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Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

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Elena Maggio - Archeologia del sapere di Michel Foucault


 

L'Archeologia del sapere, opera pubblicata nel 1969, si presenta come un libro diverso rispetto a tutti quelli scritti da Foucault. E' un libro che l'autore stesso definisce "di metodo", in quanto ha voluto esporre in esso i fondamenti teorici del suo lavoro e spiegare quale strada ha seguito per costruire i libri precedenti (1).

Ne Le parole e le cose Foucault aveva dichiarato che il suo intento nello scrivere la Storia della follia era stato quello di tracciare "una storia dei limiti", ossia di quelle esperienze che, sebbene emarginate e poste tra parentesi nel presente storico, costituiscono lo sfondo da cui si dà la possibilità stessa della storia. Scrivendo una storia della follia, Foucault ha voluto studiare l'insieme di istituzioni, di misure etiche, giuridiche, amministrative e poliziesche che hanno imprigionato la follia e "costruito la ragione".

Ma cosa significa tracciare la storia di queste esperienze-limite? Che cosa significa affermare che la ragione moderna si è costituita a partire da un gesto che ha escluso e poi disegnato la follia come oggetto, di volta in volta, del sapere medico, giudiziario, etico, ecc.?

Per dare risposta a questi interrogativi, seguiremo passo passo la riflessione sviluppata da Foucault nell'opera L'archeologia del sapere, mantenendo l'ordine e la titolazione proposti dall'autore.

 

Introduzione

Nell'introduzione all'Archeologia del sapere (2), Foucault osserva che a poco a poco nel lavoro degli storici si è realizzato uno spostamento dell'attenzione: dalla ricerca delle vaste unità che si descrivevano come "epoche" o "secoli" verso i "fenomeni di rottura". Il grande problema che si apre in ogni analisi non è più quello di rintracciare una tradizione compatta, un unico disegno sottesi alla molteplicità degli eventi, "ma quello della frattura e del limite, non più quello del fondamento che si perpetua, ma quello delle trasformazioni che valgono come fondazione e rinnovamento delle fondazioni" (p. 8).

Questa posizione comporta una serie di conseguenze. Innanzitutto Foucault parla di un "effetto di superficie", ossia del moltiplicarsi delle fratture nella storia delle idee ("effetto di superficie" nel senso che non bisogna andare alla ricerca di qualcosa di più profondo e veritiero rispetto a ciò che appare appunto alla superficie, ma proprio dei diversi livelli, delle varie relazioni che compaiono in superficie): il metodo proposto implica l'impossibilità di individuare una lineare catena di cause per definire le relazioni tra i fatti. Ciò che si presenta al nostro sguardo sono invece delle serie di avvenimenti di cui dobbiamo definire di volta in volta gli elementi, i limiti, i rapporti. Ciò conduce alla denuncia di qualsiasi ricerca storica che chiami in causa la cronologia continua della ragione, il continuismo fondato sull'idea di una coscienza che produce e progredisce linearmente.

Foucault introduce poi la nozione di "discontinuità". Se per la storia classica la discontinuità coincide con l'insieme di avvenimenti dispersi - dal punto di vista della loro collocazione temporale e del loro senso - che devono venire delimitati e ricompresi nell'orizzonte di una continuità progressiva, ora invece essa è intesa come l'oggetto di studio liberato da qualsiasi pretesa teleologica e, contemporaneamente, come lo strumento stesso della ricerca: essa diventa quasi un concetto operativo. E' la stessa discontinuità che individua le diverse aree da studiare, che "delimita il campo di cui rappresenta l'effetto" (p.13).

Inizia perciò a perdere forza il progetto di una "storia globale", ossia di quella storia che vuole rintracciare il significato comune alla base di tutti gli avvenimenti di uno stesso periodo, una rete fissa di causalità capace di spiegare linearmente i fatti. Alla storia come continuum narrativo-documentario si oppone la "storia generale" che problematizza gli scarti, le fratture, i diversi tipi di relazione esistenti; che rifiuta di riportare i fenomeni ad un unico centro, ad un'unica visione del mondo, ma che "dovrebbe invece mostrare tutto lo spazio di una dispersione" (p.15).

Ciò che finora ha ostacolato lo sviluppo di una "storia generale" è stata la paura di veder frantumata la sovranità della coscienza. La storia alla ricerca della continuità, dell'origine e del principio unico ha garantito la sovranità della coscienza umana, restituendo ad essa, sotto forma di coscienza storica, l'unità ed il dominio su tutto ciò che appariva lontano, indipendente da essa: "fare dell'analisi storica il discorso della continuità e fare della coscienza umana il soggetto originario di ogni divenire e di ogni pratica, costituiscono i due aspetti di uno stesso sistema di pensiero" (p. 18).

Sono state le ricerche della psicanalisi, della linguistica e dell'etnologia, dopo il colpo mortale inferto dalla genealogia nietzschiana, a decentrare ulteriormente il soggetto dal suo luogo di signore della storia, della natura, dei suoi desideri, del suo linguaggio e a metterne in crisi la presunta attività sintetica.

Si colloca in questo orizzonte il progetto dell'Archeologia del sapere: Foucault tenta di individuare le trasformazioni nel campo della storia, eliminando quella che definisce la "soggezione antropologica", ossia quel riferimento alla funzione fondatrice del soggetto come custode di nozioni quali quelle di tradizione, sviluppo, evoluzione, spirito, autore, opera finalizzate a costruire delle sintesi poste sotto il segno dell'identità, dell'unità e della continuità. Queste sintesi sono in realtà delle costruzioni che devono venire problematizzate, attraverso un movimento che riconduca i concetti dal piano della produzione ideale a quello dei sistemi enunciativi che ne producono la formulazione. Il terreno in cui si muove Foucault è dunque quello dei discorsi, scritti e pronunciati: ma non dei discorsi intesi come il risultato ultimo di un'elaborazione linguistica e teorica che avverrebbe altrove (nel campo della lingua o del pensiero), ma come sistemi caratterizzati da precise regole di emergenza e di esistenza che esercitano una funzione concreta nella storia delle idee e delle istituzioni. La teoria dell'enunciato arriverà a scardinare i comuni concetti di soggettività, scienza, storia, mostrando il loro reale terreno di radicamento e le loro regole di esistenza. Vedremo in seguito come Foucault approfondisca e precisi sempre più il concetto di enunciato e di sistema enunciativo.

In quale modo spiegare però un tale spostamento teorico? Se queste sintesi non sono evidenti, e neppure posseggono una struttura concettuale rigorosa, ma esercitano una funzione ben precisa, sarà allora necessario individuarne le condizioni di emergenza e le regole di esistenza e funzionamento. Solo mettendo in questione queste forme "immediate" di continuità, si libera "tutta una folla di avvenimenti nello spazio del discorso… Si delinea in tal modo il progetto di una descrizione pura degli avvenimenti discorsivi come orizzonte per la ricerca delle unità che vi si formano" (p. 37).

 

1. Le regolarità discorsive
1.1. Le unità del discorso

Il progetto di Foucault si presenta quindi come un lavoro negativo teso a smascherare la vera natura di quei concetti che da sempre hanno costituito il fulcro del tema della continuità:

  • il concetto di "tradizione", la cui funzione è stata quella di pensare la dispersione degli avvenimenti storici sotto il segno dell'identità;
  • il concetto di "influenza" che ha permesso di applicare la relazione di causalità a fenomeni vicini nel tempo e simili nella costituzione;
  • i concetti di "sviluppo" e di "evoluzione" con cui si è raggruppata una successione di eventi, collocati tra un'origine e una conclusione lontane da noi, secondo un unico principio organizzatore che doveva conferire loro coerenza e consequenzialità;
  • il concetto di "spirito" che ha permesso di istituire una unità di senso tra diversi fenomeni, riportandone la spiegazione alla sovranità di una coscienza collettiva.

Ci sono inoltre due altre unità concettuali, che a prima vista appaiono come le più immediate da accettare, che bisogna smontare: la nozione di "libro" e quella di "opera". Il libro è un'unità materiale ed economica debole che rimanda sempre ad altri testi, ad altre frasi, che si costituisce quasi come il nodo di un reticolo, a partire da un complesso campo del discorso. L'opera, come somma di testi, viene pensata come l'espressione del pensiero, dell'esperienza, dell'immaginazione, dell'inconscio del suo autore. Ma questa unità non è assolutamente evidente ed immediata, e tanto meno omogenea: essa si costituisce piuttosto a partire da un'operazione interpretativa.

Secondo Foucault è necessario abbandonare due atteggiamenti: il primo che va alla ricerca di un'origine segreta e che così rifiuta la possibilità dell'irruzione improvvisa degli avvenimenti; il secondo, collegato al precedente, che cerca di rinvenire dietro ad ogni discorso manifesto un "non detto" che lo condannerebbe ad essere sempre interpretazione di altro. Bisogna, invece, accogliere gli eventi e i discorsi nel momento del loro apparire, accettare la loro irruzione: "non bisogna rimandare il discorso alla lontana presenza dell'origine; bisogna affrontarlo nel meccanismo della sua istanza" (p. 35). Questo significa che il piano dell'indagine si sposta verso l'analisi di queste costruzioni, verso la domanda che chiede ragione delle regole e delle condizioni della loro emergenza ed esistenza, verso il campo dei fatti discorsivi (3) a partire da cui esse si sono costituite.

Se Foucault si propone di affrontare il discorso nella limitatezza e singolarità del suo essere evento, ossia cogliendolo nel momento stesso del suo farsi realtà, allora l'attenzione dovrà necessariamente spostarsi sui meccanismi della sua emergenza ed esistenza, bisognerà cioè occuparsi degli enunciati effettivi che sono comparsi, ossia dell'insieme finito e concretamente individuato degli enunciati che sono stati formulati. Questo programma non coincide con quello che appartiene all'analisi della lingua: la lingua è infatti un insieme finito di regole che permettono un numero infinito di produzioni. Il campo degli eventi discorsivi, invece, rappresenta "l'insieme sempre finito e attualmente limitato delle sole sequenze linguistiche che siano state formulate" (p. 37). Anche le domande che i due campi di analisi si pongono sono profondamente diverse: mentre l'analisi della lingua si chiede quali sono state le regole di costruzione di un determinato enunciato e come, quindi, a partire da esse sia possibile costruire altri enunciati simili, la descrizione degli eventi discorsivi si chiede come mai sia apparso in un certo momento proprio un determinato enunciato e non un altro, ossia qual è la ragione della sua comparsa, della sua esistenza. È per questo che l'analisi del campo discorsivo si differenzia dalla storia del pensiero: mentre questa va alla ricerca dell'intenzione di un soggetto parlante o dell'attività inconscia che è all'origine di una certa produzione, l'altra tenta di studiare l'enunciato nella singolarità e nelle condizioni del suo emergere, delimitandone lo spazio effettivo di esistenza, individuando le sue relazioni con gli altri enunciati e rispondendo, perciò, ad una precisa domanda: "qual è dunque quella esistenza singolare che viene alla luce in quello che si dice, e non mai altrove?" (p. 39).

Cercare di cogliere quella che è stata definita la "singolarità" di un enunciato non significa, però, isolarlo facendone quasi una nuova unità autonoma o cercando in esso un qualche discorso segreto, ma significa, invece, poterlo descrivere nei meccanismi di relazioni in esso e fuori di esso.

Ma come scampare al pericolo che sembra sempre incombente di riutilizzare quelle stesse categorie che abbiamo sottoposto a profonda critica? Come essere certi che non ci riferiremo nuovamente alle nozioni di opera, autore, spirito, evoluzione, insomma a tutte le vecchie categorie antropologiche? Secondo l'autore, l'unico modo, forse, per sottrarsi a questa tirannia consiste nell'analizzare gli enunciati attraverso i quali queste stesse categorie si sono costituite, "l'insieme degli enunciati che hanno scelto come "oggetto" il soggetto dei discorsi (il loro soggetto) e si sono messi ad analizzarlo come campo di conoscenza" (p.41)

Si spiega così la preferenza, comunque provvisoria, accordata da Foucault ai discorsi appartenenti al campo delle "scienze dell'uomo": in esse i differenti enunciati sembrano mostrare più chiaramente le relazioni che li legano; l'analisi di ampi campi del sapere pare favorire la rinuncia alle cosiddette "categorie antropologiche"; e, infine, il soggetto dei discorsi si trasforma in oggetto da studiare.

Iniziamo allora a vedere più da vicino che cosa sono queste formazioni discorsive.

 

 1.2. Le formazioni discorsive

 Nella descrizione degli enunciati si presentano subito una serie di problemi. Quando si parla di quelle unità come la grammatica, la medicina, l'economia politica, a cosa ci si sta effettivamente riferendo? Che tipo di legami si instaurano tra gli enunciati che le contraddistinguono?

La prima ipotesi ritiene che diversi enunciati formino un unico insieme in quanto si riferiscono ad uno stesso oggetto, ad esempio l'oggetto "pazzia" per la psicopatologia. Ma si tratta sempre e veramente dello stesso oggetto? Secondo Foucault questa convinzione è frutto di una pura illusione, in quanto ogni oggetto di cui parliamo si forma in modo diverso a seconda degli enunciati che lo nominano, lo spiegano, lo delimitano. Il problema subisce quindi una curvatura: non consiste più nella ricerca dell'unicità e della persistenza di un oggetto, ma nell'individuazione "dello spazio in cui si profilano e continuamente si trasformano diversi oggetti." (p. 45). Quindi l'unità di un discorso non si baserebbe più sull'esistenza di un oggetto determinato e classificato una volta per tutte, ma consisterebbe nel "meccanismo delle regole che rendono possibile per un dato periodo la comparsa di oggetti" (oggetti individuati, quindi, da meccanismi di repressione, da pratiche quotidiane, dalle regole della giurisprudenza, ecc.). E allora descrivere un insieme di enunciati assume paradossalmente la forma di una descrizione della loro "dispersione", ossia delle trasformazioni che si producono nella loro presunta identità nel corso del tempo.

La seconda ipotesi individua l'unità di un gruppo di enunciati nella loro "forma" o "concatenazione", ossia nel loro comune riferimento ad uno stesso vocabolario, ad un medesimo stile enunciativo, ad una stessa modalità di guardare le cose ossia di stile percettivo. In realtà si deve abbandonare anche questa ipotesi perché continuamente cambiano le scale di riferimento, i tipi di sguardo verso gli oggetti, i sistemi di informazione.

Altra ipotesi: gli enunciati potrebbero avere il loro filo conduttore nei concetti permanenti e coerenti da essi utilizzati. Ma se ad esempio pensiamo ai concetti utilizzati dalla grammatica, vediamo che nozioni come quelle di soggetto, attributo, verbo, parola, sufficienti forse per descrivere le analisi fatte dagli autori di Port-Royal, risultano addirittura incompatibili con gli studi successivi. Forse tale unità non è tanto da cercare nella permanenza dei concetti, nella loro architettura più o meno nascosta, quanto nella loro differenza, distanza, nell'analisi di ciò che Foucault definisce "il meccanismo delle loro apparizioni e della loro dispersione" (p. 49).

Ultima ipotesi proposta è quella della ricerca della persistenza e identità dei temi. In realtà ad un'attenta analisi, considerando ad esempio il tema evoluzionista, si scopre che lo stesso tema conduce a discorsi differenti (il tema evoluzionista nel XVIII secolo considerava come centrale il continuum della specie prestabilito fin dall'inizio o costituito nel tempo; lo stessa tema nel XIX secolo partiva, invece, dalla descrizione di gruppi discontinui e dalle modalità di interazione tra organismi simili e l'ambiente circostante). Forse non nella persistenza dei temi, ma proprio nella descrizione di questi momenti di rottura, di dispersione, si possono individuare delle correlazioni fra gli enunciati, uno spazio comune, un collegamento nelle loro trasformazioni.

Nel caso in cui si possa descrivere un simile sistema di dispersione, individuandone le regolarità - un ordine, delle trasformazioni, delle correlazioni, dei funzionamenti -, allora avremo di fronte una formazione discorsiva. Le condizioni di esistenza a cui rispondono gli elementi di questo insieme saranno le regole di formazione che caratterizzano una data ripartizione discorsiva. Questo è il campo che Foucault si propone di studiare.

 

1.3. La formazione degli oggetti

A questo punto è necessario riempire queste regole di formazione con dei contenuti, per capire quali sono state le modalità di comparsa degli oggetti, le ragioni della loro esistenza come oggetti di discorso. Foucault parla innanzitutto di "superfici di emergenza" dei concetti che cambiano a seconda delle epoche; poi di "istanze di delimitazione", riferendosi ai vari campi del sapere che individuano in modo differente e così delimitano gli oggetti; e infine di "griglie di specificazione", ossia di quei "contenitori" a cui ci si riferisce parlando di un certo oggetto (ad esempio l'anima, il corpo, la vita e la storia degli uomini, i meccanismi delle correlazioni neuro-psicologiche come griglie del discorso psichiatrico del XIX secolo).

Ma il discorso non coincide solamente con il luogo in cui si sovrappongono e si incontrano degli oggetti già precedentemente strutturati: "l'oggetto non aspetta nel limbo l'ordine che lo libererà e gli permetterà di incarnarsi in una visibile e loquace oggettività; non preesiste a se stesso, quasi fosse trattenuto da qualche ostacolo alle soglie della luce. Esiste nelle positive condizioni di un complesso ventaglio di rapporti". (p. 61). Queste relazioni, in cui emergono le condizioni di esistenza degli oggetti e che si stabiliscono tra istituzioni, processi economici e sociali, forme di comportamento, norme, ecc., non determinano l'oggetto nella sua trama interna, non ne definiscono la razionalità immanente, ma ciò che permette ad esso di apparire e di apparire in quel determinato modo.

Le relazioni discorsive, allora, non sono qualcosa di interno al discorso, quasi un'architettura o una gerarchia che si instaura tra le proposizioni; ma non sono neppure esterne, quasi fossero delle forme di costrizione applicate al discorso: esse caratterizzano, invece, il discorso in quanto pratica, ossia "determinano il fascio di rapporti che il discorso deve effettuare per poter parlare di questi e di quegli oggetti, per poterli trattare, nominare, analizzare, classificare, spiegare, ecc." (p. 63).

Questo non significa cercare oltre il discorso, fare di esso il segno di qualcos'altro, ma anzi farlo emergere in tutta la sua ricca complessità: dimenticare in qualche modo le cose che si darebbero prima del discorso, a favore delle formazioni degli oggetti che si danno, invece, solo al suo interno; non considerare insomma solo i significati degli oggetti stabiliti dai soggetti parlanti, ma la pratica discorsiva come luogo in cui si forma e si deforma, compare e scompare un certo insieme di oggetti.

Il compito che Foucault si propone, dunque, è quello di mostrare che i discorsi non sono un semplice intreccio di cose e parole, di realtà e lingua. Analizzando i discorsi si scopre l'esistenza di un insieme di regole che non concernono la muta realtà degli oggetti, ma il loro stesso regime di esistenza: ciò significa non poter più considerare i discorsi come un insieme di segni che si riferiscono a dei contenuti o a delle rappresentazioni già date, ma come delle pratiche che formano gli stessi oggetti di cui parlano.

 

1.4. La formazione delle modalità enunciative

 Quali sono le domande che bisogna porsi per trovare le leggi degli enunciati?

  1. Chi parla? Ossia qual è lo status - legato alle competenze - posseduto da coloro che sono autorizzati a pronunciare un certo discorso?
  2. Quali sono le posizioni istituzionali da cui le persone tengono i loro discorsi (ad esempio l'ospedale pubblico o l'ambulatorio privato per il medico)?
  3. Quali sono le posizioni dei soggetti in rapporto ai campi o ai gruppi di oggetti (soggetti che parlano, che guardano, che ascoltano, che utilizzano determinati strumenti, ecc.)?

Come si vede dal tipo di domande formulate, non si possono riferire le differenti modalità di enunciazione all'unità del soggetto e alla sua sintesi unificatrice; anzi, i diversi enunciati rimandano piuttosto alla sua "dispersione", alla differenziazione continua dei piani da cui esso parla: "perciò rinunceremo a vedere nel discorso un fenomeno di espressione, la traduzione verbale di una sintesi operata altrove, vi cercheremo piuttosto un campo di regolarità per diverse posizioni di soggettività". (p. 74).

Se quindi né le parole né le cose possono definire una formazione discorsiva, adesso possiamo anche affermare che neppure il ricorso a una soggettività psicologica o a un soggetto trascendentale è in grado di definire il regime delle enunciazioni.

 

1.5. La formazione dei concetti

Il problema ancora una volta non è tanto quello di costruire un edificio i cui mattoni sarebbero i concetti, quanto quello di descrivere l'organizzazione del campo di enunciati in cui i concetti compaiono. Foucault individua alcuni piani di questa organizzazione/descrizione:

  1. le forme di successione, ossia i diversi tipi di dipendenza degli enunciati (ipotesi-verifica, legge-applicazione, ecc.), gli schemi retorici secondo cui si combinano gli enunciati (rapporti di dipendenza, deduzione, ecc.);
  2. le forme di coesistenza (enunciati già formulati che vengono ripresi o rifiutati o accettati implicitamente);
  3. le procedure d'intervento che si applicano ai vari enunciati sotto forma di tecniche di riscrittura di enunciati già esistenti adottando altri schemi o quadri classificatori, di metodi di trascrizione secondo linguaggi più o meno formalizzati, di modi di traduzione degli enunciati qualitativi in quantitativi e viceversa.

Sono tutti questi elementi che concorrono a costruire una formazione concettuale. Ma ancora una volta Foucault precisa che attraverso essi non si ricostruisce la genesi dei concetti nello spirito degli uomini o la loro articolazione interna, quanto la loro dispersione in opere e testi, dispersione che definisce tra i concetti relazioni di deduzione, coerenza, incompatibilità, esclusione, ecc.: "una simile analisi concerne […] il campo in cui i concetti possono coesistere e le regole a cui questo campo è soggetto" (p. 80), non rimandando quindi a un orizzonte di idealità posto o scoperto da un gesto fondatore e neppure ad un a priori collocato ai confini della storia, ma allo spazio di emergenza, di formazione dei concetti e alle regole effettivamente in funzione che caratterizzano una pratica discorsiva. Le regole di cui parliamo si collocano quindi nel discorso stesso, nella sua determinata e specifica realtà, senza rimandare ad alcun orizzonte ideale.

 

1.6. La formazione delle strategie

 Le "strategie" sono delle organizzazioni di concetti; potremmo pensare ad esse come ad una sorta di temi e teorie, che sorgono all'interno di certi discorsi: ad esempio la grammatica del XVIII secolo diede luogo al tema della lingua originaria, la fonologia del XIX secolo al tema della parentela tra tutte le lingue indoeuropee. In che modo sorgono e si distribuiscono nella storia queste "strategie"? È una necessità che le fa sorgere o si tratta di incontri casuali tra diverse idee? Anche in questo caso Foucault afferma che dietro esse non esiste una scelta originaria, un progetto unitario che determinerebbe in anticipo i discorsi e i temi: bisogna invece mostrare come esse derivino, pur nella loro diversità, da uno stesso meccanismo di relazioni, come siano modi differenti di trattare gli stessi oggetti del discorso.

 

1.7. Osservazioni e conseguenze

L'obiezione che può venire immediatamente avanzata a questo discorso riguarda proprio il tema dell'unità: se fin dall'inizio ci si è mossi nella direzione della critica alle sintesi operate dal pensiero, non tanto per proibirle, quanto per descriverne la formazione, perché introdurre nuovi tipi di unità, di raggruppamenti? E non si era inoltre affermato che in discorsi come quelli della medicina clinica o dell'economia politica ci si imbatteva piuttosto in una dispersione di elementi?

Il fulcro della risposta sta proprio nella nozione di dispersione: se essa viene descritta nella sua singolarità, l'unità che allora si individua non risiede in una sorta di coerenza visibile degli elementi che la compongono, ma nel sistema che rende possibile e governa la formazione dei suoi stessi elementi (le scelte strategiche, i concetti, le modalità di enunciazione), nel loro essere posti in una determinata relazione da parte della pratica discorsiva.

Questi sistemi di formazione non sono delle gabbie originate dai pensieri e dalle rappresentazioni degli uomini e neppure sono delle determinazioni che si formano nei diversi campi del sapere e che costringono, quasi dal di fuori, il discorso: essi, al contrario, sono insiti nel discorso stesso. "Per sistema di formazione si deve dunque intendere un complesso fascio di relazioni che funzionano come regola: esso prescrive ciò che si è dovuto mettere in rapporto, in una pratica discorsiva, perché essa si riferisca a questo e a quell'oggetto, perché essa faccia intervenire questa e quella enunciazione, perché essa utilizzi questo e quel concetto, perché essa organizzi questa e quella strategia." (p. 98).

L'analisi delle formazioni discorsive si distingue, pertanto, da tutti gli altri tipi di descrizioni, in quanto non ricerca ciò che dovrebbe stare, nascosto, dietro o oltre i discorsi, racchiuso in una sorta di silenzio pre-discorsivo, appartenente al puro pensiero o ad una pura coscienza che poi lo trascriverebbero sulla superficie del discorso: questo genere di analisi rimane, invece, nella dimensione del discorso, definendo le regole che esso applica in quanto pratica e scoprendo non "la vita ribollente, la vita non ancora catturata, ma un immenso spessore di sistematicità, un folto insieme di molteplici relazioni." (p. 101).

 

2. L'enunciato e l'archivio
2.1. definire l'enunciato

Foucault ha interrogato il discorso a livello delle regole della sua formazione: questo significa dunque chiedersi secondo quali regole di volta in volta un insieme di segni costituisce un campo definito di significati. Finora però il termine "discorso" è stato utilizzato in molti modi, in riferimento a tutti gli enunciati o a certe pratiche che individuano determinati enunciati. È necessario dunque definire prima di tutto che cosa si intenda esattamente quando si parla di "enunciato".

L'enunciato è identificabile con quell'unità elementare del discorso che potrebbe coincidere con la proposizione? Secondo Foucault no, perché mentre le proposizioni possono essere tra loro equivalenti in relazione al significato anche al variare di alcuni elementi che le compongono, non lo stesso si può dire rispetto alla loro enunciazione. Le proposizioni "Nessuno ha sentito" e "È vero che nessuno ha sentito" non differiscono rispetto al loro significato, ma in quanto enunciati non svolgono la stessa funzione né possono occupare lo stesso posto nel discorso. "Se si trova la formula "Nessuno ha sentito" nella prima riga di un romanzo, si sa, fino a nuovo ordine, che si tratta di una constatazione fatta o dall'autore o da un personaggio (ad alta voce o sotto forma di un monologo interiore); se si trova la seconda formula "È vero che nessuno ha sentito", ci si può trovare soltanto all'interno di un complesso di enunciati che costituiscano un monologo interiore, una discussione muta, una contestazione con se stessi, o un frammento di dialogo, un insieme di domande e di risposte." (p. 108)

È forse l'enunciato identificabile con la frase? Neppure questo è vero, perché vi può essere un enunciato laddove ci sia una frase, ma non vale il contrario, in quanto è possibile enunciare qualcosa senza aver bisogno di alcuna struttura fraseologica. "Un albero genealogico, un libro contabile, le stime di una bilancia commerciale sono degli enunciati: dove sono le frasi?" (p. 109)

L'enunciato non è neppure un atto illocutorio (4) (lo speech act degli analisti inglesi, ossia l'atto di formulazione: si riferisce a quelle espressioni come la preghiera, il giuramento, l'ordine, la promessa, il contratto e simili, dove non è in questione l'intenzione del parlante, né l'effetto prodotto dall'espressione, ma il fatto stesso della formulazione in quanto si è prodotto nel modo in cui si è prodotto): se questo si risolve nella sua formulazione, non lo stesso si può dire per il suo senso che ha bisogno a volte, per apparire, di una reiterazione: "Giuramento, preghiera, contratto, promessa, dimostrazione richiedono il più delle volte un certo numero di formule distinte o di frasi separate: sarebbe difficile rifiutare a ciascuna di esse lo statuto di enunciato con il pretesto che tutte quante sono attraversate da un unico atto illocutorio" (p. 111).

Ma allora che cos'è veramente un enunciato? Dobbiamo pensare forse che qualunque serie di segni dia luogo ad un enunciato? La tastiera di una macchina da scrivere non è un enunciato, ma la serie di lettere Q, Z, E, R, T, scritta in un manuale di dattilografia rappresenta l'enunciato dell'ordine alfabetico adottato dalle macchine italiane.

I primi risultati sono ancora solamente negativi: l'enunciato non richiede una costruzione linguistica regolare, ma neppure è sufficiente, perché esso esista, un semplice insieme materiale di elementi linguistici.

L'enunciato non è quindi una struttura che mette in relazione degli elementi variabili, ma è invece "una funzione di esistenza che appartiene in proprio ai segni e a partire dalla quale si può decidere successivamente […] se essi "hanno senso" oppure no, in base a quale regola si succedano o si sovrappongano, di che cosa siano segno e quale tipo di atto si trovi ad essere effettuato grazie alla loro formulazione." (p. 116).

È questa "funzione di esistenza" che ora Foucault si propone di descrivere, nelle sue regole, nelle sue condizioni e nel campo in cui si effettua.

 

2.2. La funzione enunciativa

In che modo singolare l'enunciato esercita la sua funzione d'esistenza? Foucault ripropone l'esempio delle lettere della tastiera della macchina da scrivere. È il fatto di ricopiarle su un foglio che le fa diventare un enunciato e non un gruppo aleatorio di lettere? È l'intervento di un soggetto? In realtà il problema consiste nella speciale relazione che si instaura tra queste due serie di lettere. Ma non potrebbe questo rapporto consistere in una semplice relazione tra significante e significato, tra nome e suo referente, tra frase e suo senso? Secondo Foucault il rapporto tra l'enunciato e ciò che esso enuncia è qualcosa di diverso. Mentre un nome può occupare diverse posizioni all'interno delle varie costruzioni grammaticali, un enunciato, anche se ripetiamo i nomi, le parole e le frasi da cui è composto, non sarà necessariamente lo stesso enunciato.

Un enunciato ha un rapporto diverso con ciò che enuncia anche rispetto a quello esistente tra la proposizione ed il suo referente. Infatti mentre la proposizione "La montagna d'oro è in California" risulta priva di referente, non lo stesso possiamo dire dell'enunciazione di cui essa potrebbe far parte: "Supponiamo infatti che la formulazione "La montagna d'oro è in California" non si trovi in un manuale di geografia né in un racconto di viaggi, ma in un romanzo, o in una invenzione qualunque: le si potrà riconoscere un valore di verità o di errore (a seconda che il mondo immaginario a cui si riferisce autorizzi oppure no una simile fantasia geologica e geografica)." (p. 119). L'enunciato sembra essere allora l'antecedente della proposizione, nel senso che è esso a fissare lo spazio ed il tipo di relazione tra questa ed il suo referente.

Il rapporto tra l'enunciato e ciò che esso enuncia non è poi neppure identificabile con il rapporto tra la frase ed il suo senso. Se consideriamo, infatti, una frase senza senso, stiamo già pensando ad una precisa possibilità di esistenza, ad esempio ad una realtà visibile, in cui tale frase è appunto priva di senso. Significa che abbiamo già stabilito il piano della sua enunciazione: se fossimo, infatti, all'interno di un sogno o di un testo poetico, quella frase avrebbe una precisa e diversa relazione con il suo senso: possederebbe, ad esempio, il senso datole dall'appartenere all'enunciazione del sogno.

Ma allora come spiegare la funzione svolta dall'enunciato prescindendo dai rapporti di senso e dai valori di verità a cui solitamente ci si riferisce? Dopo aver escluso che il correlato dell'enunciato possa essere un individuo o un oggetto singolo identificato da un nome oppure uno stato di cose che verificherebbe la validità di una proposizione, è possibile affermare che "ciò che si può definire come correlato dell'enunciato è un insieme di campi in cui possono apparire simili oggetti o si possono determinare simili relazioni" (p. 121). Foucault intende dire con questo che l'enunciato non ha di fronte a sé un correlato come qualcosa di immobile e già dato; l'enunciato cioè non si riferisce a delle cose, a degli oggetti, a delle realtà precostituiti, ma apre esso stesso un orizzonte di possibilità di esistenza per gli oggetti: "La referenzialità dell'enunciato forma il luogo, le condizione, il campo di emergenza, l'istanza di differenziazione degli individui o degli oggetti, degli stati di cose e delle relazioni che vengono messe in opera dall'enunciato stesso; definisce le possibilità di apparizione e di delimitazione di ciò che dà il senso alla frase, e alla proposizione il suo valore di verità" (p. 122). Questa referenzialità è propriamente ciò in cui consiste il livello enunciativo della formulazione e che si distingue tanto dal livello grammaticale quanto dal livello logico.

Foucault passa poi ad analizzare la speciale relazione tra l'enunciato ed il suo soggetto. Il soggetto dell'enunciato coincide forse con l'individuo reale che ha scritto o pronunciato una frase? Secondo Foucault il soggetto dell'enunciato si distingue dall'autore di una formulazione. Prendiamo l'esempio di un trattato di matematica: sicuramente nella spiegazione del perché il trattato sia stato scritto, in quali circostanze, con quali metodi, ecc., il soggetto coincide con l'autore di tali formulazioni; ma se si considera la proposizione "Due quantità uguali ad una terza sono uguali tra di loro", il soggetto dell'enunciato è la posizione neutra, indifferente al tempo e allo spazio, identica in qualsiasi sistema linguistico e che ogni individuo occupa quando pronuncia una simile proposizione. Ciò che Foucault vuol dire è che il soggetto di un enunciato non è identico all'autore di una formulazione, né è la causa o l'istanza intenzionale che articola gli enunciati facendoli comparire alla superficie del discorso. Esso è piuttosto "un posto determinato e vuoto che può essere effettivamente colmato da individui differenti…" (p. 127).

Descrivere quindi una formulazione non significa analizzare il rapporto tra l'autore e ciò che ha detto, ma determinare quale sia la posizione che ogni individuo può occupare per esserne il soggetto.

Altro carattere della funzione enunciativa analizzato da Foucault è quello dell'esistenza di un campo associato. Per determinare quando siamo in presenza di una proposizione o di una frase, è sufficiente individuare se esse rispettano determinate regole (ad esempio un certo ordine sintattico dei loro elementi). Questo sistema di regole non è però un campo associato quanto piuttosto un qualcosa che viene supposto affinché si possa costruire una proposizione o una frase. Ma quando parliamo di funzione enunciativa, non è sufficiente considerare una frase o una proposizione in rapporto ad un soggetto o ad un campo di oggetti affinché si dia un enunciato. Quando parliamo di enunciato è necessario riferirsi a tutto un campo più vasto che non coincide semplicemente con il contesto, in quanto è proprio questo più ampio campo a rendere possibile il contesto. Il campo associato è qualcosa di più complesso:

  • "è costituito dalla serie delle altre delle altre formulazioni all'interno delle quali l'enunciato s'inscrive e di cui costituisce un elemento […];
  • è costituito anche dall'insieme delle formulazioni a cui l'enunciato si riferisce (implicitamente o no) sia per ripeterle, sia per modificarle o adattarle, sia per opporvisi, sia per parlarne a sua volta […];
  • è costituito anche dall'insieme delle formulazioni di cui l'enunciato predispone l'ulteriore possibilità, e che possono venire dopo di lui come sua conseguenza […];
  • è costituito dall'insieme delle formulazioni di cui l'enunciato in questione condivide lo statuto, tra cui prende posto senza considerazioni d'ordine lineare, con cui si cancellerà o con cui invece verrà valorizzato, conservato, sacralizzato e offerto, come oggetto possibile, a un discorso futuro […]" (p. 131-132).

Non esiste quindi alcun enunciato che si trovi libero da tutto un campo di coesistenza, di funzioni, di ruoli; ed ogni frase ed ogni proposizione non possono venire analizzate se non a partire dal campo enunciativo in cui esistono.

Ultima condizione affinché una sequenza di segni linguistici possa essere considerata un enunciato è che essa deve avere un'esistenza materiale. L'enunciato ha sempre bisogno di una voce che lo articoli, di una memoria, di uno spazio dove esistere ed è proprio questa materialità dell'enunciato che fa sì che una frase cambi a seconda che compaia in una pagina stampata, sia pronunciata da una voce, ecc. Parlando di materialità dell'enunciato Foucault non si riferisce alla materialità sensibile (ad esempio le diverse edizioni di un libro o le diverse copie di una stessa edizione non danno luogo a differenti enunciati), ma ad un più complesso regime di istituzioni materiali. Facciamo degli esempi: un enunciato può essere lo stesso se scritto su un manoscritto o pubblicato in un libro; non è più lo stesso quando un romanziere pronuncia una frase nella vita quotidiana e poi la attribuisce ad un personaggio in un libro. Con questo Foucault intende dire che la materialità di un enunciato non è da riportare tanto alle coordinate spazio-temporali, quanto piuttosto all'ordine dell'istituzione che definisce le possibilità di trascrizione e di reiscrizione (la stessa frase "i sogni realizzano i desideri" non costituisce lo stesso enunciato in Platone e in Freud; e al contrario un testo in inglese e lo stesso testo tradotto in un'altra lingua costituiscono lo stesso enunciato).

Ancora una volta appare la fondamentale importanza di saper collocare un enunciato in un determinato campo di utilizzazione, saper individuare i modi e le condizioni della sua ripetibilità, il suo statuto, il reticolo di relazioni in cui vive e in cui la sua identità si conserva o scompare.

 

2.3. La descrizione degli enunciati

Nel corso dell'analisi la descrizione dell'enunciato ha assunto una nuova prospettiva: non più descrizione dell'enunciato atomico, ma del campo d'esistenza della funzione enunciativa.

Sorgono a questo punto due domande: come intendere ora il progetto iniziale della descrizione degli enunciati? In che modo si intrecciano la teoria dell'enunciato e l'analisi delle formazioni discorsive? Iniziamo con la prima domanda.

 

a)  Innanzitutto è necessario precisare il vocabolario utilizzato:

  • Performance linguistica: l'insieme di segni prodotti da una lingua naturale o artificiale;
  • Formulazione: l'atto che fa apparire questo insieme di segni su un materiale e secondo una certa forma;
  • Frase o proposizione: le unità riconosciute dalla grammatica o dalla logica;
  • Enunciato: le modalità di esistenza di questi insiemi di segni;
  • Discorso: insieme di sequenze di segni - di enunciati - caratterizzate da particolari modalità di esistenza.

Ciò che Foucault si propone di dimostrare è che quello che finora ha chiamato formazione discorsiva è la legge degli enunciati, della loro dispersione e ripartizione e che quindi il termine discorso costituisce "l'insieme degli enunciati che appartengono a uno stesso sistema di formazione; in questo modo potrò parlare di discorso clinico, di discorso economico, di discorso della storia naturale, di discorso psichiatrico" (p. 144).

 

b) Descrivere un enunciato significa allora non isolare un elemento come si può fare con una proposizione, ma individuare le condizioni di attuazione di una funzione che ha dato luogo ad una serie specifica di segni. Ma come ci appare l'enunciato? Foucault afferma che esso è contemporaneamente non visibile e non nascosto: non nascosto perché caratterizza le modalità di esistenza di un insieme di segni effettivamente prodotti a cui si chiede non ciò che non hanno detto o che tengono celato, "ma in che modo esistano, che cosa significhi per loro esser state manifestate, aver lasciato delle tracce e forse restare lì per una eventuale riutilizzazione, che cosa significhi per loro essere apparse proprio loro, e nessun'altra al loro posto" (p. 147): ciò che si guarda è insomma l'evidenza del linguaggio effettivo (e se anche scopriamo più sensi e significati, lo sfondo enunciativo può essere il medesimo o comunque essi possono dipendere proprio dalle precise modalità di enunciazione in cui si nascondono).

 

c) Ma l'enunciato è anche non direttamente visibile, nel senso che non si offre immediatamente alla nostra percezione. Questo perché esso non si trova accanto alle proposizioni, non caratterizza ciò che si trova in loro, ma il fatto stesso che esse si diano e che si diano in un certo modo. Anche se il linguaggio sembra sempre rimandare ad altro (a degli oggetti, ad un senso, ad un soggetto esterni e lontani), dobbiamo invece soffermarci sulla sua dimensione attuale che determina la sua stessa esistenza singola e limitata, lo spazio della sua possibilità.

 

La comparsa di una frase, di una proposizione, di un senso non provengono da quella che Foucault chiama ironicamente "la primitiva notte del silenzio". È vano cercare un campo libero da qualsiasi forma di positività dove si librerebbe un soggetto autonomo o dove si rivelerebbe l'apertura di una qualche destinazione trascendentale: prima di tutto esistono le condizioni in base alle quali si effettua la funzione enunciativa.

Consideriamo ora la seconda domanda che riguarda la relazione che si viene a creare tra la descrizione degli enunciati e l'analisi delle formazioni discorsive: Foucault vuole cioè mostrare come l'analisi delle formazioni discorsive si centri proprio sulla descrizione degli enunciati nella loro specificità.

Abbiamo visto come parlando di enunciato ci siamo riferiti ad una posizione occupata dal soggetto, ad un campo associato, ad una materialità. Descrivere gli enunciati significa descrivere la funzione enunciativa che essi esercitano e a cui obbediscono i gruppi di performances verbali. Le quattro direzioni in cui si è analizzato il livello enunciativo (formazione degli oggetti, delle posizioni del soggetto, dei concetti, delle scelte strategiche) corrispondono anche ai campi in cui questo livello esercita la sua funzione.

Formazione degli oggetti: Campo di formazione degli oggetti (superfici di emergenza, griglie di specificazione, istanze di delimitazione)

Posizione del soggetto: Campo di regolarità per diverse posizioni di soggettività (status, posizioni istituzionali, ecc.)

Formazione dei concetti: Campo di emergenza dei concetti (forme di successione, forme di coesistenza, procedure d'intervento)

Formazione delle scelte strategiche: Campo delle relazioni tra temi e teorie (incompatibilità, equivalenza, appropriazione da parte di un determinato gruppo di individui)

 E se le formazioni discorsive si sono liberate dalle vecchie unità rappresentate dal testo, dall'architettura deduttiva, dalla figura dell'autore, questo è potuto succedere perché esse implicano il livello enunciativo con tutti gli elementi che lo caratterizzano.

A partire da qui è possibile avanzare una serie di conclusioni:

  1. la descrizione dell'enunciato e dei modi della sua esistenza permette l'individuazione delle formazioni discorsive e viceversa l'individuazione delle formazioni discorsive permette l'enucleazione dei diversi enunciati;
  2. la regolarità degli enunciati è definita dalla formazione discorsiva stessa "poiché, per gli enunciati, essa costituisce non una condizione di possibilità ma una legge di coesistenza" (p. 157);
  3. il discorso sarà allora quell'insieme di enunciati che appartengono alla stessa formazione discorsiva e che sono caratterizzati dalle medesime condizioni di esistenza;
  4. è possibile ora specificare che cosa si intende per "pratica discorsiva": essa non è tanto l'operazione con cui un soggetto formula un'idea, ma "è un insieme di regole anonime, storiche, sempre determinate nel tempo e nello spazio che hanno definito in una data epoca, e per una data area sociale, economica, geografica o linguistica, le condizioni di esercizio della funzione enunciativa" (p. 158).

 Prima di indagare che cosa sia possibile scoprire attraverso questo genere di analisi, quali conseguenze scaturiscono per il campo della storia delle idee, vediamo di descrivere che cosa sia necessario e che cosa escluda l'analisi del campo enunciativo.

 

2.4. Rarità, esteriorità, cumulo

Il più delle volte l'analisi del discorso tenta di riportare la molteplicità degli enunciati ad un unico senso che dovrebbe emergere al di sotto di questa proliferazione. L'analisi degli enunciati, invece, va in direzione opposta: essa vuole descrivere il principio che ha fatto apparire solo quegli insiemi significanti che sono stati enunciati. Foucault chiama questo principio legge di rarità. Vediamo di cosa si tratta.

  • Si parte dalla consapevolezza che non si dica mai tutto, ossia che rispetto alla combinatoria illimitata del linguaggio, gli enunciati non esauriscano tutta la gamma di possibilità. La formazione discorsiva appare allora come "principio di scansione" dei discorsi e come "principio di vacuità" nel linguaggio.
  • Si tratta di studiare gli enunciati nel momento e nei modi in cui sorgono, a partire dall'esclusione di altri enunciati, non perché rimasti non detti o nascosti, ma perché ciò che interessa è un limitato sistema di presenze. Non si va dunque alla ricerca di un testo sottostante, in quanto il campo enunciativo è tutto quanto in superficie: si tratta di vedere come esso si ramifichi, quale sia la posizione occupata dai singoli enunciati.

L'analisi delle formazioni discorsive si rivolge proprio a questa rarità, prendendo come oggetto il valore degli enunciati, determinato non dalla loro verità, ma dalla loro posizione, dalle loro trasformazioni, dai loro rapporti.

Altra caratteristica della descrizione degli enunciati: questi vengono trattati nella forma dell'esteriorità. Se la storia tradizionale ha sempre cercato di passare da queste esteriorità - intese come pura contingenza o dato materiale - ad una essenziale interiorità, al nucleo della soggettività fondatrice, ad un Logos che scorrerebbe sotto la storia manifesta (ciò che Foucault definisce "tema storico-trascendentale"), l'analisi enunciativa tenta di liberarsi da tutto ciò, descrivendo gli enunciati nella loro dispersione "per analizzarli in una esteriorità indubbiamente paradossale poiché non rimanda a nessuna forma contraria di interiorità. [...] Per riafferrare proprio la loro irruzione, nel luogo e nel momento in cui si è prodotta. Per ritrovare la loro incidenza di evento" (p. 163).

Ciò significa che il campo enunciativo non deve essere considerato come la traduzione di qualcosa che ha la sua origine in un altro luogo (nel pensiero o nell'inconscio degli uomini considerati il modello di ciò che diventa visibile), ma come un campo effettivo di relazioni, di regolarità, di avvenimenti. L'analisi degli enunciati si effettua senza alcun riferimento ad un cogito, non chiama in causa colui che parla o che si nasconde dietro ciò che viene detto: essa si colloca piuttosto in quel piano che Foucault definisce "livello del "si dice"", non da intendersi come una sorta di opinione comune o collettiva o di grande voce anonima, ma come "l'insieme delle cose dette, le relazioni, le regolarità e le trasformazioni che vi si possono osservare, il campo che con certe figure, con certe intersecazioni indica la posizione particolare di un soggetto parlante che può ricevere il nome di autore. "Chiunque parla", ma quello che dice, non lo dice da una posizione qualunque. È necessariamente implicato nel meccanismo di una esteriorità." (p.165).

Ultimo carattere dell'analisi enunciativa: essa si rivolge a delle forme di "cumulo" che non si presentano né come ricordo né come totalità di documenti. In realtà non si tratta di far risvegliare dal loro sonno o dal loro passato gli enunciati: si tratta, invece, di seguirli lungo la loro vita, per scoprire che cosa li caratterizza in quanto conservati, riutilizzati, dimenticati o anche distrutti.

Questo tipo di analisi presuppone che gli enunciati vengano considerati:

  • nella loro persistenza (non da cercare nel campo della memoria, ma sotto forma di strumenti, istituzioni, tecniche attraverso cui essi si sono conservati o meno);
  • nella loro additività (intesa come modo specifico di raggruppamento degli enunciati);
  • nella loro ricorrenza (gli enunciati comportano un campo di elementi antecedenti in rapporto ai quali si situano e che riorganizzano e ridistribuiscono).

E' necessario liberarsi dalla figura del ritorno come recupero della purezza della parola e del linguaggio non immersi ancora in nessuna materialità; dalla figura della soggettività come origine o intenzione a cui obbedirebbero gli enunciati; dalla figura dell'origine come totalità o punto zero da cui deriverebbero tutti gli enunciati e a partire da cui tutti sarebbero interpretabili. Gli enunciati devono invece essere considerati nello spessore del cumulo in cui si trovano e che continuano a modificare: ciò "significa stabilire quel che volentieri chiamerei una positività". (p. 168).

 

2.5. L'a priori storico e l'archivio

Questa positività non è ciò che permette di stabilire, ad esempio, quale di due discorsi possiede la verità, ma ciò che consente di definire tra essi uno spazio di comunicazione ossia di manifestare delle identità formali, delle continuità o discontinuità tematiche: " In tal modo la positività riveste il ruolo di quello che si potrebbe chiamare un a priori storico. […] Con esse [queste due parole giustapposte] intendo designare un a priori che sia non condizione di validità per dei giudizi, ma condizione di realtà per degli enunciati" (p. 170).

Questo concetto qui introdotto per la prima volta è fondamentale per capire cosa Foucault intenda per positività e in che modo abbia finora concepito il suo progetto di descrizione dei sistemi enunciativi.

Foucault specifica che la ricerca non deve voler rintracciare ciò che rende legittima una affermazione, ma evidenziare le condizioni di emergenza degli enunciati, la specificità della loro esistenza, le leggi di coesistenza con altri enunciati, i principi delle loro trasformazioni. Il termine "a priori" si riferisce alla storia che si è effettivamente data, alle cose che sono state effettivamente dette e non ad una verità o ad un divenire estranei alla storia specifica. Proprio per questo l'a priori di cui parla Foucault non è estraneo alla storicità, non costituisce una struttura atemporale che domina dall'alto gli avvenimenti: esso può essere definito come l'insieme di regole che caratterizzano e che appartengono ad una certa pratica discorsiva. "L'a priori delle positività non è soltanto il sistema di una dispersione temporale; è esso stesso un insieme trasformabile" (p. 171) e questo proprio perché è storico, assolutamente empirico a differenza di tutti gli a priori formali.

Non vi sono più pensieri costituiti che si traducono in parole, ma si hanno, nelle pratiche discorsive, dei sistemi che instaurano gli enunciati come degli eventi. Foucault chiama questi sistemi di enunciati con la parola archivio. "L'archivio è anzitutto la legge di ciò che può essere detto, il sistema che governa l'apparizione degli enunciati come avvenimenti singoli". (p. 173). Esso è ciò che fa sì che le cose dette sorgano secondo certe regolarità, inserite in un sistema enunciativo che predispone determinate possibilità di esistenza per esse. L'archivio è ciò che definisce il modo di esistenza attuale dell'enunciato, costituendone il sistema di funzionamento. Esso si distingue dalla lingua: se questa stabilisce il sistema di costruzione delle frasi possibili, l'archivio definisce il campo di una pratica che fa sorgere determinati enunciati, è insomma "il sistema generale della formazione e della trasformazione degli enunciati" (p. 174), costituendo quindi per l'enunciato-evento il sistema della sua enunciabilità.

L'archivio non è però descrivibile nella sua totalità in quanto noi stessi parliamo al suo interno, siamo dentro le sue regole, le sue possibilità. Esso si dà invece per frammenti, per regioni. In questo senso è possibile affermare che esso ci delimita, stabilendo delle soglie di esistenza che via via cambiano, compaiono e scompaiono. Ecco perché Foucault afferma che l'archivio spezza il filo di tutte le telelologie trascendentali, dissipa la categoria antropologica della soggettività sovrana ed autonoma: proprio perché storico ed empirico, esso "fa brillare l'altro e l'esterno. […] Stabilisce che noi siamo differenza, che la nostra ragione è la differenza dei discorsi, la nostra storia la differenza dei tempi, il nostro io la differenza delle maschere. Che la differenza non è origine dimenticata e sepolta, ma quella dispersione che noi siamo e facciamo. " (p. 175-176).

La descrizione mai definitiva dell'archivio rappresenta l'orizzonte che abbraccia l'analisi delle formazioni discorsive, l'analisi delle positività e del campo enunciativo. Questo tipo di ricerca assume il nome di "archeologia", non come rinvenimento di un origine lontana, ma come descrizione del già detto a livello dei modi della sua esistenza, come descrizione dei discorsi in quanto pratiche specifiche appartenenti all'archivio.

 

3. La descrizione archeologica
3.1. Archeologia e storia delle idee

Una volta introdotte tutte queste nuove nozioni, queste nuove unità, questi nuovi campi di indagine, è necessario però analizzare cosa effettivamente sia in grado di offrire, a differenza di altri tipi di descrizioni, l'"archeologia". Questa analisi si differenzia veramente da quella che finora è stata chiamata "storia delle idee" (come tipo di analisi che reinterpreta le diverse discipline, che va alla ricerca dell'esperienza originaria nascosta dietro i discorsi, della continuità e del progresso lineare dietro la differenza dei temi e dei discorsi)?

La storia delle idee, e con essa anche molti tipi di analisi storica, è caratterizzata dalla ricerca della genesi, della continuità e della totalizzazione; l'archeologia è invece proprio abbandono della storia delle idee e delle sue procedure. Sono quattro le principali differenze individuate da Foucault tra i due tipi di analisi (si vedano le pagine 184-185):

  1. L'archeologia non vuole descrivere ciò che si cela dietro i discorsi - intenzioni, pensieri, rappresentazioni - ma proprio i discorsi in quanto pratiche governate da precise regole. Non però i discorsi in quanto documenti interpretabili, in quanto segni di qualcos'altro, ma i discorsi nel loro spessore concreto e specifico.
  2. L'archeologia si presenta come un'analisi differenziale delle modalità del discorso: essa vuole cioè definire i discorsi nella loro specificità, mostrando i sistemi di regole che li governano e non cercando di risalire ad una identità unica e costante sottesa ad essi.
  3. L'archeologia non si rifà alla figura dell'opera, ma si riferisce a delle pratiche discorsive che attraversano le singole opere: rifiuta così l'istanza del soggetto creatore come principio di unità e ragione d'essere dell'opera.
  4. L'archeologia, infine, non cerca di rinvenire ciò che si è effettivamente pensato, desiderato, immaginato con un certo discorso; non cerca un'identità che sarebbe stata squarciata e persa dal discorso. Essa è invece una sorta di riscrittura di un discorso fatto oggetto, di ciò che è stato detto o scritto.

 

3.2. L'originale e il regolare

Abbiamo visto come secondo Foucault nella storia delle idee sia centrale la problematica dell'origine. Questa ricerca apre da subito due problemi metodologici: quello della "somiglianza" e quello della "precessione". La storia delle idee ritiene che tutti gli avvenimenti e i discorsi siano collocabili in un'unica grande serie in grado di fissare dei punti di riferimento cronologici omogenei, che tra i vari dati sia possibile, cioè, distinguere l'elemento originario, primario dal punto di vista temporale (tema della precessione) e l'elemento somigliante o identico tra i diversi tipi di formulazioni (tema della somiglianza). Secondo Foucault non è possibile parlare allo stato puro né di precessione né di somiglianza, in quanto entrambe sono rinvenibili solo a partire dall'analisi del campo discorsivo in cui le si rintraccia. L'archeologia non vuole stabilire tra le varie frasi una gerarchia, ma rinvenire le "regolarità" degli enunciati: regolarità intesa non come ciò che si ripete opponendosi a ciò che è apparso per la prima volta in modo originario ed unico, ma come l'insieme delle condizioni secondo cui si esercita ogni funzione enunciativa. La regolarità non consiste in una sorta di indice di frequenza o di probabilità; essa specifica, invece, un campo effettivo di apparizione. Ciò che si contrappone non è la regolarità di un enunciato all'irregolarità di un altro (che sarebbe più innovativo, singolare), ma le diverse regolarità che caratterizzano gli enunciati le quali concernono, quindi, tanto le affermazioni che fanno apparire qualcosa di nuovo, quanto quelle che riprendono ciò che è stato detto. "Il campo degli enunciati non è un insieme di plaghe inerti scandito da momenti fecondi; è un campo attivo da cima a fondo" (p. 191).

Nel momento in cui l'archeologia si interessa ai campi delle regolarità enunciative sta dunque differenziandosi tanto dall'analogia linguistica (ossia la traducibilità degli enunciati) quanto dall'identità o equivalenza logica: possono esserci, infatti, frasi equivalenti dal punto di vista grammaticale o logico che si differenziano però per la pratica enunciativa a cui appartengono. Ciò non significa che ogni enunciato apre un nuovo campo discorsivo, in quanto molti enunciati derivano, all'interno dello stesso discorso, da altri che costituiscono degli "enunciati rettori" i quali definiscono le strutture osservabili, il campo degli oggetti, i codici percettivi. Questo sistema di derivazione non è da confondere con una struttura deduttiva in cui i significati delle esperienze e delle concettualizzazioni verrebbero fatti derivare da un certo numero di assiomi o da un nucleo filosofico originario: "L'ordine archeologico non è quello delle sistematicità né quello delle successioni cronologiche" (p. 195), anche se tra questi diversi ordini possono esserci dei parallelismi.

L'analisi delle formazioni discorsive in Foucault non vuole essere un tentativo di periodizzazione totalitaria, come se in un certo periodo tutti pensassero allo stesso modo pur con delle differenze di superficie. L'archeologia descrive dei livelli di omogeneità enunciativa, individuando degli ordini, delle relazioni, delle gerarchie e non, invece, una sincronia globale e data una volta per tutte.

 

3.3. Le contraddizioni

La storia delle idee di fronte alle contraddizioni, all'incompatibilità tra le proposizioni o all'irregolarità nell'uso delle parole ha sempre cercato di restituire al discorso la sua unità, la sua coerenza. Ma questa coerenza ed unità, proprio perché spesso non esplicite, sono il risultato della ricerca e dell'analisi le quali le hanno dovute supporre, dare per certamente esistenti al di là delle superficiali contraddizioni, per poterle ricostruire: si possono cercare a livello del soggetto parlante, il cui discorso però non è stato capace di rivelare; o si possono cercare nelle strutture utilizzate, anche inconsciamente, dall'autore, o nell'epoca, nelle tradizioni a cui un individuo appartiene. La coerenza così trovata mostrerebbe che ciò che ci è inizialmente sembrato contraddittorio non è altro che "luccichio superficiale; e che bisogna ricondurre ad un unico centro focale tutto questo insieme di bagliori dispersi" (p. 199). L'analisi proposta dalla storia delle idee vuole smascherare questa contraddizione e ricondurla alla pacificazione di un'unità e una coerenza nascoste.

Dopo questo lavoro, per lo storico delle idee rimangono o delle contraddizioni accidentali oppure la contraddizione fondamentale, che consiste nello scontro all'origine del sistema stesso di princìpi e postulati tra loro incompatibili: il primo genere di contraddizioni è ciò che bisogna superare facendo emergere l'unità profonda del discorso che rappresenta, quindi, la figura ideale da rinvenire al di là degli elementi accidentali; l'altro tipo di contraddizione è ciò che emerge attraverso il discorso, il quale ne diventa così la figura empirica. Analizzare il discorso significa allora far scomparire alcune contraddizioni e renderne manifeste altre.

Per l'analisi archeologica le cose cambiano radicalmente: le contraddizioni non devono essere né superate in quanto accidentali né evidenziate in quanto principi segreti da portare alla luce: sono invece degli oggetti da descrivere, da collocare in un luogo preciso di emergenza e di esistenza. Non si cerca di scoprire dietro esse una tematica comune, ma la misura del loro divario: "In rapporto a una storia delle idee che voglia risolvere le contraddizioni nell'unità semioscura di una figura globale, o che voglia trasferirle in un principio generale, astratto ed uniforme d'interpretazione o di spiegazione, l'archeologia descrive i differenti spazi di dissenso" (p. 202). L'archeologia studia quindi i diversi tipi di contraddizione, i diversi livelli in cui esse si possono rintracciare e le diverse funzioni che possono esercitare.

Una formazione discorsiva, quindi, non è un testo lineare, privo di contraddizioni o in grado di risolverle riportandole ad un qualche tipo di unità pacificante: essa è invece uno spazio di dissensi, di trasformazioni di cui l'archeologia si propone di descrivere i livelli ed il funzionamento. "Si tratta insomma di mantenere il discorso nelle sue molteplici asperità; e conseguentemente di sopprimere il tema di una contraddizione uniformemente perduta e ritrovata, risolta e sempre rinascente, nell'elemento indifferenziato del Logos" (p. 206).

 

3.4. I fatti comparativi

Nel descrivere le formazioni discorsive, l'archeologia deve confrontarle, contrapporle, fissarne i limiti cronologici, presentandosi così come uno studio al plurale e distinguendosi allo stesso tempo da tutti gli altri tipi di descrizione. Quando infatti si comparano diverse formazioni discorsive non si va alla ricerca di forme generali, ma di configurazioni particolari (ad esempio, confrontando la Grammatica generale, l'Analisi delle ricchezze e la Storia naturale nell'epoca classica non si ricerca la mentalità generale o la forma di razionalità a loro sottesa, ma gli insiemi determinati di formazioni discorsive che posseggono specifici rapporti descrivibili). Queste configurazioni si trovano poi in relazione con altri gruppi di discorso formando quella che Foucault definisce una "configurazione interdiscorsiva". Di conseguenza, questa analisi non vuole essere esaustiva, proprio perché il suo obiettivo non è la descrizione dello spirito di un'epoca, del volto di una cultura ma la descrizione di una "regione d'interpositività"; e proprio perché sceglie solo alcune delle formazioni discorsive esistenti tra tutte quelle appartenenti ad una data epoca, essa presenta solo uno degli insiemi descrivibili: "L'orizzonte a cui si rivolge l'archeologia, non è una scienza, una razionalità, una mentalità, una cultura; è un groviglio d'interpositività di cui non si possono fissare di colpo i confini e i punti d'incontro. L'archeologia: un'analisi comparativa che non è destinata a ridurre la diversità dei discorsi e a delineare l'unità che li deve totalizzare, ma è destinata a suddividere la loro diversità in figure differenti. Il confronto archeologico non ha un effetto unificatore, ma moltiplicatore" (pp. 210-211).

Ma cosa vuole effettivamente mettere in luce l'analisi archeologica? Essa vuole analizzare il meccanismo delle analogie e delle differenze che caratterizzano le formazioni discorsive così come esse appaiono a livello delle regole di formazione. Questo significa:

  • mostrare gli isomorfismi archeologici (come elementi discorsivi differenti si formino a partire da regole analoghe);
  • definire il modello archeologico di ogni formazione (come le regole si applichino o meno, si concatenino o no nei vari tipi di discorso);
  • mostrare l'isotopia archeologica (come concetti diversi occupino un posto analogo nei diversi sistemi di positività);
  • mostrare i divari archeologici (come un'unica nozione abbracci due elementi archeologicamente distinti);
  • individuare le correlazioni archeologiche (come tra diversi gruppi di positività si possano stabilire rapporti di subordinazione o complementarietà).

Ciò che interessa alla descrizione archeologica non sono tanto le influenze, gli scambi, ma piuttosto ciò che li ha resi possibili. Si descrive cioè il campo che ha costituito la condizione di possibilità storica per tutti questi scambi.

L'archeologia vuole anche studiare i rapporti tra le formazioni discorsive e quelle non discorsive (le istituzioni, gli avvenimenti politici, i processi economici). Essa però non cerca di rinvenire le motivazioni di un certo insieme di fatti enunciativi (ricerca del contesto di formulazione) e neppure ciò che si esprime in esso (compito dell'ermeneutica), ma vuole individuare i modi in cui si articolano questi due generi di formazioni.

Relazioni di causalità, di riflesso, di simbolizzazione si possono individuare, secondo l'analisi archeologica, soltanto dopo la descrizione delle positività e delle regole di formazione di queste positività. Ma se l'archeologia rifiuta la ricerca delle cause come metodo del suo lavoro, se non vuole vedere nel discorso la superficie di riflesso di avvenimenti che accadono altrove, se vuole eliminare il ricorso alla figura di un soggetto-padrone , non è per affermare di contro l'assoluta indipendenza del discorso, ma per scoprire che questo non possiede uno statuto puramente ideale e astorico, ma vive all'interno di un vasto campo di istituzioni, di processi economici, politici e di rapporti sociali.

 

3.5. Il cambiamento e le trasformazioni

L'archeologia pare però in qualche modo pietrificare la storia nella miriade di unità che vuole descrivere, spesso prescindendo dalle loro concatenazioni temporali: "Più eternità che si succedono, un complesso di immagini fisse che si eclissano a turno, tutto ciò non realizza né un movimento, né un tempo, né una storia"(p.219).

La descrizione delle regole di formazione degli enunciati, del campo in cui esse funzionano, non elimina l'elemento temporale, ma mette semplicemente da parte l'idea che la successone sia un assoluto, evidenziando invece le diverse forme di successione che si intersecano nel discorso. L'archeologia vuole liberarsi di due modelli: il modello lineare della parola secondo il quale gli avvenimenti si succedono gli uni agli altri e il modello del flusso della coscienza in cui il presente è considerato come conservazione del passato e apertura del futuro. Il discorso considerato dall'archeologia non consiste in una coscienza che esterna il suo progetto sotto forma di linguaggio, ma è una pratica che presenta determinate forme di concatenazione e di successione.

Secondo aspetto che dobbiamo specificare: l'archeologia, come abbiamo visto, invece di riannodare i fili che dovrebbero unire i discorsi, gli avvenimenti, ricerca piuttosto le differenze, le discontinuità e cerca di analizzarle, di differenziarle. Ma in quale senso avviene questo?

Innanzitutto l'archeologia distingue diversi piani di eventi: quello degli enunciati, dei concetti, degli oggetti, delle scelte strategiche; in secondo luogo li analizza, ma riportandoli non al modello teleologico o psicologico e cioè riferendosi non in modo generale al cambiamento, ma analizzandone le trasformazioni (gli elementi di un sistema, i rapporti tra le regole di formazione, tra le diverse positività, ecc.). Trasformazioni che non implicano la scomparsa improvvisa dei concetti, degli oggetti, delle enunciazioni, ma il sorgere di nuove regole di formazione (che, ripetiamo, è il principio della molteplicità e della dispersione dei concetti e degli oggetti e non della loro determinazione). Non c'è opposizione tra continuo e discontinuo, quasi che il secondo fosse sinonimo di irrazionalità: l'archeologia vuole "mostrare come il continuo si formi secondo le stesse condizioni e in base alle stesse regole della dispersione; e che esso rientra [...] nel campo della pratica discorsiva" (p. 229). La frattura non deve quindi essere vista come un'interruzione rispetto a due epoche: essa è una discontinuità tra due positività caratterizzata da specifiche trasformazioni.

L'archeologia non si concentra allora né solo sulle epoche, che non rappresentano più il suo orizzonte ed unico oggetto, né solo sulle fratture come confine dell'analisi condotta, ma sulle pratiche discorsive che attraversano con le loro trasformazioni le epoche e i discorsi.

 

3.6. Scienza e sapere

Ma l'archeologia, con i nuovi concetti introdotti, le nuove unità di riferimento, che rapporto può instaurare con l'analisi delle scienze? 

a) Positività, discipline, scienze
Si potrebbe forse credere che l'archeologia con i termini "formazione discorsiva" e "positività" non sia in grado di affrontare l'analisi del discorso scientifico, concentrandosi piuttosto su altri tipi di discipline. Insomma l'archeologia parrebbe poter analizzare quelle discipline che non sono delle vere e proprie scienze, ma degli abbozzi di scienze future. Secondo Foucault, al contrario, l'archeologia non descrive delle discipline ma delle positività, delle formazioni discorsive, che in alcuni casi possono coincidere con delle discipline ma in altri no. Non c'è infatti alcuna relazione biunivoca tra le discipline istituite e le formazioni discorsive (questo è quanto scoperto, ad esempio, nella Storia della follia, in cui analizzando la nuova disciplina psichiatrica comparsa nel XIX secolo sono emerse una serie di formazioni discorsive, di relazioni tra istituzioni che non si sono potute descrivere come semplici elementi di una disciplina: tutte queste pratiche oltrepassavano la disciplina stessa appartenendo a diversi campi - a quello dell'amministrazione, della filosofia e della letteratura, dell'organizzazione del lavoro e dell'assistenza, ecc.).
Ma allora ciò che è stato indicato con il nome di formazione discorsiva non potrebbe essere il nucleo delle futura scienza? L'archeologia non andrebbe così alla ricerca di tutti quegli elementi eterogenei che andranno poi a costituire la base da cui prenderà avvio una scienza? Anche qui Foucault dà una risposta negativa: ciò che ad esempio è stato chiamato grammatica generale non comprende tutto ciò che poi si è detto sul linguaggio o di cui si è occupata la filologia. Ma allora la relazione tra le positività e le scienze è cronologica o forse di esclusione? Se non si possono identificare le formazioni discorsive con le scienze ma neppure con le discipline in generale e se neppure è lecito escludere una qualche relazione tra esse, quale rapporto esiste tra le positività e le scienze?

b) Il sapere
Le positività non definiscono una forma di conoscenza e neppure il grado raggiunto da una conoscenza in un dato momento: "analizzare delle positività significa mostrare in base a quali regole una pratica discorsiva possa formare dei gruppi di oggetti, degli insiemi di enunciazioni, dei complessi di concetti, delle serie di scelte teoriche" (p. 237). Esse non costituiscono né una scienza né, però, delle conoscenze eterogenee e raggruppate insieme magari da un soggetto. Possiamo pensare ad esse come la condizione preliminare di ciò che in seguito si rivelerà e funzionerà come conoscenza o errore, acquisizione o perdita. "Questo insieme di elementi, regolarmente formati da una pratica discorsiva e indispensabili alla costituzione di una scienza, benché non necessariamente destinati a darle vita, si può chiamare sapere." (p. 238). L'archeologia segue un cammino diverso da quello coscienza-conoscenza-scienza: essa infatti segue il percorso pratica discorsiva-sapere-scienza in cui il soggetto non è più il fulcro ma è sempre situato e dipendente (posizione del soggetto). Ecco perché è necessario distinguere tra campi scientifici e territori archeologici: allo stesso campo di scientificità appartengono le proposizioni che rispettano determinate leggi di costruzione; i territori archeologici attraversano invece testi letterari, scientifici, filosofici perché il sapere non corrisponde solo alle dimostrazioni ma comprende anche testi fantastici, racconti, decisioni politiche. La pratica discorsiva allora non coincide con l'elaborazione scientifica che può sorgere da essa: piuttosto si può dire che le scienze appaiono sullo sfondo di un sapere.
Si aprono così nuovi problemi a cui Foucault non darà risposta, ma proporrà una direzione di analisi: come collocare e definire la funzione di una regione di scientificità all'interno di un territorio archeologico? Secondo quali processi emerge una regione di scientificità in una formazione discorsiva?

c) Sapere e ideologia
Una scienza una volta costituita non assorbe in sé la formazione discorsiva in cui era comparsa, ma neppure la cancella: essa svolge la sua funzione collocandosi in un campo di sapere e modificandosi insieme alle trasformazioni delle formazioni discorsive. L'analisi archeologica vuole studiare il rapporto tra scienza e sapere, mostrando come la prima funzioni all'interno del secondo. Proprio in questo spazio si determinano i rapporti tra l'ideologia e le scienze, ossia nel punto di contatto tra il sapere e le scienze, laddove queste modificano e insieme confermano il sapere. Foucault porta come esempio quello dell'economia politica: essa svolge una precisa funzione all'interno dell'economia capitalistica che può essere rinvenuta nella difesa degli interessi della società borghese; ma ciò non basta per descrivere a fondo i rapporti tra la struttura epistemologica dell'economia e la sua funzione ideologica: sarà necessario "passare attraverso l'analisi della formazione discorsiva che le ha dato luogo e dell'insieme degli oggetti, dei concetti, delle scelte teoriche che ha dovuto elaborare e sistematizzare" (p. 242), oltre che attraverso l'analisi dei rapporti con le altre pratiche discorsive e non discorsive con cui è entrata in contatto.

 d) Le diverse soglie e la loro cronologia
Per una formazione discorsiva si possono descrivere diverse soglie di emergenza:

  • soglia di positività quando una pratica discorsiva s'individualizza e a partire da cui si inizia ad impiegare un unico sistema di formazione degli enunciati;
  • soglia di epistemologizzazione quando un insieme di enunciati vuole far valere delle regole di verifica e coerenza;
  • soglia di scientificità quando la figura epistemologica così formata non obbedisce solo a regole archeologiche di formazione, ma anche a leggi di costruzione delle proposizioni;
  • soglia di formalizzazione quando il discorso svilupperà l'intero edificio formale (assiomi necessari, strutture proposizionali, trasformazioni).

Lo studio di queste soglie e della loro cronologia (che non è automatica, in quanto non tutte le formazioni discorsive passano attraverso tutte queste soglie e non sempre secondo lo stesso ordine) costituisce un importante campo di studio per l'archeologia.

 e) I diversi tipi di storia delle scienze
Ad ognuna delle soglie individuate corrisponde un diverso tipo di analisi storica.

  • L'analisi del livello di formalizzazione è ad esempio quella realizzata dalla storia che la matematica racconta di se stessa nel processo continuo della sua elaborazione, in quanto essa non cancella mai come non scientifico ciò che è stata in un dato momento, ma continuamente lo ridefinisce al suo interno.
  • L'analisi che interessa la soglia della scientificità si chiede come sia possibile che un concetto si sia liberato di tutte le risonanze non ancora scientifiche per assumere statuto scientifico. È quindi un tipo di storia che racconta l'opposizione tra errore e verità, tra purezza e impurità, tra scientifico e non scientifico.
  • L'analisi che parte dalle soglie di epistemologizzazione cerca di individuare le pratiche discorsive che danno vita ad un sapere che assumerà in seguito lo statuto di scienza; significa cioè partire dalla descrizione delle pratiche discorsive per far vedere come si sia giunti a delle norme di scientificità, e a volte anche alla soglia della formalizzazione. "L'analisi delle formazioni discorsive, delle positività e del sapere nei loro rapporti con le figure epistemologiche e le scienze, la si è chiamata […] l'analisi dell'episteme. […] L'episteme non è una forma di conoscenza o un tipo di razionalità che, passando attraverso le scienze più diverse, manifesti la sovrana unità di un soggetto, di una mente o di un'epoca; è l'insieme delle relazioni che per una data epoca si possono scoprire tra le scienze quando si analizzano al livello delle regolarità discorsive" (p. 250-251).

La descrizione dell'episteme non può dunque mai dirsi conclusa; e così pure l'episteme stessa non costituisce un campo immobile, proprio perché è l'insieme mobile di relazioni tra le positività, le pratiche discorsive, le figure epistemologiche e le scienze. Questo tipo di analisi si differenzia quindi da tutte quelle che individuano il diritto di una scienza a ritenersi tale nel fondamento costituito dal soggetto trascendentale, in quanto essa guarda invece all'esistenza stessa della scienza e ai suoi processi in quanto pratica storica.

 f) Altre archeologie
Ultimo problema esaminato da Foucault: è proprio necessario che la descrizione archeologica guardi sempre all'episteme, ai discorsi scientifici o può interessarsi anche ad altre regioni?
Foucault prende come esempio un possibile studio futuro sulla sessualità (vedi le pagine 252-253). Invece di analizzare come siano sorte le figure epistemologiche della sessualità elaborate dalla biologia o dalla psicologia, ci si potrebbe chiedere quale pratica discorsiva fosse implicata dai comportamenti e dalle rappresentazioni sessuali; ossia se la sessualità, al di fuori del discorso scientifico, costituisse un campo di oggetti di cui parlare, un campo di enunciazioni (liriche, giuridiche o altro), un insieme di concetti e di scelte. Un'analisi archeologica di questo tipo si chiederebbe come i divieti, i limiti, le manifestazioni verbali e non concernenti la sessualità possano essere legate a una determinata pratica discorsiva. E mostrerebbe come un certo modo di parlare possa essere una delle forme, anche se non scientifiche, secondo cui descrivere la sessualità: in questo caso, ad esempio, l'analisi non andrebbe in direzione dell'episteme, quanto piuttosto dell'etica.
Altro esempio: l'analisi di un quadro. Per analizzarlo è possibile indagare il discorso non detto del pittore, la sua nascosta visione del mondo, l'epoca in cui si trovò a vivere e operare. L'analisi archeologica, invece, segue un'altra direzione: considera se lo spazio, i colori, la luce, le proporzioni, ecc. non siano stati concettualizzati e enunciati in una certa pratica discorsiva, secondo precise forme di insegnamento, di tecniche. Essa non vuole far vedere come la pittura sia un modo di dire che non ricorre alle parole, ma dimostrare che la pittura è una particolare pratica discorsiva caratterizzata da tecniche ed effetti: "… la pittura non è una pura visione che si debba poi trascrivere nella materialità dello spazio; tanto meno è un gesto nudo i cui significati muti e infinitamente vuoti debbano venire enucleati da ulteriori interpretazioni. Essa è permeata tutta quanta - e indipendentemente dalle conoscenze scientifiche e dai temi filosofici - dalla positività di un sapere." (p. 254).

È vero. Finora Foucault ha indagato in direzione dell'episteme, ma solo perché le formazioni discorsive nelle nostre culture tendono ad epistemologizzarsi. Ma come già detto all'inizio si tratta solamente di un punto di partenza provvisorio e preferenziale per l'archeologia, non di certo obbligato.

 

Conclusione

Nella conclusione del libro Foucault presenta una serie di possibili obiezioni che potrebbero venirgli mosse.

  • Foucault sembra non aver voluto utilizzare gli strumenti proposti dallo strutturalismo, né alcun tipo di formalizzazione nelle sue descrizioni, lasciando intendere, quasi implicitamente, che il campo studiato si sottraeva a qualsiasi schema. Ma non è forse questa una sorta di impotenza che ha voluto darsi il nome di metodo, ricorrendo di volta in volta all'uso di nuovi termini (positività, formazioni, pratiche discorsive, ecc.)? E l'aver rifiutato il ricorso alle varie categorie antropologiche, la figura del soggetto parlante, e soprattutto il riferimento del discorso alla sua temporalità, non coincide forse con l'incapacità di vedere il discorso come qualcosa di essenzialmente storico?
    Foucault riconosce di aver rifiutato di riferire il discorso ad una soggettività, ma questo per far apparire i diversi livelli possibili di analisi, per far vedere come i discorsi non nascondessero delle leggi o delle forme applicate da tutti i soggetti in una data epoca, ma come diversi individui nella stessa epoca potessero parlare di oggetti differenti, usando concetti differenti. Foucault non ha voluto evitare il problema del soggetto, ma ha voluto affrontarlo definendo le posizioni e le funzioni da esso assolte nella diversità del discorso: "Non ho negato la storia, ho tenuto in sospeso la categoria generale e vuota del cambiamento per far apparire delle trasformazioni di livelli differenti; rifiuto un modello uniforme di temporalizzazione per descrivere di ogni pratica discorsiva le regole di accumulo, di esclusione, di riattivazione, le forme particolari di derivazione e i modi specifici di inserimento in successioni diverse". (p. 261). 
  • Se anche ormai è possibile accettare che vi siano delle leggi di struttura che governano la lingua, l'inconscio e l'immaginazione degli uomini, non si può invece accettare di analizzare i discorsi nella loro successione senza riferirli ad un'attività costitutiva, senza supporre un progetto originario o una teleologia che li legherebbe tutti. È lecito sì indagare sulle relazioni, sugli elementi singoli, sulle discontinuità, ma non "risalire fino alle forme del discorso che le rende possibili e mettere in discussione il luogo stesso da cui noi parliamo oggi. La storia di quelle analisi in cui si evita la soggettività conserva dentro di sé la propria trascendenza" (p. 263).
    Foucault traduce l'obiezione avanzata in questi termini: "Certo, ormai dobbiamo accettare che l'analisi dei discorsi, delle opere, dei sistemi filosofici non sia più riportata esclusivamente alla storia dell'anima o a un progetto d'esistenza, ma a delle strutture secondo cui i vari campi della realtà si articolano. Ma la sovranità della coscienza, il tema storico-trascendentale potranno essere recuperati in seconda istanza attraverso l'analisi di tutte queste analisi, la ricerca della loro origine, della loro destinazione, del loro senso che sarà sempre e comunque fissato dalla ragione e dalla sua intrinseca designazione trascendentale" Foucault ha voluto spingersi oltre proprio questa posizione e "affrancare la storia del pensiero dalla soggezione trascendentale. […] Si trattava di analizzare questa storia in una discontinuità che non fosse ridotta in anticipo da nessuna teleologia; di rintracciarla in una dispersione che non potesse essere racchiusa da nessun orizzonte preliminare, di lasciare che si manifestasse in un anonimato a cui nessuna costituzione trascendentale imponesse la forma del soggetto; di aprirla a una temporalità che non promettesse il ritorno di nessuna aurora" (p. 264-265). La vera opposizione a questa nuova proposta di analisi viene, secondo Foucault, proprio dalla volontà di garantire il ruolo fino allora svolto dalla coscienza, il suo potere costitutivo. Tutto il misconoscimento del metodo di lavoro e del significato dell'archeologia (il considerarla come una ricerca fallita dell'origine, degli atti fondatori, o come un'analisi delle totalità culturali incapace di cogliere l'orizzonte empirico, a differenza del lavoro del vero storico) appare coerente con il tentativo di salvare le vecchie categorie antropologiche. Ed è anche funzionale all'attacco rivolto allo strutturalismo il quale, nel tentativo di applicare i suoi metodi a tutti i campi del sapere, correrebbe il rischio di cadere in una sorta di ontologia della struttura. In realtà il rifiuto dell'archeologia è teso a mascherare la crisi di tutte le forme di filosofia trascendentale, di tutte le ideologie umanistiche che si fondavano sullo statuto del soggetto. 
  • Ma come si possono legittimare le analisi di Foucault nel momento in cui rifiutano il ricorso ad un soggetto costitutivo? Come si sottraggono all'accusa di non essere altro che un genere ingenuo di positivismo? E poi a che campo appartengono, a quello della storia o della filosofia?
    Foucault risponde che per ora il suo discorso non determina il luogo da cui parla, in quanto è discorso su dei discorsi; non va alla ricerca di leggi nascoste o di un'origine dimenticata, ma effettua una "diagnosi", che non vuole riconoscere un privilegio ad alcun centro, ma far invece emergere le differenze, analizzandole in quanto oggetti e concetti. Se la filosofia è ricerca dell'origine lontana, allora Foucault afferma che la sua indagine non può essere definita filosofica; e se la storia è ricerca di questo filo unificatore, allora la sua ricerca non può neppure essere chiamata storica.
  • Si può pensare allora che per come è stata presentata l'archeologia, essa non possa essere considerata una scienza: è una descrizione di cui non si esplicitano i fondamenti scientifici e per questo è destinata a scomparire.
    È sicuramente vero che l'archeologia non è mai stata presentata come scienza. Ma il suo campo di indagine (performances verbali, enunciato, archivio, regolarità enunciative, positività, ecc.) si pone in rapporto con le scienze e le analisi di tipo scientifico, le quali costituiscono per l'archeologia delle scienze-oggetto: essa si pone delle domande che riguardano le altre scienze (la domanda sul soggetto coinvolge la psicanalisi; la ricerca delle regole di formazione dei concetti riguarda il problema delle strutture epistemologiche; lo studio dei campi di formazione dei concetti e dei discorsi interessa l'analisi delle formazioni sociali). Foucault ritiene che sia ancora impossibile stabilire se l'archeologia costituisca una disciplina specifica o se sia solamente uno dei modi di sollevare e affrontare un determinato gruppo di problemi.
  • Foucault, costringendo i discorsi e le azioni degli individui entro sistemi ben precisi di regole, non avrebbe negato qualsiasi tipo di libertà, qualsiasi spazio di azione in cui muoversi per intervenire nella realtà?
    Secondo Foucault affermando questo si sta commettendo un duplice errore che riguarda tanto le pratiche discorsive quanto la libertà umana. Le positività descritte non devono essere pensate come delle costrizioni che si impongono dall'esterno al pensiero o che risiedono in esso da sempre: esse sono invece l'insieme di condizioni secondo cui si esercita una pratica che dà luogo a determinati enunciati. Non sono dei confini, ma il campo in cui la pratica esiste, le regole secondo cui essa si articola, le relazioni che instaura. Ciò significa che parlare non vuol dire solo esprimere quello che si pensa o far funzionare le strutture di una lingua, ma significa compiere qualcosa di più complesso che comporta delle condizioni e delle regole; che un cambiamento nel discorso non presuppone solo delle idee nuove, ma delle trasformazioni concrete all'interno di una pratica. E per quanto riguarda l'idea di libertà, non è proprio la ricerca ostinata del senso, del progetto, del soggetto costitutivo, del Logos sotteso agli avvenimenti che impediscono di pensare al tema del cambiamento? Quale paura si nasconde nella ricerca del destino storico-trascendentale al di là delle trasformazioni e delle fratture? Foucault sostiene che a questa domanda forse l'unica risposta sarebbe di tipo politico e per il momento ne sospende l'approfondimento.

 Foucault è consapevole della difficoltà della sua indagine e delle conseguenze che essa comporta per quanto riguarda il colpo assestato alla coscienza e alla visione della storia come continuum. Afferma di capire coloro che si oppongono al suo discorso a difesa del loro potere totale su ciò che pensano, dicono, immaginano. Ma a costoro rimane da dire solamente che "il discorso non è la vita: il suo tempo non è il vostro, in lui non vi riconcilierete con la morte; è possibile che abbiate ucciso Dio sotto il peso di tutto quello che avete detto; ma non illudetevi di costruire con tutto quello che dite, un uomo che vivrà più di lui" (p. 275).

 

Bibliografia 
Indichiamo qui i testi disponibili in italiano sulla Archeologia del sapere. Per una bibliografia generale su Foucault si veda E. Panaccione, Introduzione allo studio di Foucault, Bibliografia

  • Michel Foucault, L'archeologia del sapere, trad. it. di G. Bogliolo, Rizzoli, Milano, 1994.
  • AA.VV., Effetto Foucault, a cura di P. A. Rovatti, Feltrinelli, Milano, 1986.
  • Stefano Catucci, Introduzione a Foucault, Laterza, Bari, 2000.
  • Gilles Deleuze, Foucault, trad. it. di P. A. Rovatti e F. Sossi, Feltrinelli, Milano, 1987.
  • Salvatore Natoli, Linguaggio e discorso. L'enunciato e l'archivio in Foucault in Teatro filosofico, Feltrinelli, Milano, 1991.
  • Carlo Sini, Foucault in Semeiotica e filosofia, Il Mulino, Bologna, 1978, in particolare le pagine 195-213.

 

Note

(1) Si veda anche il Lessico dell'Archeologia del sapere. Per una presentazione generale dell'opera di Foucault, si veda E. Panaccione, Introduzione allo studio di Foucault.

(2) Tutte le citazioni che d'ora in avanti saranno riportate, con l’indicazione tra parentesi del numero di pagina, sono tratte da Michel Foucault, L'archeologia del sapere, trad. it. di G. Bogliolo, Rizzoli, Milano, 1994.

(3) Come vedremo seguendo Foucault nel suo percorso, il rapporto tra le parole, i discorsi e la realtà non è una semplice corrispondenza, in quanto comporta delle precise regole di emergenza e di funzionamento, presenta delle precise relazioni che si instaurano tra gli enunciati stessi, insomma tutto un complesso "campo di esistenza".

(4) Illocutorio o illocutivo: detto di ogni enunciato che realizza o tende a realizzare l'azione in esso citata.

Da: http://www.ilgiardinodeipensieri.com/storiafil/foucault1.htm

 

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