"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
Sono il non abito universale, l'elemento
trasversale tra lavoro e piacere, l'indistinzione unisex. Parola di
filosofo
Nella mondializzazione degli scambi, alcuni prodotti-feticcio
come i jeans, la Coca-Cola o il McDonald, sono divenuti determinazioni totemiche
e sono penetrate nell'immaginario insieme al mercato reale.
Fanno parte di una lingua universale, pubblicitaria, intraducibile in qualsiasi
altro idioma. Non vi è altra definizione di questi prodotti se non quella della
loro marca. Tale singolarità, che impedisce di collocare certi prodotti nel
sistema della lingua, corrisponde a una eguale impossibilità di iscrivere i
jeans nel sistema di abiti e della moda - se non sotto il segno del grado zero.
I jeans sono il grado zero dell'abito, o il non-abito universale, senza bisogno
di abbinamenti né accessori. Semplici mezzi, (almeno nella loro ispirazione
primaria, originaria). Analogamente si può dire che la Coca-Cola è il grado zero
della bibita e il McDonald il grado zero del cibo. "Grado zero" non è affatto
una definizione peggiorativa, al contrario è una caratteristica originale della
modernità estrema. I jeans non sono un'uniforme. L'uniforme, quale che sia,
militare, scolastica o civile (come gli abiti della Cina di Mao), è sempre
istituzionale, riflesso di una società strutturata e gerarchica. I jeans sono il
riflesso di una società indifferenziata, o in via di indifferenziazione (sia
sociale, che professionale o sessuale). L'uniforme sigilla la coesione
ideologica di una massa, di una nazione, di un'istituzione. E' un emblema, e
come le bandiere o i discorsi, è il messaggio di una volontà collettiva. Niente
del genere con i jeans, che non sono portatori di nessun messaggio ideologico.
Anche se sono milioni di esemplari, non traducono alcun contratto di massa,
alcuna appartenenza collettiva. Forse rimandano a una vaga complicità disinvolta
e comunque non esprimono nessun tratto rappresentativo, né di competizione, né
di prestigio, come è di regola nella moda. Si oppongono dunque sia al sistema di
differenziazione della moda, sia all'uniforme, che ne è il rovescio. Sotto
un'apparentemente semplicità, sono un fenomeno originale. Se i jeans sono stati,
agli inizi, un abito da lavoro della classe operaia e dell'America del West, si
sono velocemente imposti come elemento trasversale, che nasconde la frontiera
tra il lavoro e il piacere, e omogeneizza ogni forma di attività. Se il senso
comune opponeva ancora risolutamente il lavoro al piacere, l'onnipresenza dei
jeans mostrava già, nella pratica, che ci si trovava di fronte alla stessa cosa.
Sociologia profonda, non ancora entrata nella testa dei sociologi. Certamente i
jeans hanno cambiato la vita. Ma se hanno potuto registrare un tale folgorante
successo, è perché la vita era già cambiata. Se i contadini portano i jeans è
perché già non sono più veramente contadini. Se le donne portano i jeans è
perché il loro corpo non è più lo stesso, è meno aderente alle costrizioni
dell'essere donna, alla messa in scena della femminilità. Preferisce l'indistinzione
unisex. E se i jeans, come oggetto erotico e sessuale sono stati intimamente
legati alla liberazione sessuale degli anni Cinquanta-Ottanta, ciò è accaduto
sulla base di una relativa indistinzione dei sessi e degli abiti (da un sesso
all'altro, ci si scambiano i jeans e le T-shirts). Come sempre, il gioco non ha
fine. I jeans, dopo aver livellato le caratteristiche sessuali, possono
ridiventare un oggetto sensuale, sottolineando fino all'oscenità le forme del
corpo. Dopo aver livellato le caratteristiche della moda, possono ridiventare un
oggetto di moda, diversificandosi all'infinito secondo le fantasie industriali
dei creatori o le fantasie personali di chi li indossa. Delle esuberanze del
look, della sua singolarità e del suo continuo rinnegare la forma originale, non
resta altro che il jeans, vale a dire, essenzialmente, la prerogativa di
nessuno. Se non esistessero bisognerebbe inventarli. Nel senso che, non
appartenendo a nessuna cultura in particolare, sembrano un attributo della
specie, una sorta di abito-protesi - un po' come gli occhiali potrebbero
diventare un giorno, in particolare nella sfera della realtà virtuale, una
protesi definitiva della specie, là dove lo sguardo, la seduzione e la fragilità
degli occhi saranno spariti. Cos'è che scompare dietro i jeans? La seduzione, la
fragilità del corpo? Ci si può calare nei propri jeans come in una buccia o in
un'armatura - quella del Cavaliere inesistente di Calvino - forma dietro
la quale si difende un'identità leggera, fluttuante, al margine di ogni stato
sociale, dietro cui occorre sparire, o non offrire altro che il proprio look. Si
dice che tutto ciò che scompare nei costumi riappare nella moda. Si dice anche
che molte delle cose che passano di moda sono passate nei costumi. I jeans
appartengono a quest'ultima categoria.
Appesantiti dai miti del western, del rock, del pop, della country music e della
generazione dei figli dei fiori, caricati della nostalgia e del "blues" delle
generazioni perdute, custodiscono nonostante tutto il fascino discreto di un
oggetto insignificante. Il blu ha senza dubbio contato molto nel successo
mondiale dei jeans. Non come colore forte e simbolico, ma colore utopico.
Certamente, i jeans sono passati per tutta la gamma dell'arcobaleno, ma si sa
bene che tutte le altre tinte sono delle variazioni intempestive, e il blu, quel
blu molto speciale, è in definitiva il solo che fa sognare. Quello del cielo,
quello dell'eternità, ma leggero e privo di insistenza.
Avventura effimera, identità furtiva. Espressionista o metropolitano, adattabile
a tutte le fantasmagorie: la sua tela di Nîmes, di una resistenza tale che si
presta a tutti gli usi, ludici o professionali, la sua trama simbolica può
sopportare giochi e sviamenti. E' invulnerabile nella sua semplicità.