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Che cosa vuol dire punire di Foulek Ringelheim
Quali sono le strutture di pensiero e la razionalità che fondano il sistema
punitivo? Quali sono i postulati logici che è necessario riesaminare se si
vuole trasformare il rapporto infrazione-pena? In questa intervista,
rilasciata alla fine del 1983, Michel Foucault (1926-1984) analizza
l'evoluzione del sistema penale occidentale nell'età moderna e il modello
culturale che fonda l'idea di pena. Foucault, saggista e storico della
cultura, è stato professore al Collége de France, e ha pubblicato numerose
opere, tra cui: Sorvegliare e punire (1976), La nascita della
clinica (1969), Le parole e le cose (1967), Storia della follia
(1963).
Il suo libro, Sorvegliare e punire, è piombato come una meteora
sul campo di studio di penalisti e di criminologi. Proponendo un'analisi del
sistema penale nella prospettiva della tattica politica e della tecnologia del
potere, l'opera ha portato scompiglio tra le tradizionali concezioni sulla
delinquenza e sulla funzione sociale della pena. Ha turbato i giudici
repressivi, per lo meno quelli che s'interrogano sul senso del loro lavoro. Ha
scosso un buon numero di criminologi che però non hanno affatto gradito che le
loro teorie fossero definite chiacchiere. Sempre più rari sono oggi i
libri di criminologia che si riferiscono a Sorvegliare e punire come a
un'opera propriamente inaggirabile. Bisognerebbe forse preliminarmente precisare che cosa mi sono proposto di
fare con questo libro. Non ho voluto fare direttamente opera critica, se si
intende per critica la denuncia delle disfunzioni dell'attuale sistema penale.
Né ho voluto fare una storia delle istituzioni; nel senso che non ho voluto
raccontare come funzionava l'istituzione penale e carceraria nel corso del
diciannovesimo secolo. Ho tentato di porre un problema diverso: scoprire il
sistema di pensiero, la forma di razionalità che, dalla fine del diciottesimo
secolo, sottostà all'idea che la prigione è, in definitiva, lo strumento
migliore, uno dei più efficaci e dei più razionali per punire le infrazioni in
una società. È evidente che nel fare ciò mi sono preoccupato di come si
potrebbe agire ora. Infatti mi sembra che opponendo, come si fa
tradizionalmente, riformismo e rivoluzione, non ci si dota dei mezzi per
pensare che cosa possa dar luogo a una reale, profonda e radicale
trasformazione. Si ha l'impressione che il sistema concettuale non sia per niente cambiato. Nonostante i giuristi, gli psichiatri riconoscano la pertinenza e le novità delle sue analisi, si scontrano, a quanto pare, con l'impossibilità di tradurli sul piano pratico, sul piano della ricerca di ciò che si definisce con un termine ambiguo «politica criminale». Qui si pone un problema che in effetti è molto importante e complesso. Appartengo a una generazione di persone che ha visto crollare una dopo l'altra la maggior parte delle utopie che erano state costruite nel diciannovesimo secolo e all'inizio del ventesimo secolo, e che hanno visto quali effetti perversi e talvolta disastrosi potevano produrre i progetti dalle intenzioni più generose. Non ho mai voluto assumere il ruolo dell'intellettuale profeta che predica alle persone ciò che devono fare e prescrivere loro le strutture di pensiero, gli obiettivi e i mezzi che ha desunto dalla sua testa, lavorando chiuso in una stanza, tra i libri. Mi è sembrato che il lavoro di un intellettuale, di quello che io definisco un intellettuale specifico, consista nel tentare di delineare, nel loro potere vincolante ma anche nella contingenza della loro formazione storica, i sistemi di potere che ci sono diventati ora familiari, che ci sembrano chiari e che compenetrano le nostre percezioni, i nostri comportamenti. Bisogna inoltre lavorare insieme a degli esperti non solo per modificare le istituzioni e le procedure d'azione, ma anche per rielaborare le forme di pensiero. Ciò che ha definito «chiacchiera criminologica» (definizione che è stata senza dubbio fraintesa) indica quindi il fatto di non mettere in discussione il sistema di pensiero entro il quale sono state condotte, per un secolo e mezzo, tutte queste analisi? Sì, proprio questo. Forse ho usato una parola un po' disinvolta. Quindi cancelliamola. Ma ho l'impressione che le difficoltà e le contraddizioni che la pratica penale ha incontrato nel corso degli ultimi due secoli non sono mai state riesaminate a fondo. E da ormai centocinquanta anni, vengono ripetuti sempre gli stessi concetti, gli stessi temi, le stesse accuse, le stesse critiche, le stesse esigenze, come se niente fosse cambiato, e in effetti, in un certo senso, niente è cambiato. A partire dal momento in cui un'istituzione che presenta tanti inconvenienti, che solleva tante critiche, dà solo luogo alla ripetizione indefinita degli stessi discorsi, la «chiacchiera» è un sintomo serio. In Sorvegliare e punire, lei analizza quella strategia che consiste nel trasformare alcuni illegalismi in delinquenza, rendendo l'apparente fallimento del carcere un successo. È come se un certo gruppo utilizzasse più o meno coscientemente questo strumento per produrre degli effetti non dichiarati. Si ha l'impressione, forse falsa, che vi sia in tutto questo l'astuzia del potere che sovverte i progetti, elude i discorsi dei riformatori umanisti. Da questo punto di vista, c'è una certa similitudine tra le sue analisi e il modello d'interpretazione marxista della storia (mi riferisco alle pagine nelle quali mostra come un certo tipo d'illegalismo venga particolarmente represso mentre altri sono tollerati). Ma non si capisce chiaramente, a differenza del marxismo, quale gruppo o quale classe, quali interessi siano in azione in questa strategia. Nell'analisi di un'istituzione bisogna distinguere varie cose. In primo
luogo quella che si potrebbe chiamare la sua razionalità o il suo fine, cioè
gli obiettivi che si prefigge e i mezzi di cui dispone per raggiungere questi
obiettivi: in definitiva, il programma dell'istituzione così come è stato
definito. In secondo luogo, gli effetti. Solo molto raramente gli effetti
coincidono con il fine: così, l'obiettivo del carcere-correzione, il
carcere come strumento di riparazione all'errore commesso dall'individuo, non
è stato raggiunto. Effetti che si trasformano a loro volta in fini... Proprio così. Sono effetti che vengono inseriti in differenti usi e questi usi vengono razionalizzati o comunque organizzati in funzione di nuovi fini. Ma tutto non è premeditato, non c'è alla base un progetto machiavellico occulto? Assolutamente no. Non c'è un soggetto o un gruppo che sia titolare di questa strategia, ma a partire da effetti diversi dai fini originari e dall'utilizzabilità di questi effetti, si costruiscono un certo numero di strategie. Strategie le cui finalità a loro volta sfuggono in parte coloro che le elaborano... Sì. Talvolta queste strategie sono completamente consce: il modo in cui la
polizia utilizza il carcere è più o meno conscio. Semplicemente, in generale
non vengono formulate. A differenza del programma. Lei ha spiegato molto chiaramente come la pena detentiva sia stata, sin
dall'inizio del ventesimo secolo, denunciata come il grande fallimento della
giustizia penale, esattamente negli stessi termini in cui lo è oggi. Non
esiste penalista convinto del fatto che il carcere raggiunga gli scopi che gli
sono attribuiti: il tasso di criminalità non diminuisce. Invece di
risocializzare, il carcere fabbrica delinquenti, accresce la recidiva, non
garantisce sicurezza. Gli istituti penitenziari non si svuotano, né si
intravede in Francia a questo riguardo l'avvio di un cambiamento sotto il
governo socialista. Però nello stesso tempo lei capovolge il problema. Chiariamo innanzitutto alcuni equivoci. In primo luogo, in questo libro sul
carcere, è evidente che non ho voluto porre il problema del fondamento del
diritto di punire. Ho voluto mostrare il fatto che a partire da una certa
concezione del fondamento del diritto di punire riscontrabile nel pensiero dei
penalisti e dei filosofi del diciottesimo secolo, potevano essere concepiti
diversi strumenti di punizione. Infatti, i movimenti riformisti della seconda
metà del diciottesimo secolo suggeriscono tutta una serie di strumenti
punitivi, ma alla fine scopriamo che è la prigione a essere in qualche modo
privilegiata. Non è stato l'unico mezzo punitivo, ma è diventato comunque uno
dei principali. Il problema è sapere perché si è scelto questo metodo. E come
esso abbia piegato non solo la pratica giudiziaria ma anche un certo numero di
problemi abbastanza fondamentali in diritto penale. L'importanza data per
esempio agli aspetti psicologici o psicopatologici della personalità criminale
che si afferma nel corso di tutto il diciannovesimo secolo, è stata fino a un
certo punto indotta da una pratica punitiva che si poneva come fine la
correzione e che incontrava come unico ostacolo solo l'impossibilità di
correggere. Ho dunque lasciato da parte il problema del fondamento del diritto
di punire per evidenziare un altro problema che credo sia stato più spesso
trascurato dagli storici: gli strumenti punitivi e la loro razionalità. Il problema della definizione della punizione è ancora più complesso in quanto non solo non si sa esattamente che cosa significhi punire, ma sembra anche ripugni punire. I giudici infatti si astengono sempre di più dal punire, vogliono curare, rieducare, guarire, un po' come se essi stessi cercassero di discolparsi dall'esercitare la repressione. In Sorvegliare e punire lei d'altra parte scrive: «i confini del discorso penale e del discorso psichiatrico si confondono». «Si stabilisce allora con la molteplicità dei discorsi scientifici un rapporto difficile ed infinito che oggi la giustizia penale non è pronta a controllare. L'arbitro della giustizia non è signore della verità». Oggi, il ricorso allo psichiatra, allo psicologo, all'assistente sociale è un fatto di routine giudiziaria, sia penale che civile. Lei ha analizzato questo fenomeno, che indica senza dubbio un cambiamento epistemologico nella sfera giuridico-penale. La giustizia penale sembra aver cambiato senso. Il giudice applica sempre meno il codice penale all'autore di un infrazione e sempre di più invece tratta delle patologie e dei disturbi della personalità. Credo che lei abbia perfettamente ragione. Perché la giustizia penale ha allacciato questi rapporti con la psichiatria, che dovrebbe ostacolarla moltissimo? Perché evidentemente tra la problematica della psichiatria e ciò che esige la stessa pratica del diritto penale riguardo le responsabilità non c'è contraddizione bensì eterogeneità. Sono due forme di pensiero che non sono sullo stesso piano e di conseguenza non si riesce a capire secondo quale regola l'una potrebbe avvalersi dell'altra. È certo però, ed è una cosa che sorprende sin dal diciannovesimo secolo, che la giustizia penale di cui si sarebbe potuto supporre la diffidenza verso il pensiero psichiatrico, psicologico o medico, sembra invece esserne stata affascinata. Certamente ci sono stati degli attriti, dei conflitti, non voglio certo sottovalutarli. Ma se si considera un periodo di tempo più lungo, un secolo e mezzo, sembra che la giustizia penale sia stata disposta, e in misura sempre maggiore, ad accogliere queste forme di pensiero. Verosimilmente, la problematica psichiatrica ha intralciato la pratica penale. Oggi sembra invece che la faciliti, permettendo di lasciare nell'ambiguo il problema di sapere quello che si fa quando si punisce. Lei osserva nelle ultime pagine di Sorvegliare e punire che la tecnica disciplinare è diventata una delle funzioni principali della nostra società. Il relativo potere raggiunge la sua più alta intensità nell'istituzione penitenziaria. Lei dice d'altra parte che il carcere non è necessariamente indispensabile a una società come la nostra poiché perde buona parte della sua ragione d'essere tra i sempre più numerosi dispositivi di normalizzazione. E quindi concepibile una società senza carcere? Questa utopia comincia a essere presa sul serio da alcuni criminologi. Per esempio, Louk Hulsman, professore di diritto penale all'università di Rotterdam, difende la teoria dell'abolizione del sistema penale. Il ragionamento su cui si basa questa teoria si ricollega ad alcune delle sue analisi: il sistema penale crea il delinquente, si rivela fondamentalmente incapace di realizzare le finalità sociali che è supposta perseguire, qualsiasi riforma è illusoria. L'unica soluzione coerente è la sua abolizione. Hulsman osserva che la maggior parte dei reati sfugge al sistema penale senza mettere in pericolo la società. Propone allora di decriminalizzare sistematicamente la maggior parte degli atti e dei comportamenti che la legge considera crimini o reati, e di sostituire al concetto di crimine quello di «situazione-problema». Invece di punire e di stigmatizzare, tentare di regolare i conflitti con delle procedure di arbitrariato, di conciliazione non giudiziaria, considerare le infrazioni alla stessa stregua dei rischi sociali, continuando a ritenere essenziale il risarcimento della parte lesa. L'intervento dell'apparato giudiziario verrebbe riservato ai casi gravi o, in ultima istanza, nel caso d'insuccesso dei tentativi di conciliazione e delle soluzioni di diritti civili. La teoria di Hulsman è di quelle che presuppongono una rivoluzione culturale. Che cosa pensa di questa idea abolizionista riassunta schematicamente? Credo che siano molte cose interessanti nella tesi di Hulsman, non fosse altro per la sfida che pone alla questione del fondamento del diritto di punire dicendo che non c'è più niente da punire. Trovo anche interessante il fatto che pone la questione del fondamento della punizione tenendo conto nello stesso tempo dei mezzi attraverso i quali si risponde a un qualcosa che è considerato come infrazione. In altre parole, la questione dei mezzi non è semplicemente una conseguenza del modo in cui si sarebbe potuto porre il problema del fondamento del diritto di punire, ma a suo modo di vedere, la riflessione sul fondamento del diritto di punire e il modo di reagire a un infrazione devono costituire un tutt'uno. Tutto ciò mi sembra molto stimolante, molto importante. Forse non ho una conoscenza approfondita della sua opera, ma mi sorgono alcuni dubbi. La nozione di «situazione-problema» non conduce a una psicologizzazione sia dell'atto che della reazione? Una pratica come questa non rischia, anche se non è ciò che spera Hulsman, di condurre ad una specie di dissociazione tra le reazioni sociali, collettive, istituzionali del crimine da una parte che verrà considerato un incidente e dovrà essere regolato alla stessa stregua, e dall'altra, per quanto riguarda il delinquente, a una iper-psicologizzazione che lo rende oggetto di interventi psichiatrici o medici, con dei fini terapeutici? Ma questa concezione del crimine non porta anche all'abolizione delle nozioni di responsabilità e di colpevolezza? Dato che nelle nostre società il male esiste, la coscienza della colpevolezza (che secondo Paul Ricoeur è nata presso i greci) non adempie una funzione sociale necessaria? E possibile concepire una società completamente esonerata da ogni senso di colpevolezza? Il problema non è sapere se una società può funzionare senza colpevolezza, il problema è piuttosto stabilire se la società può far funzionare la consapevolezza come principio organizzatore e fondatore di un diritto. Ricoeur fa benissimo a porre il problema della coscienza morale, e lo pone da filosofo o da storico della filosofia. È legittimo dire che la colpevolezza esiste, che esiste da una certa epoca in poi. Si può discutere se l'origine sia greca o meno. Ad ogni modo esiste e non vedo come una società come la nostra, ancora così fortemente radicata in una tradizione che è anche quella greca potrebbe esonerarsi dal senso di colpevolezza. Per molto tempo si è creduto di poter direttamente articolare un sistema di diritto e una istituzione giudiziaria su una nozione come quella della colpevolezza. Per noi invece la questione è aperta. Attualmente, quando una persona compare davanti all'una o all'altra istanza della giustizia penale, deve rendere conto non solo dell'atto vietato che ha commesso, ma anche della sua stessa vita. È vero. Negli Stati Uniti per esempio si è discusso molto sulle pene
indeterminate. Credo che non si ricorra più ad esse quasi dappertutto. Il loro
uso implica una certa tendenza, una certa tentazione che però non mi sembra
che sia scomparsa: la tendenza a indirizzare il giudizio penale molto più
sull'aspetto in un certo senso qualitativo che caratterizza un'esistenza e un
modo di essere che, su un atto preciso. In Francia è stata presa una misura
riguardante i giudici che vigilano sull'applicazione della pena. Si è voluto
rafforzare (e l'intenzione è buona) il potere e il controllo dell'apparato
giudiziario sullo svolgimento della punizione. Ma ecco il punto debole: ci
sarà un tribunale composto da tre giudici, credo, che deciderà se a un
detenuto potrà essere accordata o meno la libertà condizionale e questa
decisione sarà adottata tenendo conto di elementi tra i quali innanzitutto ci
sarà l'infrazione principale in qualche modo riattualizzata poiché la parte
civile e i rappresentanti della parte lesa saranno presenti e potranno
intervenire. (Traduzione di Francesca Arra) Fonte: rivista Volontà, Aprile 1990
Da: http://www.ecn.org/filiarmonici/foucault.html
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