"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
Da un lato le teorie riduzioniste e fisicaliste,
dall'altro le teorie postmoderne e femministe mettono fortemente in questione il
concetto di identità. Lei nei suoi scritti sembra invece deplorare il fatto che
questa perdita dell'identità sia sostituita da una sfrenata ricerca di
visibilità. Afferma inoltre che la realtà è basata su una incertezza radicale
che rende impossibile qualsiasi scambio, ma a questo punto - dice - abbiamo
trovato una «soluzione finale»: il virtuale in tutte le sue forme, la messa in
opera di un artefatto tecnologico perfetto, tale che il mondo si possa scambiare
con il suo doppio artificiale. Ancora una volta, però, si tratterebbe di un
sistema votato al fallimento... Insomma a quale tipo di identità ci troviamo di
fronte? Dal mio punto di vista, l'identità non è un valore forte.
C'è una logica dell'identità e della differenza che si rifà in una certa misura
all'«identico». Si è detto: ognuno deve differenziarsi, deve avere una propria
specificità; e tuttavia questa differenza ridiventa identitaria, vale a dire che
ciascuno si identifica con se stesso. E' chiaro come in questo tipo di
identificazione sia compreso un pericolo assoluto, perché il gioco in qualche
modo si chiude: l'individuo diventa qualcosa di indivisibile, il clone di se
stesso. È un tipo di processo che definirei antropico: si parte da una sorta di
diversità, da una contrapposizione di sé a se stessi, da una divisione interna:
ma a un dato momento accade che ci si conquista il diritto alla propria
individualità. Non è più questione di libertà in atto, bensì dell'idea che
ciascuno ha diritto al proprio territorio, al proprio patrimonio, alla propria
eredità, al proprio nome. L'alterità è in qualche modo ostracizzata, rifiutata:
a questo punto, ciascuno si è creato la propria nicchia, il proprio territorio.
Si tratta di un problema filosofico antico, riproposto in epoca moderna e
riportato alla luce dalla tecnica. Il soggetto che un tempo era d'ordine ideale,
trascendente, è divenuto d'ordine tecnologico: ciascuno oggi si `consola' con
gli strumenti elettronici, con i mezzi di comunicazione, con i mezzi
d'informazione, creando un universo autarchico. Si passa dall'identità come
essenza, all'identità come differenza e poi all'identità come riconoscimento; ma
si tratta di una autodefinizione e quindi, in qualche modo, di un'auto-chiusura.
Di tutto questo si ha sentore nelle tecnologie del virtuale, che in effetti
aprono immense possibilità fino ad esaltare il cambiamento stesso di identità. E
tuttavia, non si può parlare di un divenire in senso forte, come riguardasse
l'idea di destino. Parlerei, piuttosto, di identità combinatoria e
osserverei anche che, al centro di molteplici flussi, in qualche modo si è persa
la coscienza di sé. Inoltre, si potrebbe dire che questa costruzione identitaria
è operazionale: gioca con le tecniche, può trasformarsi a piacimento, e tuttavia
resta effimera, orizzontale. Non ha più quella verticalità che era propria, ad
esempio, dell'essere o del non essere, della storia, insomma di una trascendenza
qualsivoglia. L'identità oggi è diventata semplicemente una sorta di
estensione, di estroversione, implica soprattutto l'essere visibili: niente più
segreti. In definitiva, anche la comunicazione simbolica è fatta della
condivisione di ciò che non viene detto o non può essere detto. Oggi, invece,
tutto deve essere comunicabile e, all'interno di questa situazione ciascuno si
ritaglia una piccola parte.
Per contro, assistiamo a una recrudescenza dei
fondamentalismi e alla difesa di identità rigide... Sì, ma qui stiamo parlando dell'identità come sistema
di auto-difesa rispetto a questa sorta di relativizzazione del soggetto. Ora non
ci sono più punti di riferimento. Non si sa più chi si è, non c'è più neanche
un'immagine di sé. Tutto fluttua, tutto è instabile e quindi siamo di fronte a
un ripiegamento, forse a una regressione. In un certo senso, è facile capire la
necessità di difendersi dalla globalizzazione. Quando tutti i punti di
riferimento e i confini vanno persi, ci si «riterritorializza» su valori
religiosi, etnici, linguistici o altro. E al tempo stesso si tende a dire che
tutto questo è reazionario. Il razzismo è ormai di seconda generazione, o forse
di terzo tipo: rinasce in funzione di questa perdita di confini, di questa
perdita didifese. Con la mondializzazione tende a scomparire ciò che
apparteneva a valori universali: per esempio, il fatto che ogni popolo sia
dotato di una propria cultura. La cultura occidentale ha affermato il diritto
alla multi-culturalità, e di fatto la cultura della differenza è ancora un
Leitmotiv dell'Occidente. Ma che cosa fanno di tutto questo le altre culture
per metà scomparse? Anch'esse cercano disperatamente di affermare le proprie
differenze, finendo per rientrare in questa sorta di mosaico culturale che, in
fin dei conti, è quello dell'Occidente. È così che questa cultura disperata,
della differenza e dell'identità, si perde infine in un sistema in cui viene in
realtà sacrificata. Lo schema è quello di tipo pubblicitario, dove viene
proposto un modello, per esempio di corpo femminile; eppure lo slogan dice:
siate diversi, assomigliate tutti allo stesso modello! Pensiamo alla realtà virtuale. L'identità implica un
principio di riconoscimento di sé, e anche un principio di piacere: principio di
realtà dell'individuo e dell'altro, del soggetto e dell'altro. In qualche modo
un principio dialettico. Nella realtà virtuale, invece, sembra sia scomparsa la
dialettica dell'alterità, dell'individuo, e non c'è più nemmeno quella che mette
in relazione l'individuo con la società. C'è una specie di proiezione di
ciascuno di noi in uno stesso panorama infinito di possibilità, il tutto ridotto
a numero. Così siamo diventati un po'... oligocefali.
Lo psicoanalista Francesco
Corrao parlava
di un mutamento dei miti di riferimento: dal mito di Edipo, basato sulla colpa e
sul triangolo, al mito di Dioniso, dio del gruppo orgiastico, che
rappresenterebbe i livelli mentali precoci basati sul divoramento, sullo
smembramento e sulla frammentazione. Il che renderebbe conto della violenza
attuale e della incapacità di affrontare le passioni senza farle esplodere in
maniera incontrollabile. Anche se si può affermare che quelle edipiche sono
delle strutture vere e proprie, in qualche modo stabili, è anche vero che ora si
avverte un loro superamento, al di là della psicoanalisi e oltre il principio
stesso di una interiorità e forse di un inconscio. Nell'universo virtuale
l'inconscio non esiste più, è - per esempio - completamente relativizzato dal
rapporto con realtà numeriche. Voglio dire che la strategia di un sistema come
quello vigente consiste nell'annullare sia ogni dimensione trascendente che ogni
forma di interiorità: essa, è chiaro, rappresenta la minaccia assoluta, è ciò
attraverso cui si sfugge alla morte, alla legge, alla norma. In fondo, si tratta
del terrore della trasparenza, come nella patologia schizofrenica: lo
schizofrenico è completamente trasparente, non può fermare niente di quanto lo
colpisce, è attraversato da ogni parte. Ma allora, se non c'è più interiorità,
non c'è più neanche distanza dalle cose. Lo sguardo, il giudizio, la seduzione,
tutto ciò va perso in questa sorta di avvicinamento assoluto. Si parla di
interattività, ma di fatto c'è una promiscuità delle cose che fa sì che non ci
sia più neanche alienazione, dal momento che non c'è altro che l'identico e che
esiste la possibilità di realizzarsi totalmente, immediatamente senza passare
per l'altro. E ciò fa sì che anche tutte le forme d'arte, come il teatro, ad
esempio, che supponevano una scena, una distanza, uno sguardo, siano molto
minacciate a vantaggio del collage video, dello schermo: di fronte ad esso si è
al tempo stesso spettatori e protagonisti, interattivi. Si gioca con lo schermo
a proprio totale piacimento, e a un tratto ci si accorge che anche quel «pathos
della distanza», di cui diceva Nietzsche, risulta annullato. Il che rappresenta
davvero un impoverimento notevole.
Sembra che le biotecnologie permettano un'azione diretta
sul corpo senza presupporre più alcun collegamento con le fantasie sottostanti.
Tramite i miti conoscevamo già degli ibridi, delle combinazioni non esistenti in
natura, come ad esempio i centauri, le chimere e così via. Erano fantasie già
contenute nella mente, ma ora possono essere realizzate. È come se tutto potesse
diventare attuale, ogni azione possibile. Questo sì che comporta un cambiamento
radicale... In effetti, tutto quel che era sogno, utopia, fantasma,
tutto ciò che aveva un'esistenza in qualche modo ideale, è diventato
tecnologicamente realizzabile, dando luogo a una forma di realtà integrale: non
c'è più modo di sognare una cosa dal momento che quella cosa viene realizzata
immediatamente. Questo, del resto, comporta problemi psicologici non
indifferenti: è difficile sognare una persona se è lì presente. Sta forse qui il
fine ultimo di una relazione amorosa: poter sognare una persona avendola vicina.
L'assenza e il vuoto, così come tutte le figure mitiche, stimolavano forme
d'immaginazione, ma sembra non ce ne sia pià bisogno dal momento che tutto è
incarnato, realizzato.
Anche la psicoanalisi ci insegna che il pensiero, la
capacità di simbolizzazione, nascono dall'assenza. Sì, occorre una sorta di alternanza del gioco, di
contrapposizione fra presenza e assenza. In fin dei conti, l'identificazione
totale avviene forse un po' nel sonno, ma compiutamente solo nella morte.
Pensiamo alla clonazione, vale a dire l'identificazione illimitata di sé: non ci
mette di fronte a quella che Freud chiamava pulsione di morte? Alla possibilità
di essere moltiplicati ma indifferenziati, di non avere più niente a che fare
con la propria assenza, di essere completamente identificati...
E di non aver più niente a che fare con la propria
origine... Proprio così, viene annullato l'evento della nascita,
così come quello della morte, e ci troviamo di fronte a una sorta di
continuum, di flusso ininterrotto dove ciascuno si trova semplicemente alla
confluenza di un certo numero di percorsi, di schermi. Questa, in fondo, è la
prospettiva generale: un po' catastrofica secondo me.
Eppure potremmo provare a vederla in un altro modo: non
potrebbe darsi che ci troviamo di fronte a nuove geometrie mentali, nuove forme
di vita, nuove identità appunto, di cui non è dato ancora conoscere i modi di
organizzazione, ma che potrebbero evolversi in qualche forma se solo arrivassero
a usufruire di un minimo di integrazione di questi livelli e di queste modalità? L'integrazione mi sembra diventata un imperativo
morale. In ultima analisi, direi che l'unica prospettiva positiva è quella del
gioco. Ma in senso forte, dunque non come sfida intrinseca alla dimensione
duale. Il cambiamento continuo può rispondere a un principio di piacere, è vero,
ma minimale: si cambia look, si cambia aspetto, e perché no? si cambia
sesso. Non che vada negato il godimento immediato che se ne può trarre: tuttavia
restiamo all'interno di una dimensione ludica, estranea ai grandi giochi.
Inoltre, mi sento molto perplesso circa le varianti di integrazione che
consentirebbero forme di appropriazione di sé. Forse, invece, ci sono già
livelli di integrazione sociale che permettono di ritrovare modalità reali di
comunicazione. O, quantomeno, forme di comunità realizzate attraverso
dispositivi tecnici. Ricordano i modi di stare insieme delle tribù, spazi
tribali dove ciascuno si ritaglia una forma di linguaggio, un idioletto. Ma non
bisogna essere troppo settari... ci troviamo di fronte a cambiamenti simbolici
ospitati negli alveoli di un sistema che è addirittura la negazione del
simbolico. In fondo, se ci si spinge ai confini estremi della tecnica, forse si
ritrova la costellazione del segreto. Bisogna andare fino in fondo, senza
cercare di difendersi. In definitiva, un barlume di speranza c'è ancora.