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Genesi, sviluppi e programma della Scuola di Francoforte
Totalità e dialettica come categorie fondamentali della ricerca sociale La Scuola di Francoforte trae la sua origine dall’Istituto per la ricerca sociale fondato a Francoforte, agli inizi degli anni Venti, con un lascito di Felix Klein, uomo facoltoso e progressista. Direttore dell’Istituto fu Karl Grúnberg, un marxista austriaco storico della classe operaia. A lui successe prima Friedrich Pollock e poi, nel 1931, Max Horkheimer. E fu proprio con la nomina di Horkheimer a direttore che l’Istituto acquistò sempre più importanza, assumendo la fisionomia di una Scuola che elaborò quel programma passato alla storia delle idee col nome di " teoria critica della società ". La rivista dell’Istituto era I’" Archivio per la storia del socialismo e del movimento operaio". Qui non apparvero solo studi sul movimento operaio ma Anche scritti di Karl Korsch (compreso il suo lavoro su Marxismo e filosofia), Gyórgy Lukàs e David Riaznov, direttore dell’Istituto Marx-Engels di Mosca. Nel ‘32, però, Horkheimer dà vita alla "Rivista per la ricerca sociale", che intende riprendere e sviluppare le tematiche dell' "Archivio", ma che si presenta con un’impostazione, certamente " socialista " e " materialista ", dove però l’accento viene posto sulla totalità e la dialettica: la ricerca sociale è " la teoria società come un tutto"; essa non si risolve o dissolve in indagini specializzate e settoriali, ma tende ad esaminare le relazioni che reciprocamente legano gli ambiti economici con quelli storici, e con quelli psicologici e culturali, a para una visione globale e critica della società contemporanea. Qui che si instaura quel nesso tra Hegelismo, Marxismo e Freudismo che tipicizzerà la Scuola di Francoforte e che, pur nelle varianti apportate dai diversi pensatori della Scuola, sarà un costante punto di riferimento della teoria critica della società. La teoria critica della società sorge, negli intenti di Horkheimer, per " incoraggiare una teoria della società esistente considerata come un tutto"; ma una teoria che fosse appunto critica, capace in altre parole di far emergere la contraddizione fondamentale della società capitalistica. In breve: il teorico critico è "quel teorico la cui unica preoccupazione consiste in uno sviluppo che conduca ad una società senza sfruttamento ". La teoria critica vuol essere comprensione totalizzante e dialettica della società umana nel suo complesso, e, per essere più esatti, dei meccanismi della società industriale avanzata, al fine di promuoverne una trasformazione razionale che tenga conto dell’uomo, della sua libertà, della sua creatività, del suo armonico sviluppo in una collaborazione aperta e feconda con gli altri, piuttosto che di un opprimente sistema e della sua perpetuazione. Per venir correttamente intese, le teorie della Scuola di Francoforte debbono essere adeguatamente inquadrate nell’arco del periodo storico in cui furono elaborate. Questo è il periodo che ha vissuto il dopoguerra, che ha fatto esperienza del fascismo e del nazismo in Occidente, e quella dello stalinismo in Russia; che poi è stato attraversato dall’uragano della seconda guerra mondiale e che ha visto lo sviluppo massiccio, onnipervasivo ed irrefrenabile della società tecnologica avanzata così che al centro delle riflessioni dei Francofortesi troviamo sia le più importanti questioni politiche, come anche quei problemi teorici sui quali aveva indugiato il Marxismo occidentale (Lukács, Korsch) in contrasto con pensatori quali Dilthey, Weber, Simmel, Husserl o i Neokantiani, contrasto che i Francofortesi allargheranno anche all’Esistenzialismo e al Neopositivismo. Il fascismo, il nazismo, lo stalinismo, la guerra fredda, la società opulenta, la rivoluzione mancata, da una parte; e, dall’altra, il rapporto tra Hegel e il Marxismo e tra questo e le correnti filosofiche contemporanee, come anche l’arte d’avanguardia, la tecnologia, l’industria culturale, la psicoanalisi e il problema dell’individuo nella società odierna, sono tutti temi che s’intersecano all’interno della riflessione degli esponenti della Scuola di Francoforte. Dalla Germania agli Stati Uniti Chi sono questi esponenti della Scuola di Francoforte? I primi membri del gruppo furono gli economisti Friedrich Pollock (autore della Teoria marxiana del denaro, 1928; e della Situazione attuale del capitalismo e le prospettive di un riordinamento Pianificato dell’economia, 1932), e Henryk Grossmann (autore de La legge dell’accumulazione e del crollo nel sistema capitalistico, 1929), il sociologo Karl-August Wittfogel (celebre autore d’Economia e società in Cina, 1931; e dello scritto sul Dispotismo orientale, 1957, saggio in cui si analizza anche la società sovietica), lo storico Franz Borkenau, e il filosofo Max Horkheimer, al quale si unirà poco dopo il filosofo, musicologo e sociologo Theodor Wiesengrund Adorno. In seguito entreranno nel gruppo il filosofo Herbert Marcuse, il sociologo e psicanalista Erich Fromm, il filosofo e critico letterario Walter Benjamin (autore tra l’altro de L’origine del dramma barocco tedesco, 1928; e de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936), il sociologo della letteratura Leo Lówenthal (autore di Sulla situazione sociale della letteratura, 1932) e il politologo Franz Neumann. Con la presa del potere da parte di Hitler, il gruppo francofortese fu costretto ad emigrare, prima a Ginevra, poi a Parigi, infine a New York. Ma, nonostante le traversie e le difficoltà, fu in quegli anni che apparvero alcuni tra i lavori di maggior rilievo della Scuola di Francoforte, come gli Studi sull’autorità e la famiglia (Parigi, 193 6) e La personalità autoritaria (opera che verrà ultimata nel 1950). Quest’ultimo lavoro collettivo (di Adorno e collaboratori) è uno sviluppo molto accorto degli Studi sull’autorità e la famiglia. Tuttavia, anche a causa del campione scelto soltanto fra gli studenti americani, esso si presenta come un lavoro certamente meno stimolante del primo, dove, invece, il ventaglio delle tematiche tipiche della Scuola di Francoforte trova una trattazione molto precisa. Vi si discutono infatti: la centralità e l’ambiguità del concetto di autorità; la famiglia come luogo privilegiato per la riproduzione sociale del consenso; l’accettazione da parte degli uomini di condizioni insopportabili vissute come naturali ed immodificabili; la critica della razionalità tecnologica; la necessità di una impostazione metodologica in grado di neutralizzare i difetti delle ricerche settoriali " positivistiche ", e così via. Dopo la seconda guerra mondiale, Marcuse, Fromm, Lówenthal e Wittfogel restano negli Stati Uniti, mentre Adorno, Horkheimer e Pollock tornano a Francoforte. Anzi, nel 1950, rinasce I’" Istituto per la ricerca sociale", e da esso usciranno sociologi e filosofi quali Alfred Schmidt, Oskar Negt e, il più noto tra questi, Júrgen Habermas (delle cui opere occorre ricordare almeno: La logica delle scienze sociali, 1967; e Conoscenza ed interesse, 1968).
Theodor Wiesengrund Adorno
La "dialettica negativa" In Dialettica negativa (1966) Adorno (1901-1969) fa una scelta precisa per l' Hegel " dialettica " contrapposto all' Hegel " sistematico "; sceglie il potenziale critico (o "negativo") della dialettica consegnata nella Fenomenologia dello spirito, rifiutando la dialettica come sistema così come questa si delinea nella Logica e nella Filosofia del diritto. Contro la dialettica della sintesi e della conciliazione, Adorno punta sulla dialettica della negazione, sulla dialettica negativa, sulla dialettica cioè che nega l’identità tra realtà e pensiero e che scardina, quindi, le pretese della filosofia di afferrare la totalità del reale, di rivelarne il " senso " nascosto e profondo. Già nella sua prolusione del 1931 (L’attualità della filosofia) Adorno aveva detto che "chi sceglie oggi il lavoro filosofico come professione, deve rinunciare all’illusione con la quale prendevano precedentemente l’avvio i progetti filosofici: che sia possibile afferrare, in forza del pensiero, la totalità del reale". Questa è un’illusione come attesta il fallimento delle metafisiche tradizionali, della Fenomenologia, dell’Idealismo, del Positivismo, del Marxismo ufficiale o dell’Illuminismo. Allorché queste teorie si presentano come teorie positive, esse si trasformano in ideologie: "la filosofia, quale oggi si spaccia, non serve ad altro - scrive Adorno - che a mascherare la realtà e ad esternizzare il suo stato presente ". Solo affermando la non identità di essere e pensiero può venir garantito il non camuffamento della realtà che non si offre affatto armonica o, comunque, dotato di senso: noi viviamo dopo Auschwitz e " il testo che la filosofia deve leggere è incompleto, pieno di contrasti e lacunoso e molto vi può essere attribuito alla cieca demonia". Solo affermando la non identità di essere e pensiero possiamo sperare di smascherare i sistemi filosofici che tentano "di eternizzare " lo stato presente della realtà e di bloccare qualsiasi azione trasformatrice e rivoluzionaria. La dialettica è la lotta contro il dominio dell’identico, è la ribellione dei particolari al cattivo universale. In verità, scrive Adorno nei Tre studi su Hegel (1963), " la Ragione diventa impotente ad afferrare il reale non per la sua propria impotenza, ma perché il reale non è Ragione". Per questo, compito della dialettica negativa è quello di sconvolgere le false sicurezze dei sistemi filosofici, portando a luce il non-identico che essi reprimono, ponendo attenzione all’individuale e al diverso che essi trascurano. In breve, la dialettica negativa di Adorno cerca di infrangere le "totalità" in filosofia e nella politica. Essa è una salvaguardia delle differenze, dell’individuale e del qualitativo. Essa vuol essere la difesa contro una cultura "colpevole e miserevole ", giacché nessuno può nascondere il fatto che, dice Adorno in Dialettica negativa, "tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura". Adorno e la sua collaborazione con Horkheimer: la dialettica dell’Illuminismo Una volta compreso l’intento di fondo della dialettica negativa, non è più una difficoltà capire il modo in cui Adorno regoli i conti non solo con le correnti della filosofia moderna e contemporanea, ma anche con le concezioni politiche, i movimenti artistici e i mutamenti sociali della nostra epoca. Dichiaratamente vicino al Marxismo, Adorno ne respinge tutte quelle forme dogmatiche che sanno a priori in quale casella sistemare un fenomeno senza però conoscere nulla del fenomeno. Contrario alla sociologia di tipo umanistico "La sociologia non è una scienza dello spirito", giacché i suoi problemi non sono i problemi della coscienza o dell’inconscio, ma problemi riguardanti "la relazione attiva tra l’uomo e la natura e le forme obbiettive dell’associazione fra uomini, non riconducibili allo spirito come struttura interiore dell’uomo "), Adorno ha duramente criticato la sociologia di stampo empiristico (o positivistico) che non riuscirebbe a scorgere la peculiarità tipica dei fatti umani e sociali nei confronti di quelli naturali ‘ Questo attacco frontale (a volte violento, a volte ingiusto ma di rado poco interessante) contro la cultura contemporanea è, in effetti, un attacco contro quelle che Adorno reputa fuorvianti immagini della realtà, dove ogni cosa torna; immagini che così non svolgono altra funzione che quella di servire il potere, invece di dar voce ad una realtà dissestata come è quella della società capitalistica. E proprio della società capitalistica o, meglio, della società moderna, capitalista e comunista, Adorno e Horkheimer ci offrono il loro giudizio nella nota opera Dialettica dell’Illuminismo (1949), un’opera che si presenta come un’analisi della società tecnologica contemporanea. Con Illuminismo i due Autori non intendono soltanto quel movimento di pensiero che ha caratterizzato l’epoca dei lumi; loro piuttosto pensano ad un tragitto della ragione che, partendo già da Senofane, ha inteso nazionalizzare il mondo, renderlo manipolabile e soggiogabile da parte dell'uomo. " L'Illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l'obbiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all'insegna di trionfale sventura". L'Illuminismo, infatti, va incontro all'autodistruzione, e questo accade perché l'Illuminismo è rimasto "paralizzato dalla paura della verità". In esso ha prevalso l'idea che il sapere è tecnica piuttosto che critica. E la paura di allontanarsi dai fatti " fa tutt'uno con la paura della deviazione sociale". In questo modo si è persa la fiducia nella ragione oggettiva, quel che importa non è la verità delle teorie ma la loro funzionalità: funzionalità in vista di fini sui quali la ragione ha perso ogni diritto. La ragione, in altri termini, è pura ragione strumentale. Essa è del tutto incapace di fondare o di mettere in discussione quegli scopi o finalità su cui gli uomini orientano la propria vita. La ragione è ragione strumentale perché può unicamente individuare, costruire e perfezionare gli strumenti o i mezzi adeguati al raggiungimento di fini stabiliti e controllati dal "sistema". Noi viviamo in una società totalmente amministrata, e in essa " la condanna naturale degli uomini è oggi inseparabile dal progresso sociale". Difatti "l'aumento della produttività economica, che genera, da un lato, le condizioni di un mondo più giusto, procura, d'altra parte, all'apparato tecnico e ai gruppi sociali che ne dispongono, una immensa superiorità sul resto della popolazione. Il singolo, di fronte alle potenze economiche, è ridotto a zero. Queste, nello stesso tempo, portano a un livello finora mai raggiunto il dominio della società sulla natura. Mentre il singolo sparisce davanti all'apparato che serve, è rifornito da esso meglio di quanto non sia mai stato. Nello Stato ingiusto l'impotenza e la dirigibilità della massa cresce con la quantità di beni che le viene assegnata". L'industria culturale Per raggiungere la sua funzionalità, il "sistema", che è la società tecnologica contemporanea, ha posto in atto, tra i suoi principali strumenti, un apparato possente: l'industria culturale. Questa è costituita essenzialmente dai mass-media (cinema, televisione, radio, dischi, pubblicità, rotocalchi, ecc.). P- con i mass-media che il potere impone valori e modelli di comportamento, crea bisogni e stabilisce il linguaggio. E questi valori, bisogni, comportamenti e linguaggio sono uniformi perché devono raggiungere tutti; sono amorfi, asettici; non emancipano, non stimolano la creatività; anzi la bloccano perché abituano a ricevere passivamente i messaggi. "L'industria culturale ha perfidamente realizzato l'uomo come essere generico. Ognuno è soltanto ciò per cui può sostituire ogni altro: fungibile, un esemplare. Egli stesso, come individuo, è l'assolutamente sostituibile, il puro nulla [... ] ". E questo lo si vede anche nel divertimento: questo non è più il luogo della ricreazione, della libertà, della genialità, della gioia vera. E’ l'industria culturale che fissa il divertimento e i suoi orari. L'individuo subisce ancora. Come subisce le regole del "tempo libero", che è tempo programmato dall'industria culturale. "L'apoteosi del tipo medio appartiene al culto di ciò che è a buon prezzo". In questo modo, l'industria culturale non è che veicoli un'ideologia, è essa stessa ideologia; l'ideologia dell'accettazione dei fini stabiliti da "altri", cioè dal sistema. E’ così che l'Illuminismo si è rovesciato nel suo contrario. Voleva eliminare i miti, e ne ha creati a dismisura. Nella definizione di Kant "l'Illuminismo è l'uscita dell'uomo da uno stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro". Senonché, oggi, l'individuo è zero ed è guidato da "altri". Una volta si diceva che il destino dell'individuo era scritto nel cielo; oggi possiamo dire che è fissato e stabilito dal "sistema". Così stanno, dunque, le cose per Adorno ed Horkheimer, i quali non disperano ma ammoniscono che "se l'Illuminismo non accoglie in sé la coscienza di questo momento regressivo, firma la propria condanna". E questo non deve accadere perché quel che occorre è "conservare, estendere, dispiegare la libertà, anziché accelerare la corsa verso il mondo dell'organizzazione".
Max Horkheimer: l'eclisse della ragione Il "profitto" e la "pianificazione" quali generatori di repressioni Nel 1939 Horkheimer (1895-1973) afferma che "il fascismo è la verità della società moderna". Ma aggiunge subito che "chi non vuol parlare del capitalismo deve tacere anche sul fascismo". E questo perché il fascismo, a suo avviso, è dentro alle leggi del capitalismo: dietro alla "pura legge economica" - che è la legge del mercato e del proofiitto - c'è la "pura legge del potere". E il comunismo, che è capitalismo di Stato, è una variante dello Stato autoritario. Anche le organizzazioni proletarie di massa si sono date una struttura burocratica e non sono mai andate, ad avviso di Horkheimer, al di là dell'orizzonte del capitalismo di Stato: qui al principio del piano si è sostituito quello del profitto, ma gli uomini seguitano ad essere oggetti di amministrazione, di un'amministrazione centralizzata e burocratizzata. Il profitto da una parte e il controllo del piano dall'altra hanno generato sempre maggiore repressione. P- dunque una logica perfida quella che struttura la società industriale. E l'intento del lavoro di Horkheimer dal titolo Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale (1947) è quello "di esaminare il concetto di razionalità che sta alla base della moderna cultura industriale e di cercar di stabilire se questo concetto non contenga difetti che lo viziano in modo essenziale". La ragione strumentale Ebbene, diciamo subito che, secondo Horkheimer, il concetto di razionalità che sta a fondamento della civiltà industriale è malato alla radice: "La malattia della ragione sta nel fatto che essa è nata dal bisogno umano di dominare la natura […] ". Questa volontà di dominare la natura, di capirne le "leggi" per assoggettarla, ha richiesto l'impianto di una organizzazione burocratica ed impersonale che, in nome del trionfo della ragione sulla natura, è giunta a ridurre l'uomo a semplice strumento. Al progresso delle risorse tecniche, che potrebbero servire ad "illuminare" la mente dell'uomo, si accompagna un processo di disumanizzazione, così che il progresso minaccia di distruggere proprio quello scopo che dovrebbe realizzare: l'idea dell'uomo. E l'idea dell'uomo, cioè la sua umanità, la sua emancipazione, il suo potere di critica e di creatività, sono minacciati perché lo sviluppo del " sistema" della civiltà industriale ha sostituito i fini con i mezzi, ha mutato la ragione in uno strumento per raggiungere fini, dei quali la ragione non sa più nulla. In altri termini, "il pensiero può servire per qualunque scopo, buono o cattivo. E’ uno strumento di tutte le azioni della società; ma non deve cercare di stabilire le norme della vita sociale o individuale, che si suppone siano stabilite da altre forze ". La ragione quindi non ci dà più verità oggettive ed universali a cui potersi aggrappare, ma solo strumenti per scopi già stabiliti; non è essa a fondare e a stabilire cosa siano il bene e il male, in base a cui orientare la nostra vita: sul bene e sul male decide ormai il "sistema", vale a dire il potere. La ragione è ormai ancilla administrationis e, "avendo rinunciato alla sua autonomia, la ragione è diventata uno strumento". La filosofia come denuncia della ragione strumentale Di fronte a questo spaventoso vuoto si cerca di porvi rimedio tornando a sistemi come l'astrologia, lo yoga o il buddhismo; ovvero vengono proposti adattamenti popolari di filosofie classiche oggettivistiche o anche "si raccomandano per l'uso moderno [... ] le ontologie medievali". Ma le panacee restano panacee. La realtà, invece, oggi comporta quanto segue. 1) "La natura è concepita oggi più che mai come semplice strumento dell'uomo; è l'oggetto di uno sfruttamento totale cui la ragione non assegna nessuno scopo e che quindi non conosce limiti". 2) "Il pensiero che non serve agli interessi di un gruppo costituito o agli scopi della produzione industriale è considerato inutile e superfluo". 3) Tale decadenza del pensiero "favorisce l'obbedienza ai poteri costituiti; siano questi rappresentati dai gruppi che controllano il capitale o da quelli che controllano il lavoro". 4) La cultura di massa "cerca di "vendere" agli uomini il genere di vita che già conducono e che inconsciamente odiano, benché a parole lo lodino". 5) " Non solo la capacità produttiva dell'operaio oggi è acquistata dalla fabbrica e subordinata alle esigenze della tecnica, ma i capi dei sindacati ne stabiliscono la misura e l'amministrano ". 6) "La deificazione dell'attività industriale non conosce limiti. L'ozio è considerato una specie di vizio, quando va oltre la misura in cui è necessario per restaurare le forze e permetterci di riprendere il lavoro con maggiore efficienza ". 7) Il significato della produttività è misurato "coi termini della utilità rispetto alla struttura del potere, non già rispetto alle necessità di tutti". Ebbene, in questa situazione disperata, "il più grande servigio che la ragione poteva rendere all'umanità" è quello "della denuncia di ciò che viene comunemente chiamata ragione". Scrive ancora Horkheimer: "I veri individui del nostro tempo sono i martiri che passarono attraverso inferni di sofferenza e di degradazione nella loro lotta contro la conquista e l'oppressione; non già i personaggi, gonfiati dalla pubblicità, della cultura popolare. Quegli eroi, che nessuno ha cantato, esposero consapevolmente la loro esistenza individuale alla distruzione che altri subiscono senza averne coscienza, vittime dei processi sociali. I martiri anonimi dei campi di concentramento sono i simboli dell'umanità che lotta per venire alla luce. Il compito della filosofia sta nel tradurre ciò che essi hanno fatto in parole che gli uomini possano udire, anche se le loro voci mortali sono state ridotte al silenzio dalla tirannia". La nostalgia del "Totalmente Altro" Marxista e rivoluzionario da giovane, Horkheimer si è venuto via via distaccando dalle sue posizioni giovanili. Non possiamo assolutizzare nulla (ricordiamo che Horkheimer è di origine ebraica), e quindi non possiamo assolutizzare nemmeno il Marxismo. In realtà - osserva Horkheimer in La nostalgia del Totalmente Altro (1970) - le illusioni di Marx son presto venute a galla: "La situazione sociale del proletariato è migliorata senza la rivoluzione, e l'interesse comune non è più il radicale mutamento della società, ma una migliore strutturazione materiale della vita". E vi è, ad avviso di Horkheimer, una solidarietà che va al di là della solidarietà di una determinata classe: è la solidarietà fra tutti gli uomini, "la solidarietà che risulta dal fatto che tutti gli uomini devono soffrire, devono morire e che sono finiti". E se le cose stanno così, allora "abbiamo tutti in comune un interesse originariamente umano, quello di creare un mondo nel quale la vita di tutti gli uomini sia più bella, più lunga, più affrancata dal dolore e, vorrei aggiungere, ma non posso crederci, un mondo che sia più favorevole allo sviluppo dello spirito ". Di fronte al dolore del mondo, di fronte all'ingiustizia non si può rimanere inerti. Ma noi uomini siamo finiti, e perciò, se non dobbiamo rassegnarci, non possiamo però pensare che qualcosa di storico - una politica, una teoria, uno Stato - sia qualcosa di assoluto. La nostra finitezza, la nostra precarietà cioè, non dimostra l'esistenza di Dio. Tuttavia, c'è bisogno di una teologia, intesa non come scienza del divino o di Dio, ma come "la coscienza che il mondo è fenomeno, che non è la verità assoluta, la quale solo è la realtà ultima La teologia è - devo esprimermi con molta cautela - la speranza che, nonostante questa ingiustizia che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l'ingiustizia possa essere l'ultima parola". Per Horkheimer, quindi, la teologia è "espressione di una nostalgia, secondo la quale l'assassino non possa trionfare sulla sua vittima innocente ". Dunque: "nostalgia di perfetta e consumata giustizia". Questa non potrà mai essere realizzata nella storia, dice Horkheimer. Difatti, "quando anche la migliore società avesse a sostituire l'attuale disordine sociale, non verrà riparata l'ingiustizia passata e non verrà tolta la miseria della natura circostante". Tuttavia, questo non significa che dobbiamo arrenderci ai fatti, come per esempio al fatto che la nostra società diventa sempre più soffocante. Noi dice Horkheimer - "non viviamo ancora in una società automatizzata [...] . Noi possiamo fare ancora molte cose, anche se più tardi ci sarà tolta questa possibilità". E quel che il filosofo deve fare è criticare "l'ordine costituito", per "impedire che gli uomini si perdano in quelle idee e in quei modi di comportamento, che la società propina loro nella sua organizzazione ".
Erich Fromm e la "Città dell'Essere" La disobbedienza è davvero un vizio? L'uomo nasce, ad avviso di Fromm (1900-1980), quando "viene strappato all'originaria unione con la natura che caratterizza l'esistenza animale". Ma allorché si dà quest'evento, l'uomo rimane fondamentalmente solo. La realtà è che, come Fromm ha messo in evidenza in Fuga dalla libertà (1941), l'uomo che si distacca dal mondo fisico e sociale, l'uomo cioè che diventa libero, responsabile dei propri atti, della propria scelta e dei propri pensieri, non sempre riesce ad accettare il peso della libertà e cede allora al "conformismo gregario " ubbidendo ciecamente a norme stabilite, aggregandosi a un gruppo (e considerando nemici gli altri e gli altri gruppi). In questo modo, l'uomo, che va alla ricerca della sua identità, trova solo surrogati e si perde e perde la sua salute mentale. Per secoli re, sacerdoti, signori feudali, magnati dell'industria e genitori hanno proclamato - afferma Fromm ne La disobbedienza come problema psicologico e morale (1963) - che l'obbedienza è una virtù e che la disobbedienza è un vizio. Ma a questo atteggiamento Fromm contrappone la prospettiva per cui: "la storia dell'uomo è cominciata con un atto di disobbedienza, ed è tutt'altro che improbabile che si concluda con un atto di obbedienza". Adamo ed Eva "stavano dentro la natura così come il feto sta dentro l'utero della madre ". Ma il loro atto di disobbedienza ha scisso il legame originario con la natura e li ha resi individui: "il "peccato originale", lungi dal corrompere l'uomo, lo ha anzi reso libero; è stato esso l'inizio della sua storia. L'uomo ha dovuto abbandonare il paradiso terrestre per imparare a dipendere dalle proprie forze e diventare pienamente umano". E come ci insegna il messianismo dei profeti, come ci insegna il "delitto" di Prometeo (che ruba il fuoco agli dei e "pone le fondamenta dell'evoluzione umana"), come ci insegna il cammino storico dell'uomo, "l'uomo ha continuato ad evolversi mediante atti di disubbidienza. Non soltanto il suo sviluppo spirituale è stato reso possibile dal fatto che nostri simili hanno osato dire "no" ai poteri in atto in nome della propria coscienza o della propria fede, ma anche il suo sviluppo intellettuale è dipeso dalla capacità di disobbedire: disobbedire alle autorità che tentassero di reprimere nuove idee e all'autorità di credenze sussistenti da lungo tempo, e secondo le quali ogni cambiamento era privo di senso ". Una persona diventa libera e cresce mediante atti di disobbedienza. La capacità di disobbedire è, pertanto, la condizione della libertà. Ma, d'altro canto, la libertà rappresenta la capacità di disobbedire: "Se ho paura della libertà non posso osare dire "no", non posso avere il coraggio di essere disobbediente. In effetti, la libertà e la capacità di disobbedire sono inseparabili". E sono esse che stanno alla base della nascita e della crescita dell'uomo in quanto tale. Ebbene, dice Fromm " nell'attuale fase storica, la capacità di dubitare, di criticare e di disobbedire può essere tutto ciò che si interpone tra un futuro per l'umanità e la fine della civiltà ". Avere o essere? All'analisi della crisi della società contemporanea e della possibilità di risolverla, Fromm ha dedicato uno tra i suoi libri più letti: Avere o essere? (1976), dove egli esamina le "due basilari modalità di esistenza: la modalità dell'avere e la modalità dell'essere". Per la prima modalità si dice che l'essenza vera dell'essere è l'avere, per cui "se uno non ha nulla, non è nulla". Ed è in base a questa idea che i consumatori moderni etichettano se stessi con la seguente espressione: io sono = ciò che ho e ciò che consumo. Di fronte a questa modalità di esistenza individuale e sociale, Fromm richiama Buddha il quale insegnò che non dobbiamo aspirare ai possessi; Gesù per il quale nulla giova all'uomo l'aver guadagnato il mondo e poi perdere se stesso; maestro Eckhart che insegnava a non aver nulla; Marx quando afferma che "il lusso è un vizio esattamente come la povertà e che dovremmo proporci come meta quella di essere molto, non già di avere molto. Mi riferisco qui - precisa Fromm - al vero Marx, all'umanista radicale, non alla sua volgare contraffazione costituita dal "comunismo" sovietico". Se, dunque, per la modalità dell’avere, un uomo è ciò che ha e ciò che consuma, i prerequisiti della modalità dell’essere sono " L’indipendenza, la libertà e la presenza della ragione critica ". La caratteristica fondamentale della modalità dell’essere consiste " nell’essere attivo ", che non va inteso nel senso di un’attività esterna, nell’essere indaffarati, ma di attività interna, di uso produttivo dei nostri poteri umani. Essere attivi significa dare espressione alle proprie facoltà e talenti, alle molteplicità di doti che ogni essere umano possiede, sia pure in vario grado. Significa rinnovarsi, crescere, espandersi, amare, trascendere il carcere del proprio io isolato, essere interessato, " Prestare attenzione, dare ". Ebbene, delineate queste due modalità, quella dell'avere e quella dell'essere, Fromm asserisce: "La cultura tardo-medievale aveva come centro motore la visione della Città di Dio; la società moderna si è costituita perché la gente era mossa dalla visione dello sviluppo della Città Terrena del Progresso. Nel nostro secolo, tuttavia, questa visione è andata deteriorandosi, fino a ridursi a quella della Torre di Babele, che ormai comincia a crollare e rischia di travolgere tutti nella sua rovina. Se la Città di Dio e la Città Terrena costituiscono la tesi e l'antitesi, una nuova sintesi rappresenta l'unica alternativa al caos: la sintesi tra il nucleo spirituale del mondo tardo-medievale e lo sviluppo, avvenuto a partire dal Rinascimento, del pensiero razionale e della scienza. Questa sintesi costituisce la Città dell'Essere"Questa Città dell'Essere sarà la città dell'uomo nuovo, ossia sarà quella società che è "organizzata in modo tale - così scriveva Fromm ne L'arte di amare (1956) - che la natura sociale e amante dell'uomo non sia separata dalla sua esistenza sociale, ma diventi un'unica cosa con essa".
Da: http://www.geocities.com/Athens/Delphi/6695/Francoforte.html
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