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Silvio Gallo - Deleuze e la pedagogia del concetto
Aprire la mappa… Pensare l'esercizio della filosofia nell'insegnamento medio in Brasile all'inizio del secolo XXI richiede impegno e apertura alla diversità. Da un lato, viviamo in un ottimo momento per la filosofia: praticamente è unanime il consenso sociale sulla sua importanza; le pubblicazioni di classici in buone edizioni e di saggi contemporanei, nazionali ed esteri, crescono di giorno in giorno; la legislazione prevede che la filosofia debba essere presente nei curricoli per l'educazione dei giovani. D'altra parte, però, l'interpretazione della legislazione è molto controversa e, per conseguenza, lo è la sua applicazione. Ne nascono contraddizioni interessanti ma assai preoccupanti sulla presenza o meno della filosofia a scuola. Nella legislazione è chiaro quale filosofia deve essere insegnata: i contenuti filosofici necessari all'esercizio della cittadinanza; ma di quali contenuti si tratta? I legislatori hanno chiari questi contenuti? E inoltre: di quale cittadinanza si parla? Di quale educazione? Ho trattato questo argomento in altra occasione e quindi rimando al mio scritto Etica e cittadinanza nell'insegnamento della filosofia (1). Affermare l'importanza della filosofia per l'esercizio della cittadinanza significa attribuirle un significato sociale positivo. Ma noi sappiamo che nella storia della filosofia molte volte essa è stata più sovversiva che paladina dell'ordine costituito. Rispondendo ad una intervista sul ruolo del filosofo nella società, Michel Foucault dice che "il filosofo non ha un ruolo nella società. Non si può collocare il suo pensiero in relazione al movimento contemporaneo della società. Socrate è un eccellente esempio: la società ateniese può attribuirgli soltanto un ruolo sovversivo, le sue domande non possono essere ammesse dall'ordine costituito. Per la verità, è soltanto da un certo numero di anni che si è preso coscienza del posto di un filosofo; insomma gli attribuiamo un ruolo retrospettivo" (2). Introdurre la filosofia nella formazione alla cittadinanza nel Brasile contemporaneo significa trasgredire, sovvertire o appoggiare l'ordine costituito? Una filosofia come strumento per la cittadinanza si giustifica di fronte a se stessa? Io penso che se la filosofia può, di fatto, contribuire all'esercizio della cittadinanza ed anche alla sua costruzione, non può né deve essere limitata a questo. Perché si giustifichi, deve darsi il ruolo che soltanto essa può svolgere nel processo di formazione dei giovani. E' a partire dalla chiarezza su questo ruolo che potremo definire le possibilità e i limiti della filosofia nell'educazione dei giovani. Solo da pochi anni l'esperienza dell'insegnamento della filosofia è stata generalizzata e consolidata, solo da poco possiamo tentare di comprendere i suoi contributi. C'è però una domanda che precede quella della possibilità e dei limiti dell'insegnamento della filosofia; una domanda tanto antica quanto la stessa filosofia. Visto che possiamo discutere ed esercitare l'insegnamento della filosofia a livello medio, dobbiamo - prima di tutto - chiederci: che cos'è la filosofia? In altre parole, se Kant si chiedeva che cos'è l'uomo perché lo si possa educare, dobbiamo chiederci: che cos'è la filosofia, perché la si possa insegnare? Le risposte sono le più diverse. Limitandoci a due dei più importanti dizionari di filosofia, José Ferrater Mora impiega dieci pagine per discutere la nozione di filosofia (nella prima edizione brasiliana del 2001, ed. Loyola) analizzando i sensi di questo termine, la questione delle origini della filosofia, il problema del suo significato - cosa che occupa la maggior parte della voce - e la divisione della filosofia in "discipline"; anche Nicola Abbagnano dedica alla voce Filosofia non meno di 14 pagine, (nella seconda edizione brasiliana del 1982, ed. Mestre Jou). Entrambi ci mostrano che nel corso della storia della filosofia sono state molte e diverse tra loro le risposte date alla stessa domanda. Ferrater Mora afferma che di fronte a questa diversità vi sono varie reazioni possibili, e il suo discorso culmina nella seguente tesi: "Bisogna riconoscere lealmente che il problema non ha soluzione definitiva, e nasce dal fatto che non è stato ben definito. Il punto è che dobbiamo chiederci perché non si definisce, o non si circoscrive, chiaramente il problema". Quanto alla problematica dell'insegnamento della filosofia, di fronte a questa diversità, penso che vi sia una sola possibilità plausibile: scegliere un modello di filosofia che permetta un lavoro coerente in classe. Non scegliere un modello chiaro di filosofia può portare ad un pericoloso eclettismo, in cui si fondano le più diverse prospettive e si finisce per ottenere come risultato - il che può essere ancora peggio - una sorta di "Frankenstein" mal costruito… Il procedimento di scelta, a sua volta, porta almeno a due gravi rischi: di cadere nel dogmatismo, col dichiarare che soltanto il modello adottato è, di fatto, filosofia; o cadere nel relativismo, affermando che in filosofia "tutto va bene". Penso che il professore debba, in modo sincero e leale, dichiarare di fronte agli allievi il modello di filosofia che adotta, dicendo con chiarezza che si tratta di un modello e non del modello. Oltre a questo, è sempre bene richiamare l'attenzione sulla diversità delle filosofie. Tenendo come orizzonte questa prospettiva, vorrei fare qui alcune considerazioni sul significato, le possibilità, i limiti e le difficoltà del lavoro filosofico nell'insegnamento medio a partire dal modello che ho adottato per pensare la filosofia: quello prodotto da Gilles Deleuze, in collaborazione con Felix Guattari.
Tracciare una rotta… Deleuze e Guattari hanno pubblicato in Francia il saggio Che cos'è la filosofia?, in cui presentano in forma sistematica le loro idee sulla produzione teorica della seconda metà del XX secolo. Secondo loro, è questa una domanda che deve essere concepita in vecchiaia, nel farsi sera di una giornata di lavoro. E' così, affaticati per il lungo cammino, e con molti bagagli, che possiamo tentare di incontrare ciò che ci interessa in mezzo alla diversità della produzione filosofica e porre a noi stessi la domanda oracolare: che cos'è la filosofia? La risposta data dai pensatori francesi, lo sappiamo, è che la filosofia è attività di creazione di concetti. Attività nel senso wittgensteiniano del termine, che richiama la nozione di filosofia come un fare, nel suo aspetto materiale. Ma non qualsiasi attività, piuttosto una attività di creazione, perché alla filosofia tocca creare e non scoprire, incontrare. Infine, una attività di creazione concettuale, perché il concetto è la materia e il prodotto della filosofia, la sua specificità. Scrivono che "Il filosofo è l'amico del concetto, è in potenza di concetto. Ciò vuol dire che la filosofia non è una semplice arte di formare, inventare o fabbricare concetti, perché i concetti non sono necessariamente delle forme, dei ritrovati o dei prodotti. La filosofia, più rigorosamente, è la disciplina che consiste nel creare concetti. […] Creare concetti sempre nuovi è l'oggetto della filosofia. E' proprio perché il concetto deve essere creato, che esso rinvia al filosofo come a colui che lo possiede in potenza o che ne ha la potenza e la competenza. […] I concetti non sono già fatti, non stanno ad aspettarci come fossero corpi celesti. Non c'è un cielo per i concetti; devono essere inventati, fabbricati o piuttosto creati e non sarebbero nulla senza la firma di coloro che li creano" (3). Intendendo la filosofia come creazione di concetti, Deleze e Guattari sottopongono a dura critica tre prospettive molto comuni quando oggi cerchiamo di definire la filosofia: secondo loro, la filosofia non è né contemplazione, né riflessione, né comunicazione. Apriamo una parentesi: i filosofi francesi non stanno in alcun modo esercitando il disprezzo per la diversità delle filosofie e tentando di imporre un'unità; stanno piuttosto cercando una definizione possibile e plausibile di attività filosofica che possa essere applicata a tutte le filosofie, per quanto diverse e distinte esse siano. In questa impresa, tentano anche di dimostrare che determinate "definizioni" di filosofia non colgono, di fatto, la sua specificità. La filosofia non è contemplazione, come per molto tempo - per ispirazione soprattutto platonica - si è ritenuto, perché la contemplazione, anche dinamica, non è creativa; consiste nella visione della cosa stessa, considerata preesistente e indipendente dal proprio atto del contemplare, e non ha nulla a che vedere con la creazione di concetti. E neppure è comunicazione, e questo è detto contro due figure emblematiche della filosofia contemporanea: Habermas, con la sua proposta di una razionalità comunicativa, e Rorty e il neopragmatismo, che propongono una "conversazione democratica". Perché la comunicazione può mirare soltanto al consenso, mai al concetto; e il concetto, molte volte, è più dissenso che consenso. E, in ultimo, la filosofia non è riflessione, semplicemente perché la riflessione non è specifica dell'attività filosofica: a chiunque è possibile (e non soltanto al filosofo) riflettere su qualsiasi cosa. Poiché tra noi è davvero cosa comune intendere la filosofia come una forma specifica di riflessione su determinati problemi, la critica di Deleuze è radicale, perché dice che la filosofia può riflettere, ma non è questo che la rende filosofia e non un'altra cosa. "Non è riflessione perché nessuno ha bisogno della filosofia per riflettere su una cosa qualsiasi: si crede di concedere molto alla filosofia facendone l'arte della riflessione, ma al contrario le si sottrae tutto, perché né i matematici hanno mai atteso i filosofi per riflettere sulla matematica, né gli artisti sulla pittura o sulla musica; dire che quando ciò accade essi diventano filosofi è uno scherzo di cattivo gusto, tanto la loro riflessione appartiene alle rispettive creazioni" (4). Non possiamo identificare la filosofia con nessuno di questi tre atteggiamenti perché nessuno di essi è specifico della filosofia, "la contemplazione, la riflessione, la comunicazione non sono discipline, ma macchine per formare degli universali in tutte le discipline" (5). D'altra parte, è proprio della filosofia creare concetti che consentano la contemplazione, la riflessione e la comunicazione, senza cui questi atteggiamenti non potrebbero esistere. Se la filosofia guadagna in densità e identità come impresa di creazione concettuale, allora perde di senso la questione sempre discussa della utilità della filosofia o lo stesso annuncio, spesso ripetuto, della sua morte, del suo superamento: "Quando è il caso e il momento di creare dei concetti, l'operazione che ne consegue si chiamerà sempre filosofia, anche se le si desse un altro nome" (5). In un'altra occasione Deleuze aveva affermato che "la filosofia consiste sempre nell'inventare concetti. Non mi preoccuperei affatto del superamento della metafisica o della morte della filosofia. La filosofia ha una funzione che rimane pienamente attuale, creare concetti. Nient'altro può far questo al suo posto. Certo la filosofia ha sempre i suoi rivali, dai "rivali" di Platone fino al buffone di Zarathustra. Oggi sono l'informatica, la comunicazione, la promozione commerciale ad essersi appropriate dei termini 'concetto' e 'creativo' e sono questi 'campioni del concetto' a presentarsi come una razza spavalda che esprime l'atto di vendere come il supremo pensiero capitalista, il cogito della merce. La filosofia si sente piccola e sola danti a così grandi potenze, ma, se proprio deve morire, che almeno muoia dal ridere" (7) Un'altra critica interessante è quella che Deleuze e Guattari rivolgono alla discussione. Siamo abituati a vedere la filosofia come una forma di dibattito, di discussione, fedeli all'agonismo greco delle origini della filosofia. Ma Deleuze e Guattari dimostrano che, nella prospettiva della filosofia come creazione di concetti, la discussione può fornire elementi per la creazione di nuovi concetti, ma non è nella discussione che consiste l'attività filosofica. "E' per questo che il filosofo non è molto incline a discutere. Qualunque filosofo fugge quando sente la frase: adesso parliamo un poco. Le discussioni vanno bene per le tavole rotonde, ma è su un'altra tavola che la filosofia getta i suoi dadi cifrati. […] La filosofia ha orrore delle discussioni, ha sempre altro da fare. Non sopporta il dibattito, ma non perché sia troppo sicura di sé: al contrario, sono le sue incertezze che la spingono verso altre e più solitarie vie. Eppure Socrate non faceva della filosofia una libera discussione fra amici? La conversazione degli uomini liberi non è forse il culmine della socievolezza greca? In realtà Socrate non ha mai smesso di rendere impossibile qualunque discussione, sia con il rigido scambio di domande e risposte, sia con il lungo rivaleggiare dei discorsi. Ha trasformato l'amico in amico del solo concetto, e il concetto nel monologo spietato che elimina uno dopo l'altro i rivali" (8). Bene, non abbiamo tempo e non è nostro proposito presentare qui i principi topici dell'opera di Deleuze e Guattari. Vorrei però mettere in risalto alcuni punti che mi sembrano fondamentali per giustificare alcune considerazioni sull'esercizio dell'insegnamento della filosofia come attività con i concetti, ed anche di creazione di concetti. Il primo di questi aspetti riguarda la critica alle forme che normalmente le lezioni di filosofia assumono nelle nostre scuole. Non sono poche le metodologie di insegnamento della filosofia che, richiamandosi a Socrate e alla maiueutica, difendono e definiscono le lezioni di filosofie come lezioni fondate sul dialogo. In questo dialogo, ciascuno espone la sua opinione e cerca di ottenere consenso sulle tesi in discussione. Ma, se torniamo alla figura classica di Socrate, come colui che fa nascere la verità che è di fatto già dentro ciascuno, le lezioni di filosofia produrranno esperienze nelle quali si confrontano le differenti opinioni, fino a passare attraverso queste ai concetti? O si rimarrà soltanto al livello della confronto di opinioni? In questo caso la lezione non avrà nulla di filosofico, perché anche Socrate e Platone cercavano di passare dalla doxa all'episteme. D'altra parte, come abbiamo visto nel brano prima citato, Deleuze e Guattari osano porre in questione la figura "immacolata" di Socrate: non sarà, al contrario, un abile e astuto retore, che riesce a sconfiggere qualsiasi avversario nel dialogo, trasformandolo in un monologo? Se intendiamo Socrate in questo modo, che cosa resterà della lezione di filosofia come dialogo? Ecco un altro problema in relazione al concepire la lezione di filosofia come basata sulla metodologia del dialogo: su che cosa si deve dialogare? O, detto in altro modo: quale deve essere il contenuto del dialogo? Qualsiasi tema va bene, quel che importa è la forma, o vi sono temi che possono essere trattati filosoficamente ed altri che non possono esserlo? O, ancora, abbiamo qui la necessità intrinseca di coniugare forma e contenuto? Conosco molti professori che si accontentano, nelle loro lezioni di filosofia, di promuovere dibattiti e discussioni. Si parte dal principio che l'uso della metodologia del dibattito, del dialogo, o qualsiasi sia il termine che vogliamo usare, è sufficiente a far sì che la lezione "diventi filosofica"… Ma in una lezione come questa gli allievi "producono" qualcosa? E il professore stesso "produce"? In una lezione come questa è garantita l'attività con i concetti? Saranno prodotti concetti, o almeno gli allievi avranno accesso ai concetti, nel senso in cui Deleuze usa questo termine? Ho seri dubbi al riguardo. Un'altra forma che le lezioni di filosofia assumono è quella della contemplazione, e qui assistiamo alla completa negazione della filosofia come attività creatrice, perché la contemplazione, almeno a questo livello didattico-filosofico, porta quasi invariabilmente a una stasi, a una paralisi. In questo modello gli allievi sono spinti a contemplare determinate questioni così come sono concepite dai filosofi, e da questo trarre alcune conclusioni. Queste questioni da contemplare possono essere presentate in forma storica o problematica, ma in entrambi i casi non c'è da sperare in un'attività più produttiva. Infine, abbiamo la lezione di filosofia come lezione di riflessione, con la possibilità di una presentazione più tematica o più storica - o anche con un misto di entrambe le prospettive -, che ha l'obiettivo di indirizzare gli allievi verso una attività di riflessione su questi temi o problemi. Non vorrei riprendere le critiche che abbiamo già visto alla filosofia come riflessione, ripeterò soltanto che nella prospettiva deleuziana nessuna riflessione è, solo per questo, filosofica e, quindi, non sarà per il fatto di esercitare la riflessione in classe che avremo una lezione di filosofia. In questo modo a me sembra che la cosa più importante per le lezioni di filosofia sia intendere la filosofia come una attività, il che ci riporta al classico dibattito tra Kant ed Hegel: insegnare filosofia (cioè un contenuto) a il filosofare (cioè un metodo)? Intendere la filosofia come attività ci colloca in una dimensione in cui il processo non si separa dal prodotto. Quindi concepire la lezione di filosofia come un dialogo o un dibattito o anche come riflessione (in ogni caso come metodo) non garantisce la sua specificità, la sua identità filosofica. Manca qualcosa. Manca quello che Deleuze e Guattari identificano come il concetto, che è metodo e prodotto allo stesso tempo. Bene, se stiamo lavorando adesso sulla proposta di Deleuze e Guattari di concepire la filosofia come attività di creazione concettuale e quindi che le lezioni di filosofia nell'insegnamento medio siano centrate sul concetto, va chiarito che cosa è il concetto. In primo luogo, vale la pena ripetere che per questi autori soltanto la filosofia produce concetti. La scienza non opera con concetti, ma con quelli che loro chiamano "prospetti", percezioni del reale espresse in proposizioni o funzioni; l'arte, da parte sua, lavora con "percetti" e "affetti" espressi in opere (siano esse plastiche, letterarie, musicali, e così via). Non ha quindi senso parlare di "concetti artistici" o di "concetti scientifici", nella stessa misura in cui l'espressione "concetto filosofico" sarebbe una ridondanza. Poiché mantiene una relazione intrinseca con queste tre forme di esperienza del mondo e produrre sapere, ciascuna secondo le sue proprie caratteristiche, la filosofia assorbe qualcosa dalle arti e dalle scienze per produrre concetti, e può produrre concetti per esse. Ma la produzione di concetti è una attività filosofica e i concetti sono sempre oggetto della filosofia. "Di fatto, o la filosofia ignora tutto del concetto oppure lo conosce a pieno titolo e di prima mano, al punto da non lasciarne nulla alla scienza, che non ne ha d'altronde alcun bisogno e che si occupa solo degli stati delle cose e delle loro condizioni. Le proposizioni o funzioni bastano alla scienza, mentre la filosofia non ha bisogno, dal canto suo, di invocare un vissuto che potrebbe dare solo una vita fantomatica ed estrinseca a concetti secondari di per sé esangui". Frédéric Cossutta, trattando del concetto, scrive: "Ma è precisamente il concetto che costituisce l'intermediario tra l'immagine e la forma, tra il vissuto e l'astratto. La filosofia ne fa vari usi, ma non c'è filosofia che non si riferisca, all'occorrenza superando i suoi limiti, all'astrazione universalizzante (si veda il progetto leibniziano di 'caratteristica universale'). Ma, se l'astrazione è priva di senso o se l'immagine e la soggettività si estendono al di fuori di ogni forma, la filosofia decreta sicuramente la sua stessa morte. Se non c'è filosofia che del concetto, essa è propriamente riesame e ridefinizione del concetto" (9). Tenendo quindi come premessa che il concetto è frutto della filosofia, Deleuze e Guattari lo presentano come un modo per esprimere il mondo, l'evento (10). Il proprio concetto si fa evento, o dà importanza, rilievo ad un determinato aspetto del reale. Il concetto appare allora come il modo proprio della filosofia per costruire la comprensione del reale, al contrario della scienza, che cerca di trovare nel reale le funzioni che permettono di comprenderlo. Ogni concetto è particolare e personale: ciascun filosofo, in quanto singolarità, crea i suoi propri concetti nella loro relazione col mondo e, con questo, crea il suo proprio stile: un modo particolare di pensare e di scrivere. I concetti sono creati a partire da problemi, collocati su un piano di immanenza. Questo piano è proprio solo dei concetti e pertanto della filosofia, ed è definito dal filosofo avendo come elementi: il tempo e il luogo in cui vive, le sue letture, le sue affinità e le sue idiosincrasie. E' su questo piano che nascono i problemi e sono questi problemi a muovere la produzione concettuale. Ciascun filosofo o traccia il proprio piano oppure sceglie di operare su di un piano già tracciato; è per questo che è possibile parlare, per esempio, di platonismo, una volta che altri filosofi scelgano di abitare il piano dell'immanenza tracciato da Platone, e produrre concetti "platonici", sulla scia della produzione del maestro. Molte volte assistiamo ad una vera e propria "appropriazione" di concetti. Ma prendere per sé il concetto di un altro filosofo significa dargli un nuovo senso, significa de-territorializzarlo e ri-territorializzarlo. Quindi il "furto" di un concetto è tutt'altra cosa dal plagio, perché finisce con l'essere un atto creativo: rubare un concetto, estrapolandolo dal suo contesto, significa trasformarlo, ricrearlo. E presentare il mondo attraverso dei concetti è, come abbiamo detto prima, una maniera di firmarlo. E' per questo che possiamo parlare di un universo newtoniano, di un mondo cartesiano, platonico o kantiano, solo per citare alcuni esempi. La filosofia intesa come produzione concettuale non ha, perciò, minori pretese di universalità e di unità: ciascun filosofo definisce il proprio mondo; i suoi concetti sono strumenti che utilizziamo o meno, a seconda che siano o non siano interessante per nostri problemi. O, per usare un'altra metafora a cui sono molto affezionato, le differenti filosofie appaiono come diversi occhiali che ci mostrano differenti volti del mondo. E, chiaramente, non si tratta qui di far sì che le diverse filosofie si pongano l'una contro l'altra sperando che una trionfi sull'altra, ma di concepire la possibilità che convivano - tranquillamente o meno - tra loro. Possiamo adesso passare a studiare, almeno in forma introduttiva, il significato della lezione di filosofia, intesa come creazione di concetti, nell'insegnamento medio. A mio modo di vedere, come un giovane ha bisogno per la sua formazione - perché essa sia completa, e non soltanto un "addestramento" per una professione o anche per il mondo - di avere accesso all'universo della produzione dei saperi delle più diverse discipline scientifiche, come modo di concepire e comprendere il mondo, così ha bisogno di avere accesso all'universo della produzione artistica e della produzione filosofica. E non soltanto per comporre un repertorio culturale ampio, come sostengono alcuni; questo repertorio è importante, ma non sufficiente. Se il mondo è vario, è necessario conoscere le differenti prospettive, o almeno averne un'idea. Io penso - sulla scia di Deleuze e Guattari - che per il pensiero la triade scienza / arte / filosofia componga un mosaico di riferimenti importante e che qualsiasi formazione che prescinda da una o più di essi sia necessariamente incompleto. Ora, i curricoli scolastici brasiliani vanno bene per le discipline scientifiche, con le prospettive loro proprie, e va bene anche quella che si chiama "educazione artistica", che garantisce una educazione degli affetti (11). Manca quindi, l'accesso alla filosofia che permetta una prospettiva anche concettuale sul mondo. In questo modo, la lezione di filosofia è necessario che sia una "officina di concetti". Se la metodologia di lavoro debba prevedere l'uso degli strumenti del dialogo, del dibattito, della riflessione, e così via, è problema da vedere dopo; la cosa fondamentale è che la lezione garantisca il contatto dei giovani con gli strumenti concettuali. Siamo quindi giunti alla domanda cruciale: questo contatto con gli strumenti concettuali significa che ciascun allievo dovrà, di fatto, costruire, creare concetti? O, in altre parole: ciascun allievo dovrà essere egli stesso filosofo, a lezione di filosofia? In un certo senso, io penso di sì. Mi spiego. Mi sembra ovvio, date tutte le limitazioni tipiche di questo livello di insegnamento e dato il fatto che la filosofia è soprattutto un'area del sapere che trova il proprio spazio nel contesto della formazione generale, che non si può porre come obiettivo dell'insegnamento della filosofia nella educazione media che gli allievi siano o possano diventare filosofi. Così come non può essere posto seriamente l'obiettivo che diventino matematici, biologi o qualsiasi altra cosa. Ma in determinati momenti della lezione di filosofia, ciascuno ha bisogno di essere un po' filosofo. Se la filosofia consiste in una attività, e, in più, in un'attività creatrice, essa non può basarsi sulla passività degli studenti e limitarsi a scoprire un universo di saperi. Ciascun allievo e tutti gli allievi, nella lezione di filosofia, a mio modo di vedere, fanno esperienza di lavoro filosofico. A lezione di filosofia è più che mai necessario rompere con la visione tradizionale della lezione, già tanto criticata, ma difficilmente abbandonata, intesa come un momento di trasmissione del sapere. La lezione deve essere uno spazio in cui gli allievi non siano meri spettatori - e per giunta di un pessimo film: l'/gli ingarbugliamento/i della(e) storia(e) della filosofia - ma siano attivi, produttori, creativi. Ma, come abbiamo visto, non si produce un concetto dal nulla: molte volte, è la propria filosofia la materia di produzione dei nuovi concetti. Così, è necessario che gli allievi prendano contatto, in forma attiva e creativa, con le diverse filosofie succedutesi nella storia, perché questo potrà diventare materia prima per qualsiasi produzione possibile. Poiché è necessario che vi sia un momento unificante di questa diversità o, utilizzando una metafora migliore, una bussola che permetta che il gruppo di orientarsi nella complessità del bosco, di modo che il percorso in loco permetta poi di tracciare una mappa della diversità filosofica, credo che questa bussola possa essere data dai problemi. I nostri colleghi uruguaiani, perseguendo in didattica della filosofia l'obiettivo di intenderla come attività, strutturano già il curricolo del loro insegnamento secondario intorno ai problemi filosofici, mettendo da parte la discussione se articolare il curricolo di filosofia per temi o secondo il modello storico. Penso che in questa esperienza vi sia la chiave per operare con la filosofia come creazione concettuale. Il professore dovrà selezionare alcuni problemi filosofici, di preferenza tra quelli che hanno un significato esistenziale per gli allievi, perché facciamo filosofia quando sentiamo il problema dentro di noi. Su questi problemi sarà possibile lavorare con temi filosofici, con la storia della filosofia, con differenti filosofi e i loro testi e concetti, ma tutto questo dovrà essere concepito come uno strumento che consenta la comprensione di qualche problema e, inoltre, sia la materia di base per la creazione di concetti che possano equivalersi. Nella "officina filosofica" - tale diventa la lezione in questa dimensione - ciascun allievo potrà quindi, maneggiando strumenti differenti, ri-creare concetti o anche creare nuovi concetti che possano illuminare il problema trattato. Produrre l'evento, attraverso questa esperienza dell'avventura del pensiero, creando concetti che siano importanti, interessanti e intriganti (12), almeno per gli allievi: in questo consisterà la lezione di filosofia, se accettiamo la prospettiva di Deleuze e Guattari.
Le sfide… Per concludere, almeno nella misura in cui è possibile giungere ad una conclusione, desidero esaminare tre sfide che a me paiono fondamentali e che spero possano essere importanti e interessanti e, per questo, siano potenzialmente generatori di nuovi concetti. La prima sfida è intendere la filosofia - così come la scienza e l'arte - come una lotta contro l'opinione. Deleuze e Guattari dicono che siamo immersi nella opinione, che si presenta come l'unica forma per vincere il caos, che ci spaventa, ci angustia, fa sì che il nostro pensiero fugga da se stesso, le nostre idee si perdano nel vuoto. Ma l'opinione non vince affatto il caos, ma fugge da esso, come se questa fuga fosse possibile. E così l'opinione si consolida, nel gioco dell'oblio del caos, come se vivessimo tutti felici di non sapere - o non voler sapere - della sua esistenza, una volta costruito un mondo perfetto, in cui tutto è al proprio posto (13). Da qui l'importanza che hanno acquisito nella nostra società, ai più vari livelli, quelli che chiamiamo "opinionisti"; sono loro gli artefici di questa droga che si estende tanto quanto il buon senso (ci sia permesso questo gioco di parole con Cartesio…) e ci imprigiona sotto questo giogo. Ma questo significa vivere di apparenze, come denunciava Platone già quasi millecinquecento anni fa. Deleuze e Guattari reagiscono a questo conformismo, intendendo la filosofia, l'arte e la scienza come movimenti diversi compiuti per squarciare il caos, attraversarlo e imparare a convivere con esso, rigettando l'opinione generalizzante, che paralizza la creatività. Scrivono: "Ma l'arte, la scienza, la filosofia esigono di più: esse costituiscono dei piani sul caos. Queste tre discipline non sono come le religioni che invocano delle dinastie di dèi o l'epifania di un solo dio per dipingere sull'ombrello un firmamento, come le figure di una Urdoxa da cui deriverebbero le nostre opinioni. La filosofia, la scienza e l'arte vogliono che noi strappiamo il firmamento e ci addentiamo nel caos" (14). Andare nel mondo dei morti e tornare indietro, con nuovi elementi creativi: è questo che può offrirci la filosofia, come l'arte e la scienza. Nelle nostre lezioni di filosofia, quindi, dobbiamo far visita al mondo dei morti, dobbiamo far esercizio della immersione nel caos, per trovare in esso nuove potenzialità. Dobbiamo, infine, esercitarci a rifiutare le opinioni. La seconda sfida è quello del dialogo della filosofia con gli altri saperi, dialogo che ha anch'esso bisogno di essere produttivo. Credo che la strada giusta sia la trasversalità. A me sembra che i curricoli scolastici e accademici debbano sempre più abbandonare la prospettiva disciplinare, che è in crisi come modello di produzione/socializzazione dei saperi, e andare nella direzione di curricoli non disciplinari. Esercitando la creazione concettuale come adattamento, mi approprio del concetto di trasversalità, caro alla filosofia francese contemporanea, soprattutto a Foucault e a Deleuze, per proporre un curricolo in cui il movimento tra i saperi nella loro produzione/socializzazione/assimilazione avvenga in modo trasversale. Mi sembra importante sottolineare qui che il concetto di trasversalità, creato da Guattari più o meno alla metà degli anni sessanta (15), implica una impostazione rigorosamente non gerarchica. Poiché si trattava di ricercare una prospettiva sociale e libertaria di terapia che potesse contrapporsi all'impostazione borghese della psicoanalisi Guattari ha confrontato il concetto di trasversalità con quello di transfert, fondamentale in psicoanalisi. In quest'ultima, la relazione tra l'analista e il paziente è estremamente gerarchizzata; nella prospettiva di Guattari, la trasversalità rende possibile la strutturazione non gerarchica delle relazioni tra i pazienti e di questi con l'analista, creando un gruppo terapeutico in cui tutti sono egualmente importanti. E' necessario sottolineare che questa nozione di trasversalità non si avvicina in nulla a quelli che i documenti più recenti di politica educativa chiamano "temi trasversali", che null'altro sono se non modi per tradurre in pratica l'interdisciplinarietà, che a dire il vero non rompe con il curricolo disciplinare. Così, questi temi trasversali mantengono e rafforzano la gerarchia dei curricoli mentre la loro visione trasversale romperebbe questa gerarchizzazione, consentendo l'emergere di nuovi saperi e nuove pratiche. Nella prospettiva della trasversalità, la filosofia nell'insegnamento medio deve attraversale … aree di conoscenza e deve anche essere attraversata da esse, in modo da rendere possibile una prospettiva della complessità dei saperi e da alimentare in modo critico e creativo il processo di produzione dei concetti. La terza sfida è questa, che la questione dell'insegnamento della filosofia sia trattata filosoficamente; Deleuze e Guattari parlano di una "pedagogia del concetto". Dobbiamo apprendere a lavorare con i concetti, dobbiamo essere apprendisti e artigiani nel lavoro filosofico. Nell'opera di cui abbiamo fin qui trattato, affermano che "se le tre età del concetto sono l'enciclopedia, la pedagogia e la formazione professionale commerciale, solo la seconda può impedirci di cadere dalle vette della prima nel disastro assoluto della terza, disastro assoluto per il pensiero, qualsiasi siano, beninteso, i benefici sociali dal punto di vista del capitalismo universale" (16). Ora, è per noi, professori di filosofia, che l'insegnamento del sapere filosofico è questione vitale, siamo noi nella posizione privilegiata per garantire questa pedagogia del concetto. Penso che, qui, vi siano tutti gli elementi per superare l'antico preconcetto che stabilisce la dicotomia tra il "professore di filosofia" e il "filosofo", che vede quest'ultimo come il pensatore, il produttore di concetti, nella nostra prospettiva, perché al primo spetta soltanto insegnare, trasmettere, riprodurre, in una parola. Il filosofo sarebbe creativo, mentre al professore di filosofia non resterebbe che fare da pappagallo ripetitore - di concetti, teorie, ecc. Nell'ambito di questa dicotomia, resta al "filosofo" la produzione enciclopedica, staccata dalla vita e dislocata rispetto ad essa, o la sottomissione assoluta alla vita in quanto mercato, quando si trasforma in "filosofo professionista". E oggi abbiamo molte possibilità per essere dei professionisti: la "terapia" filosofica, conosciuta negli Stati Uniti e in Europa come assistenza filosofica e in Brasile come "filosofia clinica" - c'è qualcosa più vicino al mercato in questo mondo di oggi? -; l'assistenza alle imprese; il proprio "insegnamento" della filosofia, quando si svolge come riproduzione di manuali e metodologie prefabbricate, soprattutto nelle scuole private, che utilizzano la filosofia come "arma di marketing". Questo per restare soltanto ad alcuni degli esempi più evidenti. Ma, se accettiamo la sfida della pedagogia del concetto, si tratta di rivitalizzare la filosofia, di intenderla come impresa viva e dinamica, sempre creata e ri-creata. Questa impostazione ci porta lontano dalla filosofia come enciclopedia, accessibile soltanto agli iniziati, e quindi lontano dalla filosofia come icona del mercato, che si pretende sia accessibile a tutti, almeno come pastiche. E, come dicevo prima, chi meglio del professore di filosofia per credere alla pedagogia del concetto? Troviamo, così, che il "filosofo", produttore, e il "professore di filosofia", trasmettitore, tornano ad essere una sola persona. Concludendo l'esame di questa sfida, vorrei sottolineare un'ultima volta che - al di là di un enciclopedismo pedante e paralizzante, al di là della mancata creatività, al di là del prendere la filosofia come strumento di una professionalizzazione per il "mercato", questa icona del nostro tempo - ritorniamo alla pedagogia del concetto affermando, una volta di più: l'insegnamento della filosofia sarà filosofico, o non lo sarà affatto.
Note (*) Sílvio Gallo è docente presso l'Università Metodista di Piracicaba e l'Università Statale di Campinas. (1) Ética e Cidadania no Ensino de Filosofia, presentato alla VII Giornata sull'Insegnamento della Filosofia all'Università di Buenos Aires e poi al Congresso Brasiliano di Filosofia, rispettivamente nell'ottobre e nel novembre del 2000. (2) M. Foucault, Chi è filosofo?, in Detti e scritti II. (3) G. Deleuze e F. Guattari, Che cos'è la filosofia?, trad. it. di A. De Lorenzis, Einaudi, Torino 1996, p. XIII. (4) Ib., p. XIV (5) Ib., p. XIV-XV (6) Ib., p. XVII (7) Intervista concessa a Magazine Littéraire nel 1988, pubblicata poi in Pourparlers. (8) G. Deleuze e F. Guattari, Che cos'è la filosofia?, cit., pp. 18-19. (9) F. Cossutta, Elementi per la lettura dei testi filosofici, ed. it. a cura di M. Trombino, Calderini, Bologna 1999, p. 50. (10) L'espressione francese usata da Deleuze e Guattari è événement, che il portoghese acontecimento (avvenimento, evento) traduce soltanto in parte, perché da noi questo termine ha un senso statico, mentre il concetto che i due filosofi francesi intendono esprimere è dinamico. (11) Se questi curricoli danno conto della formazione dell'allievo, almeno per quanto riguarda l'apprendimento delle scienze e delle arti, è cosa che non dobbiamo discutere adesso, anche se una "filosofia del curricolo" mi sembra sempre più imprescindibile. (12) Sulla scia di Nietzsche, Deleuze e Guattari affermano che la validità di un concetto non è data dal fatto che sia o non sia vero, ma dal fatto che sia importante e interessante (cioè: per quanto ha di potenziale in relazione al problema studiato e per generare nuove possibilità). (13) Una delle migliori denunce e critiche all'imperio delle opinioni prodotte di recente è La caverna, di José Saramago. Credo che quest'opera valga come una metafora per l'attività della filosofia come resistenza e rinuncia alle opinioni, affermando la creatività. (14) G. Deleuze e F. Guattari, Che cos'è la filosofia?, cit., p. 212. (15) Si veda il saggio La trasversalità, in La rivoluzione molecolare. (16) G. Deleuze e F. Guattari, Che cos'è la filosofia?, cit., p. XXI
Da: http://www.ilgiardinodeipensieri.com/artdida1/gallo-1.htm
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