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Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

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Questioni sociali e repressione penale di Zygmunt Bauman


 

estratto da
Periferie dell'impero. Poteri globali e controllo sociale
a cura di Silvio Ciappi
pp. 161-175
Edizioni DeriveApprodi, 2003
 

 

Ogni società compie delle scelte. Infatti, se possiamo chiamare «società» un insieme di persone, intendendo individui con «un'appartenenza comune», che formano una «totalità», ciò è il risultato di una scelta: una selezione che è allo stesso tempo un vincolo imposto a chi vi è ammesso. Una simile scelta rende un determinato insieme di persone differente da un altro. Se un dato insieme sia o non sia una «società», dove corrono i suoi confini, chi vi appartiene o meno: tutto ciò dipende dal potere vincolante della scelta e dal consenso che essa riscuote. Tale scelta si cristallizza in due imposizioni (o meglio, in una sola, che ha un duplice effetto): l'ordine e la norma. Milan Kundera ha definito il «desiderio di ordine», evidente in ogni società conosciuta, come «un desiderio di trasformare il mondo degli esseri umani in qualcosa di inorganico, in cui tutto funzioni perfettamente secondo un programma subordinato a un sistema sovrapersonale». Il desiderio di ordine è allo stesso tempo desiderio di morte, poiché la vita è un continuo processo di sovvertimento dell'ordine. Oppure, si può ribaltare la formula: il desiderio di ordine è un pretesto, anche se virtuoso, che nasconde una «misantropia» violenta e non fa che alimentarla, fornendo una giustificazione per qualsiasi azione possa provocare. L'ordine non è altro che un disperato tentativo di imporre uniformità, regolarità e prevedibilità al mondo degli esseri umani, che è diversificato, irregolare e imprevedibile. Il vero oggetto della diffidenza, della repulsione, dell'odio che si fondono insieme nella misantropia è l'ostinata, inveterata e incorreggibile eccentricità degli esseri umani, inesauribile fonte di disordine. L'altra imposizione è quella della norma. La norma è il riflesso di un dato modello di ordine sui comportamenti umani. Essa indica come comportarsi in modo corretto in una società ordinata, trasferendo, per così dire, il concetto di ordine al linguaggio delle scelte. La scelta di un dato ordine circoscrive la gamma dei modelli comportamentali tollerati, privilegiando, e considerando normali, determinati schemi di condotta e liquidando tutti gli altri come anormali. Con «anormale» si definisce l'allontanamento dal modello prescelto; ciò diventa «deviazione» (vale a dire un caso estremo di anormalità, una condotta che necessita di intervento penale o terapeutico), se la condotta in questione non solo esula in qualche modo dallo schema prestabilito, ma trascende i limiti delle scelte tollerate. La distinzione tra «anormalità», che è un problema di attenzione, trattamento e cura, e «deviazione» non è mai definita chiaramente e, quando lo è, tende a essere sempre violentemente contestata. I concetti di ordine e norma provengono da un senso di (correggibile) imperfezione e dall'urgenza di porvi rimedio. Entrambe le idee sono pertanto costrittive, diversive e selettive: il «dover essere» che implicano seziona l'«essere», lasciando fuori larghe porzioni di realtà umana. Nessuno di questi due concetti avrebbe senso se fossero onnicomprensivi, capaci di includere gli individui e tutto ciò che fanno. «Ordine» e «norma» sono coltelli affilati puntati contro la società così come è strutturata; dediti principalmente alla separazione, all'amputazione, alla cesura, all'epurazione, all'esclusione. Essi promuovono ciò che è «giusto» amplificando le narrazioni di ciò che è «ingiusto», selezionando, circoscrivendo e stigmatizzando segmenti di realtà umana cui è stato negato il diritto di esistere: individui destinati all'isolamento, all'esilio o all'estinzione. L'«ordine» lavora per l'esclusione direttamente, subordinando a regimi speciali coloro che vuole escludere. La «norma» agisce invece indirettamente, facendo apparire l'esclusione più come auto-emarginazione. Nel primo caso, gli esclusi sono coloro che «sovvertono l'ordine». Nel secondo, si tratta di coloro che «non si attengono alle regole». In entrambi i casi, tuttavia, sono gli stessi esclusi a essere investiti della colpa della loro esclusione; i concetti di ordine e norma assegnano preventivamente questa responsabilità, decidendo a priori su chi dovrà ricadere. Essere esclusi è presentato dunque come risultato di un suicidio, e non di un'esecuzione sociale. L'espulsione si configura allora come un atto di buon senso e giustizia; coloro che la mettono in atto si sentiranno sensibili e corretti, poiché diventano i difensori della legge, dell'ordine e dei valori della decenza. Gli esclusi non possono esistere come liberi agenti, quod erat demonstrandum. Pertanto privare gli esclusi della loro libertà di azione, oltre a essere necessario per la salvaguardia della legge e dell'ordine, è una misura invocata anche nel loro stesso interesse; controllare e monitorare il loro comportamento è anche un atto di umana carità e un profondo dovere morale. È esattamente ciò che tale prospettiva non tiene in considerazione a renderla inaccettabile: la possibilità cioè che gli esclusi possano essere vittime di forze a cui non hanno avuto alcuna possibilità di opporsi. E che, soprattutto, alcuni degli esclusi non fossero «all'altezza della norma», non per mancanza di volontà o premeditazione, ma per l'assenza di risorse che permettano di «vivere all'altezza della norma», mezzi che sono in mano ad altri, scarsi e distribuiti in maniera insufficiente. Per mantenere l'ordine devono essere eliminate le forze del disordine. Per sostenere l'osservanza della norma, coloro che la infrangono devono essere puniti, o, meglio ancora, resi visibili e poi esclusi.

Il paradigma dell'esclusione

Pierre Bourdieu fa notare che lo Stato della California, celebrato da certi sociologi europei come un paradiso di libertà, stanzia per la costruzione e la gestione delle carceri somme che eccedono di molto il budget previsto per l'istruzione universitaria. L'incarcerazione, nei suoi vari gradi di severità e durezza, è da sempre lo strumento principale per affrontare settori di popolazione non assimilabili, difficili da controllare e inclini al caos. Gli schiavi venivano confinati nei ghetti, così come i lebbrosi, i malati di mente, i membri di altre etnie o religioni e i vagabondi. Se avevano il permesso di spostarsi dai quartieri loro assegnati, dovevano indossare segni di riconoscimento, cosicché ognuno potesse riconoscere la loro appartenenza a un altro territorio. La delimitazione nello spazio che ha portato alla segregazione è stata, nei secoli, un modo istintivo di reagire alla diversità, soprattutto quando non era riconducibile alla rete ordinaria dell'interazione sociale. L'estraniamento è la funzione centrale della separazione fisica, riduce, assottiglia, comprime la visione dell'altro: le qualità individuali e le circostanze che tendono a emergere dall'esperienza accumulata nell'interazione sociale vengono raramente alla luce quando l'interazione è svuotata di vigore oppure proibita. La tendenza a ricorrere all'arida e impersonale parola della legge anziché affidarsi alla negoziazione tra individui in un comune modus vivendi è una conseguenza del graduale, ma inesorabile abbandono di ciò che Richard Sennett chiamava «molteplicità dei punti di contatto», una delle principali caratteristiche della vita nelle città. Scaraventato in una condizione forzata di assenza di familiarità, vincolato a confini fisici rigorosamente vigilati, confinato a distanza ed escluso dall'accesso, sia esso regolare o sporadico, alla comunicazione, l'Altro diventa un alieno ed è vincolato a tale condizione, essendo stato efficacemente «cancellato», spogliato della sua unicità personale che, sola, può evitare gli stereotipi e superare o mitigare così l'impatto riduzionista della legge penale. All'ideale di separazione comunicativa dell'isolamento totale si avvicinano le prigioni americane «state of the art», come Pelican Bay in California. [Nota] Il carcere, come si legge in un articolo dal tono entusiastico pubblicato sul «Los Angeles Times» il I maggio del 1990, «è interamente automatizzato e progettato in modo che i detenuti non abbiano alcun contatto diretto con le guardie o tra loro». Essi trascorrono la maggior parte del tempo in «celle senza finestre, solidi blocchi fatti di cemento e acciaio inossidabile. Non lavorano nelle fabbriche del carcere, non hanno accesso ad alcuno svago, non si mescolano con gli altri detenuti. Perfino le guardie sono chiuse fuori in torrette di  controllo di vetro, e comunicano con i prigionieri attraverso un sistema di trasmissione». I prigionieri li vedono raramente, o addirittura mai. L'unico compito affidato alle guardie è vigilare che i detenuti se ne stiano chiusi nelle loro celle, non-secing e non-seen. A parte per il fatto che i detenuti mangiano e defecano, le loro celle potrebbero essere scambiate per casse da morto. A prima vista, il progetto di Pelican Bay assomiglia a una versione moderna e super-tecnologica del Panopticon, l'ultima incarnazione del sogno di Bentham: il controllo totale per mezzo della sorveglianza totale. Uno sguardo più approfondito rivela tuttavia quanto la prima impressione sia superficiale. Il Panopticon aveva l'importante funzione di «istituti di rieducazione», con l'apparente finalità di recuperare i detenuti dalla strada di perdizione che avevano intrapreso di loro spontanea volontà, o su cui erano stati spinti. Si trattava di spronarli a sviluppare consuetudini che avrebbero consentito il ritorno al buon gregge della «società normale» a chi ne era stato temporaneamente escluso; di fermare il «marciume morale», di lottare contro l'indolenza, l'inettitudine, la mancanza di rispetto o l'indifferenza verso le norme sociali, che avevano reso i detenuti incapaci di «vivere normalmente». L'idea del Panopticon fu concepita nell'epoca del trionfo dell'etica del lavoro, che era considerata l'unica strada per condurre una vita virtuosa e meritevole e regola fondante dell'ordine sociale. Erano anche i tempi in cui i piccoli proprietari e gli artigiani incapaci di sbarcare il lunario aumentavano incessantemente, mentre le macchine, che li privavano del loro sostentamento, aspettavano invano mani docili e compiacenti che le facessero funzionare. E così, nella pratica, l'idea di rieducare si traduceva nel far lavorare i detenuti, preparandoli a una vita di lavoro utile e remunerativo. All'epoca in cui fu ideato il progetto del Panopticon, la mancanza di volontà di lavorare era percepita come il principale ostacolo al progresso sociale. I primi imprenditori si lamentavano perché i lavoratori si rifiutavano di adeguarsi ai ritmi del lavoro in fabbrica; «rieducare» significava vincere quella resistenza. Per farla breve: quali che fossero i loro immediati obiettivi, gli istituti-Panopticon erano per prima cosa fabbriche di disciplina - più precisamente, fabbriche di lavoro disciplinato. Spesso i detenuti venivano messi a lavorare immediatamente e dovevano svolgere i lavori meno graditi ai «lavoratori liberi», quelli che era improbabile che venissero svolti di spontanea volontà. Quale che fosse la loro finalità a lungo termine, gli istituti-Panopticon erano in sostanza delle workhouses. Se gli istituti di correzione abbiano raggiunto l'obiettivo dichiarato di «riabilitare», «riformare moralmente» e «ricondurre i detenuti all'interazione sociale» è stato fin dall'inizio altamente discutibile e resta fino a oggi una questione aperta. L'opinione dominante tra i ricercatori è che, contrariamente alle migliori intenzioni, i sorvegliatissimi istituti di reclusione andavano contro la «riabilitazione». I declamati precetti dell'etica del lavoro non erano applicabili al regime coercitivo delle carceri. Secondo la circostanziata ed esaustiva ricerca di Thomas Mathiesen ("Prison on Trial: A Critical Assessment", Sage, Londra, 1990, N.d.F.), «in tutta la sua storia, il carcere non ha mai riabilitato davvero gli individui. Non ha mai "ristabilito la capacità di interazione sociale degli individui"». Ciò che invece le carceri hanno ottenuto è stato «prigionizzare» i detenuti, (termine coniato da Donald Clemmer), cioè incoraggiarli o costringerli ad adottare modi e abitudini tipici unicamente dell'ambiente penitenziario, così nettamente separato dai modelli comportamentali promossi dalle norme culturali che regolano il mondo esterno. «Prigionizzazione» era pertanto l'esatto opposto di «riabilitazione». Di fatto, esso rappresentava un ostacolo enorme sulla «strada del ritorno alla capacità» di interazione. I tentativi di far tornare al lavoro i detenuti possono essere efficaci o meno, ma hanno senso solo se il lavoro c'è, e se loro possono trarre forza e fiducia dal fatto che il lavoro li sta aspettando. La prima condizione è oggi difficilmente raggiungibile, la seconda è vistosamente assente. Un tempo ansioso di assorbire sempre crescenti quantità di lavoro, il capitale reagisce oggi nervosamente alle notizie di disoccupazione in calo. In queste condizioni, la reclusione non è né una scuola per l'impiego né un'alternativa forzata di aumentare gli indici di lavoro produttivo, quando i metodi ordinari, preferiti e «volontari» non riescono a ricondurre nell'orbita industriale le categorie riluttanti e indisciplinate di «individui senza padrone». Piuttosto, nelle circostanze attuali, si tratta di un'alternativa all'impiego; un modo di disporre, inabilitare o rimuovere una porzione considerevole di popolazione che risulta improduttiva e per la quale non c'è alcun lavoro «a cui ritornare». in evidente opposizione ai precetti dell'etica del lavoro, la spinta oggi è a smantellare le consuetudini legate al lavoro fisso e regolare; cos'altro può significare lo slogan del «lavoro flessibile»? La strategia dei nostri giorni tende a far dimenticare ai lavoratori, o a non far loro imparare, ciò che l'etica del lavoro ha trasmesso sin dai tempi dell'ascesa dell'industria moderna. Il lavoro può diventare davvero «flessibile» solo se gli attuali e futuri impiegati abbandonano le loro vecchie abitudini di lavoro quotidiano in aziende con turni giornalieri, posto e colleghi fissi, se non si abituano a nessun lavoro e certamente se evitano, o se viene loro impedito, di sviluppare attitudini per il lavoro che fanno, e se abbandonano la morbosa inclinazione a sognare, meno che mai a pretendere, diritti e tutele. Durante l'incontro annuale del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale tenutosi nel settembre del 1997 a Hong Kong, i dirigenti delle due istituzioni criticarono severamente la Germania e la Francia per i loro metodi volti a ricondurre più persone possibile all'occupazione. Questi metodi andavano, nella loro visione, contro ogni tendenza di «flessibilità del mercato del lavoro». Ciò che quest'ultimo richiede, sostenevano, è la revoca di leggi «troppo favorevoli» di tutela del lavoro e dei salari, la rimozione di tutte le «distorsioni» che ostacolano la schietta competizione e l'annientamento della resistenza della forza-lavoro contro la perdita dei «privilegi» che ha acquisito, vale a dire delle norme che tutelano la stabilità dell'impiego e degli stipendi. Secondo le idee dei manager della finanza planetaria, la forza-lavoro deve disimparare la propria dedizione al lavoro e abbandonare il proprio attaccamento al posto di lavoro, così come il coinvolgimento personale nel suo buon andamento. In un simile contesto l'idea del carcere di Pelican Bay come versione high-tech delle prime workhouses industriali, di cui il progetto Panopticon rifletteva esperienza, ambizioni e problemi irrisolti, sembra davvero poco convincente. Dietro le mura di cemento del carcere di Pelican Bay non viene svolto alcun lavoro produttivo, niente lì dentro potrebbe mai essere destinato a una qualunque attività. Pelican Bay non è certo una scuola per detenuti, nemmeno di una disciplina puramente formale. Il vero senso del Panopticon, il supremo proposito di sorveglianza totale, era assicurarsi che i detenuti si muovessero in un determinato modo, seguendo certe regole. Ma quello che i detenuti del carcere di Pelican Bay fanno dentro le loro celle solitarie non ha alcuna importanza. Ciò che importa è che stiano lì. Pelican Bay non è stata progettata come una fabbrica di lavoro disciplinato. È stata pensata come fabbrica dell'esclusione per persone abituate a essere escluse. E poiché il marchio dell'esclusione nell'era della compressione spazio-temporale è rappresentato dall'immobilità forzata, ciò che la prigione di Pelican Bay realizza quasi alla perfezione è la tecnica dell'immobilizzazione. Se i campi di concentramento erano laboratori della società totalitaria, in cui sondare i limiti della sottomissione e dell'asservimento umano, e se le workhouses stile Panopticon servivano da laboratori della società industriale, in cui sperimentare i limiti della meccanicizzazione dell'attività umana, il carcere di Pelican Bay è un laboratorio della società «globalizzata» (o «planetaria», per usare un termine di Alberto Melucci), in cui si sperimentano e si esplorano i limiti delle tecniche di reclusione fisica dei rifiuti della globalizzazione.

Le prigioni nell'epoca della post-correzione

Oltre alla funzione riabilitante, nel libro sopra citato Thomas Mathiesen esamina dettagliatamente altri discorsi ampiamente in uso, tesi a giustificare l'incarcerazione come metodo per risolvere gravi problemi sociali. Cita, ad esempio, le teorie sul ruolo di prevenzione (sia in senso universale che individuale), inabilitazione e deterrenza delle carceri, sulla giusta punizione, solo per invalidarle dal punto di vista logico e per dimostrarne l'insostenibilità empirica. Nessun tipo di prova è stato finora addotto a dimostrazione delle tesi secondo cui le carceri svolgono il ruolo teoricamente assegnato loro, mentre la correttezza delle misure specifiche proposte o implicate da tali teorie non regge a una semplice verifica della validità etica: ad esempio «su che base morale si punisce qualcuno, anche duramente, al fine di evitare che altri, diversi da lui, commettano un reato simile?». La questione è particolarmente spinosa dal punto di vista etico poiché «coloro che vengono puniti sono in gran parte persone povere e altamente stigmatizzate, bisognose di assistenza e non di punizione». il numero delle persone incarcerate o in attesa di sentenze carcerarie sta crescendo rapidamente quasi in ogni paese. In America il loro numero eccede quello degli studenti dei college universitari. La rete carceraria sta vivendo quasi ovunque un momento di espansione. Le spese di budget destinate a «legge e ordine», in particolare alle forze di polizia e alle guardie carcerarie, stanno crescendo in tutto il pianeta. Il dato più significativo è che il numero di persone in conflitto diretto con la legge e soggette al carcere sta crescendo rapidamente, ma si tratta di qualcosa di più che un mero aumento quantitativo: questo dato ci rivela infatti il «peso crescente assegnato alla soluzione istituzionale in materia di politica penale». Ci dice inoltre che molti governi, ampiamente sostenuti dall'opinione pubblica, partono dal presupposto che «sia sempre più necessario disciplinare ampi settori di popolazione». In altre parole, larghi settori di popolazione vengono presi di mira in quanto minaccia all'ordine, e la loro espulsione dall'interazione sociale attraverso il carcere viene considerata un metodo efficace per neutralizzarla, o almeno per tenere a freno l'angoscia pubblica che essa evoca. La percentuale di individui che scontano sentenze carcerarie varia da paese a paese, ma la sua rapida crescita sembra essere un fenomeno universale che attraversa l'estremità «più sviluppata» del mondo. Gli Stati Uniti, come è noto, sono i primi della lista: tra il 1979 e il 1993 il rapporto tra detenuti e cittadini liberi è salito da 230 a 532 su 100.000. In alcune zone la cifra è molto maggiore, nel distretto di Anacostia, abitato in gran parte dai poveri di Washington, metà della popolazione maschile tre i 16 e i 35 anni è in attesa di giudizio, già in carcere oppure in libertà vigilata. Ma il segno dell'impennata è visibile anche altrove: nell'arco degli stessi 15 anni la cifra è salita da 100 a 125 in Canada, da 85 a 95 in Gran Bretagna, da 44 a 62 in Norvegia, da 23 a 52 in Olanda. Poiché tale aumento non è circoscritto a determinati paesi, ma ha carattere pressoché universale, sarebbe fuorviante - se non inutile - cercarne la spiegazione nell'ambito delle politiche interne o in quello delle ideologie dei vari partiti politici (sarebbe, tuttavia, ugualmente sbagliato negare l'impatto che queste politiche possono esercitare nell'accelerare o rallentare tale crescita). L'idea del carcere come principale strumento per risolvere problemi inquietanti non viene mai affrontata come tematica di discussione e confronto nelle cabine elettorali; le forze che generalmente si scontrano su altre questioni tendono a manifestare su questo tema un consenso assoluto, e l'unica loro preoccupazione sembra essere quella di convincere il proprio elettorato che «il crimine sarà affrontato con determinazione» e che si procederà senza esitazioni, e in modo più efficace dell'avversario politico di turno, all'incarcerazione dei criminali. Si è tentati perciò di concludere che le ragioni dell'aumento dei cittadini reclusi cui si è accennato siano di una natura che trascende il partito e lo Stato, e che si tratti di fattori globali piuttosto che locali (sia in senso territoriale che culturale). Con ogni probabilità, a livello contingente queste cause sono più che correlate allo spettro di trasformazioni che riconduciamo al termine di globalizzazione. Una delle cause dell'aumento della popolazione carceraria è senza dubbio la spettacolare propaganda di cui, nella panoplia del dibattito pubblico, vengono fatti oggetto i concetti di «legge e ordine», in particolare il modo in cui si riflettono nelle interpretazioni autoritarie dei mali sociali e nei programmi elettorali che promettono di porvi rimedio. L'unità emozionale che sottende alle esperienze di sorveglianza, sicurezza e certezza appare immediata in tedesco: la parola tedesca Sicherheit unisce le tre esperienze (sorveglianza, sicurezza, certezza) e rifiuta di accettare la loro reciproca autonomia. In un mondo che appare sempre meno sicuro, ritirarsi nel paradiso protetto della territorialità è una tentazione forte; così come la difesa del territorio, la «casa protetta» diventa il passe-partout per ogni porta che si sente il bisogno di blindare per sottrarsi a ogni minaccia alla serenità spirituale e materiale. C'è molta tensione attorno alla ricerca di sicurezza, e dove c'è tensione c'è anche un capitale politico che scaltri investitori e agenti di borsa scoveranno in fretta. Non sorprende dunque che le paure relative alla sicurezza trascendano le distinzioni di classe e di appartenenza politica, perché tale è la natura delle paure. È certo vantaggioso per i politici che i naturali timori di insicurezza e incertezza si coagulino attorno all'angoscia sicuritaria, in modo da poter vantarsi di occuparsi dei primi due aspetti solo ostentando preoccupazione per l'ultimo. Vantaggioso, certo, dato che le prime due paure sono, di fatto, inaffrontabili. I governi non fanno altro che promettere «maggiore flessibilità del lavoro», cioè, in ultima analisi, più insicurezza. I governi seri non promettono nemmeno la certezza; e allora, quasi universalmente, la conclusione inevitabile diviene il cedimento della libertà alle «forze del mercato» notoriamente irregolari e imprevedibili che, avendo vinto la loro extraterritorialità, hanno anche superato qualsiasi cosa i disperati governi «locali», legati al territorio, possano fare. Per fortuna dei governi, che sono sempre più impotenti, fare qualcosa o mostrare di fare qualcosa per combattere il crimine che minaccia la sicurezza personale è un'opzione da tenere in considerazione per il suo alto potenziale elettorale. La Sicherheit non ci guadagnerà molto, ma la percentuale di voti aumenterà.

La sicurezza: il mezzo tangibile per un fine sfuggente

Ricondurre la complessa questione della Sicherheit a quella della sicurezza personale risulta politicamente vantaggioso anche per altri motivi. Qualsiasi cosa si faccia per la sicurezza, si tratta di una scorciatoia verso il noto fattore «feel  good», per il fatto che, rispetto a ogni altra azione rivolta a un livello più profondo del malessere, ma molto meno tangibile e apparentemente più astratto, sarà più spettacolare, visibile, «televisibile». Combattere il crimine, in particolar modo i reati contro i corpi e contro la proprietà privata, offre l'occasione per uno show avvincente. I produttori e gli sceneggiatori ne sono ben coscienti. Se si dovesse giudicare la nostra società dalle sue rappresentazioni mass-mediatiche (ciò che fa la maggior parte di noi, che lo vogliamo ammettere o no), non solo il rapporto tra criminali e «persone comuni» sembrerebbe superare di molto quello della popolazione già reclusa, e non solo il mondo nel suo insieme apparirebbe diviso tra criminali e tutori dell'ordine, ma l'intera vita umana non sarebbe che un barcamenarsi nella strettoia tra la minaccia dell'attacco fisico e la lotta contro potenziali assalitori. L'effetto di tutto ciò è che la paura si auto-alimenta. I governi possono sentirsi sollevati: nessuno li accuserà di non fare niente di rilevante per combattere l'angoscia e la paura, se ogni giorno si è bombardati da documentari, film, reportage, fiction accuratamente preparate e camuffate da documentari che parlano delle nuove armi in dotazione alla polizia, di carceri supertecnologiche, di allarmi per auto e abitazioni, di scariche elettriche somministrate ai delinquenti e di valorosi agenti e investigatori che rischiano la vita affinché il resto della popolazione possa dormire sonni tranquilli. Costruire nuove prigioni, emanare statuti che moltiplicano il numero dei reati per i quali è previsto il carcere e allungare le sentenze carcerarie sono misure che fanno guadagnare popolarità ai governi, perché trasmettono un'immagine forte, energica, determinata e soprattutto «attiva» sul problema della sicurezza personale dei loro cittadini. La spettacolarità, la severità e l'immediatezza delle operazioni punitive è di gran lunga più importante della loro efficacia che, visti la naturale indifferenza dell'attenzione pubblica e il brevissimo raggio della memoria collettiva, viene verificata raramente. Si tratta di un aspetto addirittura più importante delle cifre effettive dei crimini indagati e commessi. Una cosa utile è, ovviamente, se di tanto in tanto si pone sotto gli occhi dell'attenzione pubblica un nuovo crimine, ed è sempre meglio che questo sia particolarmente orrendo e ripugnante, così da lanciare una nuova campagna di controllo e di punizione. Stimolare regolarmente l'immaginario incline all'angoscia serve a ricordare all'opinione pubblica il pericolo insito nei criminali, e impedisce alle persone di porsi la domanda relativa al perché, nonostante un apparato poliziesco che promette di conquistare la tanto desiderata Sicherheit, la vita continui a essere dominata dallo stesso senso di insicurezza, di smarrimento e di paura di prima. Concentrarsi localmente sull'«ambiente sicuro» e su tutto ciò che esso dovrebbe naturalmente o presumibilmente contenere è esattamente ciò che le «forze del mercato», oggi globali e dunque extra-territoriali, pretendono dai governi degli Stati nazionali (di fatto impedendo loro di fare qualsiasi altra cosa). Nel mondo della finanza globale, ai governi nazionali è concesso appena qualcosa di più che rivestire il ruolo di guardiani di recinti polizieschi extra-large; la quantità e la qualità dei poliziotti in servizio, l'efficienza dimostrata nel tenere pulite le strade da mendicanti, scippatori, delinquenti e la stabilità delle carceri sono fattori che influiscono sulla «fiducia dell'investitore», e pertanto da annoverarsi tra i criteri di valutazione di perdite e profitti. Eccellere nel lavoro di guardiano del recinto è la cosa migliore (e forse l'unica) che un governo nazionale possa fare per circuire il capitale nomade e far sì che questo investa sul benessere dei cittadini. La strada più breve per la prosperità economica del paese, e quindi per il senso di «feel good» degli elettori, passa per l'esibizione pubblica delle capacità poliziesche e dell'abilità dello Stato. Un ruolo sempre più importante nella lotta al crimine è assegnato alla politica del carcere. La centralità della lotta al crimine non spiega da sola il boom delle carceri; in fondo esistono anche altri modi per combattere le reali o presunte minacce alla sicurezza personale dei cittadini. Inoltre, incarcerare sempre più persone e sempre più a lungo non si è rivelato il metodo più efficace. Postulare il carcere come strategia cruciale nella lotta per la sicurezza del cittadino significa trasferire il problema sul piano di un linguaggio facilmente comprensibile che evoca generalmente l'esperienza familiare. Le opportunità e le scelte esistenziali si dispongono oggi lungo la gerarchia del globale e del locale; la libertà globale di movimento indica avanzamento sociale e successo, mentre l'immobilità emana il ripugnante odore della sconfitta, del fallimento personale, dell'«essere rimasto indietro». Globale e locale acquistano sempre più il carattere di valori opposti e si collocano al centro dei sogni, degli incubi e delle lotte. Le ambizioni esistenziali si esprimono attraverso le categorie della mobilità, della libera scelta dei luoghi, della possibilità di viaggiare, vedere il mondo; le paure, al contrario, prendono forma attraverso le categorie dell'essere confinati in un posto, dell'assenza di cambiamento, del non aver accesso a spazi che altri attraversano, esplorano e si godono liberamente. «Vivere bene» significa essere in movimento, più precisamente, la tranquillità deriva dalla consapevolezza di potersi spostare liberamente in altri luoghi quando si è insoddisfatti. La libertà è innanzi tutto libertà di scelta, e la scelta ha acquisito sempre più una dimensione spaziale. L'immobilità forzata, la condizione di essere legati a un posto e di non poterlo lasciare appare terribile, crudele e ripugnante. Non potersi spostare assurge a simbolo di impotenza e si configura come il più terribile dei dolori. Non sorprende, dunque, che l'idea di una sentenza carceraria come metodo più efficace per rendere innocui individui potenzialmente pericolosi, e contemporaneamente come punizione esemplare, sia in linea con l'esperienza della contemporaneità e possa «produrre senso», o addirittura essere completamente «dalla parte della ragione». Il carcere, tuttavia, non significa solo immobilità, ma anche esclusione. Ciò contribuisce alla sua forza di attrazione e di consenso popolare come mezzo più efficace per «colpire il male alla radice». Il carcere implica un'esclusione continuata, forse permanente. Questo tocca anche un'altra corda particolarmente sensibile. Lo slogan è «rendere di nuovo sicure le nostre strade», e cosa promette di attuarlo al meglio se non la rimozione degli individui pericolosi in luoghi irraggiungibili e lontani alla vista? La Unsicherheit ambientale si concentra sulla paura per la propria sicurezza personale, che a sua volta si focalizza ulteriormente sulla figura ambigua e imprevedibile dell'Estraneo. L'estraneo per strada è il ladro dentro casa... Allarmi contro gli scassinatori, quartieri controllati, ronde, cancelli condominiali sorvegliati, tutto ciò serve a un unico obiettivo: tenere lontani gli estranei. Il carcere non è che la più radicale tra molte misure, è diversa dalle altre solo nel presunto grado di efficacia, ma non nella sostanza. Tutto ciò sta insieme alla perfezione, la logica sembra prevalere sul disordine dell'esistenza.

Al di là della legge

 «Oggi sappiamo», scrive Thomas Mathiesen, «che il sistema penale colpisce le fasce sociali basse» piuttosto che quelle alte. Ciò dipende dalle intenzioni esplicitamente selettive dei legislatori, preoccupati, com'è logico, non della conservazione dell'«ordine in quanto tale», ma di una determinata forma di ordine. Le azioni che potrebbero essere commesse da individui esclusi da quell'ordine sono menzionate nel codice penale, invece derubare intere nazioni delle proprie risorse si chiama «promuovere il libero mercato» e privare famiglie e comunità dei mezzi necessari alla sussistenza si chiama «ridimensionamento» o semplicemente «razionalizzazione». Niente di tutto ciò è mai comparso nella lista degli atti criminali e passibili di punizione. Inoltre, come ogni unità di polizia diretta contro i «crimini gravi» sa bene, i reati commessi nelle «alte sfere» sono estremamente difficili da far emergere in mezzo alla fitta rete delle attività «ordinarie» e quotidiane delle aziende. Nelle attività che perseguono il profitto personale a spese altrui, il confine tra ciò che è permesso e ciò che non lo è diventa labile e costantemente controverso, nulla a che vedere con atti come scassinare una cassaforte o forzare una serratura. Non sorprende che, come sostiene Mathiesen, le carceri siano «piene di persone di estrazione sociale povera che hanno commesso furti e altri reati "tradizionali"». Proprio perché definiti in modo insufficiente, i reati «delle alte sfere» sono anche terribilmente difficili da scoprire e ancor più da perseguire. Vengono perpetrati all'interno di circoli chiusi, composti da persone legate da reciproca complicità, lealtà verso l'organizzazione ed "esprit de corps", persone che generalmente adottano sofisticate misure per localizzare, far tacere o eliminare i potenziali controlli. Tale livello di sofisticazione legale e finanziaria è virtualmente impossibile da penetrare per chi sta fuori. E poi «non hanno un corpo», esistono in uno spazio etereo di pura astrazione: sono letteralmente invisibili, ed è necessaria un'immaginazione analoga a quella di chi commette i reati per cogliere la sostanza di una forma sfuggente. Come a voler proteggere il «crimine delle alte sfere», il controllo in questi ambienti è generalmente incostante o raro, nel peggiore dei casi inesistente. Solo una frode colossale, una truffa le cui vittime - pensionati o piccoli risparmiatori - abbiano un nome e un cognome (e anche in quel caso è necessario attivare le esagerazioni di piccoli o grandi eserciti di giornalisti), può attirare l'attenzione del pubblico e di tenerla fissa per più di uno o due giorni. Il crimine «delle alte sfere» (generalmente «alte» in senso extraterritoriale) può contribuire, o addirittura determinare il senso di insicurezza esistenziale dei cittadini ed è così rilevante per l'Unsicherheit da opprimere gli individui della società tardo-moderna ossessionandoli con la loro sicurezza personale; tuttavia, nemmeno usando grande immaginazione esso può essere percepito, di per sé, come una minaccia a tale sicurezza. Il pericolo che può essere identificato nel «crimine delle alte sfere» è di ordine totalmente differente. Trovare il modo di portare i colpevoli davanti alla giustizia potrebbe alleviare le paure quotidiane ascrivibili a pericoli più tangibili che si annidano nei quartieri violenti delle città. Tuttavia non si ottiene un grosso capitale elettorale «mostrando di fare qualcosa» contro i «crimini delle alte sfere». E altrettanto poca è la pressione politica esercitata sui legislatori e sui tutori dell'ordine affinché si impegnino a rendere più efficace la lotta contro questo genere di reati. Non c'è paragone con il clamore pubblico che si solleva contro ladri di macchine, scippatori, violentatori, e anche contro i tutori di legge e ordine sospettati di non svolgere efficacemente il proprio lavoro, o di essere troppo indulgenti nel comminare pene carcerarie «a chi se lo merita». Infine, c'è il grande vantaggio di cui la nuova élite globale gode rispetto ai tutori dell'ordine: l'ordine è locale, mentre l'élite e le leggi cui obbedisce il libero mercato sono translocali. Se i tutori dell'ordine locale diventano troppo invadenti, c'è sempre la possibilità di spostarsi. Ci sono sempre posti dove l'ordine locale non si scontra con le attività del mercato globale, oppure dove i tutori dell'ordine sono pronti a chiudere un occhio. Tutti questi fattori convergono in un risultato: l'identificazione del crimine con l'underclass (sempre locale) oppure - il che è lo stesso - la criminalizzazione della povertà. Le tipologie criminali più comuni provengono, agli occhi dell'opinione pubblica e quasi senza eccezioni, dai gradini più bassi della società. I ghetti urbani e le no-go-areas sono considerati terreno fertile per il crimine e i criminali. Nel 1940 Donald Clemmer coniò il termine «prigionizzazione» per indicare i veri effetti della reclusione, profondamente diversi dall'impatto di «rieducazione» e «riabilitazione» che gli attribuiscono i suoi teorici e sostenitori. Clemmer trovò i detenuti assimilati a una «cultura del carcere» profondamente rigida che li rendeva ancora più incapaci di seguire le regole della vita «normale». Come tutte le culture, anche quella del carcere aveva la capacità di auto-riprodursi. Il carcere era e rimane, secondo Clemmer, una scuola di criminalità. Nel 1954 Lloyd McCorkie e Richard R. Korn pubblicarono altre riflessioni che portarono alla luce i meccanismi che rendono le carceri scuole di criminalità. Secondo i dati da loro raccolti, l'intero processo culminante nell'incarcerazione è, in un certo senso, un lungo e strutturato rituale di rifiuto simbolico ed esclusione fisica. Rifiuto ed esclusione puntano a ottenere, attraverso l'umiliazione, che i rifiutati e gli esclusi accettino la propria inferiorità sociale. Non sorprende allora che le vittime organizzino la loro difesa. Anziché accettare umilmente il rifiuto e convertirlo in auto-esclusione, preferiscono rifiutare chi li esclude. Per questo scopo, gli esclusi ricorrono ai mezzi a loro disposizione, che contengono tutti una certa dose di violenza: la sola risorsa che possa aumentare il loro «potere di disturbo» e che possono opporre allo schiacciante potere di chi li esclude. La strategia di «rifiutare chi li esclude» si fonde rapidamente con lo stereotipo dell'escluso, annettendo all'immagine del criminale il tratto della «propensione alla recidiva». Le carceri appaiono allora come strumento principale di una profezia auto-avverante. Questo non significa che il crimine non abbia altre origini, significa però che l'esclusione e il rifiuto messi in atto dal sistema carcerario sono parte integrante della produzione sociale del crimine, la cui influenza non può essere nettamente estrapolata dalle statistiche complessive sull'incidenza della criminalità.

Il carcere, terreno di prova dei mantenimento dell'ordine

Clemmer, McCorkle e Korn hanno condotto la loro ricerca tra i detenuti, articolando le loro scoperte in termini di effetti della reclusione ed estendendosi ai fenomeni più vasti del confinamento, del rifiuto e dell'esclusione. Hanno scoperto, in altre parole, come le carceri fossero un laboratorio in cui riscontrare, in forma cristallizzata, tendenze onnipresenti (anche se in forma diluita) nella vita «normale» (ipotesi sostenuta anche da Dick Hebdidge in Hiding in the light). Se tale ipotesi fosse corretta, allora l'effetto della prigionizzazione e la scelta della strategia di «rifiutare chi esclude» andrebbe nella direzione di incrinare la misteriosa logica dell'ossessione odierna di legge e ordine e di spiegare l'apparente successo dello stratagemma di sostituire tale ossessione a un serio tentativo di affrontare la sfida dell'insicurezza esistenziale diffusa. Tale ipotesi potrebbe anche aiutarci a comprendere perché l'esclusione dalle libertà globali tenda a riflettersi nell'attuale tendenza alla chiusura e alla fortificazione delle comunità. Il rifiuto alimenta lo sforzo di recintare le comunità secondo il modello dei campi di concentramento. Le fortificazioni costruite dalla maggioranza che vive meglio e l'autodifesa per mezzo dell'attacco, praticata da coloro che sono tagliati fuori dalle mura, hanno un effetto che si accentua reciprocamente, effetto che Gregory Bateson aveva anticipato con la sua teoria delle «catene scismogenetiche». Secondo questo modello teorico, uno scisma può emergere e diventare incolmabile quando si determina una situazione per cui il comportamento x, y, z è la reazione a  x, y, z. Se, ad esempio, i modelli x, y, z implicano una certa reazione, vedremo che c'è la probabilità che ogni gruppo conduca l'altro all'esagerazione di quel modello, un processo che, se non viene limitato, può portare solo a maggiore rivalità e, in ultima analisi, al collasso del sistema stesso. Si tratta di un sistema di «differenziazione simmetrica». Esiste un'alternativa a esso? Cosa succede se il gruppo B non risponde alla sfida x, y, z del gruppo A con un comportamento x, y, z? La catena scismogenetica non viene spezzata, ma assume il modello della differenziazione «complementare» anziché simmetrica. Se, ad esempio, a un determinato comportamento non si reagisce con determinazione, ma con sottomissione, «è probabile che la sottomissione induca maggiore risolutezza, e che questa a sua volta provochi maggiore sottomissione». Per le parti tenute insieme dalla catena scismogenetica la differenza tra i due modelli è differenza tra dignità e umiliazione, umanità e perdita di umanità. Si può comunque anticipare che la strategia della differenziazione simmetrica è sempre preferita a quella complementare. Quest'ultima è la strategia degli sconfitti o di coloro che accettano l'inevitabilità della sconfitta. Qualunque sia il valore di questa ipotesi, ci si può aspettare che ne escano vincitori aspetti come la frammentazione dello spazio cittadino, la contrazione e la scomparsa degli spazi pubblici, la disgregazione delle comunità urbane e, soprattutto, l'extraterritorialità della nuova élite globale e la territorialità forzata di tutto il resto. Se la nuova extraterritorialità dell'élite è percepita come libertà intossicante, la territorialità del resto appare sempre più come una prigione. Si può dire, concludendo, che ciò che Silicon Valley ha fatto per la nostra esistenza computerizzata e interconnessa, Pelican Bay lo ha fatto per le future condizioni di vita delle moltitudini che non sono riuscite a salire sul treno veloce della globalizzazione o che ne sono state espulse.

 

Nota a cura di Filiarmonici: La Prigione di Stato di Pelican Bay [clicca qui per visualizzare una veduta aerea del complesso] è stata inaugurata nel 1990; per la sua costruzione sono stati spesi 277.5 milioni di dollari. Costruita applicando tutte le recenti direttive sicuritarie (completa automatizzazione, isolamento individuale, unità di internamento), è diventata ben presto la più grande fonte di reddito (diretta e indiretta) per gli abitanti della Contea di Del Norte e ha rialzato l'attività commerciale della stessa del 20%, fornendo un impiego a circa millecinquecento persone.
La popolazione generale della Contea di Del Norte è cresciuta di 6 mila unità e oggi i residenti (tenendo conto dei circa 4 mila detenuti, che non dovrebbero comunque superare quota 2.280) sono 28 mila, praticamente il doppio rispetto alla fine degli anni 80. È pure raddoppiato il gettito fiscale della zona e v'è stata una forte crescita nel settore dell'edilizia pubblica e privata (scuole, ospedali), ed in molti casi è stata utilizzata la forza-lavoro (complessivamente per circa 150 mila ore tra il 1990 e il 1996) dei prigionieri di primo livello, ovvero "a bassa pericolosità".

 

Da:  http://www.ecn.org/filiarmonici/bauman.html

 

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