"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
Qual è oggi la sede più specifica della politica?
Quali sono i linguaggi contemporanei della politica? Qual è, infine, il ruolo
dell’informazione di fronte alle novità emerse negli ultimi anni? Sono domande
che coinvolgono direttamente i politici, i giornalisti, i portavoce governativi,
i responsabili della comunicazione dei partiti, i conduttori televisivi. Al
cuore di tutto, il rapporto tra la capacità di rappresentanza della politica e
quella del giornalismo di rappresentarla. Ma è possibile oggi scindere
artificiosamente tra politica da una parte e informazione politica dall’altra?
Scindere, insomma, nel senso di una separatezza neutralizzante tra i tre poteri
classici della teoria liberale e il famigerato “quarto potere”?
Un fatto è certo: nell’ultimo decennio la politica, il sistema dell’informazione
e la televisione sono state oggetto in Italia di una serie così veloce e
continua di trasformazioni e di innovazioni che proprio per il loro carattere di
novità forse cercano ancora un loro equilibrio e una loro regolarizzazione
definitiva.
E' cambiata la modalità di comunicare dei politici; si è rivoluzionato il
giornalismo politico - una su tutte: nei giornali è scomparso il tradizionale
“pastone”, il resoconto quotidiano di ciò che avviene nel Palazzo - e si sono
imposte nuove forme di approccio agli eventi della sfera pubblica; la
televisione, soprattutto, è diventata la sede privilegiata per comunicare ai
cittadini decisioni e fatti destinati a cambiare i rapporti di forza e a
scuotere l’opinione pubblica. Su tutto, è importante rendersi pienamente
consapevoli del processo che, su questo piano, si è sviluppato nell’ultimo
ventennio.
Indietro, infatti, non si può tornare, e sembrano davvero passati anni luce da
quando i partiti e i loro leader in Tv erano appannaggio esclusivo dei vari
Jader Jacobelli, Gianni Granzotto e Ugo Zatterin: quel lungo periodo durato fino
alla fine degli anni Settanta, quando la politica in casa era relegata alle
fredde e inamidate tribune politiche, con leader che apparivano sul video
attenti a non fuoriuscire dal loro ambito istituzionale e discussioni sin troppo
misurate e composte. Arrivò solo nel ’77 la prima rottura di quella separatezza:
improvvisamente l’uomo politico diventava confidenziale, uscendo dal ruolo
canonico e da spazi rigidamente recintati. A inaugurare quella “rivoluzione” fu
Maurizio Costanzo, allora ideatore e conduttore del primo talk show della nostra
storia, quel Bontà loro dove i politici, finalmente, mescolati a varia umanità,
rinunciano alla loro aura protocollare per svelare nel salotto anche il privato
della loro personalità. Memorabile fu quella “prima” intervista con Giulio
Andreotti, così come è rimasta alle cronache, con un seguito di vivaci polemiche
e addirittura un’interpellanza parlamentare, la puntata nella quale il
conduttore aveva chiesto a Tina Anselmi perché non si fosse mai sposata. Non fu
da meno quando, sempre in una trasmissione di Costanzo, il deputato comunista
Antonello Trombadori, rivolgendosi alla radicale Emma Bonino con l’appellativo
di “cocca mia”, suscitò le ire delle femministe.
Ed è ancora datato ’77 un altro episodio “rivoluzionario”, un vero e proprio
media event, avvenuto questa volta nel corso di Portobello, la
trasmissione-mercatino condotta da Enzo Tortora. Davanti a una platea di dieci
milioni di telespettatori, una signora milanese di ottantuno anni parla della
sua situazione di anziana in Italia. A quel punto suona il telefono, e si sente
la voce del primo “acquirente”: “Sono l’onorevole Bettino Craxi, il segretario
del Partito socialista…”. Al di là dei contenuti della conversazione in sé, il
gesto apre un varco: per la prima volta un autorevole uomo politico fa sapere la
sua attraverso un gioco televisivo. E' il via libera a quella che verrà chiamata
la “politica spettacolo”.
Da allora in un crescendo oggi ben evidenziabile col senno di poi, una nuova
forma di personalizzazione diventa il leit motiv dello scontro politico e la
televisione, prima che i giornali, ne diventa il media privilegiato. E' un
processo che le allora nuove emittenti private, affacciatesi improvvisamente nel
panorama comunicativo italiano, contribuiranno a rafforzare nel corso della
campagna elettorale del 1979. Arrivano nuove soluzioni mutuate dai network
americani e, tra tutte, comincia a prevalere il confronto diretto tra leader
antagonisti. Una formula che la Rai riprenderà soprattutto con Mixer, in onda
dal 1980: in particolare nei “faccia a faccia” condotti da Giovanni Minoli
vennero sperimentati, attraverso moduli di “botta e risposta”, veri e propri
contraddittori all’americana che molto contribuiranno a imporre il carisma di
molti leader.
La televisione, il medium, che spettacolarizza tutto, impone a questo punto una
sorta di assunzione piacevole, estetica, del mondo politico: oltre che le idee e
i programmi comincia a contare il modo in cui le si presentano. E siamo nel
pieno degli anni Ottanta, il decennio del look e dell’edonismo di massa, e i
politici sono come costretti a uscire dalle tristi stanze delle Tribune per
entrare nei salotti nella necessità di “bucare il video”. Gli uomini del Palazzo
danno definitivamente l’addio al vecchio comizio come strumento privilegiato di
comunicazione con gli elettori, e trionfa la tv campaign, nel senso di un
reciproco conferimento di status: l’interesse dei mass media per un nuovo tipo
di uomo politico lo rende non solo conosciuto, ma soprattutto lo fa esistere, lo
rende autorevole per il pubblico. E la stampa deve adeguarsi a questo approccio
alla politica, rendendo in qualche modo televisive le sue pagine.
Già nelle consultazioni politiche del 1983, del resto, vent’anni fa le
principali reti private, ormai consolidate, lanciavano una propria
programmazione elettorale tutta all’insegna della “spettacolarizzazione”:
Rotocalco elettorale, Prima pagina e Obiettivo su Canale 5, Braccio di ferro e
Italia parla su Retequattro, Perché sì, perché no e Voti e volti su Italia Uno.
E nel 1987 l’ulteriore innovazione: la figura dell’uomo politico fa il suo
ingresso normale tra gli ospiti fissi settimanali di un contenitore della
domenica pomeriggio, il Va pensiero di Raidue condotto da Andrea Barbato. E,
sempre quell’anno, la telepolitica arriva a definirsi come un genere televisivo
vero e proprio, soprattutto con due trasmissioni di Rai Tre: Linea rovente, che
inizia a gennaio condotta da Giuliano Ferrara, e Samarcanda, che parte ad aprile
condotta da Michele Santoro. Se con la trasmissione di Ferrara ci si apriva agli
interventi del pubblico, con quella di Santoro si arrivava alla programmazione
in prima serata: il successo è crescente, paragonabile alle platee del sabato
sera. E con queste formule si avviava un nuovo periodo, quello degli anni
Novanta, quello della televisione che diventa il principale strumento di
informazione politica che, oltretutto, direttamente legittima e spesso determina
quelli che saranno i nuovi soggetti della politica.
Dalla centralità del Palazzo a quella del video
Nei primi anni Novanta il video diventa lo specchio quotidiano privilegiato per
conoscere una serie di eventi fondamentali per una società italiana in
velocissima trasformazione. Conseguenza anche del crollo dei vecchi partiti,
delle inchieste giudiziarie, di appuntamenti elettorali nei quali la gente vuole
avere voce in capitolo, la politica si prende una sua clamorosa rivincita e
obbliga reti e tg, editori e redattori a confrontarsi con nuove realtà e
soprattutto con un nuovo pubblico di telespettatori più esigenti, ritornati a
interessarsi della vita pubblica dopo anni di apatia e stanchezza. S’impone così
l’ennesimo quadro di cambiamenti nell’ambito dei rapporti tra politica e sistema
informativo. Si impone, soprattutto, un radicale processo di apertura dei
palinsesti televisivi rispetto alle nuove aspettative di comunicazione politica:
un processo di semplificazione e di modernizzazione della comunicazione da parte
dei politici, garantita a tutto il pubblico di massa e non solo ai lettori dei
giornali. Trasmissioni come Milano, Italia e Il Rosso e il Nero riscuotono
successi di audience impensabili per generi tradizionalmente poco digeribili a
un pubblico che fino a qualche tempo prima aveva decretato il successo della
sola televisione d’intrattenimento.
E' in questo scenario che nuovi soggetti politici si affermano anche, spesso
soprattutto, attraverso il video. E' dagli studi di Profondo Nord di Gad Lerner
che nel ’91 la Lega acquista parte di quella forza comunicativa che la imporrà
impetuosamente nell’arena politica. Così come è attraverso le immagini congiunte
dei simboli del Carroccio, del Pds e del Msi davanti a una manifestazione a
Palazzo di Giustizia a Milano che, nel maggio ’92 una puntata di Samarcanda
legittima televisivamente un nuovo quadro politico. Sarà nel corso di una
puntata de Il Rosso e il Nero che nella primavera del ’93 verrà lanciata
l’ipotesi di quella candidatura di Gianfranco Fini a sindaco di Roma che sarà la
premessa per l’avventura di Alleanza nazionale. Insomma: in quel biennio è come
se alla centralità del Palazzo fosse subentrata quella del video. E la politica
entra da protagonista assoluta anche in ambiti inediti: basti pensare
all’irruzione dei politici veri insieme alle loro copie-comiche nel cabaret
televisivo di Castellacci e Pingitore, alle impietose riproposizioni di volti e
frasi in Blob, alle interviste “corsare” di Piero Chiambretti, alle
conversazioni nell’Harem di Catherine Spaak, al politico nel nuovo ruolo di “uno
contro tutti” nel Maurizio Costanzo Show. Negli stessi anni comincia a
trionfare, come non si era mai visto, il gossip sui politici nei settimanali e
nei rotocalchi.
Con la campagna referendaria del ’93 e l’introduzione della legge elettorale
basata sui collegi uninominali, si compie poi un passaggio ulteriore. Crescono
d’importanza il fattore “personalizzazione” e la competizione a due: e il video
finisce per determinare direttamente i temi e i termini stessi dello scontro.
Saltando il vecchio ricorso all’appartenenza ideologica ed entrando in crisi il
“voto di scambio”, il cittadino-elettore deve scegliere tra ciò che la tv
propone secondo la sua logica comunicativa: il dibattito si impone sempre più
come confronto “spettacolare” che non come dialettica ideologica. Così,
soprattutto, alle battute, ai tentativi di “bucare il video” dei politici tende
a uniformarsi l’informazione politica nel suo complesso. E i giornali -
riprendendo e mettendo in pagina le discussioni in tv della sera prima,
titolando sugli esiti dei talk show - finiscono per imporne la centralità
all’opinione pubblica. Non a caso, nelle elezioni politiche del ’94 e in quelle
del ’96 molto verrà giocato proprio sul terreno televisivo, sia nello scontro
tra programmi e leader che sul ruolo dell’immagine delle due coalizioni
contrapposte. E non sarà un caso che in quegli anni entrerà in politica Silvio
Berlusconi, un leader il cui know how si era costruito proprio sui linguaggi
dell’epoca televisiva.
In questo processo di osmosi tra politica, televisione e sistema informativo
generale, è interessante non solo il numero di personaggi televisivi e
giornalisti del video che passano direttamente ai partiti e al Parlamento, ma
anche il fenomeno contrario di nuovi politici che si impongono come abili
comunicatori. La prova del nove di questa tendenza generale, è il sostanziale
fallimento del decreto sulla “par condicio”, del marzo ’95, imposto cercando di
“bloccare” gli spazi e i tempi offerti agli schieramenti contrapposti. Il
provvedimento non ha infatti inciso minimamente sui trend della videopolitica.
Fenomeno che anzi conosce il suo trionfo nel risalto che la stampa dà ai
confronti televisivi della primavera ’96. Da allora “Chi vincerà le elezioni?” è
sempre più diventato “Chi vincerà in tv?”. E la coalizione di centro-destra che
dal maggio del 2001 governa l’Italia, ha presentato ufficialmente - attraverso
il suo leader Silvio Berlusconi - il suo “contratto con gli italiani” proprio
dagli studi di una trasmissione televisiva. La tv è diventata, in qualche modo,
garanzia e strumento non solo di contatto diretto con l’opinione pubblica ma
anche come sede privilegiata della comunicazione e dell’informazione politiche.
Dal “teatrino” al “teatrone” della politica
In tutto questo non va sottovalutato il ruolo dei conduttori televisivi, che si
sono spesso regolati tenendo conto di ciò che avrebbero scritto i loro colleghi
giornalisti della carta stampata. Non solo gli argomenti e le domande dei
dibattiti derivano da ciò che i quotidiani hanno ripreso dalle trasmissioni
precedenti, ma l’obiettivo dei talk show è spesso quello di ammiccare in modo
sfacciato alla carta stampata. Tanto che i giornali, a loro volta, riportano
fedelmente gli accordi, gli scontri, le opinioni emerse nei vari salotti
televisivi. Il tutto corredato da titoli ad effetto e grandi fotografie dei
politici sul piccolo schermo. Certo, non mancano i rischi: l’amplificazione
della chiacchiera televisiva operata dai quotidiani, riproducendo l’ultima forma
di auto-referenzialità della politica, potrebbe nuovamente allontanare i
cittadini dall’interesse per la vita pubblica. Un giornalista acuto come Filippo
Ceccarelli ha introdotto la nuova formula di “teatrone della politica” per
evocare uno scenario in cui lo spettacolo potrebbe mettere sotto scacco il
potere politico, rendendolo prigioniero, pallida ombra di se stesso, di una
nuova subordinazione.
L’osservazione riguarda la propensione degli uomini politici a disertare a volte
i luoghi istituzionali per affollarsi invece negli studi televisivi: da Bruno
Vespa, da Mauro Mazza, da Anna La Rosa, da Luca Giurato, da Maurizio Costanzo,
da Antonio Socci, da Giovanni Floris, da Piero Vigorelli, da Giuliano Ferrara.
Ma i media sono, appunto, strumenti di comunicazione, o un elemento vincolante,
necessario, della nuova politica? Ha scritto Aldo Grasso: “La politica italiana
è anche Anna La Rosa o Bruno Vespa o Maurizio Costanzo. La politica è oggi uno
specchio che si specchia nelle facce di tutti i suoi protagonisti”. La palla
passa ai politici, ai giornalisti, ai responsabili dei palinsesti e ai
conduttori. Cercare nuove soluzioni per la politica in tv, individuare nuove
formule che tengano conto anche delle nuove tecnologie e della nuova
informazione in tempo reale, è oggi una sfida necessaria. Anche sui giornali e
sul piccolo schermo la transizione non può durare all’infinito.