò che per esempio il criminale ha commesso, bensì a tutto quel campo di possibilità che costituisce la potenzialità del comportamento: quello che può fare, quello che è in procinto di fare, quello che è incline a fare. La nozione di ‘pericolosità’ acquista un ruolo sempre più importante; nascono tipologie di individui che si organizzano attorno alle categorie di normalità-devianza, tipi sociali a cui gli individui vengono fissati. Questa individualizzazione richiede, o meglio, prende forma parallelamente ad un’ampia operazione documentaria, di registrazione minuziosa e continua, una sorveglianza che è al tempo stesso osservazione, potere epistemologico (44). Il delinquente è individuo da punire ma anche da conoscere. Lo sguardo che continuamente sorveglia è anche lo sguardo che studia; il luogo in cui si applica la disciplina diventa luogo di sperimentazione sugli individui e di elaborazione di un sapere su di essi. Per far questo si rende necessaria una gigantesca rete di istituzioni collaterali, di panoptismi locali, che inquadrino gli individui per tutto il corso della loro esistenza: scuola, ospedale, clinica, fabbrica, prigione, ecc.
3. Il sapere e la norma L’individuo - e non più la specie - diventa oggetto calcolabile e descrivibile: nascono le "scienze umane", quelle stesse da cui e parallelamente a cui prende forma l’Uomo moderno (45), che Foucault descrive in Les mots et les choses. La genesi di questi saperi sembra non essere delle più gloriose: La nascita delle scienze dell’uomo? Verosimilmente dobbiamo cercarla in quegli archivi, di scarsa gloria, in cui è stato elaborato il gioco moderno delle coercizioni sui corpi, i gesti, i comportamenti (46). Il sapere rivela così la sua parentela con la tecnologia del potere: l’uno e l’altra si alimentano e si sostengono, sono ben lungi dall’essere antitetici. Anche il sapere e la verità rientrano in quel campo di forze che la genealogia rintraccia, sono il risultato di uno scontro, il prodotto di un predominio. Nietzsche - ci dice Foucault stesso - ha cominciato a demolire il grande mito platonico che ha dominato tutto l’Occidente, quel mito secondo cui la verità non appartiene mai al potere politico, il potere politico è cieco, il vero sapere è quello che si possiede quando si è in contatto con gli dèi o quando ci si ricorda delle cose, quando si guarda il grande sole eterno o si aprono gli occhi su ciò che è accaduto. Con Platone comincia un grande mito occidentale: che vi sia antinomia tra il potere e il sapere (47). Il potere è dunque coestensivo al sapere, non sovrastrutturale e il corpo è il punto di applicazione, di scontro e di formazione di relazioni di potere, di saperi e di verità; la potente combinazione tra sapere e potere trova nel corpo il proprio obiettivo e il proprio strumento. Infatti: All’interno della costrizione, il corpo produce effetti che si danno come oggetto di un sapere. (...) il meccanismo di potere, proprio per essere una ‘macchina’ per l’assoggettamento, ha bisogno di informazione sul corpo. (...) Far subire al corpo movimenti articolati, collegarlo ad altri corpi per comporre le loro energie, ecc., implica la conoscenza delle possibilità di movimento e di resistenza del corpo stesso. Una buona tecnologia di potere è interamente intessuta di sapere sul corpo. Il suo successo dipende dalle informazioni sulla struttura e sul funzionamento del corpo (48). L’investimento del corpo da parte di quella tipologia di potere che ha preso forma a partire dalla fine del XVIII secolo, si configura come una incessante produzione: non solo mira ad ottenere dagli individui delle prestazioni produttive (come forza lavoro, come investimenti di desideri, come modelli comportamentali, massimalizzazioni delle energie dei corpi, dispositivi come la sessualità), ma si autoalimenta anche attraverso la produzione di ‘effetti di verità’, di conoscenze. Un aspetto del potere che caratterizza la nostra società è proprio questo potere epistemologico: un sapere estratto dagli individui e relativo agli individui, ai loro comportamenti, ai loro corpi, alle loro potenzialità, attraverso un permanente lavoro di osservazione, annotazione, classificazione e raffronto. Così, per esempio, la pedagogia si è formata a partire dallo stesso adattarsi del bambino agli obblighi scolastici, adattamenti che, osservati ed estratti dal suo comportamento, sono divenuti in seguito leggi di funzionamento delle istituzioni e delle forme di potere esercitate sul bambino (49). Un sapere-potere i cui confini sono sfumati, un sapere che è coestensivo ai rapporti di forza, estrae nutrimento dai corpi e dagli individui che esso stesso crea. Ritorna qui l’idea, desunta da Nietzsche, secondo cui il sapere, la conoscenza, nascono da qualcosa di completamente diverso dalla natura "spirituale" che impropriamente si attribuiscono; il sapere nasce invece dalla coercizione sui corpi, nasce dal basso, non da lontananze metafisiche, ma da ciò che è più vicino e più "plebeo". Questi saperi si organizzano intorno alla Norma, cioè ad una distinzione permanente tra normale e anormale, ad un dualismo diffuso e costitutivo dell’intera coscienza occidentale, almeno nelle sue forme istituzionalizzate. La nozione di norma e di normalizzazione, come elemento caratterizzante la società disciplinare, viene derivata da uno dei principali "maestri" di Foucault: Georges Canguilhem; è lo stesso Foucault a citarlo in nota ad un brano relativo a questo concetto di norma: Appare, attraverso le discipline, il potere della Norma. (...) Il Normale, si instaura come principio di coercizione nell’insegnamento con l’introduzione di un’educazione standardizzata e con l’organizzazione delle scuole normali; si instaura nello sforzo di organizzare un corpo medico e un inquadramento ospedaliero nazionale, suscettibile di far funzionare norme generali di sanità; si instaura nella regolamentazione dei procedimenti e dei prodotti industriali. Come la sorveglianza - ed insieme ad essa -, la normalizzazione diviene uno dei grandi strumenti di potere alla fine dell’età classica. Ai segni che traducevano status, privilegi, appartenenze, si tende a sostituire, o per lo meno ad aggiungere, tutto un gioco di gradi di normalità, che sono segni di appartenenza ad un corpo sociale omogeneo, ma che contengono un ruolo di classificazione, di gerarchizzazione, di distribuzione dei ranghi. Da una parte il potere di normalizzazione costringe all’omogeneità, ma dall’altra individualizza permettendo di misurare gli scarti, di determinare i livelli, di fissare le specificità e di rendere le differenze utili, adattandole le une alle altre (50). La Norma, ci dice Canguilhem (51), deriva dal latino norma che significa ‘squadra per misurare gli angoli retti’, in seguito ha assunto il senso di ‘regola’, ‘legge’ e si è estesa ad una grande varietà di campi. Una norma è allora qualcosa che serve a raddrizzare, a rendere diritto ciò che si presenta come storto, obliquo, deviato rispetto ad una direzione assunta come canone. Questo ci rimanda al concetto di normativo, cioè di un’istanza che impone un’uniformità forzata a qualcosa che si differenzia e, proprio in questo differenziarsi, si offre come ostile, prima ancora che estraneo. E’ un riferire ad un reale, che si dà in maniera differenziata ed eterogenea, dei valori, celando questa stessa operazione di scarto: dal primo momento che stabilisco come normativo un comportamento, un fatto, un carattere, metto in atto un’operazione di esclusione, definisco, attraverso uno scarto, una discriminante negativa, la quale, automaticamente, si carica dell’attributo di anormalità, di devianza. Risulta chiaro come il rapporto normale-anormale non sia un rapporto di contraddizione e di esteriorità, ma piuttosto una relazione dialettica di inversione e polarità: La norma, svalutando tutto ciò che il riferimento a lei stessa vieta di considerare normale, crea essa stessa la possibilità di una inversione dei termini. Una norma si propone come modo possibile di unificazione di un diverso, di riassorbimento di una differenza (52). Si tratta di una omogeneizzazione attraverso la creazione di una differenza che gravita attorno alla Norma, che prende da essa le mosse, che le è speculare e funzionale., una differenza che si appiattisce nel continuo rispecchiamento con la legge del Medesimo. Foucault sembra far eco a Canguilhem quando, in Les mots et les choses scrive: Il pensiero moderno (...) non procede più verso la formazione mai compiuta della Differenza, ma verso la rivelazione sempre da attuare del Medesimo. (...) per l’analitica della finitudine si tratterà sempre di mostrare come il Diverso e il Remoto siano altresì il Vicinissimo e il Medesimo (53). Non si tratta semplicemente di un gesto di esclusione - Foucault ce lo ripete più volte (54) -, ma, una volta creato il dualismo normale-anormale, ciò che non rientra negli standards della normalità viene, non solo rigettato nello statuto del patologico - o del deviante nelle sue varie accezioni -, ma riassorbito e riutilizzato. C’è continuamente un recupero strategico dello scarto, che viene convertito in elemento utile. Nulla è veramente respinto, il meccanismo panoptico ricicla sempre da una parte ciò che sembra escludere dall’altra, economizza tutto, in modo che non ci sia un esterno. Proprio per questo le norme non possono essere statiche, ma hanno bisogno di procedere in un movimento continuo di espansione, in modo da ramificarsi fin nelle zone più inaccessibili, in modo da riconvertire al loro utile tutto ciò che via via tende a sfuggire. Quello di norma è un concetto dinamico e polemico (55); la società è caratterizzata da un incessante processo di produzione delle norme, al fine di adattarsi ogni volta a questa esigenza di riassorbire ciò che tende a sottrarsi. E’ ancora Canguilhem a scrivere: Il normale è dunque a un tempo l’estensione e l’esibizione della norma. Moltiplica la regole nello stesso tempo in cui la indica. Esige dunque fuori di sé, vicino a sé e contro di sé, tutto ciò che ancora gli sfugge (56). E’ attraverso le trasgressioni, gli scarti, che si riconoscono le norme e che le stesse norme mutano; è a partire dall’infrazione che si può comprendere il normativo. Questa assunto di Canguilhem sembra ispirare una presa di posizione metodologica di Foucault, un suo collocarsi in una prospettiva ribaltata rispetto al punto di osservazione canonico dello studioso, dell’intellettuale: Vorrei suggerire un altro modo per avanzare ulteriormente verso una nuova economia delle relazioni di potere (...). Esso consiste nel considerare come punto di partenza le forme di resistenza opposte alle differenti forme di potere. (...) consiste nell’utilizzare queste resistenze come un catalizzatore chimico che permetta di mettere in evidenza le relazioni di potere, di localizzare la loro posizione , di scoprire i loro punti di applicazione e i metodi utilizzati. Piuttosto che analizzare il potere dal punto di vista della sua razionalità interna, si tratta di analizzare le relazioni di potere attraverso l’antagonismo delle strategie. Ad esempio, per intendere cosa la nostra società intenda per normalità, bisognerebbe forse analizzare che cosa accade nel campo della alienazione mentale. E che cosa intendiamo per legalità, analizzando ciò che accade nel campo dell’illegalità. Quanto al comprendere in che cosa consistano le relazioni di potere, si dovrebbero forse indagare le forme di resistenza e i tentativi compiuti per cercare di dissociare tali relazioni (57).
4. Devianza e resistenza La norma tende ad assorbire - dopo aver tracciato la linea dell’esclusione - anche ciò che ad essa sembra opporsi: la trasgressione, in fondo, forse non è nient’altro che la riconferma della regola, la ulteriore messa in evidenza del limite che questa sancisce. Norma e devianza dalla norma appaiono in qualche modo speculari, mostrano il loro essere relazionale e mai veramente assoluto. La devianza, oltre a scuotere e far tremare per un istante la struttura normativa, finisce per rientrare in quel suo circuito che le dà origine e, allo stesso tempo, si mostra persino funzionale a questa struttura nel suo complesso. In sociologia, lo studio delle norme è stato fin dall’inizio posto al centro dell’attenzione da Emile Durkheim, che ne ha sottolineato l’imprescindibilità e l’importanza - con una connotazione fortemente positiva (58) - per ogni tipo di società. Nonostante i limiti di certe sue posizioni che maturano in seno al pensiero positivista, e sebbene la sua immagine sia stata spesso appiattita da una lettura forse troppo frettolosa che la riduce entro un’antropologia ingenua ed ormai superata, Durkheim è stato uno dei primi studiosi a riconoscere con forza il carattere relativistico delle norme e quindi delle rispettive trasgressioni (59); il trasgredire alle norme è un fatto del tutto normale: dovunque esistano regole, norme, prescrizioni, si verificano inevitabilmente violazioni più o meno gravi e - sembra dire Durkheim, nonostante la sua preoccupazione a scongiurare fenomeni di anomia - non necessariamente queste violazioni sono distruttive. Dal suo studio sul suicidio traspare infatti l’idea per cui anche i comportamenti devianti, in questo caso appunto il suicidio, rientrerebbero in qualche modo nel circuito funzionale alla società. Attraverso lo studio di statistiche sul tasso di suicidi in diversi paesi europei, Durkheim rintraccia, non solo un’attitudine al suicidio caratteristica per ogni società, ma anche una sua insospettata regolarità: in ciascun paese, il tasso della mortalità suicida è pressoché costante - la sua invariabilità è addirittura maggiore di quella dei principali fenomeni demografici - e le sue oscillazioni variano in maniera inversamente proporzionale al grado di coesione sociale. Col crescere quindi dell’integrazione dell’individuo in seno al gruppo e dell’interiorizzazione delle sue norme, diminuisce anche il tasso di suicidi. Ora, nonostante il suicidio sia un atto illecito di insubordinazione e di rivolta nei riguardi della struttura sociale nel suo complesso, e nonostante esso sia - nella nostra società (60) - il segno di una crisi di questa struttura, se la sua percentuale non supera certi limiti, può perfino diventare un elemento di utilità: Ora, non v’è società conosciuta in cui, sotto varie forme, non si osservi una maggiore o minore criminalità. Non v’è popolo in cui non si violi quotidianamente la morale. Perciò dobbiamo dire che il delitto è necessario, che non può non esistere, che le condizioni fondamentali dell’organizzazione sociale, quali si conoscono, lo implicano logicamente, e quindi che è normale. (...) Ciò che è condizione indispensabile della vita non può non essere utile (...). Infatti, abbiamo dimostrato come il delitto possa servire, ma solamente se è condannato e represso. (...) Il suicidio è dunque un elemento della loro [delle epoche] normale costituzione ed anche, molto probabilmente, di ogni costituzione sociale (61). I suicidi, pur essendo atti individuali, dipendono interamente da fattori sociali, da ‘correnti suicidogene’ che portano il singolo a darsi la morte; questo fenomeno - dice Durkheim - si spiega soltanto sociologicamente, è estraneo ad ogni psicologismo individuale. Si tratta di forze collettive che danno forma, solo successivamente, alle tendenze individuali: Le varie correnti di tristezza collettiva (...) non sono prive di ragione d’essere purché non siano eccessive. E’ erroneo credere, infatti, che la gioia pura sia lo stato normale della sensibilità. (...) La malinconia è patologica soltanto quando prende troppo posto nella vita, ma è pure patologico che ne sia completamente esclusa. (...) è vero che normalmente la tristezza collettiva ha una funzione nella vita delle società (62). Questo aspetto del pensiero di Durkheim si discosta, per molti aspetti, dai suoi assunti relativi alla necessità e desiderabilità di una normatività forte, che superi di gran lunga l’autonomia individuale, connotata in negativo da Durkheim come individualismo ed egoismo. La norma per Durkheim è qualcosa di necessario, di positivo e di morale - e qui siamo agli antipodi rispetto al pensiero foucaultiano -, tuttavia compare un aspetto interessante che in qualche modo ci riconduce alla riflessione foucaultiana sul potere, la norma e la devianza, poiché introduce l’idea di una struttura del sociale che sovrasta in ogni istante l’individuo, ne plasma le attitudini, le azioni, i caratteri in generale. Il potere e il raggio di libertà dell’individuo vengono drasticamente ridimensionati, in favore di una struttura o di un meccanismo impersonale, ma dotato in qualche modo di una grande potenzialità produttiva, generativa e autoregolativa (63). In Foucault essa acquista un carattere macroscopico e cellulare insieme, una connotazione negativa che manca completamente in Durkheim, e un funzionamento che si definisce come strategia. Tuttavia il rapporto tra norma e devianza - o, come vedremo tra poco, tra potere e resistenza - richiama un certo collegamento fra questi due autori pur così distanti. Lo stesso tipo di rapporto di reciproca implicazione ed interazione che abbiamo individuato tra la Norma e ciò che essa esclude, ciò che si qualifica come infrazione, lo rintracciamo anche nel gioco dinamico che esiste fra il potere - nel suo ramificarsi molteplice - e la resistenza a questo stesso potere. Tutto il tessuto delle relazioni umane sembra permeato da un flusso di potere onnisciente e onnicomprensivo, una sorta di positività senza spazi vuoti, senza esterno. In realtà Foucault sostiene una posizione molto vicina a Nietzsche (64) e dunque mette in primo piano la dimensione dinamica della lotta permanente, dove non si tratta mai di uno scontro frontale tra due entità esterne l’una all’altra, ma di una lotta trasversale e mobile, dove tutto si converte nella polarità opposta, perché le forze sono prima di tutto relazionali e quindi è impossibile pensarle come entità singolari, chiuse, indipendenti l’una dall’altra. Così, le relazioni di potere si intrecciano alle resistenze in una lotta, in un "agonismo" permanente, che è insieme incitamento reciproco. Solo all’interno di questa lotta il potere sviluppa le sue strategie, converte se stesso laddove incontra ostacoli, sviluppa nuove tecniche per estendersi, sperimenta i suoi limiti e la sua fallibilità. Sono proprio i punti di resistenza, le anomalie, che permettono al potere di diffondersi, ma allo stesso tempo sono anche la fonte della sua instabilità, della sua perpetua precarietà. Infatti secondo Foucault l’esistenza di una forma di opposizione al potere risulta una condizione fondamentale del modo in cui esso opera. E’ attraverso l’articolazione di punti di resistenza che il potere si diffonde su tutto il campo sociale. Ma naturalmente è anche attraverso l’opposizione ad esso che il potere è costantemente sfidato. La resistenza è sia un elemento del funzionamento del potere che la fonte del suo perpetuo disordine (65). La lotta sussiste solo laddove c’è la possibilità di una resistenza: non può sussistere rapporto di potere laddove le determinazioni sono sature, chiuse. Prendiamo in considerazione, per esempio il ruolo delle devianze: Una componente essenziale delle tecnologie di normalizzazione è che esse costituiscano una parte integrante della creazione, della classificazione e del controllo sistematici delle anomalie presenti nel corpo sociale. (...) il progresso del bio-potere avviene contemporaneamente all’apparire e al proliferare proprio di quelle categorie di anomalie - il delinquente, il pervertito e così via - che le tecnologie del potere e del sapere avrebbero dovuto, almeno in linea di principio, eliminare. (...) Ciò che potrebbe altrimenti essere considerato come un fallimento dell’intero sistema messo in opera, viene così trasformato in un problema tecnico, e di conseguenza in un campo per l’espansione del potere (66). Foucault si riferisce a queste resistenze chiamandole talvolta l’"elemento sfuggente" o la "plebe": Non c’è assolutamente realtà sociologica nella "plebe". Ma c’è comunque sempre qualcosa, nel corpo sociale, nelle classi, nei gruppi, negli individui stessi che sfugge in certo modo alle relazioni di potere; qualcosa che non è affatto la materia prima più o meno docile o resistente, ma il movimento centrifugo, l’energia di segno opposto, l’elemento sfuggente. Non esiste "la" plebe, c’è "della" plebe. C’è nei corpi e nelle anime, negli individui, nel proletariato e nella borghesia, (...) Questa parte di plebe non è tanto l’esterno rispetto alle relazioni di potere quanto il loro limite, il loro inverso, il loro contraccolpo; è ciò che risponde ad ogni avanzata del potere attraverso un movimento per svincolarsene; ed è quindi ciò che motiva ogni nuovo sviluppo delle reti di potere (67). Ancora una volta il corpo occupa una posizione cruciale ed ambigua insieme: è strumento, punto d’attacco, materia, luogo privilegiato d’applicazione delle più diffuse e svariate relazioni di potere; è un prodotto che sembra assumere un carattere di passività senza eguali, tutto attraversato e costruito dal flusso dei poteri e dei saperi. Ma contemporaneamente il corpo - si dice Foucault - si costituisce anche come resistenza, come limite dell’onnipotenza del potere. Sottraendosi ad una manipolazione assoluta, esso mostra di non essere completamente ed indefinitamente malleabile, di possedere una capacità di attrito nei confronti dei flussi di potere che lo permeano - e al contempo lo costituiscono -; mostra un lato di sé che ne fa, a tratti, un operatore attivo, anche se in modo piuttosto debole (68). Questo aspetto permette a Foucault di non cadere in una posizione radicalmente nichilista, che annulla cioè qualsiasi realtà propria del corpo. Questa malleabilità non acquista mai una specificazione definita, lascia sempre il corpo a fluttuare in un campo dove i tratti sfumano e i rapporti di forza ne modificano incessantemente l’assetto. Foucault sembra oscillare tra una posizione radicale per cui i corpi sembrano, da una parte, - forse provocatoriamente - farsi pure superfici d’iscrizione e perdere perfino quel minimo di "sostanza" organica ed individuale che li caratterizza, di substrato biologico che costituisce il terreno comune minimo da cui partire per edificare una qualche identità. Caduta definitiva del paradigma naturalistico, della distinzione tra Natura e Cultura, e di conseguenza di qualsiasi attribuzione originaria e costitutiva del corpo. Dall’altra parte invece, Foucault assume una posizione più ‘soft’, che ruota attorno al concetto di ‘resistenza’, per cui sembrerebbe esistere un substrato corporeo, un potenziale corporeo, se non del tutto esterno al potere, per lo meno dotato di una certa autonomia, di una certa energia propria e irriducibile, anche se piuttosto opaca. A questo proposito conviene citare un passo dell’importante studio di Dreyfus e Rabinow su Foucault: Egli respinge chiaramente il punto di vista naturalistico secondo il quale il corpo ha una struttura fissa e dei bisogni fissi, (...). Considerando la sua descrizione del modo in cui è stato trattato il corpo, e di quanto stabile sia stato questo controllo formatore, Foucault presumibilmente respingerebbe anche il punto di vista dell’esistenzialismo estremo di Sartre; se il corpo fosse così instabile come esso pretende, la società non potrebbe organizzarlo e controllarlo nel tempo. In ogni caso risulta difficile stabilire con precisione quale posizione assuma Foucault. Una interessante alternativa disponibile per Foucault è costituita dalla nozione, elaborata da Merleau-Ponty, di corps propre, ovvero il corpo vissuto (...). D’altra parte, ci pare che Foucault abbia giudicato le invarianti strutturali di Merleau-Ponty troppo generali perché potessero venir utilizzate per la comprensione della specificità storica delle tecniche di elaborazione del corpo. (...) Eppure questi dettagli che riguardano il corpo hanno senza dubbio influenzato coloro che hanno sviluppato le tecniche disciplinari. Sono proprio questi i tratti che interessano Foucault, quando si chiede in che modo il corpo potrebbe essere diviso, ricostruito e manipolato dalla società (69). Torniamo per un momento al concetto di ‘resistenza’. Il corpo non è in sé resistenza, ma "ha" delle capacità di resistenza, può esercitare un’azione di contrattacco nei confronti delle relazioni di potere in cui è immerso. Foucault fornisce un esempio di processo di azione-reazione tra potere e corpo, in un breve saggio intitolato proprio Potere-corpo. A partire dal XIX secolo si è vista crescere a dismisura l’attenzione rivolta dalle varie istituzioni disciplinari - mediche, educative, carcerarie, psichiatriche, ecc. - al corpo. Tutto questo investimento capillare e focalizzato sulla corporeità ha provocato un contrattacco da parte del corpo: un maggiore interesse e una maggiore coscienza del proprio corpo, un’intensificazione dei desideri. Da qui, per esempio, tutto il movimento per la ‘liberazione sessuale’ scoppiato durante gli anni Sessanta e Settanta. Scrive infatti Foucault: dal momento in cui il potere ha prodotto questo effetto, nella linea stessa delle sue conquiste, emerge inevitabilmente la rivendicazione del proprio corpo contro il potere, la salute contro l’economia, il piacere contro le norme morali della sessualità, del matrimonio, del pudore. E ad un tratto, ciò stesso per cui il potere era forte diventa ciò da cui è attaccato...Il potere si è addentrato nel corpo, esso si trova esposto nel corpo stesso... (70) . Ma poiché il potere non si arresta mai - grazie al suo ripiegarsi su se stesso, al suo convertirsi e trovare strategie di lotta e di espansione sempre nuove -, anche se apparentemente colpito da ciò che esso stesso ha prodotto, opera l’ennesimo spostamento tattico, attraverso lo sfruttamento economico dell’erotizzazione, che si attua per mezzo non più di un controllo-repressione, ma di un controllo-stimolo: dai prodotti abbronzanti, dimagranti ed estetici in generale, alla pornografia. Si tratta, lo si vede chiaramente, di una resistenza che produce di volta in volta nuove situazioni, nuovi comportamenti e risposte, nonostante il termine abbia un’accezione passiva, di stasi piuttosto che di movimento. Questo significato di passività lo ritroviamo, realmente connotato al negativo, nel concetto di inerzia che Galimberti, sulla scorta di Jean Baudrillard, individua come ormai l’unica difesa che oggi il corpo può attuare, tanto è sovraccarico di iscrizioni di ogni genere (71). Baudrillard sembra dire che i corpi sono ormai talmente inscritti, talmente sovraccarichi di segni e impronte che gli si sono accumulati addosso e al suo interno, che hanno raggiunto un livello di saturazione, di cortocircuito, di impossibilità a ricevere e rimandare ancora delle risposte, siano esse di soggettivazione al potere o di resistenza a questo stesso potere, poco importa. L’unica possibilità è allora quella di assorbire tutto nell’inerzia totale, senza rilanciare alcuna risposta. Questa prospettiva elaborata da Baudrillard si inscrive nell’orizzonte della perdita, dell’implosione (72), della sfida simbolica, della simulazione (73). Non è più possibile, nell’universo della simulazione totale, una resistenza che si ponga come produttiva, come generativa di ulteriori significati - come ad esempio quelli del desiderio e del piacere, citati da Foucault nell’esempio qui sopra. Qui si colloca la principale critica che Baudrillard muove a Foucault: il suo è un potere che produce sempre, è pura espansione, non ha mai alcuno spazio esterno, alcun luogo dove si annulli o raggiunga il cortocircuito e dunque la reversibilità, la morte. E’ un’istanza totalizzante, irreversibile, che non si autodistrugge mai; anzi, è talmente diffuso e micromolecolare che finisce per confondersi con le resistenze, in un processo cumulativo dove non c’è mai perdita: Ora questo "potere" resta un mistero: partito dalla centralità dispotica, diventa a metà strada "molteplicità di rapporti di forze" (...) per giungere, al termine estremo, su delle resistenze (...) talmente infinitesimali, talmente tenui che, letteralmente, a questa scala microscopica gli atomi del potere e gli atomi di resistenza si confondono. Lo stesso frammento di gesto, di corpo, di sguardo, di discorso rinchiude l’elettricità positiva del potere e l’elettricità negativa della resistenza (74). La grande macchina del potere che Foucault descrive in maniera così ben articolata è oramai superata - ci dice Baudrillard - e il fatto stesso che egli la sveli, il fatto stesso che ce la faccia apparire in tutta la sua trasparenza, dimostra che si è ormai esaurita (75); ciò è il segno che la sostanza del potere, dopo la sua espansione senza tregua da molti secoli, sta implodendo brutalmente (76). Nulla - dice Baudrillard - è irreversibile; tutto divora via via se stesso e, prima di esaurirsi definitivamente, si ripete in un gioco di simulacri e tutto allora oscilla lontano dietro l’orizzonte della verità (77).
5. Sesso e sessualità Il modello disciplinare che prende come proprio oggetto privilegiato di manipolazione il corpo, si sviluppa in concomitanza ad un processo più ampio, che vede trasformarsi a poco a poco la forma in cui si esercita il potere politico e la nascita di nuovi soggetti storici. Il principale di questi soggetti è quello della popolazione: durante il XVIII secolo emerge un nuovo interesse, da parte delle istituzioni politiche che ruotano intorno allo Stato - gli Stati nazionali, che nascono a partire dal XVI-XVII secolo, sono in questo periodo pienamente consolidati -, interesse via via crescente per la specie e la popolazione che diventano l’oggetto di un’azione politica sempre più massiccia. Inizialmente l’interesse politico è quello di accrescere la forza dello Stato, la forza fisica nazionale, la potenza militare, per garantirsi un ruolo politico di primo piano nello scacchiere dell’Europa moderna. In un secondo momento, contemporaneamente alla crescita dell’industrializzazione nella sua forma capitalistica, l’obiettivo primario diventa quello di produrre una forza lavoro in grado si sostenere e di aumentare il processo produttivo ed economico: il capitalismo che si sviluppa alla fine del XVIII secolo e all’inizio del XIX, ha innanzi tutto socializzato un primo oggetto, il corpo, in funzione della forza produttiva, della forza lavoro. Il controllo della società sugli individui non si effettua solo attraverso la coscienza o l’ideologia, ma anche nel corpo e con il corpo. Per la società capitalistica è il bio-politico a essere importante prima di tutto, il biologico, il somatico, il corporale (78). Il controllo, la gestione e la pianificazione della popolazione - vediamo ancora una volta il duplice livello di investimento politico: il macrocorpo collettivo della popolazione e il microcorpo individuale - implicano tutto un interesse per la vita e per il corpo - Foucault la definisce bio-politica - che si esprime a livello di pratiche di gestione e, funzionali ad esse, campi di osservazione, registrazione, campi conoscitivi (le scienze che prendono come loro oggetto l’Uomo e tutti gli aspetti della sua esistenza (79)). Ci si occupa così dei fenomeni demografici: le oscillazioni relative ai tassi di nascita, di mortalità, di fecondità; dei processi biologici e della salute pubblica: emerge il concetto di igiene e prende forma un processo di medicalizzazione che si estende a tutto il corpo sociale, come istanza di controllo globale e capillare insieme. L’obiettivo politico della salute della popolazione vede crescere l’interesse per il livello di salute e di malattia, la longevità, le condizioni igieniche, alimentari, il vestiario, la sessualità, l’habitat, ecc.; tutta la rete delle condizioni e delle variabili fisiche e comportamentali degli individui. Nascono i saperi: la scienza medica, la criminologia, l’urbanistica, la sociologia, le scienze statistiche e demografiche, la psicoanalisi, lo studio dell’ambiente, del clima, delle ricchezze, ecc. Un massiccio meccanismo, fatto di pratiche multiformi, mette in atto un adattamento dei fenomeni della popolazione ai processi politici ed economici, attraverso l’investimento del corpo vivente, la sua valorizzazione e la gestione strategica delle sue forze. Di qui, un’attenzione particolare al sesso, ai comportamenti sessuali normali e soprattutto devianti, alla verità che dietro di esso si nasconde: Su questo sfondo, si può capire l’importanza assunta dal sesso come oggetto di scontro politico: esso è l’elemento di connessione di due assi lungo i quali si è sviluppata tutta la tecnologia politica della vita. Da un lato partecipa alle discipline del corpo: dressage, intensificazione e distribuzione delle forze, adattamento ed economia delle energie. Dall’altro, partecipa alla regolazione delle popolazioni attraverso tutti gli effetti globali che induce. S’inserisce simultaneamente sui due registri. (...) Il sesso è contemporaneamente accesso alla vita del corpo ed alla vita della specie. (...) E’ per questo che , nel XIX secolo, la sessualità è inseguita fin nei minimi particolari delle esistenze; è braccata nei comportamenti, le si dà la caccia nei sogni, la si sospetta dietro le più piccole follie, la s’insegue fin nei primi anni dell’infanzia; diventa la cifra dell’individualità (80). Si è sempre pensato alla modernità - e il XIX secolo in particolare - come l’epoca che ha represso la sessualità - e con essa il corpo, il desiderio, il piacere, l’istinto -, che l’ha interdetta e offuscata attraverso la morale borghese, il puritanesimo, ecc.; Freud avrebbe poi liberato questa sessualità per lungo tempo soffocata e negata, l’avrebbe illuminata nel suo vero essere, regalandoci la chiave di lettura della nostra identità, del nostro vero io sepolto nelle sue profondità latenti. In realtà - dice Foucault - questa visione non fa altro che riprodurre un ordine del discorso del tutto funzionale ad un certo dispositivo di potere. A partire dal XVII secolo infatti, si assiste, non ad una rarefazione del discorso sulla sessualità ma ad una esplosione discorsiva multiforme e disseminata in svariati campi del sapere. Tutto un esercito di tecnici si mette in moto e nomina, scruta, indaga i più piccoli aspetti che circuitano attorno al sesso; interroga, ascolta ed induce ad ascoltare tutti i dettagli della propria intimità. La confessione (81) e l’introspezione rinnovano quella tendenza alla trasparenza, allo sguardo perennemente puntato sul proprio oggetto, che avevamo trovato emblematicamente rappresentato nell’architettura panoptica. Un nuovo campo di ‘oggetti’ emerge alla visibilità e dicibilità, diventa l’oggetto di un crescente investimento di senso, di potere e di sapere. Il corpo, luogo privilegiato e ambiguo di questa sessualità, è ancora una volta preso di mira nella sua materialità: i suoi processi fisiologici, le sue sensazioni, le sue funzioni, i suoi piaceri. Il sesso si costituisce come problema complesso, non solo come una questione di piaceri, di sensazioni o di divieti, ma come un problema oltre che di normalità e di anormalità, di vero e di falso: il sesso, la messa a nudo della nostra sessualità, diventa lo strumento per scoprire la verità su noi stessi, per decifrare il segreto della nostra identità. Attraverso qualcosa chiamato sessualità, una sessualità profonda, onnipresente e carica di senso, che pervade tutti gli aspetti più essenziali dell’individuo, si costituisce la verità del soggetto, o meglio, si produce un soggetto. Dentro questo soggetto sessuale sarebbe riposta la complicata trama della sua verità, il segreto oscuro e incontrollabile di una sessualità che si cela nelle pieghe più riposte ed invisibili dell’individuo, nel suo corpo e nella sua ‘anima’. Una verità che va strappata a forza, attraverso la confessione permanente ed infinitesimale, e decifrata con l’ausilio di una vera e propria ermeneutica che si dà come scientifica. Sesso e sessualità sono per Foucault due ‘oggetti’ distinti e diversificati: entrambi non devono essere considerati come un dato naturale, un referente biologico che il potere tenderebbe a domare e il sapere a svelare. Al contrario, la sessualità si configura come un dispositivo storico che si concentra sul corpo, sui piaceri, le sensazioni, ecc., e produce determinati effetti e comportamenti. E’ una grande trama che lega insieme stimolazione dei corpi, intensificazione dei piaceri, ma anche proliferazione dei discorsi, formazione delle conoscenze, rafforzamento dei controlli e delle resistenze. Il sesso è invece un prodotto del dispositivo di sessualità, il suo elemento più speculativo e ideale: la nozione di "sesso" ha permesso di raggruppare in un’unità artificiale elementi anatomici, funzioni biologiche, comportamenti, sensazioni, piaceri, ed ha permesso di far funzionare quest’unità fittizia come principio causale, senso onnipresente, segreto da scoprire ovunque. (...) Creando quest’elemento immaginario che è "il sesso", il dispositivo di sessualità ha suscitato uno dei suoi principi interni di funzionamento più essenziali: il desiderio del sesso - desiderio di averlo, desiderio di accedervi, di scoprirlo, di liberarlo, di articolarlo in discorso, di formularlo in verità. Esso ha costituito "il sesso" come desiderabile. E questa desiderabilità del sesso fissa ciascuno di noi all’ingiunzione di conoscerlo, di portarne alla luce la legge ed il potere; questa desiderabilità ci fa credere che affermiamo contro ogni potere i diritti del nostro sesso, mentre nei fatti ci lega al dispositivo di sessualità (82). Il sesso - e dunque il corpo sessuale, o meglio, sessualizzato - permea e moltiplica i discorsi; un imperativo spinge a trasformare ogni gesto, ogni desiderio, ogni pensiero in discorso da decifrare. Il sesso e il corpo vengono continuamente prodotti e riprodotti, amplificati ed investiti di un senso profondo; vengono costituiti e strutturati all’interno di una scala di normalizzazione e patologizzazione: la Norma definisce il tipo normale e contemporaneamente traccia, a partire da quello scarto, le varie tipologie devianti, l’uno e le altre caricate di un indispensabile attributo di ‘natura’. Appare così un nuovo campo di ‘oggetti’ che sono le perversioni, le sessualità patologiche e devianti. Dapprima il campo della sessualità era legato al problema religioso della ‘carne’, del peccato e della morale; la sua formulazione in discorso si limitava a questo circuito circoscritto. Successivamente, verso la fine del XVIII secolo, il sesso è entrato a far parte di una nuova tecnologia che, senza sganciarlo completamente dalle tematiche del peccato e della ‘carne’, lo ha gradualmente spostato verso i problemi della popolazione (83) e ne ha fatto un affare di Stato. All’inizio del XIX secolo il sesso è entrato a far parte del campo medico: la tecnologia del sesso si organizzerà a partire da questo momento essenzialmente intorno all’istituzione medica, all’esigenza di normalità. ed al problema vita e della malattia piuttosto che intorno alla questione della morte e della punizione. La "carne" è ridotta all’organismo (84). Foucault prosegue in questo affascinante percorso genealogico, individuando, in un momento successivo, la separazione tra una medicina specifica del sesso ed una del corpo-organismo. Questo ulteriore spostamento avviene principalmente attraverso l’isolamento di un ‘istinto’ - quello che verrà assunto come l’‘istinto sessuale’ - in grado di presentare anomalie costitutive o deviazioni acquisite anche senza alterazioni organiche. Si apre dunque il campo delle patologie sessuali che la psichiatria medica si annette come proprio specifico territorio. Questo nuovo spazio discorsivo - ma fatto anche di innumerevoli pratiche - si connette ad un fenomeno che Foucault chiama incorporazione delle perversioni, tale per cui le devianze sessuali divengono costitutive dell’individuo, tanto da produrre un nuovo soggetto, il soggetto deviante, il ‘tipo sociale’ (85). Foucault ne fornisce un esempio: La sodomia - quella degli antichi diritti civile o canonico - era un tipo particolare di atti vietati; il loro autore ne era soltanto il soggetto giuridico. L’omosessuale del XIX secolo, invece, è diventato un personaggio: un passato, una storia, ed un’infanzia, un carattere, una forma di vita; una morfologia anche, con un’anatomia indiscreta e forse una fisiologia misteriosa. Nulla di quel ch’egli è complessivamente sfugge alla sua sessualità. Essa è presente in lui dappertutto: soggiacente a tutti i suoi comportamenti poiché ne è il principio insidioso ed indefinitamente attivo; iscritta senza pudore sul suo volto e sul suo corpo. (...) Il sodomita era un recidivo, l’omosessuale ormai è una specie (86). Queste innumerevoli sessualità aberranti - la lista è svariata e piuttosto fantasiosa: ci sono gli esibizionisti, i feticisti, gli zoofili, gli automonosessualisti, le donne dispareuniste, e via dicendo - vengono fatte entrare nei corpi, nei comportamenti, nel carattere; vengono disseminate, fissate e incorporate nell’individuo: Questi comportamenti polimorfi sono stati realmente estratti dal corpo degli uomini e dai loro piaceri; o piuttosto sono stati solidificati in essi; con vari dispositivi di potere sono stati suscitati, portati alla luce, isolati, intensificati, incorporati. L’aumento delle perversioni non è un tema di moralizzazione che avrebbe ossessionato le menti scrupolose dei vittoriani. E’ il prodotto reale dell’interferenza di un tipo di potere sui corpi ed i loro piaceri (87). I discorsi sul sesso si accumulano, vengono estratti e allo stesso tempo solidificati nei corpi e negli individui; moltiplicano le sessualità insolite e ne prolungano le forme, sovrapponendole ad altre tipologie degeneri, per esempio quella del malato mentale o del criminale. Questi soggetti devianti vengono fatti circolare in un circuito che li accomuna tutti, pur classificandoli; essi diventano l’oggetto di investigazione - molto più dei ‘tipi normali’ -, di una medicalizzazione massiccia, di uno studio dettagliatissimo e di un intervento concreto di coercizione. Tutto un universo di piccole realtà quotidiane, da sempre rimaste nell’ombra ed indisturbate, diventano frammenti carichi di interesse, cellule da illuminare e da sviscerare. Foucault riporta un altro esempio tratto da un documento giudiziario risalente alla seconda metà del XVIII secolo; si tratta di una denuncia rivolta ad un bracciante di un villaggio francese, che avrebbe ottenuto da una bambina qualche carezza: Egli viene dunque segnalato dai genitori della bambina al sindaco del villaggio, denunciato dal sindaco ai gendarmi, condotto dai gendarmi dinanzi al giudice, incolpato da questi e fatto visitare da un primo medico (...). L’importante di questa storia è il suo carattere minuscolo; è che questa realtà quotidiana della sessualità di villaggio, questi infimi piaceri rubati dietro un cespuglio siano potuti diventare, da un certo momento in poi, oggetto (...) di un’azione giudiziaria, di un intervento medico, di un esame clinico attento, e di tutta un’elaborazione teorica. L’importante è che di questo personaggio (...) si sia cominciato a misurare la scatola cranica, a studiare l’ossatura della faccia, ad ispezionare l’anatomia per rilevarvi i segni possibili di degenerescenza; che lo si sia fatto parlare; che lo si sia interrogato sui suoi pensieri, inclinazioni, abitudini, sensazioni opinioni (88). Oggetto di medicina prima ancora che oggetto giuridico, questo caso rappresenta bene come un unico movimento agisce tracciando un taglio che esclude - la Norma e la sua controparte di anormalità -, e allo stesso tempo riassorbe ciò che viene escluso e lo riutilizza strategicamente. Siamo sempre all’interno di un campo di forze in cui si gioca - nietzschianamente - la lotta tra le relazioni di potere e gli ostacoli che si frappongono loro. E’ un percorso genealogico fatto di continui spostamenti, ricicli, inversioni di tendenza, ‘emergenze’ improvvise o ‘provenienze’ antiche, dissimulazioni strategiche, utilizzo diversificato dei corpi, ‘effetti di verità’ e produzione di nuovi ‘oggetti’. Tutto un movimento complesso e multiforme che ha per supporto sempre dei corpi plasmabili, docili e resistenti insieme; vediamone un ulteriore aspetto. Inizialmente la problematizzazione della sessualità prende corpo in seno alla classe borghese: è qui che per la prima volta si è problematizzata la sessualità dei bambini, è qui che è apparsa la donna ‘isterica’ o ‘nervosa’, col suo corpo così saturo di sessualità e dalla quale ha poi preso avvio la psicanalisi freudiana; è la borghesia che ha cominciato a considerare il proprio sesso come una cosa importante, un fragile tesoro, un segreto la cui conoscenza era indispensabile (89). Questa incarnazione del sesso in un corpo valorizzato come corpo sano, questa autosessualizzazione diventa per l’universo borghese un elemento di distinzione sociale dalla nobiltà e dalla sua "simbolica del sangue" (90) da una parte, e uno strumento per affermare la sua supremazia socio-economica sulle classi popolari, dall’altra. Poi, nel corso del XIX secolo, le classi popolari in crescita coinvolte nel processo di industrializzazione come forza lavoro indispensabile per la ricchezza, diventano oggetto di attenzione e preoccupazione: si tratta di gestire al meglio questa parte di popolazione e per far questo si estende loro la medicalizzazione e il problema della sessualità sana, del corpo in buona salute, dell’igiene, ecc. Tutto questo - lo abbiamo visto - garantisce un controllo cellulare della popolazione. Anche il corpo dell’operaio, i suoi desideri, i suoi istinti, il suo organismo e le sue condizioni di vita escono dall’ombra e vengono sottoposte allo sguardo che illumina, studia, interpreta, corregge. Si è avuta, dunque, nel corso del XIX secolo una generalizzazione del dispositivo di sessualità a partire da un centro egemonico. Al limite, potremmo dire che l’intero corpo sociale è stato dotato di un "corpo sessuale", sebbene in modi e con strumenti diversi. Universalità della sessualità? E’ qui che vediamo introdursi un nuovo elemento di differenziazione. Un po’ come la borghesia aveva, alla fine del XVIII secolo, opposto al sangue valoroso dei nobili il proprio corpo e la sua preziosa sessualità, così, alla fine del XIX secolo, cercherà di ridefinire la specificità della sua di fronte a quella degli altri, riprenderà in modo differenziale la propria sessualità, traccerà una linea di divisione che singolarizza e protegge il suo corpo. Questa linea non sarà più quella che instaura la sessualità, ma al contrario una linea che la blocca; è il divieto che farà la differenza. (...) La psicanalisi viene ad inserirsi a questo punto (91). La psicanalisi diventa anch’essa un prodotto e un prolungamento delle relazioni di potere che, per essere meglio accettate, per proliferare, hanno bisogno di celarsi, in questo caso sotto la maschera della repressione. L’interpretazione freudiana della storia della sessualità si basa infatti su una distinzione dualistica tra Natura e Cultura: in condizioni naturali l’uomo sarebbe vissuto secondo gli impulsi primordiali dettati dal principio del piacere, sulla base quindi dell’impulso individualistico alla soddisfazione. La civiltà e il suo impianto sociale avrebbero portato necessariamente alla repressione di una gran parte di queste pulsioni individuali, incompatibili con la vita regolata dei gruppi. Il disagio della civiltà deriverebbe proprio da questa rinuncia pulsionale, da questa rimozione e repressione, in cui la sessualità si configura appunto come una modalità essenziale del nostro essere, un contenuto primordiale e naturale. Il potere - politico, morale, ecc. - secondo questa impostazione, agirebbe semplicemente come interdizione, per sottrazione, secondo la forma della repressione. Su questo filone si colloca tutta la corrente freudo-marxiana che comprende anche Lacan, Reich, Marcuse, Adorno e Horkheimer, la scuola di Francoforte. Il presupposto teorico di queste correnti di pensiero è quella che Foucault chiama l’interpretazione giuridica del potere, contro la quale egli fa valere l’interpretazione nietzschiana di un potere creatore di forme - sia quelle del dominato che quelle del dominatore -, un potere che produce incessantemente, annullando i confini dell’opposizione dialettica tra Natura e Cultura. Foucault ha mostrato che anche la ‘rivoluzione sessuale’, presentata come istanza liberatoria del corpo, del desiderio e di una sessualità pura, naturalmente libera e a-prioristica, sia un effetto di quello stesso dispositivo di sessualità che viene identificato con l’istanza del divieto e della repressione (92), col potere della società capitalistica. Il dispositivo di sessualità solo esteriormente reprime e vieta, in realtà ha sempre funzionato come un amplificatore dell’attenzione al sesso e al corpo; lungi dall’occultarli e mantenerli nel segreto, lungi dal negare il corpo e le sue forze, esso le utilizza, le moltiplica e le perfeziona, vi penetra, le incita e le plasma, non blocca, ma prolunga. I campi di forze che costituiscono le relazioni di potere inevitabilmente producono anche delle resistenze: è così che si è verificata anche una sensualizzazione del corpo, una stimolazione dei piaceri, un’attenzione e una coscienza del corpo e del sesso che è sfociata proprio nella ‘rivoluzione sessuale’. La tesi di Reich secondo cui la repressione sessuale sarebbe stata sistematicamente messa in atto dal capitalismo, per trasformare il corpo umano in forza lavoro, non convince del tutto Foucault. Egli ha mostrato infatti come il controllo della sessualità, sotto la forma del divieto, sia stata estesa alla classe operaia solo in un secondo momento, e sia invece emersa originariamente in seno alla borghesia. Un esempio è dato dall’attenzione alla condotta dei bambini - da notare che questi soggetti non costituivano affatto la ‘materia’ della forza lavoro -; questo nuovo interesse si è manifestato in una vasta campagna contro la masturbazione, che ha dato il via alla creazione di una nuova figura della sessualità: la sessualità infantile da pedagogizzare (93). Concludiamo con le parole di Foucault: La storia del dispositivo di sessualità, come si è sviluppato a partire dall’età classica, può valere come archeologia della psicanalisi. (...) Intorno ad essa la grande esigenza della confessione che si era formata da tanto tempo prende il senso nuovo di un’ingiunzione di eliminare la rimozione. (...) Proprio questo apriva la possibilità di un importante spostamento tattico: interpretare di nuovo tutto il dispositivo di sessualità in termini di repressione generalizzata; collegare questa repressione a meccanismi generali di dominazione e di sfruttamento, (...). Così si è formata tra le due guerre mondiali ed intorno a Reich la critica storico-politica della repressione sessuale. Il valore di questa critica e dei suoi effetti nella realtà è stato considerevole. Ma la possibilità stessa del suo successo era legata al fatto che si dispiegava sempre all’interno del dispositivo di sessualità, e non al di fuori o contro di esso (94). Note 1 Nietzsche, la généalogie, l’histoire (trad. it. Nietzsche, la genealogia, la storia, in M. Foucault, Microfisica del potere, Einaudi, Torino 1967), pp. 36-37. 2 A dire il vero, l’attenzione alle pratiche non-discorsive aveva avuto un ruolo fondamentale anche nei precedenti lavori di Foucault, come per esempio la Storia della follia o in Nascita della clinica, dove questi due livelli si affiancano. Tuttavia, durante gli anni Sessanta, la vicinanza con lo strutturalismo aveva portato Foucault a considerare prioritarie le pratiche discorsive rispetto a tutte le altre pratiche sociali che da queste sarebbero state prodotte.3 Cfr. Lo sguardo che scruta oltre l'immediatamente visibile. Il corpo nella storia della medicina4 E’ lo stesso Foucault a scrivere: "La storia "effettiva" si distingue da quella degli storici per il fatto che non si fonda su nessuna costante: nulla nell’uomo - nemmeno il suo corpo - è abbastanza saldo per comprendere gli altri uomini e riconoscersi in essi." (Nietzsche, la genealogia, la storia, cit., p. 43).5 F. Nietzsche, La gaia scienza, 11.6 F. Nietzsche, Frammenti postumi 1881-1882, 11 [46].7 Cfr. Gianni Vattimo, Introduzione a Nietzsche, op. cit., pp. 103-104.8 Nietzsche, la genealogia, la storia, cit., pp. 42-43.9 Ib., p. 35.10 Vedi per esempio M. Foucault, Perché studiare il potere: la questione del soggetto, in Dreyfus-Rabinow, La ricerca di M. Foucault, op. cit., pp. 242-244.11 Vedi per esempio M. Foucault, Nascita della medicina sociale, in Archivio Foucault II, op. cit., pp. 227-235. Oppure Sorvegliare e punire, cit., pp. 213-218.12 Cfr. M. Foucault, Eterotopia, op. cit., pp. 9-20.13 Pierre Dalla Vigna, L’elemento sfuggente, in Poteri e Strategie, op. cit., p. 9.14 G. Bataille, Critica dell’occhio, Rimini, Guaraldi 1972, pp. 155-174.15 Surveiller et punir. Naissance de la prisons, Gallimard, Paris 1975 (trad. it. Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1993), p. 46.16 A proposito della figure del Re come detentore di un doppio corpo, vedi Ernst H. Kantorowicz, The King’s Two Bodies (1957), trad. it. I due corpi del Re, Einaudi, Torino 1989, opera citata dallo stesso Foucault in Sorvegliare e punire, cit., p. 32. Il lavoro di Kantorowicz prende le mosse dalla teoria dei due Corpi del Re, quale compare nell’elaborazione di un giurista elisabettiano, durante il XVI secolo, ma maturata dal pensiero teologico cristiano e passata poi, quasi genealogicamente, attraverso diverse epoche storiche, assumendo di volta in volta connotazioni e utilizzi diversi. Secondo l’interpretazione che si disegna a partire dal XVI secolo, il sovrano disporrebbe di due corpi distinti: il suo naturale corpo fisico, sottoposto all’azione del tempo e alla morte, e un corpo politico imperituro che, passando da un successore all’altro senza mai soccombere, porta con sé la continuità del Regno e della Corona.17 Sorvegliare e punire, cit., p. 32, idem per le espressioni meno di potere e corpo minimo del condannato.18 Siamo in prossimità di quella svolta che ha inizio con la fine dell’età classica e che, in Les mots et les choses, Foucault descrive come momento di passaggio dall’episteme classica a quella moderna.19 Sorvegliare e punire, cit., p. 11.20 Ib, pp. 14-16.21 Per quanto riguarda i progetti dei "riformatori" dell’epoca dei Lumi (Mably, Beccaria, Target, ecc.) vedi Sorvegliare e punire, cit., soprattutto i capitoli I e II della parte seconda, pp. 79-144.22 "Non toccare più il corpo, o comunque il meno possibile, e sempre per raggiungervi qualcosa che non è il corpo medesimo. Si dirà: la prigione, la reclusione, i lavori forzati, il bagno penale, l’interdizione di soggiorno, la deportazione - che hanno occupato un posto così importante nei sistemi penitenziari moderni - sono sempre pene fisiche: a differenza dell’ammenda, essi incidono, e direttamente, sul corpo. Ma il rapporto castigo-corpo non è identico a quello che era nei supplizi. Il corpo qui si trova in posizione di strumento o di intermediario; se si interviene su di esso rinchiudendolo o facendolo lavorare, è per privare l’individuo di una libertà considerata un diritto e insieme un bene. (...) La sofferenza fisica, il dolore del corpo, non sono più elementi costitutivi della pena. Il castigo è passato da un’arte di sensazioni insopportabili a una economia di diritti sospesi." (Sorvegliare e punire, cit., p. 13).23 Questo aspetto confluirà nel modello poi prevalente della detenzione carceraria, così come, ad esempio, la presa individualizzante sul singolo affiancata allo stesso tempo da una gestione globale della popolazione. L’istituzione carceraria che prenderà il sopravvento, mentre recupera alcuni principi proposti dai Riformatori, ne rovescia e contraddice molti altri, per esempio nell’utilizzo della rappresentazione pubblicizzata del castigo come segno, strumento di diffusione di un preciso codice rivolto continuamente ad un pubblico.24 Il corpo funziona "come un oggetto di rappresentazione. Lo strumento con cui si agisce sulle rappresentazioni? Altre rappresentazioni, o piuttosto accoppiamenti di idee (delitto-punizione, vantaggio immaginato del crimine-svantaggio percepito dei castighi). Questi accoppiamenti non possono funzionare che nell’elemento della pubblicità: scene punitive che li stabiliscano o li rinforzino agli occhi di tutti, discorsi che li facciano circolare e valorizzino in ogni istante il gioco dei segni (...) riattivare con ciò il sistema significante del codice" (Sorvegliare e punire, cit., p. 140).25 Ib., p. 141.26 Vedi il tema della nascita dell’Uomo moderno e dell’Umanesimo in Le mots et les choses: une archèologie des sciences humaines, Gallimard, Paris 1966 (trad. it. Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1994)..27 Sorvegliare e punire, cit.,, pp. 32-33.28 Si tratta della nozione giuridica del potere, che riduce il potere alla legge dell’interdizione.29 M. Foucault, La verità e le forme giuridiche, in Archivio Foucault, op. cit., p. 159.30 Sorvegliare e punire, cit., p. 150.31 Cfr. Lo sguardo che scruta oltre l'immediatamente visibile. Il corpo nella storia della medicina.32 Ne parleremo più approfonditamente nel quarto paragrafo.33 A questo proposito, vedi l’esempio al paragrafo quinto.34 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, op. cit., p. 69.35 Il nome deriva dal modello di struttura carceraria ideale progettata da Jeremy Bentham, di cui Foucault parla particolareggiatamente in Sorvegliare e punire, cit., soprattutto pp. 213-247.Il panopticon "è un edificio a forma di anello, al centro del quale c’è un cortile, con una torre al centro. L’anello si divide in piccole celle che si affacciano tanto all’interno che all’esterno. In ognuna di queste piccole celle c’è, secondo lo scopo dell’istituzione, un bambino che impara a scrivere, un operaio che lavora, un detenuto che espia, un folle in preda alla sua follia. Nella torre centrale c’è un sorvegliante. Dato che ogni cella dà tanto sull’interno che sull’esterno, lo sguardo del sorvegliante può attraversarla tutta; non c’è alcun punto in ombra, e di conseguenza tutto quello che fa l’individuo è esposto allo sguardo di un sorvegliante che osserva attraverso le persiane, con le imposte socchiuse, in modo da poter vedere tutto senza che nessuno lo veda. (...) Il panopticon è l’utopia di una società e di un tipo di potere che è in fondo la società e il tipo di potere che conosciamo oggi." (M. Foucault, La verità e le forme giuridiche, in Archivio Foucault 2, op. cit., pp. 136-137. 36 "E’ a condizione di mascherare una parte importante di se stesso che il potere [moderno] è tollerabile. La sua riuscita è proporzionale a ciò che esso riesce a nascondere dei suoi meccanismi. (...) Il potere come puro limite tracciato alla libertà è, almeno nella nostra società, la condizione generale della sua accettabilità." (M. Foucault, La volontà di sapere, op. cit., p. 77). 37 E qui avvertiamo un’istanza polemica di Foucault soprattutto nei confronti delle dottrine marxiste. 38 Giovanna Procacci, Il governo del sociale, in Effetto Foucault, op. cit., p. 185.39 Sorvegliare e punire, cit., pp. 210-211.40 Cfr. Intervista a M. Foucault, in Microfisica del potere, op. cit., p. 18.41 Sorvegliare e punire, cit., p. 219.42 Cfr. Sorvegliare e punire, cit., p. 195.43 A proposito del rapporto tra visibile e dicibile in Foucault, vedi Gilles Deleuze, Foucault, op. cit., pp. 55-74.44 M. Foucault, La verità e le forme giuridiche, in Archivio Foucault II, op. cit., p. 160.45 "L’uomo conoscibile (anima, individualità, coscienza, condotta, poco importa qui) è l’effetto-oggetto di questo investimento analitico, di questa dominazione-osservazione." (Sorvegliare e punire, cit., p. 337).46 Ib., p. 209.47 M. Foucault, La verità e le forme giuridiche, in Archivio Foucault 2, op. cit., p. 112.48 V. Cotesta, Linguaggio, potere, individuo, op. cit., pp. 173-174.49 M. Foucault, La verità e le forme giuridiche, in Archivio Foucault 2, op. cit., p. 161.50 Sorvegliare e punire, cit., pp. 201-201.51 Cfr. Il normale e il patologico, op. cit., p. 204.52 Ib., p. 205.53 Le parole e le cose, cit., p. 365.54 Per esempio: "Nella nostra epoca tutte queste istituzioni - fabbrica, scuola, ospedale psichiatrico, ospedale, prigione - non hanno la finalità di escludere, ma piuttosto quella di fissare gli individui. La fabbrica non esclude gli individui, li lega a un apparato di produzione . La scuola non esclude gli individui, anche se li rinchiude, li lega a un apparato di trasmissione del sapere. L’ospedale psichiatrico non esclude gli individui, li vincola a un apparato di correzione e normalizzazione. E lo stesso accade con la casa di correzione e con la prigione. Sebbene gli effetti di queste istituzioni siano l’esclusione dell’individuo, esse hanno come principale finalità quella di fissare gli individui a un apparato di normalizzazione degli uomini" (La verità e le forme giuridiche, in Archivio Foucault 2, op. cit., p. 155).55 G. Canguilhem, Il normale e il patologico, op. cit., p. 204.56 Ib., pp. 203-204.57 M. Foucault, Perché studiare il potere: la questione del soggetto, in Dreyfus-Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, op. cit., p. 239.58 Durkheim evidenzia ripetutamente l’importanza dell’ordine sociale, la necessità di far prevalere le ragioni della ‘coscienza collettiva’ sulle istanze individualistiche. E’ necessaria una costrizione e una identificazione alle norme che la società stabilisce; il venir meno di una generale struttura normativa, regolatrice ed equilibratrice (anomia), produrrebbe infatti inevitabilmente la disgregazione della società.59 Ogni società ha un suo proprio schema conoscitivo e normativo, valido per sé e non necessariamente per altre società: "Un fatto sociale è normale per un tipo sociale determinato, considerato in una fase determinata del suo sviluppo, quando esso si presenta nella media delle società di quella specie, considerate nella fase corrispondente della loro evoluzione" (E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico (1895), Comunità Ed., Milano 1979, p. 71).60 Diversamente per le società primitive, dove si verifica la tendenza contraria: qui la coesione sociale e l’identificazione del singolo con la ‘coscienza collettiva’ sono tali per cui prevale il cosiddetto ‘suicidio altruistico’, che, lungi dall’essere un fenomeno di devianza è al contrario un conformarsi all’imperativo morale del gruppo: l’individuo si annulla come singolo e tende ad uccidersi col venir meno della propria funzione sociale. Vedi E. Durkheim, Il suicidio, cit., pp. 266-292.61 Ib., pp. 428-429.62 Ib., pp. 432 e 436.63 Con tutte le dovute distinzioni, si pensi al rapporto che delinea Foucault tra potere e individuo, e alla ‘coscienza collettiva’ di Durkheim, concepita come una realtà sui generis e dotata di una sorta di natura psichica.64 Si veda l’interpretazione che ne dà Deleuze, molto diversa da quella, per esempio, di Heidegger. Vedi G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, op. cit.65 Dreyfus-Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, op. cit., p. 172.66 Ibid., p. 222.67 M. Foucault, Poteri e strategie, op. cit., p. 21.68 A titolo di esempio: "Nell’esercizio che gli viene imposto e al quale resiste, il corpo disegna le sue correlazioni essenziali e respinge spontaneamente l’incompatibile" (Sorvegliare e punire, cit., p. 169). Oppure: "Richiesto di essere docile fin nelle sue minime operazioni, il corpo si oppone e mostra le condizioni di funzionamento proprie ad un organismo. Il potere disciplinare ha come correlativo una individualità non solo analitica e "cellulare", ma anche naturale e "organica"" (Ib., p. 170).69 Dreyfus-Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, op. cit., pp. 136-137.70 M. Foucault, Potere-corpo, in Microfisica del potere, op. cit., p. 138.71 U. Galimberti, Il corpo, op. cit., p. 234.72 A proposito del concetto di ‘implosione’ contrapposto, o meglio, proposto come alternative a quello di rivoluzione, esplosione produttiva e generatrice, vedi soprattutto J. Baudrillard, Dimenticare Foucault, op. cit.73 Per quanto riguarda il concetto di ‘simulazione’, vedi soprattutto J. Baudrillard, La trasparenza del male e Il delitto perfetto, op. cit.74 J. Baudrillard, Dimenticare Foucault, op. cit., p. 87.75 "Quando si parla tanto del potere, vuol dire che questo non c’è più. Così per Dio: la fase in cui Egli era ovunque ha preceduto di poco quella della sua morte. (...) Così per il potere: proprio perché è defunto, fantasma, fantoccio (...), proprio per questo se ne parla tanto e così bene: la finezza e la puntigliosità dell’analisi sono esse stesse un effetto di nostalgia." (J. Baudrillard, Dimenticare Foucault, p. 104).76 Ib. p. 97.77 Ib. p. 97.78 M. Foucault, Nascita della medicina sociale, in Archivio Foucault 2, op. cit., p. 222.79 Cfr. Lo sguardo che scruta oltre l'immediatamente visibile. Il corpo nella storia della medicina, paragrafo quarto.80 La volonté de savoir, Gallimard, Paris 1976 (trad. it. La volontà di sapere, Feltrinelli,Milano1996), p. 129.81 Foucault ricorda spesso come la confessione sia una strategia utilizzata per la prima volta a pieno nel Medioevo cristiano, poi si sia sganciata a poco a poco dalla sfera prettamente religiosa e sia stata riutilizzata - con diversi spostamenti di contenuto e di forma - dalle discipline moderne come tecnologia del potere-sapere. Vedi ad esempio La volontà di sapere, cit., pp. 54-55.82 Ib, pp. 137 e 139.83 Vedi l’inizio di questo paragrafo.84 La volontà di sapere, cit., p. 104.85 Si tratta di quello stesso processo che avevamo riscontrato a proposito del criminale, il quale viene prodotto e classificato sulla base delle sue potenzialità, degli atti che potrebbe commettere, verso cui è portato, e non tanto sulla base di ciò che ha effettivamente commesso, o per lo meno non solo. Vedi il secondo paragrafo.86 La volontà di sapere, cit., pp. 42-43.87 Ib., p. 47.88 Ib., p. 32.89 Ib., p. 107.90 La nobiltà aveva sancito la propria superiorità di casta attraverso la simbologia del sangue: il "sangue blu" e tutta la struttura delle ascendenze e delle alleanze matrimoniali le erano servite come mezzo per affermare la specificità del proprio corpo.91 La volontà di sapere, cit., pp. 114-115.92 Vedi il quarto paragrafo.93 Cfr. La volontà di sapere, cit., p. 93. Le altre principali figure prodotte dal dispositivo di sessualità sono quelle della donna ‘isterica’ o ‘nervosa’ - il cui corpo isterizzato e saturo di sessualità si configura come intrinsecamente patologico e dunque medicalizzabile; poi abbiamo l’adulto perverso sottoposto alla psichiatrizzazione, alla medicalizzazione-normalizzazione correttiva; e infine la coppia ‘normale’ da socializzare, cioé inserita in in una gestione globale della popolazione, attraverso il controlla delle nascite, freni o incentivi alla fecondità, ecc. (vedi ib., pp. 92-94).94 Ib., pp. 116-117.
Foucault 1980-1984 (PLATONE)
Michel Foucault e la "svolta filosofica" dell'ultimo periodo: la scoperta dell’ethos 1. La genealogia del soggetto moderno Nell’aprile del 1983, durante una seduta di lavoro svoltasi a Berkeley, viene chiesto a Foucault: Il primo volume della Storia della sessualità è stato pubblicato nel 1976, e da allora non ne è apparso alcun altro. Lei continua a pensare che la conoscenza della sessualità sia essenziale per la comprensione di chi noi siamo? La risposta che segue coglie certamente di sorpresa l’ascoltatore, lasciandogli una certa perplessità: Devo confessare di essere molto più interessato ai problemi relativi alle tecniche di sé e a cose del genere, piuttosto che al sesso... Il sesso è noioso (1). In effetti il progetto iniziale di Foucault, quello che aveva formulato ne La volonté de savoir, era quello di concentrare la sua analisi sul dispositivo di sessualità, sulle relazioni di potere all’interno delle quali vengono codificati i comportamenti, le pratiche, i saperi relativi alla sessualità nelle società occidentali, e, insieme a questi, cercare di indagare come, attraverso molteplici strategie e dispositivi, è stato creato il soggetto moderno, nelle sue svariate tipologie sociali. L’attenzione al sesso si è rivelata uno dei principali elementi attraverso cui la società disciplinare ha plasmato gli individui e ha allo stesso tempo messo in atto il gioco tra i meccanismi di potere e le resistenze. L’analisi dei percorsi che il dispositivo di sessualità ha seguito lungo la sua formazione e diffusione, avrebbe mostrato come siamo arrivati ad essere ciò che siamo, come si è costituito il soggetto moderno. Una tale genealogia spingeva Foucault a risalire fino alle forme di soggettivazione sviluppatesi in seno al primo Cristianesimo, che per prime avrebbero introdotto nella costituzione del proprio sé un minuzioso lavoro di scavo ermeneutico, una decifrazione della propria verità profonda, dei desideri, dei pensieri, delle fantasie, ecc. A partire da questo momento si sarebbe formato il soggetto ermeneutico cristiano-freudiano. La storia della sessualità avrebbe quindi dovuto prendere avvio dal periodo del primo Cristianesimo, per poi giungere fino alla nostra epoca. Quando, nell’‘84, escono L’usage des plaisirs e Le souci de soi, il secondo e il terzo volume della Storia della sessualità, ci si accorge prima di tutto del salto cronologico che Foucault ha attuato: dall’epoca cristiana è passato addirittura all’epoca della Grecia classica - il IV secolo a.C. - e a quella greco-romana dei primi due secoli d.C. Il motivo di un tale percorso a ritroso è dovuto al fatto che la lettura dei testi greci e romani ha rivelato una serie di interessanti ed inaspettate parentele con quelle tecniche di controllo e di decifrazione del sé, attraverso cui, passando per il Cristianesimo, si è costituito il soggetto moderno. Molte delle regole e dei codici comportamentali che sono andati a formare, dopo complesse modificazioni e spostamenti, le pratiche confessionali cristiane, hanno avuto origine all’interno del mondo greco-romano, anche se originariamente erano utilizzate in contesti del tutto diversi, applicate a situazioni differenti e concepite secondo impostazioni culturali del tutto estranee all’universo cristiano. il Cristianesimo avrebbe quindi utilizzato un certo numero di precetti nati nelle epoche precedenti, li avrebbe radicalizzati e universalizzati a tutti gli individui, piegati ad un’esigenza religiosa di sostanziale rinuncia a se stessi; li avrebbe resi più rigorosi e applicati a un certo numero di nuove tecnologie di controllo. Per questo a Foucault è sembrato necessario retrocedere ulteriormente nel suo lavoro di scavo archeologico e di ricerca genealogica. Ma, leggendo questi testi, ci si accorge subito che qualcos’altro è cambiato, anche l’oggetto di studio e soprattutto il tono, lo stile e la prospettiva con cui esso viene affrontato. Emerge in questi lavori un nuovo modo di guardare all’individuo, al soggetto: questo non sembra più essere soltanto un mero prodotto, investito in tutto il suo essere da relazioni di potere che lo dominano e che tutt’al più esso affronta con quel minimo di resistenza di cui è capace, senza mai trovare uno spazio, sia pure microscopico, di autonomia. Sembra ora aprirsi un territorio, ancora tutto da scoprire, dove l’individuo instaura un certo tipo di rapporto con se stesso, che non si configura necessariamente nella forma del dominio e dell’indottrinamento; dove sono invece possibili spazi di autocreazione, di edificazione di se stessi non solo attraverso codici imposti dai meccanismi sociali e culturali, ma anche e soprattutto attraverso regole che l’individuo sceglie, allo scopo di creare se stesso nel migliore dei modi. A spiegare questa nuova prospettiva è Foucault stesso, durante una conferenza tenutasi nel 1981: Poco a poco mi sono reso conto che in tutte le società esiste un altro tipo di tecniche: quelle che permettono agli individui di effettuare, autonomamente, alcune operazioni sui loro corpi, le loro anime, i loro pensieri, le loro condotte, e questo in modo da produrre una trasformazione di se stessi, una modificazione, e da raggiungere un certo stato di perfezione, di felicità, di purezza, di potere soprannaturale. Chiamiamo queste tecniche le tecniche del sé. Se si vuole analizzare la genealogia del soggetto nella civiltà occidentale, si deve tenere conto non soltanto delle tecniche di dominio, ma anche delle tecniche del sé. Si deve mostrare l’interazione che si produce tra i due tipi di tecniche. Forse quando studiavo le istituzioni totali, le prigioni, ecc., ho insistito troppo sulle tecniche di dominio. E’ vero che quello che chiamiamo "disciplina" ha un’importanza reale in questo tipo di istituzioni. Ma si tratta esclusivamente di un aspetto dell’arte di governare le persone nelle nostre società (2). Lo studio dei testi greci e romani, ha portato Foucault su di un territorio nuovo: non solo gli ha permesso di rivedere ed ampliare - non certo di rinnegare - le premesse concettuali da cui era partito nelle sue precedenti ricerche sul potere e sulle istituzioni totali, ma ha - come vedremo meglio più avanti - aperto anche la strada a nuove prospettive per il futuro delle nostre società, per la formazione degli individui, che, pur non cessando di essere pervasi dalle ragnatele del potere, sembrano acquisire ora nuove possibilità di autonomia, di azione, di resistenza attiva e perfino di libertà. Si dischiude insomma tutto un terreno di lotta contro le relazioni di potere che costruiscono la nostra individualità, secondo regole sulle quali non abbiamo possibilità di scelta; si intravede un terreno di potenzialità che si configura come ethos, come etica. Una genealogia del soggetto moderno mantiene ferma l’idea secondo cui il soggetto - antico o moderno che sia - è il prodotto di un lavoro, di un’attività storico-culturale che plasma. Il soggetto rimane qualcosa che si costruisce, e non un substrato naturale che ci è dato e che dobbiamo semmai riscoprire, disvelare. Non è una sostanza, ma una forma, mai identica a se stessa, che viene edificata sia attraverso meccanismi e pratiche imposte, sia attraverso regole scelte più o meno autonomamente. E’ dunque una forma che si presta ad essere plasmata, ma anche capace di trasformarsi, di autocostituirsi. Il soggetto non è il fondamento delle esperienze - così come la filosofia ci ha fatto credere per secoli -, al contrario E’ l’esperienza che è la razionalizzazione di un processo, esso stesso provvisorio, che sfocia in un soggetto o, piuttosto, in diversi soggetti. Chiamerei soggettivazione il processo attraverso cui si ottiene la costituzione di un soggetto, più esattamente di una soggettività, la quale, com’è evidente, è solo una delle possibilità di organizzare una coscienza di sé (3). Per i Greci, il soggetto, così come noi lo conosciamo, era una forma del tutto sconosciuta; anzi, essi non avevano alcuna formulazione del soggetto, ma altre modalità di organizzare l’esperienza di sé, modalità che ruotavano intorno al concetto di cura di sé, che si configurava come una forma fondamentale di pratica della libertà. La cura di se stessi prevedeva tutta una serie di regole e comportamenti, prove cui sottoporsi, esercizi fisici e spirituali, volti a moderare gli eccessi dei propri appetiti, ad esercitare la volontà nell’essere libera da quei bisogni e desideri che rendono schiavi, da quei legami che l’individuo reputa non essere belli, sani, elevati. La cura di sé è una forma di governo di se stessi, che consente di formare se stessi come individui retti, belli, giusti. Essa garantisce la padronanza di se stessi e conseguentemente anche degli altri: della famiglia, della città, della comunità. In questo senso la cura di sé si configura anche come un modo per limitare e controllare il potere che si esercita sugli altri, che è il frutto dei propri appetiti non tenuti a freno, una forma cioè di u b r i z (hýbris), di eccesso. Nell’abuso di potere si oltrepassa l’esercizio legittimo del proprio potere e si impongono agli altri il proprio capriccio, i propri appetiti, i propri desideri. Incontriamo qui l’immagine del tiranno o, più semplicemente, dell’uomo potente e ricco che approfitta di questa potenza e della sua ricchezza per abusare degli altri, per imporre loro un potere illegittimo. Ma percepiamo - è quel che dicono i filosofi greci - che quest’uomo è, in realtà, schiavo dei suoi appetiti. E il buon sovrano è proprio colui che esercita il suo potere come si deve, cioè esercita il suo potere anche su se stesso. E’ il potere su se stessi che regola il potere sugli altri (4). L’austerità nelle pratiche sessuali, oppure per esempio nel cibo, non era la manifestazione di una condanna del sesso in sé o del piacere - come lo sarà nella pastorale cristiana. Essa si configurava al contrario come una pratica di temperanza, di moderazione contro gli eccessi. Il rapporto dell’individuo coi desideri e coi piaceri era concepito come un rapporto agonistico, di lotta: vanno dominati e controllati, non perché siano squalificanti e cattivi, ma perché possono, per loro natura, portare all’eccesso, all’abuso. Si tratta di una lotta che l’individuo conduce su se stesso e con se stesso, e non contro una potenza estranea. E’ una prova con se stessi, la cui vittoria non sopprime i desideri - come sarà per il Cristianesimo, per cui il desiderio è di per sé male, frutto di una potenza estranea -, ma ne sancisce il controllo. La vittoria sull’eccesso e la tirannia delle passioni è tanto importante proprio perché si configura come esperienza di libertà. La cura di sé - consacrata da Socrate - è una vera e propria paidéia fisica e spirituale, che abbraccia tutta la persona, nel suo essere individuale e anche nei suoi rapporti sociali. E’ un lavoro su se stessi, nel tentativo di sviluppare un dominio su di sé, che dà piacere e libera da tutto ciò che non è in nostro potere. Essa diventa un’arte dell’esistenza, un’estetica dell’esistenza, uno stile di vita, un modo di essere e di formare se stessi. Potremmo chiamare l’insieme di queste pratiche le "arti dell’esistenza", intendendo con questo delle pratiche ragionate e volontarie (5) attraverso le quali gli uomini non solo si fissano dei canoni di comportamento, ma cercano essi stessi di trasformarsi, di modificarsi nella loro essenza singola, di fare della loro vita un’opera che esprima certi valori estetici e risponda a determinati criteri di stile (6). Col passaggio dall’epoca classica, poi a quella imperiale romana, fino ad arrivare al Cristianesimo, la cura di sé ha subito sempre nuovi spostamenti, trasformazioni, movimenti da un campo di applicazione ad un altro, fusioni e scissioni con altri concetti, insomma tutte quelle metamorfosi, "emergenze" e "provenienze" che la genealogia individua. Così, la cura di sé, e le problematizzazioni che l’accompagnano, si associa paradossalmente al precetto religioso della rinuncia a se stessi, ai desideri e ai piaceri, come strumento indispensabile per la salvezza delle anime. Quella che prima era un’estetica dell’esistenza, diventa una forma di egoismo, di individualismo, di eccessiva cura della propria persona, di amore di sé che si oppone all’amore per il prossimo. Foucault sottolinea più volte il fatto che nell’antichità questo lavoro su di sé, con tutta l’austerità che ne consegue, non veniva imposto all’individuo per mezzo di una legge o di un obbligo religioso, ma era un elemento di scelta personale di esistenza, compiuta dall’individuo stesso e dettata dalla volontà di vivere una vita bella. Questo tipo di etica non era insomma in relazione con nessun sistema sociale, istituzionale o legale, tanto più che non si applicava, o meglio, non rientrava nelle possibilità di scelta di tutta la popolazione, ma soltanto di un ristretto gruppo di cittadini - in genere i più ricchi e colti. L’interesse di Foucault per questa modalità di costruzione del sé si situa proprio in questo punto: nello spazio di autonomia che circonda questo tipo di etica. Senza voler in alcun modo proporre alcun tipo di soluzione considerata adattabile alla nostra epoca - e anzi, con la ferma consapevolezza che i problemi di un’epoca non siano affrontabili, né tanto meno risolvibili, attraverso il riciclo di strumenti teorici e pratici appartenuti ad epoche passate -, Foucault ci mostra tuttavia come possiamo imparare dal passato, imparare che ciò che noi siamo non è necessariamente ciò che potremmo essere, ciò che ci potremmo augurare ed auspicare. Se altre epoche hanno costruito sistemi etici più liberi di quelli in cui siamo inseriti noi oggi, ciò non significa che dobbiamo recuperare quei modelli, ma che possiamo comunque trasformare noi stessi in meglio, guardandoci e problematizzandoci senza sosta. Ebbene, mi chiedo se il nostro problema oggi non sia in qualche modo simile al loro, dal momento che la maggior parte di noi non crede più che l’etica possa esser fondata sulla religione, e dato che non vogliamo un sistema legale che interferisca con la nostra vita privata, morale e personale (7). E ancora: L’Antichità non ha problematizzato la costituzione di sé come soggetto; viceversa, a partire dal Cristianesimo, la morale è stata confiscata dalla teoria del soggetto. Ora, mi sembra che oggi non sia più soddisfacente un’esperienza morale incentrata essenzialmente sul soggetto. In questo senso, alcune questioni si pongono a noi negli stessi termini in cui si ponevano nell’Antichità (8)
2. Sulla "morte dell’uomo" La genealogia del soggetto moderno, condotta a partire dalle prime forme storiche da cui si è differenziata ma da cui allo stesso tempo "proviene", ci mostra che il nostro sé è una forma storica e transitoria, nata lungo i concatenamenti della storia e destinata a mutare con essi. La soggettività che ci caratterizza, che traccia la nostra fisionomia, sembra essere ormai giunta ad un punto di non ritorno, sembra aver esaurito il suo corso ed incamminarsi verso il definitivo declino. Quel soggetto che fonda l’esperienza, il sapere, la verità; il soggetto naturale, razionale e universale; quello stesso soggetto che tuttavia si ritrova penetrato, in ogni momento e in ogni luogo, da relazioni di potere che lo spingono lungo percorsi omologati, lo plasmano nei pensieri e nei comportamenti, nei desideri, nel corpo e nei bisogni; quel soggetto prodotto dalle pratiche disciplinari e dai saperi che con esse nascono (le scienze dell’uomo), fissato alla propria identità, alla propria tipologia sociale e decifrato nelle sue verità profonde (il soggetto ermeneutico cristiano-freudiano), questa strana e paradossale creatura che, in Les mots et les choses, Foucault definiva un allotropo empirico-trascendentale, ebbene costui sta per morire, o forse è già morto. La profezia di Nietzsche si sta compiendo. Questa imminente fine sembra comunque del tutto auspicabile; è anzi necessaria, per esplorare nuove forme di soggettività migliori di quelle conosciute, per mettere in atto una lotta realmente efficace ed attiva contro le forme di assoggettamento. Forse oggi l’obiettivo principale non è di scoprire che cosa siamo, ma piuttosto di rifiutare quello che siamo. Dobbiamo immaginare e costruire ciò che potremmo diventare per sbarazzarci poi di quella sorta di "doppio legame" politico, costituito dalla individualizzazione e dalla totalizzazione simultanee delle strutture del potere moderno. La conclusione potrebbe essere che il problema politico, etico, sociale e filosofico oggi, non è tanto di liberare l’individuo dallo Stato, e dalle sue istituzioni, quanto liberare noi stessi sia dallo Stato che dal tipo di individualizzazione che è legato allo Stato. Occorre promuovere nuove forme di soggettività attraverso il rifiuto di quel tipo di individualità che ci è stato imposto per così tanti secoli (9). L’etica come estetica dell’esistenza, come lavoro su se stessi, come autoedificazione di se stessi, è allora per la nostra epoca uno strumento fondamentale, perfino un mezzo di lotta contro il potere, dunque una forma di resistenza. Il concetto di resistenza, così come si era delineato nella riflessione foucaultiana degli anni Settanta (10), presenta tuttavia alcuni punti di dissonanza rispetto al modo in cui Foucault lo riaffronta - in maniera tuttavia molto marginale - negli ultimi anni del suo percorso di ricerca. Vediamo insomma che anche qui qualcosa è cambiato: non viene messo in discussione l’analisi del potere dei lavori precedenti, nulla viene rinnegato, ma sembra che quella prospettiva, in cui le relazioni di potere andavano a soggiogare l’individuo quasi in ogni suo spazio d’azione, privandolo di ogni prospettiva di libertà, viene ora mostrata solo come uno dei possibili punti d’osservazione. Dall’altro lato della medaglia, quelle stesse figure delineate in precedenza assumono un aspetto diverso, pur rimanendo se stesse, proprio perché il punto di osservazione di Foucault si è spostato. Ora, indagando le relazioni di potere dal punto di vista delle tecniche del sé, ci accorgiamo che il margine di resistenza che l’individuo possiede acquista una potenzialità maggiore rispetto a quanto prima poteva apparire, un carattere molto più attivo e soprattutto capace di conquistare spazi di libertà. Non è possibile immaginare una società in cui non vi siano relazioni di potere, il problema non è - dice Foucault - quello di realizzare una tale utopia, ma quello di darsi delle regole, costruirsi un’etica che permetta di ridurre al minimo il dominio. Bisogna anche sottolineare che le relazioni di potere possono esistere soltanto nella misura in cui i soggetti sono liberi. Se uno dei due fosse completamente a disposizione dell’altro e diventasse una cosa sua, un oggetto su cui poter esercitare una violenza infinita e illimitata, non ci sarebbero relazioni di potere. Affinché si eserciti una relazione di potere bisogna dunque che dalle due parti esista sempre almeno una certa forma di libertà (11). La resistenza acquista ora un posto di maggiore rilievo, un più ampio spazio d’azione, diventa il primo elemento del rapporto con le relazioni di potere e smorza almeno in parte l’idea che tutto sia potere. Non possiamo metterci al di fuori della situazione, e in nessun posto possiamo essere liberi da ogni rapporto di potere. Ma possiamo sempre trasformare la situazione. Non ho mai voluto dire che siamo sempre in trappola, ma, al contrario, che siamo sempre liberi. Insomma, che esiste sempre la possibilità di trasformare le cose. (...) La resistenza viene per prima e resta superiore a tutte le forme del processo; sotto il suo effetto, obbliga i rapporti di potere a cambiare. Perciò, considero che il termine "resistenza" sia quello più importante, la parola chiave di questa dinamica (12). Questa resistenza crea continuamente nuove dinamiche, trasforma la situazione, costringe il potere a modificare i suoi movimenti e la sua presa, e in questa lotta permanente si fa forza creativa, prende la forma della libertà - una libertà certamente mai assoluta ma sempre relativa e contingente. Durante un colloquio con Foucault del 1982, l’intervistatore commenta questo concetto di "resistenza" definendolo appunto un processo creativo; la risposta di Foucault dà esplicita conferma a questa posizione (13). In questa fase della sua ricerca e della sua vita, Foucault ricorre spesso al termine "creatività", e questo ci spinge ulteriormente a vedere nei suoi ultimi lavori un tono ed un atteggiamento nuovi, più fiduciosi e proiettati in una prospettiva futura di edificazione di forme di esistenza più positiva. Anche la sessualità, che era stata definita, negli anni precedenti, unicamente in termini di strategia di potere, come un dispositivo che finisce per costituire una forma sottilmente efficace di dominio, anch’essa ora sembra configurarsi in maniera nuova, non solo come prodotto della rete del potere, ma anche come elemento di libertà e, ancora una volta di creatività: La sessualità fa parte dei nostri comportamenti. Fa parte della libertà di cui godiamo in questo mondo. La sessualità è qualcosa che creiamo noi stessi - è una nostra creazione (...). Dobbiamo comprendere che con i nostri desideri, attraverso di essi, si instaurano nuove forme di rapporto, nuove forme d’amore e nuove forme di creazione. Il sesso non è una fatalità; è una possibilità di accedere a una vita creativa (14).
3. La filosofia e l’Aufklärung In questi anni la riflessione di Foucault si indirizza, lo abbiamo visto, verso l’analisi della soggettività, guardata questa volta attraverso la prospettiva delle tecniche del sé, attraverso l’idea di nuove possibili modalità di costituzione degli individui e della collettività. In questo itinerario, che paradossalmente utilizza il passato remoto - i testi greci e latini - per aprirsi al presente e al futuro delle nostre società, Foucault ritorna su tematiche già affrontate nel passato, come per esempio Kant e l’Illuminismo. Anche qui troviamo le tracce, evidentissime e straordinariamente ricche di implicazioni, di un cambiamento avvenuto in Foucault, una rottura, se vogliamo, o piuttosto un allargarsi del suo campo di osservazione e di riflessione. Foucault torna a parlare di Kant. Ma non si tratta più della polemica contro il Kant che sancisce la sovranità del soggetto trascendentale, che recupera l’eredità cartesiana del cogito e le assicura un fondamento ancora più stabile e universale. Foucault non guarda più al Kant delle tre Critiche (15), ma a quello che inaugura un nuovo e fondamentale atteggiamento filosofico: il discorso della modernità su se stessa, sulla propria attualità, sul proprio presente, come problema filosofico primario (16). Nel celebre testo kantiano Was heisst Aufklärung? (17) emerge per la prima volta - sottolinea Foucault - il problema del presente come evento filosofico a cui appartiene lo stesso autore che ne parla, il quale si trova ad essere perciò contemporaneamente elemento e attore del discorso. La domanda di Kant "Che cos’è l’Illuminismo?" si chiede che cosa sta accadendo ora, in questo preciso luogo e in questo tempo, si interroga su che cosa siamo noi in un certo momento della storia. E’ un’analisi di noi stessi in rapporto al nostro presente, e non più in un riferimento esclusivo con il passato, quale modello da imitare o comunque con cui misurarsi, sia nei termini di progresso, sia nei termini di decadenza. Questo evento, realizzatosi per la prima volta con l’Aufklärung, dà il via ad un atteggiamento nuovo, cioè ad una modalità di relazione con l’attualità, un modo di pensare e di agire. Proprio perché ora Foucault interpreta l’Aufklärung, non come un periodo storico, ma come un atteggiamento, può identificarlo con ciò che egli chiama la critica, ovvero ciò che continuamente si interroga sul proprio presente nei termini di una messa in discussione dei rapporti di dominio e di potere. Fin dai secoli XV e XVI - ci dice Foucault -, si verifica in Europa una straordinaria esplosione dell’arte di governare gli uomini, che, dal suo primo focolaio religioso, a poco a poco si laicizza e moltiplica le sua aree di applicazione in seno alla società civile; abbiamo allora l’arte di governare i bambini, i poveri, la famiglia, le ricchezze, le città, gli Stati, la popolazione (18). Parallelamente a questa governamentalizzazione, nasce anche il problema opposto: quello cioè della difesa da un governo eccessivo o ingiusto - governo che può appartenere alla sfera religiosa, oppure politica, giuridica, ma anche alla sfera del sapere. E’ questo l’atteggiamento critico: un modo per allentare la presa del governo, del potere; una pratica di disassoggettamento e di resistenza, condotta contro le eterogenee forme del potere. In questo senso la domanda formulata da Kant resta per noi una domanda aperta e sempre valida, sempre da riattivare: la critica designa il movimento attraverso il quale il soggetto si riconosce il diritto di interrogare la verità nei suoi effetti di potere e il potere nei suoi discorsi di verità; la critica sarà pertanto l’arte della disobbedienza volontaria, dell’indocilità ragionata. Funzione fondamentale della critica sarebbe perciò il disassoggettamento nel gioco di quel che si potrebbe chiamare la politica della verità. Sebbene questa nozione conservi un carattere empirico, approssimativo, deliziosamente lontano dalla storia che essa sorvola, oserei pensare che non è molto differente da quella formulata da Kant: non mi riferisco alla nozione di critica (19), ma a qualcos’altro. E precisamente alla nozione di Aufklärung (20). Foucault definisce questo éthos - questo atteggiamento critico - come l’analisi dei limiti e la riflessione su di essi: Questo ethos filosofico può essere caratterizzato come un atteggiamento limite. Non si tratta di un atteggiamento di rigetto. Dobbiamo sfuggire all’alternativa del fuori e del dentro; dobbiamo stare sulle frontiere. La critica è proprio l’analisi dei limiti e la riflessione su di essi. (...) Caratterizzerò dunque l'ethos filosofico proprio dell’ontologia critica di noi stessi come una prova storico-pratica dei limiti che possiamo superare, e quindi come un lavoro di noi stessi su noi stessi in quanto esseri liberi (21). La domanda kantiana, lo abbiamo visto, ha una valenza attuale. Essa supera i confini storici che l’hanno prodotta, ed è proprio per questo che, per Foucault, per quello che a lui interessa maggiormente, si rivela essere un atteggiamento, non tanto una corrente storica. Vi è tuttavia una differenza fondamentale tra i modi di applicazione che questa stessa domanda può generare, sulla base soprattutto del momento storico in cui ci si trova. Per Kant infatti, la riflessione sui limiti consisteva nell’indagare fin dove, attraverso la ragione, la conoscenza può legittimamente spingersi, e fin dove invece essa non trova più un fondamento di verità. E’ attraverso questa domanda che Kant ha costruito la sua indagine sulle strutture formali che hanno valore universale, insomma la sua analitica della verità, la sua metafisica. Per noi, la questione è diventata un’altra, non più cioè quella della conoscenza dei limiti che dobbiamo rinunciare a superare, ma al contrario, quella del superamento di questi limiti (22): [Questa critica] non dedurrà quello che ci è impossibile fare o conoscere dalla forma di ciò che noi siamo; ma coglierà, nella contingenza che ci ha fatto essere quello che siamo, la possibilità di non essere più, di non fare o di non pensare più quello che siamo, facciamo o pensiamo. Essa non cerca di rendere possibile la metafisica divenuta, infine, scienza; cerca di rilanciare il più lontano e il più diffusamente possibile il lavoro infinito della libertà (23). L’atteggiamento critico si configura dunque come riflessione e azione per prendere coscienza e per cambiare le cose ma anche se stessi: critica permanente del nostro essere storico, ma anche creazione permanente di noi stessi, attraverso un lavoro messo in atto su se stessi, quindi attraverso una sorta di éthos; in questo senso l’Aufklärung è veramente lo sforzo dell’individuo per uscire dallo stato di minorità, che è divenuta per lui una seconda natura (24), la forma stessa del proprio sé, il modo di organizzare la propria soggettività. La critica della modernità sarà anche l’indagine storica di tutto ciò che - in maniera contingente e non più metafisica - ci ha prodotti, ciò che ci ha reso soggetti - soprattutto nel senso di "assoggettati", soggetti al potere e all’autorità di qualcosa o di qualcuno -; ciò che ci è stato dato come universale, necessario o obbligato, ma che è invece frutto di contingenze, di costrizioni e di scelte arbitrarie. La critica sarà allora una genealogia del soggetto moderno, una ontologia critica di noi stessi, in vista di un possibile superamento di queste forme di soggettività (25) . Risulta chiaro allora che il problema del presente è oggi quello di costruire delle nuove forme di soggettività, di trovare nuovi spazi di autonomia etica; ecco il nesso tra gli studi che Foucault conduce in questi ultimi anni della sua vita, sull’etica dell’Antichità, e questa parallela ripresa, in chiave positiva, di Kant e dell’Illuminismo. Queste nuove forme di soggettività potranno costituirsi a partire da un cambiamento che gli individui opereranno su se stessi, un vero e proprio lavoro, una prassi, una presa di coscienza che non si dissocia mai da una messa in pratica attiva, da un esercizio permanente. Questa soggettività nuova non potrà poggiare su nessun fondamento - nemmeno su qualche universale antropologico, come invece propongono ancora i teorici della Scuola di Francoforte -; non parteciperà di alcuna trascendentalità - intesa alla vecchia maniera kantiana - , di alcuna origine o Natura. Non potrà che essere una sorta di soggettività "errante", nel senso che costituirà se stessa nella consapevolezza di essere una delle possibili forme di organizzazione del sé; inoltre nel senso che sarà una soggettività in lotta, quindi duttile, capace di sviluppare sempre più efficaci forme di resistenza e quindi sottoposta al mutamento, alla metamorfosi, alla transitorietà (26). La lotta consisterà principalmente nel costruire se stessi, cercando non di riappropriarsi di un’essenza naturale, ma di distaccarsi, di emanciparsi dalla sovranità di un unico modo di essere che ci è stato imposto. Si tratterà di sfuggire a quelle forme di individualizzazione cui siamo stati fissati (per esempio la forma del soggetto ermeneutico cristiano-freudiano), stabilire il rapporto con noi stessi non più nell’ordine dell’identità - identità come qualcosa a cui dobbiamo adeguarci, qualcosa che ci viene fatto entrare dentro, a cui veniamo fissati, oppure qualcosa che dobbiamo decifrare per scoprirne la verità profonda -, ma nell’ordine della differenziazione, della creazione e dell’innovazione (27). Creazione per esempio anche di nuovi piaceri: La possibilità di utilizzare il nostro corpo come possibile fonte di una moltitudine di piaceri è una cosa estremamente importante. Se si considera, per esempio, la costruzione tradizionale del piacere, si constata che i piaceri fisici, o piaceri della carne, sono sempre il bere, il cibo e il sesso. Sembra che la nostra comprensione del corpo, dei piaceri, si limiti a questo. (...) Dicono: "Dobbiamo liberare il nostro desiderio". No! Dobbiamo creare nuovi piaceri. Allora, forse, seguirà il desiderio (28). Possiamo concludere sottolineando che le poche parole che Foucault ha sempre usato per parlare di sé, ci fanno pensare che questo difficile ma vitale lavoro su se stessi, questa pratica etica, egli l’abbia realmente sperimentata sulla sua pelle, attraverso il suo lavoro, attraverso la sua filosofia-pratica. Nell’Introduzione a L’usage des plaisirs, egli accenna al motivo che lo ha spinto ad intraprendere la strada della ricerca dei giochi di verità, una strada che porta con sé il rischio, la messa in discussione perenne di tutto: il motivo che mi ha spinto era molto semplice. Spero che, agli occhi di qualcuno, possa apparire sufficiente di per sé. E’ la curiosità: la sola specie di curiosità, comunque, che meriti d’esser praticata con una certa ostinazione: non già quella che cerca di assimilare ciò che conviene conoscere, ma quello che consente di smarrire le proprie certezze. A che varrebbe tanto accanimento nel sapere se non dovesse assicurare che l’acquisizione di conoscenze, e non, in un certo modo e quanto è possibile, la messa in crisi di colui che conosce? Vi sono momenti, nella vita, in cui la questione di sapere se si può pensare e vedere in modo diverso da quello in cui si pensa e si vede, è indispensabile per continuare a guardare o a riflettere (29). E ancora: Che cos’è la filosofia se non un modo di riflettere (...) sul nostro rapporto con la verità? (...) La filosofia è il movimento per cui ci si distacca - con sforzi, esitazioni, sogni e illusioni - da ciò che è acquisito come vero, per cercare altre regole del gioco. La filosofia è lo spostamento e la trasformazione dei quadri di pensiero, il modificarsi dei valori ricevuti, tutto il lavoro che si fa per pensare diversamente, per fare diversamente, per diventare altro da quello che si è (30). Pensiamo che Foucault abbia reso un grandissimo ed autentico omaggio a quella che è la filosofia, una filosofia non limitata negli angusti confini dell’accumulo delle conoscenze, nella loro veste speculativa, ma una filosofia che vuole essere prima di tutto una prassi di vita, individuale e collettiva; una ricerca, così come è stata concepita da Socrate, che è al contempo una cura si sé e una pratica di libertà: Questo compito [avvertire dai pericoli del potere e aprire così prospettive di libertà] è sempre stato una grande funzione della filosofia. Nel suo versante critico - intendo critico in senso lato -, la filosofia è proprio ciò che rimette in discussione tutti i fenomeni di dominio, a qualunque livello e in qualunque forma essi si presentino - politici, economici, sessuali e istituzionali. Questa funzione critica della filosofia deriva, fino a un certo punto, dall’imperativo socratico: "Occupati di te stesso", cioè "fonda te stesso in libertà, attraverso la padronanza di te" (31).
Note 1 Sulla genealogia dell’etica: compendio di un work in progress, in Dreyfus-Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, Analitica della verità e storia del presente, Ponte alle Grazie, Firenze 1989, p. 257. 2 M. Foucault, Sessualità e solitudine, in Archivio Foucault 3, 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, Feltrinelli, Milano 1998, p. 147.3 M. Foucault, Il ritorno della morale, in Archivio Foucault 3, cit., p. 271.4 M. Foucault, L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Foucault 3, cit., p. 280.5 La sottolineatura è mia.6 M. Foucault, L’usage des plaisir, Gallimard, Paris 1984 (trad. it. L’uso dei piaceri, Feltrinelli, Milano 1996), pp. 15-16.7 M. Foucault, Sulla genealogia dell’etica: compendio di un work in progress, cit., p. 259.8 M. Foucault, Il ritorno della morale, in Archivio Foucault 3, op.cit., p. 272.9 M. Foucault, Perché studiare il potere: la questione del soggetto, in Dreyfus-Rabinow, La ricerca di Michel Foucault, cit., p. 244.10 Cfr. ivi, paragrafo IV del capitolo terzo.11 M. Foucault, L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Foucault 3, op. cit., p. 284.12 M. Foucault, Michel Foucault, un’intervista: il sesso, il potere e la politica dell’identità, in Archivio Foucault 3, op. cit., pp. 300-301.13 [ Intervistatore] : "Sul piano politico, l’elemento più importante, quando si esamina il potere, è forse il fatto che, secondo certe concezioni precedenti, "resistere" significava semplicemente dire di no. La resistenza è stata concettualizzata soltanto in termini negativi. Tuttavia la resistenza, come lei la delinea, non è unicamente una negazione: è un processo creativo; creare e ricreare, trasformare la situazione, partecipare attivamente al processo, ecco che cos’è resistere".[ Foucault] : "Sì, definirei le cose proprio in questo modo. Dire di no costituisce la forma minima di resistenza" (ib., p. 301). 14 Ib., p. 295.15 Foucault analizza nello specifico due testi di Kant: oltre all’articolo del 1784 Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo?, un altro articolo del 1798 intitolato Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio.16 Infatti, in questa interpretazione di Kant, Foucault lo contrappone a Descartes, stabilendo tra i due un punto di rottura: "In altre parole: che cosa siamo in quanto Aufklärer, in quanto parte dell’Illuminismo? Si confronti questa domanda con quella cartesiana: chi sono io? Io, in quanto soggetto unico, ma universale e astorico? Io, per Descartes, è chiunque, in qualunque luogo e in ogni momento" (M. Foucault, Perché studiare il potere: la questione del soggetto, cit., p. 244).17 I. Kant, Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo?18 A questo proposito, vedi anche M. Foucault, La "Governamentalità", in Poteri e Strategie, op. cit., pp. 43-67, in cui Foucault sviluppa e approfondisce il tema dell’"arte del governare".19 Con "critica" qui Foucault intende quella che Kant formula nelle tre Critiche (della ragion pura, della ragion pratica e del giudizio), e che si riferisce all’analitica della verità, al problema delle condizioni alle quali è possibile una conoscenza vera, dunque ai fondamenti universali della regione e della conoscenza; proprio quel percorso kantiano che Foucault inquadra sulla linea di Descartes e della metafisica del soggetto.20 M. Foucault, Illuminismo e critica, cit., p. 40.21 M. Foucault, Che cos’è è l’Illuminismo?, in Archivio Foucault 3, cit., p. 228- 229.22 Il soggetto trascendentale è quindi il prodotto di un certo tipo di applicazione della domanda kantiana, è una forma storica e ormai destinata a morire - Foucault lo aveva annunciato già in Les mots et les choses. Il compito della critica della modernità - nel senso di Aufklärung, nel senso di quella stessa domanda kantiana - consiste proprio nel suo superamento.23 M. Foucault, Che cos’è l’Illuminismo?, in Archivio Foucault 3, cit., p. 228.24 I. Kant, Risposta alla domanda: Che cos’è l’Illuminismo?25 In un corso tenuto da Foucault al Collège de France nel 1983, pubblicato col titolo Il problema del presente. Una lezione su "Che cos’è l’Illuminismo?" di Kant (in Poteri e strategie, cit., pp. 115-126), egli definisce la duplice corrente di pensiero cui Kant ha dato il via: una è quella detta "analitica della verità" e comprende i suoi lavori più conosciuti, ovvero le tre Critiche; l’altra è invece quella tradizione che pone per la prima volta l’attenzione sull’attualità come problema ed evento filosofico fondamentale, e si configura come una ontologia critica di noi stessi e del nostro presente. Entro questa tradizione inaugurata da Kant, si collocano - secondo Foucault - anche Hegel, Nietzsche, Weber, fino alla Scuola di Francoforte e allo stesso Foucault.26 Deleuze, nel suo Foucault (Les Editions de Minuit, Paris 1986; trad. it. Foucault, Feltrinelli, Milano 1987), scrive: "La lotta per la soggettività si manifesta allora come diritto alla differenza, e come diritto alla variazione, alla metamorfosi"(p. 107).27 Cfr. M. Foucault, Michel Foucault, un’intervista: il sesso, il potere e la politica dell’identità, in Archivio Foucault 3, op. cit., p. 299.28 Ib., p. 298.29 M. Foucault, L’uso dei piaceri, cit., pp. 13-14.30 M. Foucault, Il filosofo mascherato, in Archivio Foucault 3, op. cit., p. 143.31 M. Foucault, L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in Archivio Foucault 3, op. cit., p. 293-294.
Bibliografia
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