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Deleuze, interprete
dell'eterno ritorno (A. D'Alonzo)
Deleuze si sofferma sulla radicalità dell'eterno ritorno, che non è la
riaffermazione del medesimo, ma il ritorno dell'estremo, dell'oltre: un
dionisiaco dire di alla vita e al divenire.
Gilles Deleuze era dotato di una febbrile ed esaltata capacità dialettica, nelle
sue lezioni spaziava tra argomenti differenti con estrema facilità. Tuttavia la
sua trasgressività si limitava al piano intellettuale, dato che la sua vita
privata era quella di un normale insegnante sposato e padre di famiglia. Lo
sforzo di pensare l’Impensato assunse sovente toni deliranti e parossistici
nella scrittura deleuziana come nella Logica del senso, un testo del
1969. Ma- a parte l’impegno politico- l’esistenza di Deleuze fu improntata ad
una mite tranquillità «borghese» lontana dai tormenti psico-fisici e dal senso
di erratico sradicamento che tormentavano invece Nietzsche. Deleuze si definiva
un pensatore nomade, ma alla resa dei conti viaggiò pochissimo. I suoi viaggi
erano esclusivamente mentali. Ispirato dallo scritto nietzscheano, Su verità
e menzogna in senso extramorale, nella Logica del senso Deleuze si
propone di trasformare la filosofia in un esercito mobile di metafore. Come il
personaggio di Alice nel celebre racconto di Carrol, Deleuze tenta di rovesciare
le ordinarie leggi del linguaggio e della logica, riconducendo la produzione di
«senso» ad un effetto causato dal «non-senso» e dimostrando che il pensiero è
anzitutto un grande labirinto interiore. Per Deleuze il compito principale era
di cercare di pensare in modo diverso, stravolgendo- trasvalutando- le regole
del gioco. Deleuze, il vero oracolo della rivolta sociale, continuò a sentirsi
intellettualmente attratto dall’estremo. Senza rivedere mai le sue posizioni,
tanto che si trattasse di erotismo masochista, di droghe allucinogene o del caos
provocato dalla guerriglia. Rispetto agli altri pensatori francesi, Deleuze
sembra utilizzare il pensiero di Nietzsche in proiezione antidialettica, più che
in riferimento alla correlazione- ricorrente in quegli anni- con il pensiero
marxiano e freudiano. La dialettica, per Deleuze, è in termini nietzscheani
reattiva, in quanto conferisce il potere al negativo di produrre il positivo. Si
lega quindi al mondo favoleggiante della morale platonico-cristiana che
riconosce il valore trascendentale del dolore come propedeutico alla beatitudine
eterna: il regno degli umili e dei diseredati. La dialettica hegeliana non è
solamente la celebrazione annunciata di un trionfo teleologico, dove l’Assoluto
sì auto-riconosce nella sua poderosa totalità alla fine della storia. E’ anche
la determinazione della potenza del negativo che imprime la sua essenza
nichilistica nella celebrazione del divenir-reattivo delle forze attive.
Rispetto alla dialettica hegeliana, Deleuze effettua un curioso rovesciamento.
Per i marxisti l’elemento veramente innovatore della dialettica era stato
nell’avvenuto riconoscimento, da parte di Hegel, della negazione come momento di
libertà e sottrazione, seppure fugace, dalla coazione total-identitaria. Per
Deleuze la dialettica nega il molteplice ed il caso non solo perchè pretende di
comprimere il divenire entro schemi logici, ma perchè il negativo, anziché
essere foriero di libertà, riduce la potenza del positivo a mera parvenza. Non
vi è veramente affermazione nel negativo, perchè esso è solo un effimero
sottoprodotto del divenir-reattivo delle forze nichilistico-negative. Tutta la
filosofia di Deleuze è incentrata sul problema della liberazione affermatrice
dalle forze reattive. Da qui l'affannosa ricerca di radicalismi, di continue- ma
meramente teoriche- trasgressioni contro-culturali. L’oltrepassamento della
metafisica, ovvero la società utopica, non può realizzarsi con le forze ormai
metabolizzate dal sistema capitalistico, come il proletariato ormai
trasformatosi in piccola borghesia. Come già Marcuse aveva teorizzato, il
compito è, ora, interamente assegnato alle forze nuove, agli outsiders
emarginati dal sistema e dai suoi giochi di potere, e quindi incorrotti. Deleuze
non prospetta però orizzonti positivi: il nichilismo attivo, rifugge qualsiasi
escatologica promessa. Il momento cruciale della negazione della negazione,
dell'Aufhebung hegeliano, è soppresso. Il processo non può conchiudersi in
nessun punto, in nessun istante: la dialettica, come per Adorno, rimane aperta.
Utilizzare la genealogia di Nietzsche- che per Deleuze coincide con la
metodologia del nichilismo attivo, della praxis rispetto al nichilismo inteso
come mero atteggiamento psicologico- significa andare all’estremo, senza rotta e
senza meta.
E’ il nomadismo di un pensiero in
cammino ( si avverte l'influenza heideggeriana) verso nuove interpretazioni,
verso inesausti rapporti di potere. La genealogia, per Deleuze, è solo
l’infinito ripercorrimento interpretativo del prodursi delle tipologie
differenziali, del configurarsi dei nuovi rapporti tra forze attive e passive.
L’interpretazione resta infinita. Controllarne la valenza in una qualche rigida
metodologia, significherebbe ricadere all’interno della metafisica. Nel suo
Nietzsche e la filosofia, Deleuze incentra la filosofia di Nietzsche sui
concetti di valore e di senso nella loro valutazione prospettica. Il pensatore
francese amplia la pratica genealogica nietzscheana, riconducendovi sia l’idea
di un’origine- che non deve essere pensata come fondamento o relazione causale-
sia l’elemento differenziale dei valori. Il valore in sè- per Deleuze, come già
per Nietzsche- non esiste. Il valore e il suo carattere dipendono solo
dall’effetto differenziale dell’origine, che è a sua volta un effetto, come
nella pagina della Gaia Scienza sull’eterno ritorno: «Se quel pensiero ti
prendesse in tuo potere <...> ti farebbe subire una metamorfosi, graverebbe sul
tuo agire come il peso più grande».
La determinazione dell’origine non è la fondazione di una causa prima, è solo
un’enunciazione di una possibilità, che però, anche, come tale determina
metamorfosi, conseguenze. Il prospettivismo è questa lotta perenne di centri di
forza, che pur mantenendo lo statuto di probabilità, producono effetti. La
genealogia nietzscheana, per Deleuze, ricostruisce solamente la storia e lo
sviluppo casuale di una concatenazione di effetti. La nobiltà o la volgarità del
valore dipendono quindi esclusivamente dall’elemento differenziale della
non-origine, che qui va intesa come un mero punto di vista. Il senso di una cosa
è dato dalla successione delle forze che lottano per impadronirsene. La
genealogia ha appunto il compito di ricostruire la storia della variazione dei
sensi di una cosa, cioè del suo conflitto di forze. Il soppesare l’evolversi del
significato di un valore è sempre una ricostruzione genealogica delle forze che
lo hanno attraversato e posseduto. La pluralità dei sensi di una cosa è
determinata dal numero di forze che possono impadronirsene e padroneggiarla. Il
valore non è sotto nessun riguardo qualcosa «in sé»:: l’essenza del valore di
una cosa dipende esclusivamente dalle forze che al momento la dominano, in
correlazione con quelle che oppongono resistenza. Le forze attive impongono la
loro valenza positiva alle cose di cui si impadroniscono, quelle negative la
loro forza reattiva. Il carattere attivo o reattivo di un valore è dato quindi
solo dal carattere della forza che al momento domina. La forza che dimostra
maggiore affinità con la cosa di cui si impossessa, determina l’essenza. Deleuze
afferma che la filosofia da Nietzsche in poi, si trasforma in semiotica e il suo
compito principale diventa l’interpretazione pluralistica. Il rapporto di forze
è già da sempre la manifestazione differenziale della lotta delle opposte
volontà di potenza. Per Nietzsche, secondo Deleuze, non vi è una volontà-
l’esempio schopenhaueriano del boia in simbiosi estatica con la vittima- vi sono
molteplici volontà di potenza. Il senso di una cosa è determinato dalla forza
che se ne impossessa per ultima. Il suo valore, viceversa, rimanda alla
ricostruzione gerarchica delle forze che agiscono o patiscono in essa. Se il
senso di una cosa può essere determinato individuando la forza dominante, il
valore deve essere espresso ripercorrendo la storia gerarchica, analizzando
genealogicamente, all’interno della cosa, quali sono le forze che dominano e
quali che ubbidiscono. La pluralità delle forze viene anche utilizzata da
Deleuze in proiezione antidialettica. Il Superuomo e la stessa Trasvalutazione
si oppongono rispettivamente all’evoluzione umanistica e alla negazione della
negazione. Sono movimenti di oltrepassamento e di rovesciamento radicale, che
non hanno nulla a che fare con il progressivo superare-conservando dell’Aufhebung
hegeliano. Per Deleuze, Il momento della negazione non è più intrinseco
all’essenza del positivo, ma scaturisce dalla sua stessa affermazione. Il
negativo è l’elemento differenziale del rapporto tra forze. Per Deleuze
l’energia non presuppone la negazione immanente all’evoluzione, ma ogni centro
di forza in quanto afferma se stesso, pone la sua differenza in rapporto al
potere delle altre forze. Nella lotta tra le opposte volontà di potenza, ciò che
risulta è l’elemento differenziale delle due forze, ovvero la negazione
estrinseca al sistema. Per questo, sempre secondo Deleuze, la filosofia di
Nietzsche è un ridere e danzare, un dire <«si» al gioco della vita, di contro
alla pesantezza della dialettica, che presuppone il negativo, il «no» immanente
a se stessa. Se Dioniso esprime l’essenza del tragico e l’influsso apollineo è
la sua proiezione onirica, il dramma finale è l’oggettivazione del primo nel
secondo, «in un mondo apollineo di immagini». Deleuze riporta l’opposizione
fondamentale dell'opera giovanile di Nietzsche non più a quella tra Dioniso e
Socrate, caratteristica della Nascita della Tragedia, ma a quella che
compare nei cosiddetti «biglietti della pazzia», al conflitto di «Dioniso contro
il crocifisso». Il dionisiaco è l’espressione della vita che giustifica il
dolore, mentre il messaggio evangelico è antitetico, perchè qui è racchiusa
l’essenza del ressentiment, l’accusa della sofferenza contro la vita. Per
Dioniso la vita è radicalmente giusta, non necessita di alcuna giustificazione
ultraterrena.
Ora, se il cristianesimo supera il
dolore risolvendolo in un mondo vero- e quindi «dialettizza» la vita- il
dionisiaco, in quanto incondizionata affermazione propositiva, è l’opposizione
alla stessa dialettica. Dioniso per Nietzsche, sempre secondo Deleuze, è
l’archetipo dell’affermazione pluralistica e integrale:
«Una logica dell’affermazione molteplice, dunque una logica della pura
affermazione, ed una corrispondente etica della goia, questo è il sogno
antidialettico e antireligioso che percorre tutta la filosofia di Nietzsche»
(G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Colportage, Firenze, 1978, pp.
43-44)
Per Deleuze Dioniso è l’emblema della liberazione del negativo nel gioco e nella
danza. Dioniso afferma l’innocenza della vita, la pluralità e la molteplicità,
rivendicando l’istanza multiculturale, la condizione postmoderna. Deleuze
rovescia l’interpretazione heideggeriana secondo cui il tentativo metafisico di
Nietzsche è di dare al divenire la forma dell’essere. Partendo dalla concezione
nietzscheana del destino come unione di caso e necessità e dalla metafora del
bambino eracliteo che gioca con i dadi, Deleuze afferma che il tiro di dadi
annuncia il divenire e l’essere del divenire. L’atto del lanciare i dadi afferma
il caso: la combinazione che ne scaturisce è la necessità. La necessità per
Deleuze non scaturisce da un rigido disegno deterministico, ma dal caso,
dall’atto del lanciare i dadi. Per Deleuze anche l’essere nasce dal divenire e
l’uno dal molteplice. Servendosi di una semplice immagine- il gioco dei dadi-
Deleuze rivendica così, la differenza originaria in luogo della aristotelica
«causa sui» della metafisica. Il pensatore francese può allora introdurre, in
questa nichilistica prospettiva anti-deterministica, la teoria fondamentale
della filosofia nietzscheana, l’idea dell’eterno ritorno:
«Se i dadi lanciati affermano per una volta il caso, ricadendo essi affermano
necessariamente il numero o il destino che riporta il tiro <...> L’eterno
ritorno è il secondo tempo, il risultato del tiro di dadi, l’affermazione della
necessità<...> Il destino nell’eterno ritorno è anche il “benvenuto del caso»
(ivi, pp. 55-56)
Il tiro di dadi preparato dalla mano del giocatore diventa l’affermazione del
molteplice, del caso in un colpo solo. Una volta effettuato il lancio, ed
apparso il numero sul tavolo da gioco si restaura, nella ipostasi del numero,
l’essere, la necessità e l’uno. Ma proprio perchè il numero scaturisce dal
lancio preparato dal movimento nervoso della mano del giocatore, l’essere, la
necessità e l’uno si affermano dal divenire, dal caso e dal molteplice. Il
pensare, per Deleuze, significa lanciare i dadi. Il tiro è equiparato al mare ed
alle onde, all’impeto dell’irrazionalità del divenire. Il numero che esce dal
lancio ad una costellazione stellare. Con questa semplice allegoria, Deleuze
riafferma il valore dello scarto e dell’alterità «originaria». Del resto il
filosofo francese identifica il pensiero tragico con il tiro dei dadi,
contrapponendolo allo spirito di vendetta del risentimento che produce il
nichilismo passivo. Il pensiero nietzscheano per Deleuze è essenzialmente, in
tutta la sua evoluzione, un tentativo di lotta contro il risentimento, la
cattiva coscienza, il nichilismo. Ma il nichilismo non è tanto la storia
dell’oblio dell’essere, quanto il pensiero come domanda su qualsiasi verità
trascendente o velata. Per Deleuze il pensiero che dimentica, anche
parzialmente, la terra è già nichilistico. nel secondo capitolo del suo
Nietzsche e la filosofia, Deleuze continua a pensare all’ossessivo feticcio
della controcultura: il corpo. Questo diventa il campo di battaglia dove si
scontrano e si incontrano forze attive e reattive. Per Deleuze la qualità delle
forze è data dalla loro differenza di quantità. Le forze superiori sono attive,
le inferiori reattive. La qualità delle forze- ovvero la loro differenza di
quantità- dipende essenzialmente dalla loro inter-reazione casuale:
«Gli incontri di forze di questa o quest’altra quantità sono dunque le parti
concrete del caso, e come tali estranee ad ogni legge: le membra di Dioniso»
(Ivi, p. 77)
Questa riaffermazione dell’istanza della
differenza originaria porta Deleuze ad elaborare il suo pensiero come
rovesciamento di quello di Heidegger. Per Deleuze non è l’essere che ritorna, ma
il ritornare stesso, il ritorno in sé. L’essere stesso diventa così
soltanto il ruotare del circolo che ritorna. Deleuze può così
interpretare l’eterno ritorno come un'affermazione del molteplice e della
differenza:
«possiamo intendere l’eterno ritorno stesso, se non come espressione di un
principio che è la ragione del diverso e del suo riprodursi, della differenza e
del suo ripetersi» (ivi, p.83)
Tuttavia ad una prima lettura può sembrare che le argomentazioni di Deleuze non
siano del tutto convincenti. Dichiarare, come fa Deleuze, che ciò che ritorna
nel circolo non è il medesimo, ma il ritornare stesso, non significa- nonostante
tutto- riaffermare l’essenza identitaria del circolo, di ciò che ritorna, ovvero
del medesimo? Inoltre Deleuze affermando il ritorno perenne del ritornare, non
dimostra da ciò la diversità dei cicli che ritornano, né la presenza del diverso
all’interno di cicli identici. Deleuze riesce a dare forza alla sua
argomentazione soltanto distinguendo la gerarchia delle forze che ritornano:
nell’eterno ritorno ritornano soltanto le forze attive. Il divenir-reattivo è
destinato a non essere riprodotto nel circuito del ritorno. Se le forze reattive
sono una manifestazione della volontà del nulla, esse sono destinate a fare
ritornare, nel circolo eterno, proprio la loro negatività che le annienta,
auto-sopprimendole. Nell’eterno ritorno il negativo delle forze reattive
ritornando distrugge se stesso, trasformando così le forze reattive in attive.
Deleuze parla chiaramente di autodistruzione delle forze reattive come di una
distruzione attiva. L’eterno ritorno assume così la valenza di
un’auto-purificazione, di una catarsi dionisiaca:
«La negazione attiva, la distruzione attiva è lo stato degli spiriti forti
che distruggono in se stessi il reattivo, sottoponendo questo e anche se stessi
alla prova dell’eterno ritorno, a costo di volere il proprio declino» (Ivi,
p. 190)
L’uomo del ressentiment è destinato quindi a non tornare nel circolo eterno e
con lui il nichilismo passivo. L’eterno ritorno realizza- con il suo
divenir-attivo- la tanto agognata trasvalutazione di tutti i valori. Il reattivo
ricondotto a se stesso si annichilisce e libera la strada alla potenza
affermativa. Se le forze hanno una differenza di quantità- cioè una qualità- la
volontà di potenza è l’elemento differenziale e genetico che è all’origine di
tale scarto. La quantità e la qualità dipendono dalla volontà di potenza.
Quest’ultima determina la differenza di quantità delle forze nel loro rapporto e
quindi la qualità intrinseca ad ognuna di essa. La volontà di potenza è il
principio delle forze: essa produce l’elemento differenziale delle stesse.
L’eterno ritorno, viceversa, ne è la sintesi: esso riproduce la differenza delle
forze e il loro riprodursi. Con quest’ultima connessione tra le due teorie
fondamentali del pensiero nietzscheano, la lettura deleuziana del «sistema-Nietzsche»
appare convincente e coerente. Il pensatore francese dopo aver determinato la
volontà di potenza come elemento genetico e differenziale delle forze, passa ora
alla loro distinzione, ritornando alla lezione della Genealogia della Morale.
In quest’ultima opera, Nietzsche s'interessa all’analisi delle forze reattive.
Queste sono costruite su una finzione: Nietzsche definisce il risentimento come
un paralogismo della forza scissa dalle sue possibilità. La cattiva coscienza-
tema della seconda dissertazione- è definita da Deleuze come antinomia della
forza interiorizzata. L’ideale ascetico, l’ultimo argomento trattato da
Nietzsche nella Genealogia, è una mistificazione dell’ideale. Per Deleuze, la
Genealogia è essenzialmente una riscrittura della Critica della Ragion Pura.
La critica di Kant, secondo Deleuze, si affievolisce in compromessi: non vi si
indaga mai sulla qualità e quantità delle forze in gioco, sul loro essere
reattive o attive. Ben lungi dall’indagare sul vero soggetto, l’uomo in quanto
capace di esercitare una critica, essa rende l’individuo ancora più soggiogato
dalle forze che esprimono i valori del «gregge».
«Non si è mai vista una critica più conciliante, nè critica più rispettosa.
<...> Ha concepito la critica come una forza che dovesse colpire tutte le
pretese della morale, ma non la morale stessa» (Ivi, p. 134-135)
Sotto questo aspetto, per Deleuze,
Nietzsche è un radicale: egli va alla «essenza» stessa del valore e ne smaschera
la natura prospettica, respingendo qualsiasi commistione utilitaristica. La
volontà di potenza è l’unico strumento adeguato- in quanto principio genetico e
genealogico- per realizzare una «vera» critica dei valori, ossia la loro
trasvalutazione. Il pensatore francese contrappone il «genealogista» Nietzsche
al «legislatore» kantiano. La volontà di potenza in quanto principio
genealogico- non l’uomo o la ragione- deve realizzare il fine della vera
critica: l’oltrepassamento, il «ponte» verso il superuomo. Kant non mette mai in
discussione il valore della verità: egli è troppo ossequioso e timoroso nei
confronti del potere ufficiale. Nietzsche, viceversa, con la sua filosofia del
martello attacca e demolisce qualsiasi valore consolidato. Nella terza
dissertazione della Genealogia, Nietzsche mette in questione l’idea stessa di
verità. Ora secondo Deleuze, se la verità stessa è negata è perchè si continua a
pensarla come valore in sé, come ipostasi metafisica. Ricercare una nuova
concezione della verità significa determinarla, non più come essenza, ma come
gioco prospettico. Questo richiede, però, una nuova forma di volontà: la volontà
di potenza, la lotta infinita dei centri di forza. Secondo Deleuze la concezione
energetistica del reale di Nietzsche, annulla le categorie della metafisica
tradizionale, il vero e il falso. Tutto ciò che rimane alla volontà di verità
«depotenziata» dallo smascheramento delle forze prospettiche che sono all’opera
nel mondo, è il senso ed il valore. Le sole categorie con cui possiamo
interpretare prospettivisticamente il reale sono quelle determinate dalla lotta
delle opposte volontà di potenza: il nobile ed il volgare, il superiore e
l’inferiore. In questo senso il filosofo ha il compito di ricostruire
genealogicamente il risultato provvisorio del gioco prospettico. Pensare
significa collocarsi nell’a-priori del senso e del valore, riconoscendo il mondo
come inesauribile metafora, ma soprattutto liberando il pensiero dalle forze
reattive. Per ottenere questa liberazione è necessario, secondo Deleuze,
esplorare l’impensato, oltrepassare qualsiasi dimensione metodologica:
«Spetta a noi andare nei luoghi estremi, alle ore estreme, dove vivono e si
levano le verità alte più profonde. I luoghi del pensiero sono le zone
tropicali, consuete all’uomo tropicale. Non le zone temperate, non l’uomo
morale, metodico e moderato» (ivi, p. 160)
Le forze reattive non sono separabili dalla volontà di potenza che è il loro
«principio» differenziale e qualitativo, la risultante della differenza di
qualità delle forze. Ma a differenza delle forze attive, le forze reattive
rimandano della volontà di potenza un’immagine rovesciata, capovolta: è la
«favola» platonica del mondo vero e del mondo apparente. L’efficacia delle forze
reattive è in questo potere di falsificazione, colpevolizzazione, negazione,
delle forze attive. Attraverso questo rovesciamento, le forze reattive si
auto-rappresentano come superiori. Le forze attive depotenziate e falsate
dall’effetto delle forze reattive, si interiorizzano, si rivolgono contro di sé.
La coscienza, per il Nietzsche della Genealogia e per Deleuze è solo il
sottoprodotto di queste forze attive che non riescono ad estrinsecarsi, che sono
costrette a rivolgersi contro di loro stesse, ad introiettarsi, a divenire
reattive. Il cristianesimo compie il passo decisivo: modifica la direzione del
ressentiment, creando la cattiva coscienza. L’interiorizzazione delle forze
attive produce sofferenza. È il dolore ad deve essere interiorizzato: Le forze
attive si sono tramutate in dolore. Il cristianesimo porta a compimento il
processo di introiezione del dolore, mutando la direzione del risentimento.
All’uomo che si pone la domanda del «perchè» di tanta sofferenza nel mondo, il
prete asceta offre la risposta: la causa va cercata in se stessi, in una colpa,
in un frammento del passato. Il sofferente deve comprendere il suo dolore come
una condizione di castigo. Il risentimento non è più proiettato contro i
«colpevoli»- i forti, i potenti- ma contro il proprio io: nasce così la cattiva
coscienza. La cattiva coscienza si concreta nell’uomo che è capace di
promettere. Con una serie di mnemotecniche, la cultura, realizza così
l’addestramento dell’uomo, tentando di asservire le forze reattive,
costringendole ad essere agite. Ma questo tentativo secondo Deleuze è destinato
a fallire. Le forze reattive, fingendo di essere agite, danno ad altre forze
reattive, una parvenza di vitalità, di attività. Si vengono così a formare
associazioni di forze (re-)attive. Si può obiettare- arrivati a questo punto
dell’analisi- che questa eccedenza di forze reattive nel processo di
incivilimento può non essere un fenomeno del tutto negativo. Si potrebbe anche
convenire con Freud che la civiltà esiste proprio come risultante di processi
collettivi di sublimazione e rimozione, come male «necessario». Deleuze
intravede il rischio di arrivare ad un'apologetica dell’esistente e si
premunisce connettendo le forze reattive alla volontà del nulla, al nichilismo.
Il nichilismo diventa il principio delle forze reattive, il trionfo dell’ideale
ascetico. Il prete asceta offre al dolore una spiegazione, cercandola nella
condizione del castigo e della colpa del peccatore. La volontà umana- il
progresso, la civiltà- è salvata dall’inedia e dal fatalismo paralizzante
tramite il miraggio di una giustificazione ultraterrena. Ma questo volere è
appunto quello delle forze reattive e per lo più si rivela presto come una
volontà del nulla, un'illusione metafisica dimentica della morte di Dio e della
sua luce apparente spenta da millenni. Il nichilismo si rivela così il vero
motore delle forze reattive. L’essenza umana è determinata dal divenir-reattivo
delle forze. Deleuze può così nella determinazione della correlazione del
nichilismo con le forze reattive, incominciare ad esporre la sua concezione del
Superuomo.
Il Superuomo per il pensatore francese
non è l’uomo superiore. Quest’ultimo è soltanto l'idealizzazione dell’uomo
reattivo, il prodotto della generica attività culturale del «gregge». Le forze
reattive hanno ormai surclassato quelle attive. La possibilità stessa di un
qualsiasi oltrepassamento del nichilismo- partendo dalle forze reattive- è
negata. Soltanto un’affermazione delle forze attive da parte di una volontà
veramente attiva, in contrasto con la volontà del nulla delle forze reattive,
potrebbe realizzare il superamento. L’uomo superiore si limita, al contrario, ad
una generica attività astratta, non riesce mai veramente ad «affermare». Egli
rovescia soltanto i valori, limitandosi ad invertire la gerarchia dei due mondi
platonici: ma così si conserva la vecchia struttura metafisica. Per Deleuze la
lezione di Zarathustra è un’altra: la possibilità di effettuare una reale
trasvalutazione di tutti i valori, di realizzare la conversione della negazione
in affermazione. Non vi può essere realmente trasvalutazione- una trasformazione
radicale e non soltanto apparente- se la reazione non diventa azione, la
negazione non si converte in affermazione. La trasvalutazione diventa così un
nichilismo compiuto, «attivo». La trasvalutazione di tutti i valori, porta a
compimento il nichilismo «passivo», che d’altronde rimane una volontà di potenza
in quanto volontà del nulla. Ma per Deleuze il nichilismo è anche qualcosa di
più: è la ratio conoscendi della volontà di potenza. Secondo il pensatore
francese, nello stadio attuale della nostra evoluzione sociale, noi possiamo
conoscere la volontà di potenza solo come volontà del nulla, solo nella forma
della sua qualità negativa. L’altra qualità positiva è ormai, da tempo,
sconosciuta: è l’affermazione che esprime la ratio essendi della volontà
di potenza. La trasvalutazione si realizza nella constatazione deleuziana che il
nichilismo dopo essersi espresso negativamente come ratio conoscendi, si deve
coattivamente realizzare affermativamente nella ratio essendi della volontà di
potenza. Vi è un momento, per Deleuze, in cui le forze reattive, realizzandosi,
arrivano a compimento e rompono la loro connessione con la volontà del nulla. In
questo preciso istante si può realizzare l'agognata trasvalutazione nella
qualità positiva- ratio essendi- dell’affermazione. E’ a questo punto che entra
in gioco il Superuomo che si serve di una nuova arma per effettuare la
trasvalutazione ( e quindi la conversione): la distruzione attiva. Nel momento
di rottura tra nichilismo e forze reattive, sempre per Deleuze, la volontà del
nulla può convertirsi e passare dalla parte propositiva, diventando così una
forza affermatrice che distrugge il reattivo. La distruzione attiva viene così a
coincidere con la trasvalutazione di tutti i valori nietzscheana:
«Zarathustra intende dire: Io amo colui che si serve del nichilismo come
ratio conoscendi della volontà di potenza, e che trova nella volontà di potenza
una ratio essendi in cui l’uomo viene superato, il nichilismo vinto» (ivi,
p. 241)
Il momento in cui il reattivo rompe l’alleanza con la volontà del nulla si
traduce nel tanto atteso istante in cui il negativo si converte, tramutandosi in
forza affermativa. Deleuze ripropone le figure centrali dello Zarathustra, alla
luce della nuova concezione della trasvalutazione. L’asino, non è l’animale
dionisiaco che dice sempre «I-A» ( cioè «si»), ma viceversa è un animale
cristiano. L’asino sa dire «si», ma non sa dire «no». Il fatto che l’asino non
sappia dire «no» è interpretato da Deleuze come manifestazione evidente che la
distruzione attiva, per essere veramente attiva e quindi radicale, deve essere
prima preceduta dal momento della negazione totale. Il cammello, viceversa, è-
con la sua groppa destinata ad accettare supinamente il passeggero di turno,
cioè il nichilismo- il «si» che non sa dire di «no». Il cammello rappresenta la
falsa affermazione che si limita a trasportare, ad assumere, senza mai
rovesciare completamente i valori finora esistenti. Al contrario il leone è
l’incarnazione del «no», dell’affermazione della soggettività che rifiuta i
valori, divenuti favole, del mondo «vero». Tutte queste figure servono a Deleuze
per introdurre l’affermazione del superuomo come paradigma anti-dialettico. La
dialettica si limita ad operare una falsa tramutazione del negativo nel
positivo, limitandosi a conservare camuffato il primo termine nel secondo. La
dialettica non è la reale affermazione di un qualcosa di totalmente nuovo,
perchè alla fine il superamento dialettico avviene nella conservazione del
preesistente. Ora per Nietzsche, secondo Deleuze e contro Heidegger, non vi è
una concezione dell’essere come presenza, ente-presente, essenza. Vi è essere
solo nell’affermazione: l’affermazione stessa è l’essere. Secondo Deleuze
l’essere è l’affermazione della volontà di potenza e il nulla la sua negazione.
Entrambi l’essere e il nulla sono qualità della volontà di potenza. Ma Deleuze
teorizza anche le peculiarità di una duplicità dell’affermazione affermativa: la
prima affermazione afferma il divenire, la seconda l’essere.
Si tratta del rovesciamento simmetrico
dello schema dialettico della tesi e dell’antitesi, dell’indistinzione e della
negazione. Le due affermazioni- sul divenire e sull’essere- costituiscono il
potere affermativo nella sua totalità. Deleuze può quindi a questo punto
inserire la teoria dell’eterno ritorno a fondamento della sua filosofia della
differenza e dell’Impensato. Il divenire, il molteplice, il caso, si introducono
nella prima affermazione, ma in quanto sono successivamente sussunti
dall’essere, dall’uno, dalla necessità, della seconda affermazione, si
riflettono in quest’ultima e sono destinati a ritornare. Deleuze identifica la
prima affermazione, quella del divenire con la figura di Dioniso. Arianna
simboleggia la seconda affermazione: l’essere. Il Superuomo diventa allora il
figlio di Dioniso e d'Arianna. Il Superuomo vuole l’eterno ritorno di tutte le
cose, ma solo di quelle che sono espressione di un divenire attivo. Abbiamo già
visto che nell’eterno ritorno non c’è ritorno del negativo, perchè questo, a
lungo andare, finirebbe con l’autodistruggersi come negazione della negazione.
L’essere della differenza che ritorna è gioia: è questa la lezione di
Zarathustra. La trasvalutazione nietzscheana di tutti i valori è proprio il
punto in cui nell’eterno ritorno il negativo- ritornando- incomincia a
distruggere se stesso, trasformandosi in potenza affermativa. Tuttavia, dato che
ritorna il divenire della prima affermazione dionisiaca, Deleuze può così
concludere che l’oggetto dell’affermazione pura è il molteplice, il caso, la
differenza. Il negativo distrugge se stesso, auto-convertendosi in affermazione
positiva: è questo il significato della trasvalutazione di tutti i valori. Ma
questo positivo in cui si trasvaluta il negativo, per Deleuze, è la stessa
differenza: il totalmente Altro. In Differenza e ripetizione, Deleuze
ribadisce ilo primato della differenza sull’identità: nell’eterno ritorno ciò
che veramente ritorna è l’essere, ma l’essere del divenire.
«L’eterno ritorno non fa tornare “lo stesso”, è vero invece che il tornare
costituisce il solo Stesso di ciò che diviene. Ritornare è dunque la sola
identità, ma l’identità come potenza seconda, l’identità della differenza»ì [i]
(G. Deleuze, Differenza e ripetizione[/i], Il Mulino, Bologna, 1971 p. 59)
.
Secondo Deleuze ritornano solo le forme estreme, le uniche capaci di esprimere
la potenza della differenza come capacità di oltrepassare i margini, i limiti.
Ciò che eccede è destinato a ritornare. Se ritorna solo ciò che è completamente
eterogeneo è per l’effetto selettivo del ritorno che ristabilisce il primato
della differenza sull’identità. Il negativo, ovvero il mondo della morale
platonico-cristiana, il simile, cioè l’uomo del «gregge», e l’analogo, cioè
l’uomo pseudo-superiore, non ritornano perchè destinati ad essere espulsi per
sempre- in quanto forme non estreme- dalla ruota del ritorno. Infatti, sempre
secondo Deleuze, nella parte dello Zarathustra intitolata «il convalescente»,
l’incubo stesso di Zarathustra è che ciò che realmente ritorni sia lo «stesso» e
il «simile». Anche in «La visione e l’enigma» il pericolo maggiore per
Zarathustra è che prevalga l’interpretazione del ritorno fornitagli dal nano, in
cui il ritorno del Tutto allontana la possibilità del cambiamento. Ma per
Deleuze, ancora una volta, ciò che ritorna è solo l’eccessivo: non lo «stesso»,
non il «simile», ma solo il «diverso», il «differente». La selezione nel ritorno
fa ritornare solamente ciò che si afferma: che per la sua stessa valenza non può
non essere qualcosa di radicalmente nuovo e diverso. Una volta stabilito che il
carattere propositivo e selettivo del ritorno può essere realizzato
esclusivamente all’interno della differenza, è possibile- solo a questo punto-
riaffermare la valenza identitaria. Una volta che si è compreso che ciò che
ritorna è il diverso e l’eccessivo, è possibile cogliere i nessi e le
similitudini di ciò che è ritornato. Solo allora è veramente possibile affermare
che tutto è uguale e tutto ritorna, perchè si comprende che ciò che ritorna è
identico nella sua radicale diversità, nella sua più totale estraneità. In
questo modo Deleuze riesce, attraverso la sua lettura del ritorno nietzscheana,
a riaffermare- sulla scia del Postrutturalismo francese- la priorità della
Differenza sull’Identità. All’origine vi è una Differenza: solo partendo da
questa, per Deleuze, si articolano le identità.
Da:
http://www.krisis.it/public/modules/news/article.php?storyid=98&page=0
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