Caratteri generali
Il nucleo originario della S.F. si forma dal 1922,
attorno all'Istituto per la ricerca sociale, fondato da F. Weil e diretto da
K. Grünberg, uno storico austriaco fondatore dell'Archivio per la storia del
socialismo e del movimento operaio.
Attorno all'Istituto gravitano inizialmente il sociologo
K.A. Wittfogel (studioso delle società asiatiche precapitalistiche e della
società sovietica), gli economisti H. Grossmann e F. Pollock, lo storico F.
Borkenau, i filosofi M. Horkheimer (che assumerà la direzione dell'Istituto
nel 1930) e, in seguito, T.W. Adorno. Più tardi si uniranno al gruppo il
sociologo della letteratura L. Löwenthal, il politologo F. Neumann, lo
psico-sociologo E. Fromm, il filosofo H. Marcuse, il critico letterario e
filosofo W. Benjamin.
Nel 1932 Horkheimer fonda la "Rivista per la ricerca
sociale", di fama internazionale. Con l'avvento del nazismo la scuola emigra
prima a Ginevra, poi a Parigi, infine a New York. Al termine della II guerra
mondiale restano in USA Marcuse, Fromm, Wittfogel, Neumann e Löwenthel,
mentre Horkheimer, Adorno e Pollock tornano in Germania, riedificando
l'Istituto, nella cui atmosfera culturale si forma una nuova generazione di
studiosi, fra i quali A. Schmidt, O. Negt e J. Habermas (quest'ultimo è
l'erede più significativo della scuola).
Tutte le elaborazioni teoriche della scuola devono essere
messe in rapporto ai tre fenomeni storici principali dell'epoca: 1)
nazifascismo in Europa occidentale (che stimola la problematica
dell'autorità e i suoi nessi con la società industriale moderna, 2)
stalinismo nella Russia sovietica (visto come l'altra faccia del capitalismo
odierno), 3) moderna società tecnologica e opulenta americana (di qui gli
studi sull'industria culturale, sull'individuo eterodiretto ecc.). Queste
esperienze costituiscono agli occhi dei francofortesi il segno di una crisi
socio-economica e teorico-filosofica di portata universale: 1) il fascismo
viene considerato come la verità esplicita del capitalismo (l'illuminismo
porta al fascismo), 2) il marxismo ufficiale sovietico è l'antitesi del
marxismo di Marx ed Engels, 3) il pragmatismo americano ha sostituito il
concetto di verità con quelli di probabilità e utilità.
Posizione filosofica della Scuola
Si tratta di una teoria critica del capitalismo e del
comunismo sovietico, alla luce dell'ideale rivoluzionario di un'umanità
futura libera, disalienata. Questo pensiero critico e negativo mira a
smascherare le contraddizioni dei due suddetti sistemi e a prospettare un
modello utopico alternativo a entrambi.
Gli autori fondamentali cui la scuola si rifà sono Hegel,
Marx e Freud: 1) dalla tradizione hegelo-marxista la scuola deriva la
tendenza filosofica a impostare un discorso dialettico e totalizzante
intorno alla società: si mette in discussione la società globalmente intesa
(come sistema), esprimendosi su come dovrebbe essere; 2) da Freud la scuola
deriva gli strumenti analitici per lo studio della personalità e dei
meccanismi di "introiezione" dell'autorità (molto importanti sono gli
Studi (collettivi) sull'autorità e la famiglia del 1936 e
Sulla personalità autoritaria del 1944-50). I concetti di libido e
ricerca del piacere devono essere interpretati come istinti creativi che
devono essere liberati dalle imposizioni autoritarie della società classista
(vedi soprattutto la sinistra freudiana: Reich).
Non solo, ma i teorici di questa scuola, in forte
polemica con le correnti neopositivistiche, criticano le premesse di fondo
della concezione scientifica del mondo, radicata nel cartesianismo e nel
galileismo. Ciò che non tollerano è l'elevazione della metodologia
quantitativa e matematizzante delle scienze naturali a rigido modello logico
di valore universale, applicabile cioè all'intero campo delle scienze. La
scuola di F. si serve della nozione di "criticità" (desunta da Marx)
estendendola a campi scientifici non previsti originariamente dal marxismo
(come la sociologia, psicologia, ecc.). Del marxismo tuttavia la scuola non
ha mai tenuto in particolare considerazione l'unità di teoria e politica,
anzi si è servita del fallimento della politica rivoluzionaria bolscevica
per affermare il diritto di distinguere teoria e prassi.
La ragione critica deve infatti separare la teoria dalla
prassi per poter giudicare i tradimenti di quest'ultima e le falsificazioni
di quelle teorie che pretendono di giustificare una prassi reificata.
L'esigenza di una prassi conforme alla teoria resta comunque salvaguardata,
anche se qui la scuola si limita a rimandare a un futuro indeterminato il
compito di realizzare tale esigenza. Il concetto di "utopia" ha sempre avuto
in tale scuola una valenza positiva e costruttiva.
La ragione critica è una dialettica che conserva entrambi
gli elementi (teoria e prassi), ma è solo negativa, perché non ambisce a
postulare una prassi politica alternativa (solo la coscienza o la cultura
possono pretendere una valenza alternativa). D'altra parte la dialettica
negativa esclude che nella storia sia possibile una compiuta identità di
teoria e prassi: ciò che è possibile è solo una continua ricerca di questa
identità. Quindi ogni ideologia totalitaria viene severamente condannata.
Qualunque ideologia o filosofia che da critica si trasforma in positiva, si
sclerotizza e muore. E' la non-identità di essere e pensiero che garantisce
la verità, poiché essa è la sola che permette al pensiero di criticare le
contraddizioni della realtà.
Critica dell'Illuminismo
L'opera-chiave della scuola è Dialettica
dell'Illuminismo (1947), scritta da Horkheimer e Adorno. L'Illuminismo
qui non è solo l'ideologia del movimento filosofico del XVIII sec., ma anche
l'ideologia dominante della società capitalistica e persino tutto il
complesso di atteggiamenti che, dall'uomo primitivo a quello moderno, ha
perseguito l'ideale di una razionalizzazione del mondo tesa a renderlo
soggiogabile da parte dell'uomo.
L'Illuminismo, che da sempre ha perseguito l'obiettivo di
togliere all'uomo la paura, di smascherare i miti, di rendere l'uomo padrone
della natura, si è rivelato esso stesso mito e totalitarismo, proprio in
quanto ha avuto bisogno di miti per celare la propria intrinseca
irrazionalità. La quale è determinata dal fatto che la pretesa di dominare
sempre più la natura tende a rovesciarsi in un progressivo dominio dell'uomo
sull'uomo e in un generale asservimento dell'individuo al sistema sociale.
Nato per sottomettere la natura al dominio dell'uomo, l'Illuminismo ha
finito per rendere l'uomo vittima di quella stessa legge di dominio.
Questa situazione viene vista prefigurata, nell'opera
suddetta, dal racconto omerico del passaggio di Ulisse davanti alle sirene.
Ulisse, per sentire il canto delle sirene, senza restarne ammaliato,
rinuncia al lavoro e si fa legare all'albero della nave (come il padrone
terriero che fa lavorare gli altri -qui i marinai- per sé. Ma questa è anche
la sorte della borghesia, che si nega tanto più la felicità quanto più,
crescendo in potenza, l'ha a portata di mano). Nelle società classiste, il
signore che fa lavorare gli altri, pur potendo accogliere gli inviti della
felicità, è chiuso nel suo alienante ruolo sociale. Mentre i servi, che con
le orecchie chiuse dalla cera continuano a lavorare, pagano la loro capacità
produttiva con l'incapacità di ascoltare dei richiami che trascendono la
loro situazione. Cioè il proletariato, integrato nel sistema, perde la
carica rivoluzionaria. A dominare è il ruolo sociale, alienato, cui ognuno
deve conformarsi.
La società ha perso la fiducia in una ragione
oggettiva, che crede nell'esistenza di verità universali e immutabili
(Platone, Aristotele, Scolastica, Idealismo tedesco), cioè nella capacità
dell'uomo di scegliere i fini per orientare la propria vita. La società si è
affidata a una ragione strumentale (soggettiva), tesa a individuare i
mezzi per perseguire dei fini che la società stessa non può controllare (dal
pragmatismo al neoempirismo). Le scelte non aderiscono alla logica della
ragione e della verità, ma a quella del dominio e del potere. La filosofia
ha quindi il compito di criticare la ragione strumentale, ridando fiducia
all'uomo (vedi Eclisse della ragione di Horkheimer).
Critica dell'hegelismo
Sia Marcuse (in Ragione e rivoluzione) che Adorno
(in Tre studi su Hegel) hanno cercato di liberare Hegel dall'accusa
di aver precorso il nazismo e di aver creato un "sistema reazionario" pur al
cospetto di un "metodo progressivo" (tesi di Engels).
Marcuse afferma che la ragione hegeliana è in grado di
prendere coscienza delle proprie contraddizioni, anche se Hegel avrebbe poi
tradito i contenuti della sua stessa filosofia. Adorno afferma che il
contenuto filosofico dell'idealismo hegeliano possiede la capacità di
superare l'idealismo stesso. La colpa di Hegel sta nell'aver fatto
coincidere "totalità" con "conclusività", cioè nell'averla conciliata con la
realtà. La vera forma della totalità è invece una costante "non identità":
essa può esprimersi solo nella negazione e nel continuo rimando utopico.
Nella Dialettica negativa (1966) Adorno spiegherà
ancor meglio che la funzione primaria della dialettica non è quella
hegeliana della sintesi o conciliazione, ma quella critico-negativa, in
virtù della quale si possono mettere in discussione le varie pretese
d'identità fra ragione e realtà, e svelare le contraddizioni non conciliate
che caratterizzano il mondo in cui viviamo. Adorno ritiene che dopo
Auschwitz ogni filosofia idealistica, che giustifichi la realtà, non abbia
più senso.
Critica del marxismo
In quanto anticapitalisti, i franfortesi si sono
richiamati a Marx (specie a quello "giovane"). Tuttavia essi hanno sempre
trascurato il carattere strutturalmente economico dei conflitti sociali e
l'importanza dei rapporti produttivi. Horkheimer ha negato al proletariato
del suo tempo la capacità rivoluzionaria e ha attribuito il compito di
portatore della verità più all'intellettuale critico che alla classe degli
sfruttati. Forte è stato l'influsso su tutti loro delle posizioni di Luckàcs
e di Korsch.
Dopo la morte di Adorno (1969), la filosofia di
Horkheimer (che è sempre stata la più vicina al marxismo) si aprirà
addirittura alle posizioni teologiche (vedi La nostalgia del totalmente
Altro, 1970). In gioventù Horkheimer era convinto che il marxismo
avrebbe potuto fermare il nazifascismo. Nella Nostalgia invece
afferma che la situazione sociale del proletariato è migliorata anche senza
rivoluzione, per cui oggi i lavoratori pensano a migliorare le loro
condizioni materiali di vita, non a superare qualitativamente il sistema.
L'umanità non cammina affatto verso il regno della libertà, ma verso un
mondo totalmente amministrato. Giustizia e libertà stanno anzi in un
rapporto di esclusione: quanto più aumenta una, tanto più diminuisce
l'altra. Horkheimer nega che possa esistere un dio di fronte a tanta
ingiustizia, però l'idea di un dio può costituire una speranza o una
nostalgia, in virtù della quale l'ingiustizia non può pretendere di dire
l'ultima parola. Il richiamo alla trascendenza deve appunto servire all'uomo
per rendersi meglio conto dei propri limiti.
Critica dell'industria culturale
Horkheimer, ma soprattutto Adorno, hanno costatato che
uno degli aspetti più caratteristici dell'odierna società tecnologica è la
creazione del gigantesco apparato dei mass-media. Essi lo ritengono il più
subdolo strumento di manipolazione usato dal sistema per conservare se
stesso, tenendo sottomessi gli individui. E' subdolo perché illude che il
consumatore sia il soggetto di tale industria, mentre in realtà ne è il puro
oggetto. L'industria serve alle minoranze per suscitare bisogni e
determinare i consumi, per imporre certi valori e modelli, riducendo gli
individui a una massa informe. Persino il "tempo libero" diviene
programmato. Attraverso i media passa l'ideologia più vitale per il
neocapitalismo: l'idea della "bontà" del sistema e della "felicità" degli
individui eterodiretti che lo costituiscono.
La critica dell'industria culturale verrà portata avanti,
dopo Adorno, soprattutto da J. Habermas, il quale, in Storia e critica
dell'opinione pubblica (1961), afferma che l'istanza dell'opinione
pubblica, originariamente fatta valere dalla borghesia in ascesa contro la
politica assolutistica, e rivendicata come condizione stessa di
legittimazione del potere, ha finito per perdere ogni funzione critica: una
volta istituzionalizzata negli organi dello Stato di diritto, essa si è
assoggettata ai fini della manipolazione capitalistica.
L'analisi politica radicale: Marcuse
(1898-1979)
L'opera di Marcuse rappresenta una sintesi originale di
marxismo e freudismo. In Eros e civiltà (1955) egli aveva visto in un
ritorno all'istinto una via di liberazione e di contestazione globale. La
repressione dell'istinto, che Freud aveva considerato come inevitabile per
la sopravvivenza del sistema, impediva invece, secondo M., la disalienazione.
L'istinto coincide con l'Eros -dice M.-, che la civiltà classista non
conosce perché funzionalizza l'eros alla pura riproduzione del sistema. Nel
capitalismo l'istinto o è genitale o è riproduttivo. Solo l'eros può
superare i criteri dell'efficienza, della produttività finalizzata al
profitto. L'eros, che è il principio di piacere, è conservato dalla memoria
nell'inconscio.
Il "ritorno del represso" si esprime non nella filosofia,
ma nell'arte. Nella mitologia le figure più significative sono Orfeo e
Narciso: il primo è la voce che canta, il secondo è una vita di bellezza e
la sua esistenza è contemplazione. L'esistenza dev'essere concepita come
libero gioco. Questo obiettivo è raggiungibile pensando che lo sviluppo
tecnologico pone le premesse per una diminuzione radicale della quantità
d'energia investita nel lavoro. Questa energia può essere impiegata in altro
modo.
Da notare che anche Adorno ha avuto la stessa concezione
dell'arte: essa da un lato si pone come denuncia della negatività
disarmonica del mondo, cioè come segnale della non avvenuta conciliazione
fra io e realtà; dall'altro come immagine anticipatrice di riconciliazione,
in quanto, esprimendo la soggettività repressa, la sofferenza per la
mancanza di libertà, l'arte si pone come desiderio utopico di un mondo
realmente armonico. Qui Adorno, come Benjamin, è a favore di una
politicizzazione dell'arte.
Ne L'uomo a una dimensione (1964) Marcuse
radicalizza i vari motivi di critica della società tecnologica avanzata.
L'uomo a una sola dimensione (quella del sistema) è alienato; ragione e
realtà gli appaiono coincidenti. Il sistema gli fa apparire razionale ciò
che è irrazionale: ad es. tutto è amministrato, però il sistema illude, col
concetto di pluralismo (politico, culturale...), che il soggetto sia libero,
mentre in realtà le decisioni sono sempre nelle mani di pochi. Lo stesso
concetto di tolleranza viene usato dal sistema finché il cittadino non mette
in discussione le basi del sistema.
Chi può modificare il sistema capitalistico? Non la
classe operaia, perché si è lasciata integrare, ma i gruppi marginali, che
vengono posti al di fuori del sistema (disoccupati, inabili, perseguitati
dal razzismo, immigrati, ecc.). Questi gruppi possono incarnare il "grande
rifiuto" (termine desunto dal manifesto surrealista del 1924 di A. Breton),
cioè l'opposizione totale al sistema e l'inserimento dell'utopia nella
realtà. Marcuse previde che il gruppo contestativo più importante alla fine
degli anni '60 sarebbe stato quello studentesco, e in effetti il '68
(soprattutto negli USA) si ispirò largamente al suo pensiero.
L'ultimo Marcuse (Controrivoluzione e rivoluzione
del 1972) vede, dopo il fallimento del '68, ancora più necessaria la
rivoluzione, ma anche più improbabile. Più necessaria perché il sistema si
regge in piedi solo attraverso la distruzione globale delle risorse, della
natura e della vita umana; più improbabile perché la coscienza
rivoluzionaria viene più facilmente repressa. L'attuale controrivoluzione
dipende soprattutto dal fatto che il sistema oggi è in grado di garantire
alti salari ai propri lavoratori, per cui gli operai si sono lasciati
corrompere dal sistema. Ciò significa che la "nuova sinistra" deve educare i
lavoratori ad apprendere gli strumenti della propria liberazione integrale.
La nuova sinistra deve però passare dalla fase della
spontaneità (quella in cui si credeva che le masse sarebbero insorte
spontaneamente contro il sistema) alla fase della razionalizzazione (per cui
occorre un'opposizione cosciente, responsabile, quotidiana, disciplinata al
sistema).
La psicanalisi rivoluzionaria: Fromm
(1900-1980)
Fromm, come tutta la scuola, ha affermato che se Freud ha
avuto ragione di scorgere nel fondo della natura umana (come unico movente
di tutte le azioni umane) un istinto verso il piacere che si manifesta
soprattutto nella sessualità, ha invece avuto torto nel ritenere
indispensabile per la società il controllo di questo istinto o la sua
sublimazione nelle sfere culturali-intellettuali. Non è la società in sé che
esige questa repressione, ma è quella borghese, che va superata. In tal
senso la psicanalisi odierna non fa che soddisfare le esigenze represse di
individui appartenenti alla classe dominante.
Tuttavia, Fromm non ritiene, come il Marcuse di Eros e
civiltà, che l'ideale di una società non repressiva debba nascere dalla
liberazione dell'istinto. Occorre anche costruire una società umanistica,
condizione fondamentale della quale è (sulla scia di Marx) la possibilità
che gli uomini abbiano il controllo dei loro mezzi produttivi.
Solo in una società socialista (ma Fromm considerava lo
stalinismo un tradimento del marxismo) gli istinti dell'uomo possono essere
indirizzati verso il bene comune. Fromm non sopportava l'idea di proprietà
privata, ma neppure l'egualitarismo indiscriminato. La pianificazione andava
conciliata col pluralismo e con la libera iniziativa. L'ultimo Fromm è
dell'idea che nell'uomo vada salvaguardata la libertà più che l'istinto. E
in questo senso auspica che siano gli uomini di cultura, di scienza a
consigliare i politici sulla migliore via da seguire. |