in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

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Roland Barthes legge Bouvard et Pécuchet di Flaubert


 

Jean-Jacques Brochier - Bouvard et Pécuchet, non costituisce  forse per Flaubert  lo stesso tentativo, ma rovesciato, che per Mallarmé il Livre à venir? Non vuole forse Flaubert che dopo Bouvard et Pécuchet nessuno osi più scrivere? Mallarmé aspira al libro che contenga tutti i libri possibili.

 

Roland Barthes -  Le Enciclopedie del XVIII, del XIX e anche del XX secolo sono delle enciclopedie del sapere o meglio dei saperi. Ora, nel mezzo di questa vicenda c'è un momento Flaubert , un momento "Bouvard et Pécuchet", un momento-farsa. L'Enciclopedia è colta con derisione, come una farsa.   Ma a questo s'accompagna, sottotraccia, qualcosa di più serio: all'enciclopedia del sapere succede l'enciclopedia del linguaggio. Ciò che Flaubert registra e sottolinea in Bouvard et Pécuchet sono i linguaggi. Certamente  in rapporto ai saperi il libro è una farsa, e laddove il problema del linguaggio è dissimulato, il tono, l'"ethos" del libro è molto incerto: non si sa mai se è serio o meno. 

 

Flaubert scriverà d'altra parte in una delle sue lettere che il lettore non saprà mai se ci si sta prendendo gioco di lui o meno.

 

Roland Barthes -  È il giudizio  unanime  su B. e P.: se si sceglie di prendere il libro sul serio la cosa non funziona. La decisione  contraria neanche. Semplicemente perché il linguaggio non  partecipa né della verità né dell'errore, ma di entrambi: ragion per cui non si può sapere se è serio o meno. Ciò spiega perché nessuno ha saputo fissare il Flaubert di B. e P., libro che mi sembra l'essenza stessa di Flaubert. Flaubert vi appare come un "enunciatore" perfettamente preciso e al contempo incerto. 

 

Non è proprio questo mélange  che Flaubert  chiama bêtise (idiozia)?

 

Roland Barthes  Attiene alla bêtise, ma non bisogna lasciarsi ipnotizzare da questo termine. Anch'io ne sono stato vittima studiando la bêtise in Flaubert, ma poi mi sono reso conto che forse l'importante è altrove. In B. e P., ma anche in Madame Bovary, e ancor più in Salammbò, Flaubert appare come un uomo che si ingozza, letteralmente,  di linguaggi.  Ma di  tutti questi linguaggi, alla fine, nessuno prevale sugli altri: non esiste un linguaggio-mastro, un linguaggio che copra un altro. Così io direi che il libro caro a Flaubert non è il romanzo ma il dizionario. E ciò che è importante nel Dizionario dei luoghi comuni, non è "luoghi comuni", ma "dizionario". È qui che il tema della bêtise si rivela una falsa pista. Il grande libro sottinteso di  Flaubert , è il dizionario fraseologico, il dizionario delle frasi, come se ne trova esempio negli articoli del Littré.

 

D'altronde il dizionario è legato al tema della copia con la quale inizia B. e P. Perché, che cos' è un dizionario se non copiare frasi da altre frasi?

 

Roland Barthes - Certamente. Il tema della copia è d'altra parte un gran tema. Abbiamo avuto dizionari di "copia" molto interessanti come il Dizionario critico di Bayle alla fine del XVII secolo. Ma la copia è in Flaubert un atto vuoto, puramente passivo. Quando Bouvard e Pécuchet alla fine del libro si rimettono a copiare non resta che la sola pratica gestuale. Copiare qualsiasi cosa purché il gesto della mano sia conservato. È un momento storico della crisi della verità che si manifesta ad esempio presso Nietzsche, benché tra Nietzsche e Flaubert non ci sia alcun rapporto. È il momento in cui ci si accorge che il linguaggio non offre alcuna garanzia. Non c'è alcuna istanza, alcun garante del linguaggio. È la crisi della modernità che si apre. Tutto ciò che è scritto è in "carenza di senso" secondo l'eccellente  espressione di Levi-Strauss. Ciò non vuol dire che la produzione letteraria sia semplicemente insignificante. Essa è in "carenza di  senso". Non c'è il senso, ma c'è come un sogno del senso.   È la perdita incondizionata del linguaggio che comincia. Non si scrive più per questa o quell'altra ragione, ma l'atto di scrivere è gravato dal bisogno di senso, ciò che oggi si chiama la significanza ( signifiance). Non la significazione (signification) del linguaggio ma proprio la significanza.   

 

Nella novella di B. Maurice I due cancellieri, dalla quale Flaubert ha preso spunto, alla fine come Bouvard e Pécuchet, i due cancellieri cominciano a copiare. Ma a differenza di questi ultimi uno detta ciò che sta copiando all'altro. Si tratterebbe di una riapparizione del linguaggio, sotto forma di dettato.

 

Roland Barthes -  Ciò che lei dice attiene ad un secondo tratto, allo stesso  tempo enigmatico e, per alcuni,  repulsivo, di Bouvard et Pécuchet. Saprà che è un libro che a  molti, a cominciare dallo stesso Sartre, non piace. Io credo che il malessere che molti avvertono viene dal fatto  che non c'è, in Bouvard et Pécuchet ciò che nel gergo linguistico è detto il "piano allocutorio": non si capisce chi si rivolge a chi, e non si sa mai da dove parte e dove arriva il messaggio. Loro stessi, i due personaggi, formano un tenero blocco, ma stanno in un rapporto di specchi: si ha difficoltà a distinguerli. Ed in effetti, se si guarda il libro da vicino, ci si accorge che i due personaggi non si rivolgono mai la parola. E questa coppia, questo tenero blocco che formano, non può neanche  avere una proiezione. È distante, glaciale, non si rivolge al lettore. Il libro non si indirizza a noi, fatto questo che certamente impensieriva uno come Sartre, di cui ho annotato questa citazione a proposito del Dizionario dei luoghi comuni: « Strana opera: più di mille articoli, e chi prendono di mira? Nessuno, se non Gustave  stesso». Io direi di più: lo stesso Gustave non è nel mirino. Non c'è un «soggetto». Per me è questa perdita del piano allocutorio, dell'indirizzo, dell' intercomunicazione che esiste in ogni libro scritto anche in terza persona,  che è affascinante, in quanto che è in germe il discorso di uno psicotico.

Lo psicotico, quando parla, non indirizza a nessuno il suo discorso, ed è per questa ragione che Bouvard et Pécuchet, sotto le vesti di un libro tradizionale, è un libro folle, nel vero senso del termine. Nello stesso ordine di idee ciò che colpisce in Bouvard et Pécuchet, è la perdita del dono. Bouvard e Pécuchet non si donano mai nulla. Neanche gli escrementi, che oggi sono considerati la materia prima del  dono. Vengono infatti recuperati per farne del concime: è un episodio celebre del libro. Tutto viene scambiato sempre, tutto è previsto, inteso come uno scambio, eppure questo scambio fallisce sempre. È un mondo senza consumo, senza eco, matto. L'arte di Flaubert in Bouvard et Pécuchet è un'arte ellittica , dunque in questo classica, ma dove l'ellissi non suggerisce  mai  un sottinteso. Ellissi senza residui. Fatto impensabile per una coscienza classica, umanista, ed anche per una coscienza ordinaria d'oggi. È letteralmente un'opera d'avanguardia.

 

È come se il linguaggio esistesse ma non più gli uomini.

 

Roland Barthes - Sì. E con tali parole lei esprime un tratto modernissimo.

 

Se Flaubert giunge alla psicosi con Bouvard et Pécuchet, tutta la sua sofferenza per lo stile, per la frase, è perfettamente nevrotica.

 

Roland Barthes -  Flaubert, accettando l'eredità classica, s'è messo nella  prospettiva di un lavoro di stile, che era la regola di uno scrittore dopo Orazio e Quintiliano: lo scrittore è uno che lavora il suo linguaggio, che lavora la sua forma. Flaubert ha spinto questo lavoro in misura demenziale. Ne abbiamo mille esempi. Quando raccontava  che impiegava otto ore per correggere cinque pagine, che per  Madame Bovary ha impiegato anche una settimana per quattro pagine, che trascorse un lunedì ed un martedì interi a limare due righe, etc. Questo lavoro della forma sfocia nella categoria dell' «atroce». L'atroce rappresenta un sacrificio totale ed ostinato di colui che scrive. Flaubert s'è incarcerato a Croisset all'età di venticinque anni. Quest'imprigionamento è rappresentato, emblematizzato, da quel mobile indispensabile del suo studio, il letto, dove si andava a gettare quand'era a corto di idee: ciò che lui considerava come l'atto del "marinare". In questo   tormento di stile Flaubert portava due croci particolarmente pesanti: la caccia maniacale alle ripetizioni e le transizioni, ossia i punti di snodo del testo. E l'alibi di questo lavoro accanito era quello di sostituire alla  poesia come  valore la prosa  come valore. È Flaubert il primo a sostenere che la prosa è altrettanto complicata che la poesia da fare

Tutto questo lavorio si organizza attorno ad un oggetto che per Flaubert  diventa molto particolare: la frase. La frase di Flaubert è un oggetto molto completo: è allo stesso tempo un'unità di stile - dunque non solamente linguistica ma retorica - ed è un'unità di lavoro poiché egli misura le sue giornate di lavoro dal numero delle frasi, ed è un'unità di vita: la sua vita si riassume in delle frasi. Flaubert ha saputo elaborare, nella teoria e nella pratica, un concetto che Proust ha molto bene scorto e che chiama la «sostanza speciale», sostanza che, lo stesso Proust nota, Balzac non ha. La frase di Balzac non è questo oggetto incredibilmente riconoscibile  che è la frase di Flaubert. Prova ne è che fra i pastiche di Proust , che sono grandissime analisi  teoriche sullo stile, il pastiche che eclissa tutti gli altri è quello di Flaubert . Si potrebbe giocare sull'ambiguità dell'espressione ed affermare che Flaubert ha trascorso tutta la sua vita a «fare delle frasi». La frase di Flaubert è un oggetto perfettamente identificabile. Capita a Flaubert di dire: «Riprendo dunque la mia povera vita, così piatta e tranquilla, dove le frasi sono un'avventura». Perché questa frase di Flaubert ha  avuto una funzione di destino nella sua vita e per la storia della nostra letteratura? Perché essa esibisce, come su un piedistallo, la contraddizione stessa di ogni linguaggio. Cioè a dire che la frase è strutturabile ( la linguistica fino a Chomsky l'ha dimostrato ), e poiché essa ha una struttura, essa pone un problema di valore: c'è una buona ed una cattiva struttura, fatto che spiega perché Flaubert abbia cercato la buona struttura in maniera ossessiva: e d'altra parte essa è infinita. Niente obbliga a finire una frase: essa è infinitamente «catalizzabile», vi si può sempre aggiungere qualcosa. E questo fino alla fine della nostra vita. Mallarmé ha postulato tutto ciò nel Colpo di dadi. Tutta la vertigine di Flaubert scaturisce da queste due parole d'ordine: «Lavoriamo a finire la frase» e d'altra parte «La frase non finisce mai».

Flaubert per questo lavorio di stile è l'ultimo scrittore classico, ma poiché questo lavoro è smisurato, vertiginoso, nevrotico, disturba gli individui classici, da Faguet a Sartre. È attraverso tutto questo che Flaubert diviene il primo scrittore della modernità: perché accede ad una follia. Una follia che non è della rappresentazione, dell'imitazione, del realismo, ma una follia della scrittura, una follia del linguaggio.

 

In Magazine littéraire n°108 - Janvier 1976

 

Da: http://lafrusta.homestead.com/fili_r_barthes.html

 

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