"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
L'essere umano deve potere tutto, e non dovere niente.
Non c'erano che poche cose, in effetti, di cui non si credeva capace.
Non contava che tutto quello che faceva gli riuscisse: spesso non gli riusciva.
Ma lo poteva lo stesso.
Georg Groddeck
Capitolo I
Avviso agli studenti
La scuola è stata, con la famiglia, la fabbrica, la caserma e accessoriamente
l'ospedale e la prigione, il passaggio ineluttabile in cui la società mercantile
piegava a suo vantaggio il destino degli esseri che si dicono umani.
Il governo che essa esercitava su nature ancora appassionate delle libertà
dell'infanzia l'apparentava, infatti, a quei luoghi poco propizi alla
realizzazione e alla felicità che furono - e che restano in diversa misura - il
recinto familiare, l'officina o l'ufficio, l'istituzione militare, la clinica,
le carceri.
La scuola ha forse perso il carattere ributtante che presentava nel XIX e XX
secolo, quando rompeva gli spiriti e i corpi alle dure realtà del rendimento e
della servitù, facendosi gloria di educare per dovere, autorità e austerità, non
per piacere e per passione? Niente è meno certo, e non si potrà negare che sotto
l'apparente sollecitudine della modernità, numerosi arcaismi continuano a
scandire la vita di studentesse e studenti.
L'impresa scolastica non ha forse obbedito fino ad oggi a una preoccupazione
dominante: migliorare le tecniche di ammaestramento affinché l'animale sia
redditizio?
Nessun ragazzo supera la soglia di una scuola senza esporsi al rischio di
perdersi: voglio dire di perdere questa vita esuberante, avida di conoscenze e
di meraviglie, che sarebbe così esaltante nutrire, invece di sterilizzarla e
farla disperare con il noioso lavoro del sapere astratto. Che terribile
constatazione quegli sguardi così brillanti di colpo sbiaditi!
Ecco quattro muri. Il consenso generale decide che, con ipocriti riguardi, vi
saremo imprigionati, costretti, colpevolizzati, giudicati, onorati, puniti,
umiliati, etichettati, manipolati, vezzeggiati, violentati, consolati, trattati
come aborti che questuano aiuto e assistenza. Di che cosa vi lamentate?
obbietteranno gli autori di leggi e decreti. Non è forse il modo migliore di
iniziare i novellini alle regole immutabili che reggono il mondo e l'esistenza?
Senza dubbio. Ma perché i giovani dovrebbero ancora accontentarsi di una società
senza gioia e senza avvenire, che gli stessi adulti sopportano ormai rassegnati,
con un'acrimonia e un malessere crescenti?
Una scuola dove la vita si annoia insegna
solo la barbarie Il mondo è cambiato più in trent'anni che in
tremila. Mai - perlomeno nell'Europa occidentale - la sensibilità dei ragazzi ha
tanto deviato dai vecchi istinti predatori che fecero dell'animale umano la più
feroce e la più distruttrice delle specie terrestri.
Eppure, l'intelligenza resta fossilizzata, quasi impotente a percepire la
mutazione che si opera sotto i nostri occhi. Una mutazione paragonabile
all'invenzione dell'utensile, che produsse un tempo il lavoro di sfruttamento
della natura e generò una società composta di padroni e di schiavi. Una
mutazione in cui si rivela la vera specificità umana: non la produzione di una
sopravvivenza sottomessa agli imperativi di un'economia lucrativa, ma la
creazione di un ambiente favorevole a una vita più intensa e più ricca.
Il nostro sistema educativo si inorgoglisce a ragione di aver risposto con
efficacia alle esigenze di una società patriarcale un tempo onnipotente, tenendo
conto di un solo dettaglio: che una tale gloria è al contempo ripugnante e
superata.
Su cosa poggiava il potere patriarcale, la tirannia del padre, la potenza del
maschio? Su una struttura gerarchica, il culto del capo, il disprezzo della
donna, la devastazione della natura, lo stupro e la violenza oppressiva. Questo
potere, la storia lo abbandona ormai in uno stato di avanzata decomposizione:
nella comunità europea, i regimi dittatoriali sono scomparsi, l'esercito e la
polizia virano all'assistenza sociale, lo Stato si dissolve nelle acque torbide
degli affari e l'assolutismo paternalistico non è altro che un ricordo di
marionette.
Bisogna davvero coltivare la stupidità con una prolissità ministeriale per non
revocare immediatamente un insegnamento che il passato impasta ancora con i
lieviti ignobili del dispotismo, del lavoro forzato, della disciplina militare e
di quell'astrazione, la cui etimologia - abstrahere, tirar fuori da -
esprime bene l'esilio da sé, la separazione dalla vita.
Finalmente agonizza quella società in cui si entrava vivi solo per imparare a
morire. La vita riprende i suoi diritti timidamente come se, per la prima volta
nella storia, essa si ispirasse ad un'eterna primavera anziché mortificarsi di
un inverno senza fine.
Odiosa ieri, la scuola oggi è soltanto ridicola. Essa funzionava implacabilmente
secondo i meccanismi di un ordine che si credeva immutabile. La sua perfezione
meccanica tetanizzava l'esuberanza, la curiosità, la generosità degli
adolescenti per meglio integrarli nei cassetti di un armadio che l'usura del
lavoro trasformava a poco a poco in bara. Il potere delle cose usciva vincitore
sul desiderio degli esseri.
La logica di un'economia allora fiorente era irrefrenabile, come lo sgranarsi
delle ore della sopravvivenza che suonano con costanza a raccolta verso la
morte. La potenza dei pregiudizi, la forza d'inerzia, la rassegnazione
abitudinaria esercitavano così comunemente la loro presa sull'insieme dei
cittadini che ad eccezione di qualche renitente, amante dell'indipendenza, la
maggior parte delle persone trovava il proprio tornaconto nella miserabile
speranza di una promozione sociale e di una carriera garantita fino alla
pensione.
Non mancavano dunque delle eccellenti ragioni per spingere il ragazzo sulla
retta via della convenienza, perché rimettersi ciecamente all'autorità
professorale offriva all'impetratore gli allori di una ricompensa suprema: la
certezza di un lavoro e di un salario.
I pedagoghi dissertavano sul fallimento scolastico senza preoccuparsi dello
scacchiere su cui si tramava l'esistenza quotidiana, giocata ad ogni passo
nell'angoscia del merito e del demerito, della perdita e del profitto,
dell'onore e del disonore. Una costernante banalità regnava nelle idee e nei
comportamenti: c'erano i forti e i deboli, i ricchi e i poveri, i furbi e gli
imbecilli, i fortunati e gli sfortunati.
Certo la prospettiva di dover passare la propria vita in una fabbrica o in un
ufficio a guadagnare il denaro del mese non era atta ad esaltare i sogni di
felicità e di armonia che l'infanzia nutriva. Essa produceva in serie degli
adulti insoddisfatti, frustrati di un destino che avrebbero desiderato più
generoso. Delusi e istruiti dalle lezioni dell'amarezza non trovavano, nella
maggior parte dei casi, altra scappatoia al loro risentimento che dispute
assurde, sostenute dalle migliori ragioni del mondo. I conflitti religiosi,
politici, ideologici procuravano loro l'alibi di una Causa - come dicevano
pomposamente - che nascondeva loro di fatto la triste violenza del male di
sopravvivere di cui soffrivano. Così la loro esistenza scorreva nell'ombra
ghiacciata di una vita assente. Ma quando l'aria è ammorbata, gli appestati
dettano legge. Per inumani che fossero i principi dispotici che reggevano
l'insegnamento e inculcavano ai ragazzi le sanguinose vanità dell'età adulta -
quelli che Jean Vigo beffeggia nel suo film Zero in condotta -,
partecipavano della coerenza di un sistema preponderante, rispondevano alle
ingiunzioni di una società che non si riconosceva altro motore principale se non
il potere e il profitto.
Ma oramai, anche se l'educazione si ostina ad obbedire agli stessi moventi, la
coerenza è scomparsa: c'è sempre meno da guadagnare e sempre più vita sprecata a
raschiare gli avanzi.
L'insopportabile predominanza degli interessi finanziari sul desiderio di vivere
non riesce più a ingannare. Il tintinnio quotidiano dell'esca del guadagno
risuona assurdamente nella misura in cui il denaro si svaluta, che un fallimento
comune livella capitalismo di Stato e capitalismo privato, e che scivolano verso
la fogna del passato i valori patriarcali del padrone e dello schiavo, le
ideologie di destra e di sinistra, il collettivismo e il liberalismo, tutto ciò
che si è edificato sullo stupro della natura terrestre e della natura umana in
nome della sacrosanta merce.
Un nuovo stile sta nascendo, dissimulato soltanto dall'ombra di un colosso i cui
piedi di argilla hanno già ceduto. La scuola rimane confinata nella penombra del
vecchio mondo che sprofonda.
Bisogna distruggerla? Domanda doppiamente assurda.
Prima di tutto perché è già distrutta. Sempre meno interessati da ciò che
insegnano e studiano - e soprattutto dalla maniera di istruire e istruirsi -
professori e allievi non sono forse indaffarati a far colare a picco insieme il
vecchio piroscafo pedagogico che fa acqua da tutte le parti?
La noia genera la violenza, la bruttezza degli edifici incita al vandalismo, le
costruzioni moderne, cementate dal disprezzo degli impresari immobiliari, si
screpolano, crollano, prendono fuoco, secondo l'usura programmata dei loro
materiali di paccottiglia.
In secondo luogo, perché l'istinto di annientamento si iscrive nella logica di
morte di una società mercantile la cui necessità lucrativa esaurisce la parte
viva degli esseri e delle cose, la degrada, la inquina, la uccide. Accentuare la
rovina non dà profitti solo agli avvoltoi dell'immobiliare, agli ideologi della
paura e della sicurezza, ai partiti dell'odio, dell'esclusione, dell'ignoranza,
dà anche garanzie a quell'immobilismo che non cessa di cambiare abiti nuovi e
maschera la sua nullità dietro a riforme tanto spettacolari quanto effimere.
La scuola è al centro di una zona di turbolenza dove gli anni giovanili rovinano
nella tetraggine, dove la nevrosi coniugata dell'insegnante e dell'insegnato
imprime il suo movimento al bilanciere della rassegnazione e della rivolta,
della frustrazione e della rabbia. Essa è anche il luogo privilegiato di una
rinascita. Porta in gestazione la coscienza che è al centro della nostra epoca:
assicurare la priorità di ciò che vive sull'economia di sopravvivenza.
Essa detiene la chiave dei sogni in una società senza sogno: la risoluzione di
cancellare la noia sotto il rigoglio di un paesaggio in cui la volontà di essere
felici bandirà le fabbriche inquinanti, l'agricoltura intensiva, le prigioni di
ogni genere, i laboratori di affari sospetti, i depositi di prodotti
sofisticati, e quelle cattedre di verità politiche, burocratiche, ecclesiastiche
che chiamano lo spirito a meccanizzare il corpo e lo condannano a claudicare
nell'inumano.
Stimolato dalle speranze della Rivoluzione, Saint-Just scriveva: "La felicità è
un'idea nuova in Europa." Ci sono voluti due secoli perché l'idea, cedendo al
desiderio, esigesse la sua realizzazione individuale e collettiva.
Ormai, ogni bambino, ogni adolescente, ogni adulto si trova all'incrocio di una
scelta: sfinirsi in un mondo sfinito dalla logica della redditività ad ogni
costo, o creare la propria vita creando un ambiente che ne assicuri la pienezza
e l'armonia. Perché l'esistenza quotidiana non può essere confusa più a lungo
con questa sopravvivenza adattativa a cui l'hanno ridotta gli uomini che
producono la merce e dalla quale sono prodotti.
Noi non vogliamo più una scuola in cui si impara a sopravvivere disimparando a
vivere. La maggior parte degli uomini non sono stati altro che animali
spiritualizzati, capaci di promuovere una tecnologia al servizio dei loro
interessi predatori ma incapaci di affinare umanamente la vita e raggiungere
così la propria specificità di uomo, di donna, di fanciullo. Al termine di una
corsa frenetica verso il profitto, i topi in tuta e in giacca e cravatta
scoprono che non resta più che una misera porzione del formaggio terrestre che
hanno rosicchiato da ogni lato. Dovranno progredire nel deperimento, o operare
una mutazione che li renderà umani.
É tempo che il memento vivere prenda il posto del memento mori che
bollava le conoscenze sotto il pretesto che niente è mai acquisito.
Ci siamo lasciati troppo a lungo persuadere che non c'era da attendere altro
dalla sorte comune che la decadenza e la morte. É una visione da vegliardi
prematuri, da golden boys caduti in senilità precoce perché hanno
preferito il denaro all'infanzia. Che questi fantasmi di un presente coniugato
al passato cessino di occultare la volontà di vivere che cerca in ciascuno di
noi la via della sua sovranità!
Per spezzare l'oppressione, la miseria, lo sfruttamento, non basta più una
sovversione avvelenata dai valori morti che essa combatte. É venuta l'ora di
scommettere sulla passione incomprimibile di ciò che è vivo, dell'amore, della
conoscenza, dell'avventura che chiunque abbia deciso di crearsi secondo la sua
"linea di cuore" inaugura ad ogni istante.
La società nuova comincia dove comincia l'apprendistato di una vita
onnipresente. Una vita da percepire e da comprendere nel minerale, nel vegetale,
nell'animale, regni da cui l'uomo deriva e che porta in sé con tanta incoscienza
e disprezzo. Ma anche una vita fondata sulla creatività, non sul lavoro;
sull'autenticità, non sull'apparire; sull'esuberanza dei desideri, non sui
meccanismi di rimozione e di sfogo. Una vita spogliata della paura,
dell'obbligo, del senso di colpa, dello scambio, della dipendenza. Perché essa
coniuga inseparabilmente la coscienza e il godimento di sé e del mondo.
Una donna che ha la sfortuna di abitare un paese incancrenito dalla barbarie e
dall'oscurantismo scriveva: "In Algeria si insegna al bambino a lavare un morto,
io voglio insegnargli i gesti dell'amore." Senza scadere in tanta morbosità, il
nostro insegnamento, sotto la sua apparente eleganza, troppo spesso, non è stato
che un abbigliamento dei morti. Si tratta ora di ritrovare fin nelle
formulazioni del sapere i gesti dell'amore: la chiave della conoscenza è la
chiave della libertà dove l'affetto è offerto senza riserve.
Che l'infanzia sia caduta nella trappola di una scuola che ha ucciso il
meraviglioso invece di esaltarlo indica abbastanza in quale urgenza si trovi
l'insegnamento, se non vuole cadere in seguito nella barbarie della noia, di
creare un mondo di cui sia permesso meravigliarsi.
Guardatevi tuttavia dall'attendere aiuto o panacea da qualche salvatore supremo.
Sarebbe vano, sicuramente, accordare credito a un governo, a una fazione
politica, accozzaglia di gente preoccupata di sostenere prima di tutto
l'interesse del loro potere vacillante; e nemmeno a tribuni e maitres à
penser, personaggi massmediatici che moltiplicano la loro immagine per
scongiurare la nullità che riflette lo specchio della loro esistenza quotidiana.
Ma sarebbe soprattutto andare contro se stessi, inginocchiarsi come un
questuante, un assistito, un inferiore, mentre l'educazione deve avere per scopo
l'autonomia, l'indipendenza, la creazione di sé, senza la quale non vi è vero
aiuto reciproco, autentica solidarietà, collettività senza oppressione.
Una società che non ha altra risposta alla miseria che il clientelismo, la
carità e l'arte di arrangiarsi è una società mafiosa. Mettere la scuola sotto il
segno della competizione e incitare alla corruzione, che è la morale degli
affari.
La sola assistenza degna di un essere umano è quella di cui ha bisogno per
muoversi con i propri mezzi. Se la scuola non insegna a battersi per la volontà
di vivere e non per la volontà di potenza, essa condannerà intere generazioni
alla rassegnazione, alla servitù e alla rivolta suicida. Rovescerà in soffio di
morte e di barbarie ciò che ciascuno possiede in sé di più vivo e di più umano.
Io non immagino altro progetto educativo che quello di formarsi nell'amore e
nella conoscenza di ciò che è vivo. Al di fuori di una scuola della vita*
dove la vita si trova e si cerca senza fine - dall'arte di amare fino alle
matematiche speculative - non vi è che la noia e il peso morto di un passato
totalitario.
Nota:
*
Nel testo école buissonnière. Faire l'école buissonière significa
marinare la scuola, ma nel contesto significa una struttura di apprendimento
senza rigidità, aperta alla vita (N. d. T.).
Capitolo II
Farla finita con l'educazione carceraria e la castrazione
del desiderio
Ancora ieri istillato fin dalla più tenera infanzia, il sentimento di colpa
erigeva intorno a ciascuno la più sicura delle prigioni, quella in cui sono
murati i desideri. Per interi millenni, l'idea di una natura sfruttabile e
soggetta a servitù a piacere ha condannato al peccato, al rimorso, alla
penitenza, alla rimozione amara e allo sfogo compulsivo la semplice inclinazione
a godere di tutti i piaceri della vita.
Quale dovrebbe essere la preoccupazione essenziale dell'insegnamento? Aiutare il
fanciullo nel suo approccio alla vita per fargli imparare a sapere ciò che vuole
e volere ciò che sa; cioè a soddisfare i suoi desideri, non nella soddisfazione
animale ma secondo gli affinamenti della coscienza umana.
Si è prodotto l'opposto. L'apprendimento si è fondato sulla repressione dei
desideri. Si è rivestito il fanciullo di abiti angelici sotto i quali non ha mai
smesso di fare la bestia, una bestia snaturata per di più. Come stupirsi che le
scuole imitino così bene, nella loro concezione architettonica e mentale, i
penitenziari dove i reprobi sono esiliati dalle gioie ordinarie dell'esistenza?
Una scuola che ostacola i desideri stimola l'aggressività.
Gli antichi edifici scolastici ricordano i penitenziari. Le finestre poste in
alto non permettevano allo sguardo dell'allievo che un'occhiata verso il cielo,
unico spazio riservato alla felicità delle anime, se non dei corpi. Perché il
corpo, immobilizzato su un banco di studio presto trasformato in banco di
tortura, subiva nell'imbarazzo ordinario il suo destino terrestre.
Prevaleva allora l'opinione che per istruirsi (come per essere belli) bisognava
imparare a soffrire. Entrare nell'età adulta, non era forse rinunciare ai
piaceri dell'infanzia per progredire in una valle di lacrime, di decrepitezza,
di morte?
I pedagoghi hanno sempre affermato che la disciplina e il mantenimento
dell'ordine formavano la conditio sine qua non di tutta l'educazione.
Oggi percepiamo meglio fino a che punto la loro pretesa scienza discendeva di
fatto da una comunissima pratica repressiva: incoraggiare il disprezzo di sé e
vessare gli "appetiti carnali" allo scopo di elevare l'uomo al settimo cielo
dello spirito strappandolo alla materia terrestre.
Una volta declassato il corpo allo stato di oggetto e, nel caso specifico, di
materiale scolastico, l'istruttore trovava ancor più facile far entrare nel
cranio dello studente delle nozioni rispettabili e rispettose dell'autorità.
Sollecitare l'intelligenza astratta e la ragione "obiettiva" contribuiva a
nascondere quell'intelligenza sensibile e sensuale incastrata ai desideri,
quella piccola luce del cuore che si accende quando il fanciullo, ritrovandosi
solo con se stesso, si pone la domanda: tutte queste conoscenze, assestate con
la forza e la minaccia, quanto mi aiuteranno a sentirmi bene nella mia pelle, a
vivere più felice, a diventare ciò che sono?
I metodi educativi hanno rinunciato alle punizioni corporali all'epoca in cui lo
schiaffo e il calcio nel culo hanno smesso di costituire l'essenziale di
un'educazione familiare che, a detta dei torturatori, aveva sempre dato prova di
sé.
Eccome!
Questo non significa tuttavia che il corpo sfugga ormai alle vessazioni, alla
mortificazione, al disprezzo. I sensi non sono forse posti sotto alta
sorveglianza durante le ore di studio e nello spazio che è loro riservato?
L'occhio ha il dovere di incollarsi ai gesti del maestro. La bocca non si aprirà
che all'invito del mentore, e guai a ciò che oserà profferire! Risposte
sbagliate, proposizioni scandalose suscitano la bastonata, il rabbuffo, la presa
in giro, l'umiliazione; mentre la parola pertinente o servile si attira la lode
che il bilancio promozionale di fine anno si incaricherà di contabilizzare. La
mano, infine, si leverà con educazione per sollecitare l'attenzione del pedante,
con il rischio, fino a poco tempo fa, di farsi battere sulle dita con la regola
del retto buon senso.
Ci si accorge, con la distanza del tempo, che studenti e studentesse sono stati
trattati secondo i procedimenti dello scienziato staliniano Pavlov che, tra i
cani del suo laboratorio, ricompensava la buona risposta con uno zuccherino e
puniva l'errore con un choc elettrico. Non fu forse necessario che il disprezzo
fosse la norma di un'epoca perché dei pedagoghi preconizzassero un metodo
educativo che nessun essere umano degno di questo nome infliggerebbe oggi a un
cane? Ed è poi così sicuro che la scuola non resti, nella vigliaccheria di un
consenso generale, un luogo di ammaestramento e di condizionamento, al quale la
cultura serve da pretesto e l'economia da realtà?
Come può esserci conoscenza dove c'è oppressione?
Mantenute dalla paura di muoversi in una prigione di muscoli tetanizzati, le
emozioni rimosse instaurano tra l'oppressore e l'oppresso una logica di
distruzione e di autodistruzione che spezza ogni forma di comunicazione
illuminata.
Alle stupide pretese del maestro di regnare tirannicamente sulla classe
rispondono con eguale stupidità il baccano e il chiasso che servono da sfogo
alle energie represse.
Ovunque la prigione, il ghetto, la corazza caratteriale impongono la loro
strategia di clausura, lo slancio della disperazione leva il pugno del
devastatore. La mano dello scolaro si vendica mutilando tavoli e sedie,
macchiando i muri di segni insolenti, strappando gli orpelli della bruttezza,
sacralizzando un vandalismo in cui la rabbia di distruggere compensa il
sentimento di essere distrutti, violentati, messi a sacco dalla trappola
pedagogica quotidiana.
Le bocche si aprono in grida stizzose di protesta, gli occhi attingono nella
sfida il bagliore di entusiasmo che è loro rifiutato. Così i movimenti di
contestazione periodicamente risvegliati dalle direttive di istanze burocratiche
e governative scadono - per assenza di creatività - nello stesso grigiore e
nella stessa stupidità del potere inconsistente che li ha provocati. Che ci si
può aspettare da manifestazioni gregarie in cui l'intelligenza degli individui,
in mancanza di un progetto di cambiamento radicale, si riduce, secondo il comun
denominatore delle folle, al più basso livello di comprensione?
Per evitare l'esplosione dei desideri rimossi alla rinfusa, le autorità hanno
saputo approntare sacche di decompressione e di trasgressioni controllate. Il
lassismo non è il soffio della libertà, è il fiato della tirannia.
Il cortile di ricreazione previsto in prigioni, caserme e scuole permette
all'energia libidica compressa dai rigori della disciplina di sfogarsi a
piacimento. Esso conserva la separazione fra la testa - il "capo" - e il resto
del corpo, che per principio le è sottomesso, ma rovescia l'ordine gerarchico
stabilito durante il tempo dello studio. L'ultimo vi diviene il primo: il
cattivo scolaro e il bruto muscoloso diventano i leader e la fanno pagare al
primo della classe. Nulla è cambiato se non che le pulsioni della vita oppressa
si sfogano in pulsioni di morte.
Una volta chiusa la parentesi del disordine tollerato, lo spirito riprende i
suoi diritti, con la missione di regnare sul caos. Quelli che il potere
professorale ha aureolato della santità del sapere riprendono il loro posto in
testa al plotone. La loro intellettualità rigetta nelle tenebre la bestia che si
aggira nel profondo dell'essere, mentre la loro superiorità si afferma sull'orda
degli indisciplinati, degli svagati, degli ultimi della classe, chiamati
bestioni, secondo un insulto che meriterebbe di essere analizzato più a fondo
(quando si prenderà coscienza che rinnegare l'animalità delle pulsioni invece di
affinarle non conduce all'umanità ma ad una bestialità dal volto umano).
Esiste evidentemente un ritmo naturale dello sforzo e del riposo, della
concentrazione e del rilassamento, ma l'organizzazione sociale del lavoro ha
sostituito alla semplice alternanza di contrazione e decontrazione il meccanismo
psicologico di rimozione e sfogo. Il comportamento ordinario dello sfruttatore
che accorda agli sfruttati un periodo di ricreazione per rinviarli ben disposti
alla fabbrica e all'ufficio si è espresso perfettamente nell'affermazione del
generale de Gaulle irritato dalla rivoluzione del 1968: "È ora di fischiare la
fine dell'ora di ricreazione."
Imparare senza desiderio vuol dire disimparare a
desiderare. Il disprezzo di sé e degli altri è inerente al lavoro di sfruttamento della
natura terrestre e della natura umana. Ecco perché pochi pensano ad indignarsi
del fatto che sia moneta corrente negli scambi tra professori e allievi. Sarebbe
illusorio credere che una pratica talmente intollerabile possa cessare per
effetto di una scelta etica, di una volontà di cortesia, di qualche formula del
tipo "le sarei grato di non parlarmi su questo tono". Ciò che è in gioco è una
rifondazione radicale della società e di un insegnamento che non ha ancora
scoperto che ogni bambino, ogni adolescente possiede allo stato bruto l'unica
ricchezza dell'uomo, la sua creatività.
Come si può eccitare la curiosità in esseri tormentati dall'angoscia della colpa
e la paura delle sensazioni? Certo esistono professori sufficientemente
entusiasti da appassionare il loro uditorio e far dimenticare per un istante le
condizioni detestabili che degradano il loro mestiere. Ma quanti, e per quanti
anni?
Mettete da una parte i burocrati che terrorizzano la loro classe e ne sono a
loro volta terrorizzati, e dall'altra gli artisti, saltimbanchi e funamboli del
sapere, capaci di conquistare l'attenzione senza doversi mai trasformare in
guarda-ciurme o in caporali.
Non si tratta qui di giudicare, né di entrare nella pratica imbecille del merito
e del demerito, vituperando i primi e lodando i secondi. No, ciò che importa è
far di tutto perché l'insegnamento mantenga sveglia quella curiosità naturale e
così piena di vita che permise a Sheherazade il privilegio di tenere in scacco
la morte di cui la minacciava un tiranno.
L'aberrazione del mondo a rovescio ha pesato per secoli sull'educazione del
fanciullo.
Che tanti sforzi e fatica siano richiesti da parte del maestro e dell'allievo
per ravvivare un'avidità di sapere così freneticamente espressa nella primissima
infanzia dice abbastanza chiaramente che un'evoluzione è stata brutalmente
interrotta. La curiosità è stata veramente soffocata in un periodo in cui essa
partecipava dello sviluppo ludico dell'infanzia, quando era divertente eppure
gettava le basi di una gaia scienza, incompatibile con la visione austera degli
adulti, per i quali la scienza si veste della serietà degli affari e deve
propagarsi tramite verità secche, noiose, astratte.
Ricordatevi delle mille domande che il bambino pone su se stesso e sul mondo che
scopre con uno stupore senza fine. Perché piove? Perché il mare è blu? Perché
mio fratello mi prende i giocattoli? Le risposte ricevute erano nella maggior
parte dei casi solo frasi evasive e sgarbate. Finché stanco di un procedimento
di cui gli veniva fatta sentire la sconvenienza, si lasciava penetrare
dall'impressione di non essere né degno né capace di capire. Come se ogni tappa
dello sviluppo psicologico non avesse il suo modo di comprensione adeguato.
Quando, finalmente disgustato da tante domande giudicate senza interesse, entra
nel ciclo degli studi, gli si danno risposte di cui ha perduto il desiderio. Ciò
che con passione aveva voluto conoscere qualche anno prima, è costretto a
studiare per forza e sbadigliando di noia.
La differenza tra sensazioni di felicità e di infelicità aveva fatto nascere in
lui quella coscienza sperimentale che permetteva di migliorare le prime ed
evitare le altre. Sostenuta da una pedagogia parentale piena di attenzione, di
sollecitudine e di affetto, una tale motivazione psicologica l'avrebbe spinto a
desiderare senza fine, a volerne sapere di più, ad affrontare il mondo con una
curiosità senza limiti. Per la semplice ragione che le conoscenze obbedivano
allora alla più naturale delle pulsioni: rendersi felici.
Se l'insegnamento è ricevuto con reticenza, e perfino con ripugnanza, vuol dire
che il sapere filtrato dai programmi scolastici porta il segno di un'antica
ferita: è stato castrato della sua sensualità originaria.
La conoscenza del mondo senza la coscienza dei desideri di vita è una conoscenza
morta. Essa non ha utilità che al servizio dei meccanismi che trasformano la
società secondo le necessità dell'economia. I lenimenti che essa procura alla
sorte degli uomini, non li cede che a malincuore, e sotto la minaccia di un
rigore futuro che ne cancellerà gli effetti.
Dopo aver strappato lo scolaro alle sue pulsioni di vita, il sistema educativo
si industria per ingozzarlo artificialmente allo scopo di immetterlo sul mercato
del lavoro, dove continuerà a ripetere stentatamente il leitmotiv dei suoi anni
giovanili fino al disgusto: vinca il migliore!
Vincere che cosa? Più intelligenza sensibile, più affetto, più serenità, più
lucidità su se stesso e sul mondo, maggiori mezzi di agire sulla propria
esistenza, più creatività? Niente affatto, più denaro e più potere, in un
universo che ha usato il denaro e il potere a forza di essere usato da loro.
Errore non vuol dire colpa Il sistema educativo non si è accontentato di murare i desideri d'infanzia
nella corazza caratteriale dove i muscoli tetanizzati, il cuore indurito e lo
spirito impregnato dall'angoscia non favoriscono davvero l'esuberanza e la
realizzazione. Non si è limitato a collocare lo scolaro in edifici senza gioia,
destinati a ricordargli, nel caso se ne dimenticasse, che non è lì per
divertirsi. Ha anche sospeso sulla sua testa la spada di Damocle, al contempo
ridicola e minacciosa, di un verdetto.
Ogni giorno l'allievo penetra, che lo voglia o no, in un pretorio dove compare
davanti ai suoi giudici sotto l'accusa di presunta ignoranza. Sta a lui
dimostrare la sua innocenza rigurgitando a richiesta teoremi, regole, date,
definizioni che contribuiranno al suo rilascio alla fine dell'anno scolastico.
L'espressione "mettere in esame", cioè procedere, in materia criminale,
all'interrogatorio di un sospetto e all'esposizione delle accuse, rievoca la
connotazione giudiziaria che rivestono la prova scritta e orale inflitte agli
studenti.
Nessuno intende qui negare l'utilità di controllare l'assimilazione delle
conoscenze, il grado di comprensione, l'abilità sperimentale. Ma è necessario
per questo travestire in giudice e in colpevole un maestro e un allievo che
chiedono soltanto di istruire ed essere istruito? Di quale spirito dispotico e
desueto si investono i pedagoghi per erigersi a tribunale e tranciare nel vivo
col rasoio del merito e del demerito, dell'onore e del disonore, della salvezza
e della dannazione? A quali nevrosi e ossessioni personali obbediscono per osar
segnare con la paura e la minaccia di un giudizio sospensivo il cammino di
fanciulli e adolescenti che hanno soltanto bisogno di attenzione, di pazienza,
di incoraggiamenti e di quell'affetto che conosce il segreto di ottenere molto
esigendo poco?
Non sarà che il sistema educativo persiste a fondarsi su un principio ignobile,
frutto di una società che non concepisce il piacere se non al vaglio di una
relazione sadomasochista tra maestro e schiavo: "Chi più ama più punisce"?
È un effetto della volontà di potenza, non della volontà di vivere, il
pretendere di determinare con un giudizio la sorte altrui.
Giudicare impedisce di comprendere per correggere. Il comportamento di questi
giudici, allontana dall'allievo impegnato nella sua lunga marcia verso
l'autonomia delle qualità indispensabili: l'ostinazione, il senso dello sforzo,
la sensibilità all'erta, l'intelligenza aperta, la memoria sempre in esercizio,
la percezione della vita sotto tutte le sue forme e la presa di coscienza dei
progressi, dei ritardi, delle regressioni, degli errori e della loro correzione.
Aiutare un fanciullo, un adolescente a rinsaldare la maggiore autonomia
possibile implica senza alcun dubbio una lucidità costante sul grado di sviluppo
delle capacità e sull'orientamento che le favorirà. Ma che cosa c'è di comune
tra il controllo al quale l'allievo si sottometterebbe, una volta pronto a
superare una tappa della conoscenza, e la messa in esame davanti ad un tribunale
professorale? Lasciate dunque il senso di colpa agli spiriti religiosi che non
si occupano che di tormentarsi tormentando gli altri.
Le religioni hanno bisogno della miseria per perpetuarsi, esse la mantengono per
dare maggior risalto ai loro atti di carità. Ebbene, il sistema educativo agisce
forse diversamente quando presuppone nell'allievo una debolezza costitutiva,
sempre esposta al peccato di pigrizia e di ignoranza, da cui può assolverlo solo
la missione per così dire sacra del professore? È ora di finirla con queste
frottole del passato!
Ognuno possiede la sua propria creatività. E non tollera più che venga soffocata
trattando come un crimine passibile di punizione il rischio di sbagliarsi. Non
ci sono colpe, ci sono solo errori, e gli errori si correggono.
Solo coloro che posseggono la chiave dei campi e la chiave
dei sogni apriranno la scuola su una società aperta La prospettiva di una redditività a tutti i costi è la cortina di ferro di
un mondo chiuso dall'economia. La prospettiva di vita si apre su un mondo dove
tutto è da esplorare e da creare. L'istituzione scolastica, invece, appartiene
al mondo degli affari che la vorrebbe gestire cinicamente, senza l'ingombro del
vecchio formalismo umanitario. Resta da sapere se allievi e professori si
lasceranno ridurre alla funzione di meccanismi lucrativi, o se, non aspettandosi
niente di buono dalla gestione, alla quale li si invita, di un universo in
rovina, scommetteranno sull'ipotesi di imparare a vivere anziché a
economizzarsi. Tutto si gioca su un cambiamento di mentalità, di visione, di
prospettiva.
Infilzare una farfalla su uno spillo non è la miglior maniera di fare la sua
conoscenza. Chi trasforma ciò che è vivo in cosa morta, qualunque ne sia il
pretesto, dimostra soltanto che il suo sapere non gli è neppure servito a
diventare umano.
Esiste, in compenso, un approccio che svela l'irraggiamento della vita in seno a
un cristallo, in una poesia, un'equazione, una formula chimica, una pianta, un
manufatto. Questo approccio stabilisce tra osservatore e osservato un rapporto
di osmosi in cui tutto è distinto senza che niente sia separato.
La coscienza di una presenza viva nel soggetto e nell'oggetto non è di natura
tale da manifestare quanto vi è di maestro nell'allievo e di allievo nel
maestro? Dove manca l'intelligenza della vita ci sono soltanto rapporti tra
bruti. Ciò che non si sprigiona da quanto vi è in noi di più vivo per farvi
ritorno devia verso la morte, per la gloria più grande degli eserciti e delle
tecnologie di profitto. È il motivo per cui la maggior parte delle scuole sono
dei campi di battaglia, dove il disprezzo, l'odio e la violenza devastatrice
definiscono il fallimento di un sistema educativo che obbliga l'insegnante al
dispotismo e l'insegnato al servilismo.
Questa rassegnazione nella clausura spacciata per studio in cui l'allievo è
invitato a sacrificarsi e a sbattere sulla sua felicità la porta della rinuncia!
E come istruirà i fanciulli che ha davanti a sé l'educatore che non è nemmeno
più capace di ritornare bambino rinascendo ogni giorno a se stesso? Colui che
porta nel suo cuore il cadavere della propria infanzia non educherà mai
nient'altro che delle anime morte.
Impartire la conoscenza è risvegliare la speranza di un mondo meraviglioso che
la gioventù ha nutrito e di cui l'uomo non cessa di nutrirsi. Bisogna ancora,
allo stesso tempo, spezzare la maledizione dei pregiudizi e non curarsi di quei
contabili del potere e del profitto che hanno escluso così bene dalla loro
realtà il meraviglioso che l'impazienza infantile relega nel regno delle fate e
l'impotenza dei vecchi nella palude dell'utopia.
Il corpo umano, il comportamento animale, il fiore, la speculazione filosofica,
la coltura del grano, l'acqua, la pietra, il fuoco, l'elettricità, la
lavorazione del legno, l'equitazione, la fisica quantica, l'astronomia, la
musica, un improvviso momento privilegiato nella vita quotidiana, tutto nasce
dal meraviglioso, non per mistica contemplativa, ma perché la scelta di una
preminenza di ciò che è vivo cessa di piegarsi agli imperativi tradizionali
dello sfruttamento lucrativo.
Quando la foresta è il polmone della terra e non il prezzo di un certo numero di
are o uno spazio da devastare per interesse immobiliare, allora si manifesta il
senso umano di una natura che offre le sue risorse energetiche a chi l'affronta
senza violentarla.
L'apprendimento della vita è una passeggiata nell'universo del dono. Un andar
per funghi per così dire, dove la guida insegna a distinguere i funghi
commestibili dagli altri, inadatti al consumo, se non mortali, ma dai quali un
trattamento appropriato può trarre virtù curative.
Invece di una trincea dove langue tristemente una manodopera di riserva, perché
non fate della scuola un parco di attrazioni del sapere, un luogo aperto in cui
i creatori verrebbero a parlare del loro mestiere, della loro passione, della
loro esperienza, di ciò che gli sta a cuore?
Un liutaio, un ortolano, un ebanista, un pittore, un biologo hanno certamente da
insegnare più o meglio di quegli uomini d'affari che vengono a sostenere
l'adattamento alle leggi aleatorie del mercato.
Che l'apertura sul mondo culturale sia anche l'apertura sulla diversità delle
età! Perché riservare ai giovani il diritto all'istruzione, escludendo gli
adulti interessati ad iniziarsi alla letteratura o alla matematica? Non avremmo
tutti da guadagnare da un contatto che rompesse l'opposizione fittizia tra le
classi di età?
Ma non esiste né ricetta né panacea. Appartiene solo alla volontà di vivere di
ciascuno di aprire ciò che è stato chiuso dalla violenza del totalitarismo
economico. In questo l'immaginazione dimostrerà la sua potenza.
Non passa anno che dozzine di maestri e professori inventivi non suggeriscano
metodi di insegnamento fondati su un nuovo accordo degli esseri e delle cose.
Voi che vi lamentate del numero di burocrati che usurpano il nome di insegnante,
e che gettano sul pianeta il freddo sguardo delle cifre a forza di limitare il
loro interesse alla busta paga, quando mai avete rivendicato che fossero portate
più avanti le idee di Freinet e di qualche altro dal sapere generoso? Quando mai
avete opposto ai distillatori di noia che vi governano dei progetti di
educazione ludica e vivente? Avete mai cercato di sostituire al rapporto
gerarchico tra maestro e allievo un rapporto fondato non più sull'obbedienza, ma
sull'esercizio della creatività individuale e collettiva?
Quando degli uomini politici di una costernante mediocrità vi invitano a
sottoporre loro le vostre rivendicazioni, non hanno forse la soddisfazione di
scoprirvi miserabili quanto loro, se non finanziariamente, almeno per
intelligenza e immaginazione? Non abbiate dubbio che al prezzo scontato a cui vi
svendete, vi concedano senza indugiare il diritto di deriderli in grandi
manifestazioni catartiche.
La peggior rassegnazione è quella che veste gli abiti della rivolta. Nutrite per
voi stessi così poca stima da non prendere il tempo di riconoscere i vostri
desideri di vita, da non sapere quale esistenza volete condurre? Non concepite
dunque altra scelta che l'alternativa che vi è ufficialmente proposta tra la
povertà del ricco e la miseria del povero?
Il desolante avvenire di una vita passata a racimolare il denaro del mese deve
sembrarvi luminoso solo perché l'ombra della disoccupazione cresce ovunque regni
il sole mediatico del pieno impiego? Nulla uccide con più sicurezza che
accontentarsi di sopravvivere.
Capitolo III
Smilitarizzare l'insegnamento
Lo spirito da caserma ha regnato sovrano nelle scuole. Vi si marciava al passo,
ubbidendo agli ordini dei sorveglianti ai quali non mancavano che l'uniforme e i
galloni. La configurazione dell'edificio obbediva alla legge dell'angolo retto e
della struttura rettilinea. Così l'architettura si impegnava a sorvegliare le
trasgressioni con la rettitudine di un'austerità spartana.
Fin negli anni sessanta, l'istituzione educativa rimase impastata delle virtù
guerriere che prescrivevano di andare a morire alle frontiere piuttosto che
dedicarsi ai piaceri dell'amore e della felicità. Una tale ingiunzione cadrebbe
oggi nel ridicolo ma, a dispetto della mutazione cominciata nel maggio '68 e del
discredito nel quale è caduto l'esercito di un'Europa senza conflitti (ad
eccezione di qualche guerra locale in cui disdegna di intervenire), sarebbe
eccessivo pretendere che sia caduta in desuetudine la tradizione
dell'ingiunzione vociferata, dell'insulto abbaiato, dell'ordine senza replica e
dell'insubordinazione che ne è la risposta appropriata.
L'autorità quasi assoluta di cui è investito il maestro serve piuttosto
all'espressione di comportamenti nevrotici che alla diffusione di un sapere. La
legge del più forte non ha mai fatto dell'intelligenza altro che una delle armi
della stupidità. Molti arricciano il naso, sicuramente, per il fatto di non
avere che il diritto di tacere. Ma finché una comunità di interessi non situerà
al centro del sapere le inclinazioni, i dubbi, i tormenti, i problemi che
ciascuno risente giorno dopo giorno - cioè quel che forma la parte più
importante della sua vita -, non vi sarà che l'obitorio e il disprezzo per
trasmettere dei messaggi il cui senso non ci riguarda veramente in quanto esseri
di desiderio.
Ciò che si insegna attraverso la paura rende il sapere
timoroso
L'autorità legalmente accordata all'insegnante dà un gusto così amaro alla
conoscenza che l'ignoranza arriva a drappeggiarsi degli allori della rivolta.
Chi dispensa il suo sapere per piacere non sa che farsene di imporlo, ma l'irreggimentazione
educativa è tale che bisogna istruire per dovere, non per piacere.
Provate un po' a sostenere una mutua comprensione tra un professore che entra
nella classe come in una gabbia di fiere e degli studenti abituati a schivare la
frusta e pronti a divorare il domatore! Mentre, in Europa occidentale, l'autocratismo
è ovunque attaccato, la scuola resta dominata dalla tirannia. Si fa a chi abbaia
più forte in un'arena in cui le frustrazioni si sbranano.
Niente è più ignobile della paura, che abbassa l'uomo alla bestia braccata, ed
io non concepisco che la si possa tollerare né da parte dell'allievo né da
quella del professore. Nulla progredisce attraverso il terrore se non il terrore
stesso. Quand'anche le direttive pedagogiche si sfiancassero a privilegiare il
principio che mi sembra la condizione di un vero apprendimento della vita:
togliere la paura e dare la sicurezza, bisognerebbe, per applicarlo, fare della
scuola un luogo in cui non regnano né autorità né sottomissione, né forti né
deboli, né primi né ultimi. Finché non formerete una comunità di allievi e di
insegnanti appassionati a perfezionare ciò che ciascuno ha di creativo in sé,
avrete un bell'indignarvi della barbarie sotto ogni forma, del fanatismo
religioso, del settarismo politico, dell'ipocrisia e della corruzione dei
governanti, non scaccerete né gli integralismi, né le mafie della droga e degli
affari, perché vi è nell'organizzazione gerarchizzata dell'insegnamento un
fermento sornione che predispone al loro dominio.
Ora che le ideologie di sinistra e di destra si sciolgono al sole della loro
comune menzogna, l'unico criterio di intelligenza e di azione risiede nella vita
quotidiana di ciascuno e nella scelta alla quale ogni istante lo confronta, tra
ciò che afferma la propria vita e ciò che la distrugge. Se tante idee generose
sono diventate il loro contrario, è perché il comportamento che militava in loro
favore ne era la negazione. Un progetto di autonomia e di emancipazione non può
fondarsi, senza vacillare, sulla volontà di potenza che continua ad imprimere
nei gesti il segno del disprezzo, della servitù, della morte.
Non intravvedo altro modo di finirla con la paura e la menzogna che ne consegue
se non in una volontà ravvivata incessantemente di godere di sé e del mondo.
Imparare a sgarbugliare ciò che ci rende più vivi da ciò che ci uccide è la
prima delle lucidità, quella che dà il suo senso alla conoscenza.
Le tecniche più elaborate mettono a nostra disposizione una notevole quantità di
informazioni. Tali progressi non sono da sottovalutare ma resteranno lettera
morta se un rapporto privilegiato tra educatori e piccoli gruppi di scolari non
innesterà la rete delle conoscenze astratte sul solo "terminale" che ci
interessa: quello che ciascuno vuole fare della sua vita e del suo destino.
Liberare dalla costrizione il desiderio di sapere
Lo sfruttamento violento della natura ha sostituito la costrizione al desiderio;
esso ha propagato ovunque la maledizione del lavoro manuale e intellettuale, e
ridotto ad un'attività marginale la vera ricchezza dell'uomo: la capacità di
ricrearsi ricreando il mondo.
Producendo un'economia che li economizza fino a farne l'ombra di se stessi, gli
uomini non hanno fatto altro che ostacolare la loro evoluzione. È per questo che
l'umanità resta da inventare.
La scuola porta il marchio visibile di una frattura nel progetto umano. Vi si
percepisce sempre di più come e in quale momento la creatività del bambino vi è
fatta a pezzi sotto il martellamento del lavoro. La vecchia litania familiare:
"Prima lavora, ti divertirai in seguito" ha sempre espresso l'assurdità di una
società che ingiungeva di rinunciare a vivere per meglio consacrarsi a una
fatica che distruggeva la vita e non lasciava ai piaceri che i colori della
morte.
Ci vuole tutta la stupidità dei pedagoghi specializzati per stupirsi che tanti
sforzi e fatiche inflitti agli scolari portino a risultati così mediocri. Che
cosa aspettarsi quando il cuore è assente? Charles Fourier, nel corso di
un'insurrezione, osservando con quale cura e quale ardore gli agitatori
disselciavano i sanpietrini di una strada e alzavano una barricata in qualche
ora, notava che per la stessa opera ci sarebbero voluti tre giorni di lavoro ad
una squadra di sterratori agli ordini di un padrone. I salariati non avrebbero
trovato altro interesse nella faccenda che la paga, mentre la passione della
libertà animava gli insorti. Solo il piacere di essere sé e di appartenersi
darebbe al sapere quell'attrazione passionale che giustifica lo sforzo senza
ricorrere alla costrizione.
Perché diventare ciò che si è esige la più intransigente delle risoluzioni. Ci
vuole costanza e ostinazione. Se non vogliamo rassegnarci a consumare delle
conoscenze che ci ridurranno al miserabile stato di consumatori, non possiamo
ignorare che, per uscire dall'imbroglio in cui si è impantanata la società del
passato, dovremo prendere l'iniziativa di una spinta nel senso opposto. Ma come?
Vi si vede pronti a battervi e a schiacciare gli altri per ottenere un impiego
ed esitereste ad investire le vostre energie in una vita che sarà tutto
l'impiego che farete di voi stessi?
Noi non vogliamo essere i migliori, noi vogliamo che il meglio della vita ci
appartenga, secondo quel principio di inaccessibile perfezione che abolisce
l'insoddisfazione in nome dell'insaziabilità.
Capitolo IV
Fare della scuola un centro di creazione di vita, non
l'anticamera di una società parassitaria e mercantile
Nel dicembre 1991 la Commissione europea ha pubblicato un memorandum
sull'insegnamento superiore. Vi si raccomandava alle università di comportarsi
come imprese sottoposte alle regole concorrenziali del mercato. Lo stesso
documento auspicava che gli studenti fossero trattati come dei clienti, incitati
non ad apprendere ma a consumare.
I corsi diventavano così dei prodotti, i termini "studenti", "studi", lasciavano
il posto ad espressioni più appropriate al nuovo orientamento: "capitale umano",
"mercato del lavoro".
Nel settembre 1993 la stessa Commissione recidiva con un Libro verde sulla
dimensione europea dell'educazione. Vi si precisa che, sin dalla scuola
materna, bisogna formare delle "risorse umane per i bisogni esclusivi
dell'industria" e favorire "una maggiore adattabilità di comportamento in
maniera da rispondere alla domanda del mercato della manodopera".
Ecco come lo zoom insudiciato del presente proietta come futuro radioso la forza
esaurita del passato!
Una volta eliminato quel che sussisteva di mediocremente redditizio nella scuola
di ieri - il latino, il greco, Shakespeare e compagnia -, gli studenti avranno
finalmente il privilegio di accedere ai gesti che salvano: equilibrare la
bilancia dei mercati producendo dell'inutile e consumando della merda.
L'operazione è sulla buona strada perché per quanto si dicano diversi, i governi
aderiscono all'unanimità al principio: "L'impresa deve essere impostata sulla
formazione e la formazione sui bisogni dell'impresa."
Delle nuove leve per gestire il fallimento
Non è inutile precisare, per aiutare alla comprensione della nostra epoca,
attraverso quale processo lo sviluppo del capitalismo sia sfociato in una crisi
planetaria che è la crisi dell'economia nel suo funzionamento totalitario.
Ciò che ha dominato, dall'inizio del XIX secolo, l'insieme dei comportamenti
individuali e collettivi, è stata la necessità di produrre. Organizzare la
produzione tramite il lavoro intellettuale e il lavoro manuale esigeva un metodo
direttivo, una mentalità autoritaria, se non dispotica. Erano i tempi della
conquista militare dei mercati. I paesi industrializzati depredavano senza
scrupoli le risorse delle nuove colonie.
Quando il proletariato iniziò a coordinare le sue rivendicazioni, subì, a
dispetto della sua spontaneità libertaria, l'influenza autocratica che la
preminenza del settore produttivo esercitava sui costumi. Sindacati e partiti
operai si danno una struttura burocratica che avrebbe finito per ostacolare le
masse laboriose con il pretesto di emanciparle.
Il potere rosso si stabilisce tanto più facilmente perché riesce a strappare
alla classe sfruttatrice porzioni dei benefici, tradotte in aumenti salariali,
miglioramenti del tempo lavorativo (la giornata di otto ore, le ferie pagate),
vantaggi sociali (sussidio di disoccupazione, mutua).
Gli anni '20 e '30 spingono al suo stadio supremo la centralizzazione della
produzione. Il passaggio dal capitalismo privato al capitalismo di Stato avviene
brutalmente in Italia, in Germania, in Russia, dove la dittatura di un partito
unico - fascista, nazista, stalinista - impone la statalizzazione dei mezzi di
produzione.
Nei paesi in cui la tradizione liberale ha salvaguardato una democrazia formale,
la concentrazione monopolistica che attribuisce allo Stato una vocazione
padronale si compie in modo più lento, sornione, meno violento.
È negli Stati Uniti che si manifesta per la prima volta un nuovo orientamento
economico, votato ad uno sviluppo che trasformerà sensibilmente le mentalità e i
costumi: l'incitamento al consumo infatti diventa più forte della necessità di
produrre.
A partire dal 1945 il piano Marshall, destinato ufficialmente ad aiutare
l'Europa devastata dalla guerra, apre la via alla società dei consumi,
identificata ad una società del benessere.
L'obbligo di produrre a qualunque prezzo cede il posto ad un'impresa addobbata
con gli ornamenti della seduzione, sotto la quale si nasconde nei fatti un nuovo
imperativo prioritario: consumare. Consumare qualunque cosa, ma consumare.
Si assiste allora ad un'evoluzione sorprendente: un edonismo da supermercato e
una democrazia da self-service, propagando l'illusione dei piaceri e della
libera scelta riescono a minare - in modo più sicuro di quanto lo avrebbero
sperato gli anarchici del passato - i sacrosanti valori patriarcali, autoritari,
militari e religiosi che un'economia dominata dagli imperativi della produzione
aveva privilegiato.
Si misura meglio oggi quanto la colonizzazione delle masse lavoratrici,
attraverso l'incitamento pressante a consumare una felicità secondo i propri
gusti, abbia rallentato la stretta dell'economia sulle colonie d'oltremare e
abbia favorito il successo delle lotte di decolonizzazione.
Se la libertà degli scambi e la loro indispensabile espansione hanno contribuito
alla fine della maggior parte dei regimi dittatoriali e al crollo della
cittadella comunista, hanno svelato assai rapidamente i limiti del benessere
consumabile.
Frustrati da una felicità che non coincideva propriamente con l'inflazione di
gadgets inutili e di prodotti adulterati, a partire dal 1968, i consumatori
hanno preso coscienza della nuova alienazione di cui erano fatti oggetto.
Lavorare per un salario che si investe nell'acquisto di merci di un valore d'uso
aleatorio, suggerisce meno lo stato di beatitudine che l'impressione spiacevole
di essere manipolati secondo le esigenze del mercato. Coloro che subivano
l'officina e l'ufficio durante la giornata ne uscivano solo per entrare nelle
fabbriche meno coercitive ma più menzognere del consumabile.
I falsi bisogni prevalendo su quelli veri, questo "gadget qualunque" che
bisognava comprare ha finito per generare a sua volta una produzione sempre più
aberrante di servizi parassitari, orditi intorno al cittadino con il compito di
rassicurarlo, inquadrarlo, consigliarlo, sostenerlo, guidarlo, in breve di
inglobarlo in una sollecitudine che lo assimila a poco a poco a un handicappato.
Si sono visti così i settori prioritari sacrificati a vantaggio del settore
terziario, che vende la propria complessità burocratica sotto forma di aiuti e
protezioni. L'agricoltura di qualità è stata schiacciata dalle lobbies dell'agroalimentare
che producono in eccesso surrogati di cereali, carni e verdure. L'arte di
abitare è stata sepolta sotto il grigiore, la noia e la criminalità del cemento
che assicura le entrate dei gruppi di affari.
Per quanto riguarda la scuola, essa è chiamata a servire da riserva per gli
studenti d'élite ai quali è promessa una bella carriera nell'inutilità lucrativa
e nelle mafie finanziarie. Il circolo è chiuso: studiare per trovare un impiego,
per quanto aberrante sia, si è riallacciato con l'ingiunzione di consumare nel
solo interesse di una macchina economica che si blocca da tutte le parti in
Occidente - anche se gli specialisti ci annunciano ogni anno la sua trionfale
ripresa.
Ci impantaniamo nelle paludi di una burocrazia parassitaria e mafiosa in cui il
denaro si accumula e circola in circuito chiuso anziché investirsi nella
fabbricazione di prodotti di qualità, utili al miglioramento della vita e del
suo ambiente. Il denaro è ciò che manca di meno, contrariamente a quello che vi
rispondono i vostri deputati, ma l'insegnamento non è un settore redditizio.
Esiste tuttavia un'alternativa all'economia di deperimento e al suo impossibile
rilancio. Allontanandosi dal fossato che si scava sempre di più tra gli
interessi della merce e l'interesse di ciò che vive, l'alternativa propone di
riconvertire al servizio dell'umano una tecnologia che l'imperialismo lucrativo
ha disumanizzato, fino a farne - nel caso della fissione nucleare e della
sperimentazione genetica - delle temibili nocività. Essa esige di accordare la
priorità alla qualità della vita e a quelle attività di base che l'assurdità del
capitalismo arcaico condanna precisamente a cadere a pezzi sotto i colpi di
continue restrizioni di bilancio: l'abitazione, l'alimentazione, i trasporti,
l'abbigliamento, la salute, l'educazione e la cultura.
Una mutazione si mette in moto sotto i nostri occhi. Il neocapitalismo si
prepara a ricostruire con profitto ciò che il vecchio ha rovinato. A dispetto
delle resistenze del passato, le energie naturali finiranno per sostituirsi ai
mezzi di produzione inquinanti e devastanti.
Come la rivoluzione industriale ha suscitato, dall'inizio del XIX secolo, un
numero considerevole di inventori e di innovazioni - elettricità, gas, macchina
a vapore, telecomunicazioni, trasporti rapidi -, così la nostra epoca esprime
una domanda di nuove creazioni che prenderanno il posto di ciò che oggi serve la
vita solo minacciandola: il petrolio, il nucleare, l'industria farmaceutica, la
chimica inquinante, la biologia sperimentale... e la pletora di servizi
parassitari dove prolifera la burocrazia.
La fine del lavoro forzato inaugura l'era della creatività Il lavoro è una creazione abortita. Il genio creatore dell'uomo si è trovato
preso in trappola in un sistema che l'ha condannato a produrre potere e
profitto, non lasciando altro sfogo al suo rigoglio che l'arte e il sogno.
Ora, questo lavoro di sfruttamento della natura, così spesso esaltato come la
potenza prometeica che trasforma il mondo, ci consegna oggi il suo bilancio
definitivo: una sopravvivenza confortevole le cui risorse ed il cui cuore si
consumano nel circolo vizioso del profitto.
Come potrebbe un lavoro così inutile e così nocivo alla vita non esaurirsi a sua
volta? Ieri procurava l'automobile e la televisione, al prezzo dell'aria
inquinata e dei palliativi di una vita assente. Oggi resta solo un salvagente
aleatorio di una società paralizzata dall'inflazione burocratica, dove niente è
più garantito, né il salario, né la casa, né i prodotti naturali, né le risorse
energetiche, né le conquiste sociali.
In un'atmosfera resa oppressiva dalla rarefazione degli affari, la diminuzione
del lavoro è evidentemente sentita come una maledizione. La disoccupazione è un
lavoro svuotato. Una stessa rassegnazione vi fa attendere un'elemosina come il
lavoratore attende il suo salario dedicandosi ad un'occupazione che lo annoia
(anche se ormai giudica imprudente confessarlo).
Mentre tutto va alla malora sul filo di una disperazione ispirata
dall'autodistruzione planetaria economicamente programmata, un mondo è là,
lasciato all'abbandono, un mondo che bisogna restaurare, spogliare delle sue
nocività e ricostruire per il nostro benessere, come se, spezzandosi, lo
specchio delle illusioni consumistiche avesse messo la felicità alla nostra
portata, dopo averne mostrato il falso riflesso.
Diminuire il tempo di lavoro per meglio distribuirlo? Sia pure. Ma in quale
prospettiva e con quale coscienza? Se l'obbiettivo dell'operazione è, per i più,
aumentare la produzione di beni e di servizi utili al mercato e non alla vita,
in cambio di un salario che ne pagherà il consumo crescente, allora il vecchio
capitalismo non avrà fatto altro che recuperare a suo profitto ciò che finge di
abbandonare al profitto di tutti.
Al contrario, se la stessa pratica ubbidisce alle sollecitazioni di un
neocapitalismo che cerca nell'investimento ecologico un'arma contro
l'immobilismo di un padronato senza immaginazione, mancherà soltanto una presa
di coscienza perché il salario garantito e il tempo di lavoro ridotto aprano a
ciascuno il campo di una libera creazione e la libertà di ritrovarsi ed essere
infine se stessi.
Perché, a dispetto dell'occultazione che intrattengono intorno ad essa le
burocrazie della corruzione e le mafie affariste, esiste una domanda
economico-sociale che va controcorrente rispetto alle grida di soccorso del
disastro ordinario. Essa reclama un ambiente che migliori la qualità della vita,
una produzione senza oppressione né inquinamento, dei rapporti autenticamente
umani, la fine della dittatura che la redditività esercita sulla vita. Sta a voi
- e alla nuova scuola che inventerete - impedire che la creatività,
obiettivamente stimolata dalla promessa di impieghi di utilità pubblica, si
intrappoli nell'alienazione economica, tagliandosi fuori dalla creazione di sé.
Se vi dimenticate di ciò che siete e in quale vita volete essere, non sperate in
un altro destino che quello di una merce buona da buttare appena superata la
cassa.
Privilegiare la qualità A forza di obbedire al criterio della quantità, la corsa al profitto scade
nell'assurdità della sovrapproduzione. Produrre molto aumentava ieri il
plusvalore dei padroni, che non esitavano a distruggere le eccedenze di caffè,
di carne, di grano per impedire un abbassamento dei pressi sul mercato.
Lo sviluppo del consumo, toccando un più vasto settore della popolazione, ha
permesso di assorbire in una certa misura una crescente quantità di merci
concepite piuttosto a scopo di guadagno che per il loro uso pratico. La qualità
di un prodotto è stata considerata con tanta più disinvoltura in quanto non era
questa a determinare il livello delle vendite, ma la menzogna pubblicitaria di
cui era rivestita per sedurre il cliente. Ma a forza di lavare sempre più bianco
anche la menzogna finisce per logorarsi. Offesa dall'eccesso di disprezzo, la
clientela ha finito per recalcitrare. Si è mostrata critica, ha rifiutato di
ingoiare ciecamente quello che il cucchiaino dello slogan gli infilava ad ogni
momento negli occhi, in bocca, nelle orecchie, in testa.
Molti hanno dunque deciso di non lasciarsi più consumare da un'economia che se
ne infischia della loro salute e della loro intelligenza. Esigendo la qualità di
ciò che viene loro proposto, scoprono o riscoprono la loro qualità di esseri, la
loro specificità di individui lucidi, che era stata occultata da quella
riduzione allo stato gregario provocata e intrattenuta dalla propaganda
consumistica.
Ma, mentre gli organismi di difesa dei consumatori organizzano il boicottaggio
dei prodotti snaturati da un'agricoltura che inonda il mercato di cereali
forzati, di ortaggi concimati, di carni provenienti da animali martirizzati in
allevamenti-lager, sembra che nelle scuole ci si rassegni a vedere la cultura
avviarsi sulla stessa strada della peggiore agricoltura.
Se gli uomini politici nutrissero nei riguardi dell'educazione le buone
intenzioni che proclamano a ogni pie' sospinto, non dovrebbero mettere in opera
tutto per garantire la qualità? Tarderebbero forse a decretare le due misure che
determinano la condizione sine qua non di un apprendimento umano:
aumentare il numero di insegnanti e diminuire il numero di allievi per classe,
in modo che ciascuno sia trattato secondo la sua specificità e non
nell'anonimato di una folla?
Ma, apparentemente, l'interesse ha per loro una connotazione più economica che
semplicemente umana. Se i governi privilegiano l'allevamento intensivo di
studenti consumabili sul mercato, allora i principi di una sana gestione
prescrivono di stivare nello spazio scolastico più piccolo la quantità minima di
teste, modellabili dal minimo personale possibile. La logica è perfetta e
nessuna società protettrice degli animali insorgerà contro il consumo forzato di
conoscenze sottoposte alla legge della domanda e dell'offerta, né contro gli usi
da mercanti di cavalli che regnano sulla fiera del lavoro.
Rassegnatevi dunque al partito preso della stupidità che implica lo stato
gregario, perché per educare una classe di trenta allievi non vedo che la sferza
o l'astuzia.
Ma non invocate l'impossibilità materiale di promuovere un insegnamento
personalizzato. Gli sviluppi delle tecniche audiovisive non potrebbero
permettere ad un grande numero di studenti di ricevere individualmente ciò che
un tempo apparteneva al maestro di ripetere fino a memorizzazione (ortografia,
grammatica elementare, vocabolario, formule chimiche, teoremi, solfeggio,
declinazioni...)? Oppure di verificare come in un gioco il grado di
assimilazione e di comprensione?
Così liberato di un'occupazione ingrata e meccanica, l'educatore non avrebbe più
che da dedicarsi all'essenziale del suo compito: assicurare la qualità delle
informazioni globalmente ricevute, aiutare alla formazione di individui
autonomi, dare il meglio del suo sapere e della sua esperienza aiutando ciascuno
a leggersi e a leggere il mondo.
Informazione al massimo numero di soggetti possibili, formazione per piccoli
gruppi. Al centro di una vasta rete di irrigazione che dreni verso ogni allievo
la molteplicità delle conoscenze, l'educatore avrà finalmente la libertà di
diventare ciò che ha sempre sognato di essere: il rivelatore di una creatività
di cui non vi è nessuno che non possieda la chiave, per quanto nascosta essa sia
sotto il peso delle passate costrizioni.
Capitolo V
Imparare l'autonomia, non la dipendenza
La scuola ha promulgato per secoli il sequestro del fanciullo da parte della
famiglia autoritaria e patriarcale. Ora che si abbozza tra i genitori e la loro
progenie una comprensione reciproca fatta di affetto e di autonomia progressiva,
sarebbe un peccato che la scuola cessasse di ispirarsi alla comunità familiare.
Paradossalmente il sistema educativo, che accoglie con i giovani ciò che cambia
di più, è anche quello che meno è cambiato.
La famiglia tradizionale preferiva fabbricare dei bambini in serie piuttosto che
offrire la vita a due o tre piccoli esseri ai quali avrebbe dedicato senza
riserve amore e attenzione. Quelli che non morivano in tenera età serbavano nel
cuore il più delle volte una ferita segreta. La tirannia, il senso di colpa, il
ricatto affettivo generarono in tal modo generazioni di spacconi che
nascondevano sotto la durezza del carattere un infantilismo che imponeva loro di
cercare un sostituto del padre e della madre in quelle famiglie a prestito che
erano le chiese, i partiti, le sette, il gregarismo nazionale e i corpi di
armata di ogni genere. La storia non ha conosciuto, per la sua disumanità, che
dei bravacci in carenza di affetto. Ci voleva un bel po' di cinismo per evocare
la "selezione naturale", tipica della specie animale, quando la produzione di
carne da cannone e da fabbrica implicava la sua correzione statistica, e
l'economia familiare di procreazione comportava un vizio di forma in cui la
morte svolgeva la sua parte.
L'evoluzione dei costumi ci fa guardare oggi come ad una mostruosità questa
proliferazione bestiale di vite irrimediabilmente condannate a venir riassorbite
sotto i colpi di machete della guerra, del massacro, della carestia, della
malattia. Eppure: stigmatizzare la sovrappopolazione dei paesi dove
l'oscurantismo religioso si nutre della miseria che consciamente mantiene, e
accettare che in Europa uno stesso spirito arcaico e sprezzante continui a
trattare gli studenti come bestiame denota un'evidente incoerenza.
Perché il sovraffollamento delle classi non è solo causa di comportamenti
barbari, di vandalismo, di delinquenza, di noia, di disperazione, perpetua per
di più l'ignobile criterio della competitività, la lotta concorrenziale che
elimina chiunque non si conformi alle esigenze del mercato. Il bruto arrivista
ha la meglio sull'essere sensibile e generoso, ecco ciò che i disonesti al
potere chiamano anch'essi, come i brillanti pensatori di un tempo, una selezione
naturale.
Non ci sono bambini stupidi, ci sono solo educazioni imbecilli. Forzare lo
scolaro a issarsi fino in cima al cesto contribuisce al progresso laborioso
della rabbia e della furbizia animali, non certo allo sviluppo di
un'intelligenza creatrice e umana.
Ricordate che nessuno è paragonabile né riducibile a nessun altro, a niente
altro. Ciascuno possiede le sue proprie qualità, non gli resta che affinarle per
il piacere di sentirsi in accordo con ciò che vive. Che si cessi dunque di
escludere dal campo educativo il fanciullo che si interessa più ai sogni e ai
criceti che alla storia dell'Impero romano. Per chi rifiuta di lasciarsi
programmare dai calcolatori della vendita promozionale, tutte le strade portano
verso di sé e verso la creazione.
Ieri ci si doveva identificare al padre, eroe o cretino dai così dolci sarcasmi.
Ora che i padri si accorgono che la loro indipendenza progredisce con
l'indipendenza del bambino, ora che sentono abbastanza l'amore di sé e degli
altri per aiutare l'adolescente a disfarsi della loro immagine, chi sopporterà
che la scuola proponga ancora come modelli di realizzazione il finanziere
efficace e corrotto, l'uomo politico energico e rimbecillito, il mafioso che
regna con il clientelismo e la corruzione, mentre l'uomo d'affari trae i suoi
ultimi profitti dal saccheggio del pianeta?
Ricercare la propria identità in una religione, un'ideologia, una nazionalità,
una razza, una cultura, una tradizione, un mito, un'immagine vuol dire
condannarsi a non raggiungersi mai. Identificarsi a ciò che si possiede in sé di
più vivo, questo solo emancipa.
L'alleanza con il bambino è un'alleanza con la natura
La violenza esercitata contro il bambino da parte della famiglia patriarcale
partecipava dello stupro della natura operato dal lavoro della merce. Che la
coscienza di un saccheggio planetario sia passata dalla difesa dell'ambiente ad
una volontà di approccio non violento alle risorse naturali ha contribuito non
poco a spezzare il giogo che lo sfruttamento economico faceva pesare sull'uomo,
la donna, il bambino, la fauna e la flora.
Il sentire che noi deriviamo da una matrice comune, la terra, il cui ricordo si
ravviva al momento della gestazione nel ventre materno, ha tanto meglio nutrito
la nostalgia di un'età dell'oro e di un'armonia originale quanto più il lavoro
forzato ci separava dalla natura e da noi stessi con uno strappo a lungo
percepito come un tormento esistenziale, una sofferenza dell'essere.
Il fallimento di un'economia di saccheggio e di inquinamento e l'emergere di un
progetto di ricreazione simbiotica dell'uomo e del suo ambiente naturale ci
sbarazzano ormai di un paradiso perduto il cui fantasma ha ossessionato la
storia impotente a costruirsi umanamente: il mito del buon selvaggio, del
comunismo primitivo, del millenarismo apocalittico che, dopo aver fatto i bei
giorni del nazismo, rinasce sotto il nome di integralismo.
Almeno avremo imparato che la vita non è una regressione allo stadio
protoplasmatico ma un processo di affinamento e di organizzazione dei desideri.
Nella lotta contro il cancro, è prevalsa a lungo l'idea che si dovessero
distruggere le cellule che un'improvvisa e frenetica proliferazione condannava
al deperimento. Si ritiene oggi preferibile rafforzare il potenziale di vita
delle cellule periferiche sane e favorire la riconquista di ciò che è vivo
piuttosto che annientare quelle di cui la morte si è impadronita. Mi piacerebbe
molto che un simile atteggiamento determinasse sovranamente il nostro rapporto
con noi stessi, coi nostri simili e con il mondo.
Al contrario di tante generazioni abbrutite che fecero della sensibilità una
debolezza, da cui molti si premunivano diventando sanguinari, noi sappiamo ormai
che l'amore di ciò che vive risveglia un'intelligenza senza pari misura con lo
spirito contorto che regna sugli universi totalitari.
Un'etica del rispetto degli esseri, altamente stimabile, prescrive di non
uccidere un animale, di non abbattere un albero senza aver tentato di tutto per
evitarlo. Ciò nondimeno, quel che una tale raccomandazione comporta di artificio
e di costrizione, non eliminerà mai la convinzione come la coscienza che il
danno che si fa a ciò che è vivo lo si fa a se stessi, se non si fa attenzione,
perché ciò che è vivo non è un oggetto ma un soggetto che merita di essere
trattato secondo il diritto imprescrittibile di ciò che è nato alla vita.
Sull'aiuto indispensabile al rifiuto dell'assistenza
permanente Il cammino dell'autonomia è simile a quello del bambino che impara a
camminare.
Non ci si riesce senza lacrime e sforzi. Il rischio di cadere, di farsi male, di
soffrire aggiunge ai primi passi l'ostacolo della paura. Tuttavia il soccorso di
un affetto che incoraggia a rialzarsi, a ricominciare, ad ostinarsi, a
coordinare i gesti dimostra che la padronanza dei movimenti si acquisisce meglio
e più presto che nelle condizioni di un tempo in cui si trattava di progredire
non solo sotto i fuochi incrociati della vanità beffarda, della minaccia
diffusa, dell'angoscia di non essere più amati se non ci si applica, ma
soprattutto attraverso un malessere, discretamente nutrito dall'ambiguità dei
genitori desiderosi e nello stesso tempo timorosi che il loro bambino faccia i
suoi primi passi verso un'autonomia che lo sottrarrebbe alla loro autorità
tutelare e toglierebbe loro la sensazione di essere indispensabili.
L'insegnamento dei più piccini si è modellato senza fatica sulle attitudini
familiari che fanno di tutto per assicurare la felicità nell'indipendenza -
tant'è vero che i genitori la recuperano non appena l'adolescente ne prende
possesso. Ispirandosi a quella comprensione osmotica dove si educa lasciandosi
educare, le scuole materne attingono al privilegio di accordare il dono
dell'affetto e il dono delle prime conoscenze - e che una qualità tanto preziosa
all'esistenza degli individui e delle collettività sia considerata degna dei
salari più bassi da parte dell'affarismo governativo la dice lunga su quale
disprezzo dell'utilità pubblica raggiunga la logica del profitto.
La rottura è brutale all'ingresso nelle superiori. Si regredisce nella famiglia
arcaica dove il fanciullo imparava a cavarsela da solo unicamente firmando un
atto di una riconoscenza eterna a coloro che avevano assicurato il suo
ammaestramento. La fiducia in sé, minata e compensata con l'insolenza, ricompone
la ripugnante mescolanza di superbia e servilità che formava, nel passato, la
norma del comportamento sociale.
Al desiderio sincero di fare dell'adolescente un essere umano a tutti gli
effetti si sovrappone in un evitabile malessere l'esercizio di un potere al
quale la struttura gerarchica costringe l'insegnante. Come potrebbe non vincere
la tentazione di rendersi indispensabile e di coltivare nello studente una
debolezza che ne rende più facile il dominio? Chi vende stampelle ha bisogno di
zoppi.
Usciamo appena e con pena da una società in cui, non avendo mai potuto credere
in se stessi, gli individui hanno accordato la loro credenza a tutti i poteri
che li storpiavano facendoli marciare. Dio, chiese, Stato, patria, partito,
leaders e piccoli padri dei popoli, tutto è stato ragionevole pretesto per non
dover vivere da se stessi. Questi bambini che un tempo rialzavamo per farli
cadere, è tempo di insegnar loro a imparare da soli. Che sia infine rotta
l'abitudine di essere in domanda anziché essere in offerta, e che sia archiviata
la miserabile società di assistiti permanenti la cui passività fa la forza dei
corrotti.
Il denaro del servizio pubblico non deve più essere al
servizio del denaro
L'educazione appartiene alla creazione dell'uomo, non alla produzione di merci.
Avremmo dunque revocato l'assurdo dispotismo degli dei per tollerare il
fatalismo di un'economia che corrompe e degrada la vita sul pianeta e nella
nostra esistenza quotidiana?
La sola arma di cui disponiamo è la volontà di vivere, alleata alla coscienza
che la propaga. A giudicare dalla capacità dell'uomo a sovvertire ciò che lo
uccide, può essere un'arma assoluta.
La logica degli affari, che tenta di governarci, esige che ogni retribuzione,
sovvenzione o elemosina consentita si paghi con la massima obbedienza al sistema
mercantile. Non avete altra scelta che seguirla o rifiutarla seguendo i vostri
desideri. O entrerete come clienti nel mercato europeo del sapere lucrativo -
cioè come schiavi di una burocrazia parassitaria, condannata a crollare sotto il
peso crescente della sua inutilità -, o vi batterete per la vostra autonomia,
getterete le basi per una scuola ed una società nuove, e recupererete, per
investirlo nella qualità della vita, il denaro dilapidato ogni giorno nella
corruzione ordinaria delle operazioni finanziarie. "Il Sindacato nazionale
unificato delle imposte valuta a 230 miliardi di franchi, cioè quasi l'ammontare
del deficit del bilancio francese, la frode imputabile ai gruppi di affari come
lo dimostra il velo appena sollevato sulle pratiche di corruzione dei grandi
gruppi industriali e finanziari."(*)
Il denaro rubato alla vita è messo al servizio del denaro. Tale è la realtà
nascosta dall'ombra assurda e minacciosa delle grandi istituzioni economiche:
Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, Organizzazione di cooperazione e
di sviluppo economico, Accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio,
Commissione europea, Banca di Francia, eccetera. Il loro sostegno alle
fondazioni e ai centri di ricerca universitaria richiede in cambio che sia
propagato il vangelo del profitto, facilmente trasfigurato in verità universale
dalla venialità della stampa, della radio, della televisione.
Ma per quanto sembri formidabile, la macchina gira a vuoto, si sfascia,
lentamente; finirà come nella Colonia penale di Kafka, per scolpire la
sua Legge nella carne del suo padrone.
Non si vede forse, col favore di una reazione etica, qualche magistrato
coraggioso spezzare l'impunità che garantiva l'arroganza finanziaria? Tassare le
grandi fortune (l'1% dei francesi possiede il 25% della ricchezza nazionale e il
10% ne detiene il 55%), tassare gli introiti incassati dagli uomini d'affari,
denunciare lo scandalo delle spese di rappresentanza, colpire con pesanti multe
i gestori della corruzione, bloccare gli averi della frode internazionale
indicando a sufficienza, su una carta leggibile da tutti, gli accessi al tesoro
che i cittadini alimentano e di cui sono sistematicamente spogliati. Non è meno
vero che la pista si confonderà sotto l'effetto devastante della rassegnazione
se il denaro non sarà recuperato per essere investito nel solo campo che sia
veramente di interesse generale: la qualità della vita quotidiana e del suo
ambiente.
Certo i magistrati integri dispongono dell'apparato della giustizia, e voi non
avete niente perché non avete creato niente che possa sostenervi. Eppure voi
possedete sulla repressione, per quanto giusta si ritenga, un vantaggio di cui
questa non potrà mai avvalersi: la generosità di ciò che è vivo, senza la quale
non c'è né creazione né progresso umano.
L'insegnamento si trova nello stato di quegli alloggi non occupati che i
proprietari preferiscono abbandonare al degrado perché lo spazio vuoto è
redditizio mentre accogliervi degli uomini, delle donne, dei bambini, spogliati
del loro diritto all'habitat, non lo è. Come viene accertato da The
Economist, "La subordinazione del commercio ai diritti dell'uomo avrebbe un
costo superiore ai benefici previsti" (9 Aprile 1994). Tuttavia, requisire un
edificio per trovare un riparo alla miseria - voglio dire installarvisi
passivamente perché ci si sta al caldo - non sfugge in ultima istanza al piano
di distruzione dei beni utili al quale conducono l'inflazione dei settori
parassitari e la burocrazia proliferante da lei generata.
Ciò di cui vi impadronirete vi apparterrà veramente soltanto se lo renderete
migliore; nel senso stesso in cui vivere significa vivere meglio. Occupate
dunque gli edifici scolastici anziché lasciarvi possedere dal loro sfacelo
programmato. Abbelliteli secondo il vostro gusto, ché la bellezza incita alla
creazione e all'amore, mentre la bruttezza attira l'odio e l'annientamento.
Trasformateli in ateliers creativi, in centri di incontro, in parchi
dell'intelligenza attraente. Che le scuole siano i frutteti di un gaio sapere,
come gli orti che i disoccupati e i più deboli non hanno ancora avuto
l'immaginazione di piantare nelle grandi città sfondando il bitume e il cemento.
Gli errori e i tentativi di chi intraprende di creare e di crearsi non sono
niente a confronto del privilegio che conferisce una tale decisione: abolire il
timore di essere se stessi che segretamente nutre e solletica le forze della
repressione.
Noi siamo nati, diceva Shakespeare, per camminare sulla testa dei re. I re e i
loro eserciti di boia sono ormai polvere. Imparate a camminare soli e sfiorerete
coi piedi quelli che, nel loro mondo che muore, non hanno che l'ambizione di
morire con lui.
Sta alle collettività di allievi e professori il compito di strappare la scuola
alla glaciazione del profitto e renderla alla semplice generosità dell'umano.
Perché bisognerà presto o tardi che la qualità della vita trovi accesso alla
sovranità che un'economia ridotta a vendere e a valorizzare il suo fallimento le
nega.
Dal momento in cui voi formulerete il progetto di un insegnamento fondato su un
patto naturale con la vita, non dovrete più mendicare il denaro di quelli che vi
sfruttano e vi disprezzano approfittando di voi. Quel denaro lo esigerete perché
saprete come e perché impadronirvene.
Si è al di sotto di ogni speranza di vita finché si resta al di qua delle
proprie capacità.
20 febbraio 1995
Nota:
* C. de Brie, "La politica pervertita dai gruppi d'affari",
Le Monde Diplomatique, ottobre 1994