"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
Chi si occupa della filosofia orientale, e in particolare del buddhismo
zen, non può non sorprendersi nel trovare in un pensatore occidentale, così
estraneo al contesto della cultura asiatica, una quantità notevole di affinità.
Ciò è maggiormente interessante se si aggiunge che Wittgenstein ignorava
completamente le opere e gli autori orientali.
Egli aveva studiato al Politecnico di Berlino e alla Facoltà d'ingegneria di
Manchester, infine si era dedicato allo studio della logica a Cambridge. Come si
vede i suoi interessi erano lontani da qualsiasi testo di filosofia orientale.
Eppure Wittgenstein si ritrovò ad affrontare gli stessi problemi che avevano
impegnato i saggi d'India, Cina e Giappone. Per quale motivo? Semplicemente
perché il campo di indagine era il medesimo: il linguaggio.
Buddha aveva indicato agli orientali l'origine della sofferenza. Un cattivo o
eccessivo utilizzo del pensiero procura all'uomo tensione, angoscia, paura e
sofferenza. Wittgenstein era un uomo profondamente tormentato dagli stessi
problemi.
Egli era fortemente insoddisfatto dell'incapacità della filosofia occidentale
nel rispondere alle sue domande. Nel Tractatus Logico-philosophicus egli
affermava: "[...] il valore di quest'opera consiste allora, in secondo
luogo, nel mostrare a quanto poco valga l'avere risolto questi problemi"(1).
Filosofia del linguaggio
Wittgenstein si accorse che i problemi della filosofia sono falsi problemi,
dunque la sua indagine si sposta sull'analisi di questi pseudo-problemi. Lo
scopo della filosofia di Wittgenstein è esclusivamente mostrare ed eliminare
gli pseudo-problemi.
Wittgenstein non fu il primo logico a individuare nell'ambiguità e fallacia del
linguaggio l'origine dei problemi speculativi e dunque degli errori dell'intera
filosofia. In India, con una abilità altrettanto pari, Nagarjuna riuscì a
mostrare la vacuità di ogni concetto e di ogni parola. Le somiglianze fra
l'insegnamento di Nagarjuna e Wittgenstein si spingono oltre.
Secondo Nagarjuna, così come insegna il buddhismo, ogni cosa è in relazione
con le altre, e nessuna ha senso senza le altre. Wittgeinstein parla del
principio di contestualità, ed afferma un concetto molto simile. Il significato
di una parola o di un concetto dipende dal suo contesto. Nagarjuna sosteneva la
prammaticità del linguaggio e Wittgeinstein ribadisce la strumentalità della
parola affermando che il senso è l'uso.
Filosofia come terapia
Secondo Wittgenstein lo scopo della filosofia non è erigere un edificio di
concetti, il sistema filosofico, ma praticare un continuo e radicale controllo
sul linguaggio. La filosofia deve fornire una "grammatica" perspicua
del linguaggio(2). Essa non è una dottrina ma una
attività.
La forma più nobile del buddhismo, scevra di superstizioni e credenze
metafisiche, ha il medesimo atteggiamento. Il buddhismo, in particolare lo zen,
necessita di una pratica costante, non è una religione che richiede soltanto
l'atto di fede(3).
Credere e pregare è del tutto insufficiente. Piuttosto è la pratica con un
impegno che implica la totale partecipazione dell'individuo a caratterizzare
tale filosofia. Attraverso la meditazione zazen oppure con quesiti kouan, il
buddhismo persegue questa strategia che intende liberare l'individuo dagli
errori che controllano la sua mente.
Kouan di Wittgenstein
Inconsapevole di tale tradizione, anche Wittgeinstein però ne applicò il
metodo. Le sue lezioni erano molto simili a sedute in cui i discepoli vengono
interrogati attraverso l'uso di un kouan. Che Wittgenstein praticasse tale
tecnica ci è testimoniato dalle sue stesse opere che restano enigmatiche se non
si interpreta correttamente il modo d'operare dell'autore.
Ma vediamo da vicino questi esempi di kouan di Wittgenstein.
Potrebbe una macchina pensare?" (Ricerche
filosofiche, Par. 359)
La sedia pensa tra sé e sé: dove? In una delle sue parti? O fuori
dal corpo?" (Ricerche filosofiche, Par. 360)
Ho intenzione di partire domani. Quando hai l'intenzione?
Continuamente o a intermittenza?" (Zettel, Par.
46)
Considera il comando: ridi sinceramente a questa battuta di
spirito!" (Zettel, Par. 51)
Che cosa vuol dire: la verità di una proposizione è certa?" (Della
certezza, Par. 193)
Dunque, se dubito, o non sono sicuro, che questa sia la mia mano,
perché allora non devo anche dubitare del significato di queste
parole?" (Della certezza, Par. 456)
Nessuno di questi quesiti può avere una risposta precisa. Al contrario di ciò
che accade per le domande della consueta tradizione filosofica occidentale. Come
i kouan, la risposta è al di fuori dei concetti inquadrati dalla domanda.
Wittgenstein ci mostra come l'imbarazzo o il paradosso dei suoi quesiti nascano
dalla mancanza di chiarezza del linguaggio e gli inganni provengano da ciò. Per
comprendere le sue domande dobbiamo distruggere l'apparato di preconcetti che
controllano la nostra mente.
La prospettiva dei filosofi giapponesi
Affermare l'esistenza di una affinità fra lo zen e la filosofia di Wittgenstein
sarebbe una mera ipotesi senza possibilità di verifica se non tenessimo conto
degli attuali studi filosofici in Giappone. In effetti una conoscenza
approfondita della filosofia contemporanea giapponese, ci rivela che
Wittgenstein è fra gli autori occidentali guardati con maggiore interesse.
Alcuni studiosi giapponesi arrivano ad affermare che ci sarebbe una consonanza
molto forte fra il suo metodo filosofico e la pratica dello zen.
La posizione più netta in tal senso è assunta dal sociologo Hashizume
Daisaburou(4). Nel saggio Bukkyou no gensetsu senryaku
(La strategia verbale del buddhismo), egli arriva ad affermare, secondo una sua
interpretazione, che Wittgenstein avrebbe addirittura subito l'ostracismo della
cultura occidentale permeata dallo spirito giudaico-cristiano.
Secondo Hashizume, la filosofia del linguaggio di Wittgenstein sarebbe
innanzitutto una critica alla logica vero-funzionale, e in secondo luogo, una
alternativa al sistema concettuale occidentale fondato su una dialettica
discorsiva e determinista, ma astratta. Non è del tutto infondato considerare
come Wittgenstein abbia presto raggiunto, attraverso l'introduzione delle tavole
di verità, i massimi sviluppi della logica vero-funzionale. E notare,
soprattutto, quanto ne sia rimasto insoddisfatto, al punto di cambiare
completamente l'approccio ai problemi filosofici e linguistici.
Hashizume passa poi ad analizzare le strategie del buddhismo per il
raggiungimento del satori. Egli paragona il gioco linguistico (Sprachspiel) di
Wittgenstein alle tecniche del buddhismo per raggiungere lo stato di
illuminazione. Il satori presenta gli stessi problemi del sistema filosofico
basato sul gioco linguistico. Ad esempio, il paradosso della percezione del
dolore(5). Wittgenstein aveva visto in frasi come
"io provo dolore" ed "egli prova dolore", una diversità
dovuta a una ricaduta fenomenologica. Provare dolore è un'esperienza singolare
e la sua espressione verbale ("Io provo dolore") è differente
dall'espressione verbale del dolore altrui che non conosciamo ("Egli prova
dolore"). Resta quindi un elemento indiscernibile che la grammatica non
rivela pienamente. Almeno la grammatica delle lingue occidentali, sappiamo che
in giapponese le cose sono ben differenti, distinguendo le due frasi anche dal
punto di vista grammaticale.
Hashizume individua nello stato di satori una analogia. Noi non conosciamo cosa
sia il satori. Per sapere che cos'è dobbiamo raggiungerlo. Ma nel momento in
cui l'abbiamo raggiunto, come facciamo a sapere che è davvero il satori? Questo
problema nasce da una trappola linguistica. Fondando la conoscenza
esclusivamente su una base linguistica, perdiamo la maggior parte delle facoltà
che ci permettono di agire sulla realtà.
Per risolvere questa difficoltà, riconoscendo l'imprescindibile concretezza del
linguaggio immerso nella realtà, Wittgenstein introduce il concetto di
"seguire una regola"(6). Hashizume riconosce
nel "seguire una regola" una prassi simile alla tecnica del buddhismo.
Gli orientalisti hanno ben presente la nozione di dou, seguire una via, e come
venga realizzato. Il maestro indica, non spiega cosa fare. Egli mostra una
procedura, l'allievo la ripete. L'elemento concettuale, la spiegazione e la
teoria, è del tutto assente.
Importante, in tal senso, è anche il saggio Wittgenstein ni okeru chinmoku (Il
silenzio in Wittgenstein) del filosofo Nakamura Hajime(7).
Nakamura traccia le linee di una filosofia non discorsiva ma orientata alla
prassi. Ciò corrisponde agli insegnamenti dello zen, ma anche a ciò che
Wittgenstein ha realizzato con la sua attività filosofica. I giapponesi usano
l'espressione mushin per descrivere un vuoto di emozioni e pensieri che sarebbe
alla base della meditazione e della successiva illuminazione. Nakamura individua
in Wittgenstein un vuoto con il silenzio, l'interruzione dell'uso della logica
vero-funzionale e della dialettica discorsiva.
Tornando ad Hashizume, vediamo che il sociologo giapponese arriva a spiegare
certi aspetti del buddhismo tramite la filosofia di Wittgenstein. Secondo
Hashizume, si può trovare il principio di "seguire una regola" nella
condizione della comunità buddhista (sangha) che include i monaci (bhikku), i
novizi (samanera) e i laici (upasaka). In questo caso, nessuno conosce la
"regola". Essa dovrebbe identificarsi con la figura del Buddha. Ma chi
realmente conosce Buddha? Quindi tutti cercano di seguire il suo modello, per
l'appunto "seguendo la regola".
Per far ciò è sufficiente ricordare le parole di Wittgenstein che chiariva
tali aspetti: "Non sono sufficienti le regole, ma abbiamo bisogno anche di
esempi. Le nostre regole lasciano aperte certe scappatoie, e la prassi deve
parlare per se stessa"(8). Per il buddhismo,
l'esempio supremo è il Buddha.
Quindi il pericolo che mostrava Wittgenstein era nel confondere "il seguire
una regola" con "l'interpretare una regola". Una minaccia che
colpiva alle radici ogni tipo di filosofia del linguaggio che si scontrava con
un uso concettuale e astratto della parola. Il tipo di filosofia che
Wittgenstein avversava con la sua nozione di "significato come uso".
Una concezione del linguaggio, come ricorda Hashizume, che fu ripresa da John
Austin(9), e permise di far tornare concreto il
linguaggio.
Conclusioni
Si potrebbe dire che Wittgenstein ha portato alla luce una diversa concezione
della filosofia, molto più vicina alla tradizione orientale. Secondo questo
modo di vedere, il pensiero non sarebbe un'immagine mentale del mondo, qualcosa
di speculare, altrimenti sarebbe anche abbastanza veritiero nei confronti della
realtà. Invece la filosofia orientale ci dimostra il contrario.
Piuttosto il pensiero è qualcosa prodotto dalla nostra mente che è in
relazione con il mondo. L'errore umano è confondere il pensiero con il mondo.
L'errore della filosofia occidentale è il tentativo di spiegare il mondo con il
pensiero. Il pensiero può spiegare soltanto il pensiero, e la vita è altra
cosa.
Note
1. Cfr. Wittgenstein, Ludwig. 1989. Tractatus Logico-philosophicus.
Einaudi, Torino, p. 5. 2. "Metodo della filosofia: la rappresentazione perspicua dei fatti
grammaticali". Cfr. Wittgenstein, Ludwig. 1996. Filosofia. Donzelli, Roma,
p. 27. 3. "E solo come azione di tal genere l'esistenza buddhista diviene
la vita completamente libera [...]". Cfr. Hisamatsu, Shin'ichi. 1996. Una
religione senza dio. Il melangolo, Genova, p. 69. 4. Hashizume, Daisaburou. Bukkyou no gensetsu senryaku, in "Gendaishisou",
numero speciale, voll. 13-14, 1985. Seidosha, Tokyo. 5. Wittgenstein, Ludwig. 1995. Ricerche filosofiche. Einaudi, Torino, pp.
119-138. 6. Ibidem, pp. 108-116. 7. Nakamura, Hajime. Wittgenstein ni okeru chinmoku, in "Gendaishisou",
numero speciale, voll. 13-14, 1985. Seidosha, Tokyo. 8. Wittgenstein, Ludwig. 1978. Della certezza. Einaudi, Torino, p. 26. 9. Austin, John. 1987. Come fare cose con le parole. Marietti, Genova.
Bibliografia
AA.VV. 1985. Wittgenstein, in "Gendaishisou", numero speciale,
voll. 13-14, 1985. Seidosha, Tokyo. Andronico, Marilena e Marconi, Diego e Penco, Carlo. 1988. Capire
Wittgenstein. Marietti, Genova. Canfield, John. 1986. The Philosophy of Wittgenstein, Vol. 15, "Elective
affinities, Wittgenstein and Zen". Garland Publishing, pp. 383-408. Gargani, Aldo. 1973. Introduzione a Wittgenstein. Laterza, Bari. Martorella, Cristiano. Gioco linguistico e satori. Relazione del Corso di
Filosofia del Linguaggio. Università di Genova, A.A. 1998-1999. McGuinness, Brian. 1988. Wittgenstein: A Life. Duckworth, London. Kenny, Anthony. 1973. Wittgenstein. Allen Lane The Penguin Press, London. Perissinotto, Luigi. 1997. Wittgenstein. Una guida. Feltrinelli, Milano. Wienpahl, Paul. 1958. Zen and Work of Wittgenstein, in "Chicago
Review", vol. 12, n. 2, pp. 67-72. Wittgenstein, Ludwig. 1967. Ricerche filosofiche. Einaudi, Torino. Wittgenstein, Ludwig. 1971. Osservazioni sopra i fondamenti della
matematica. Einaudi, Torino. Wittgenstein, Ludwig. 1976. Osservazioni filosofiche. Einaudi, Torino. Wittgenstein, Ludwig. 1978. Della certezza. Einaudi, Torino. Wittgenstein, Ludwig. 1980. Pensieri diversi. Adelphi, Milano. Wittgenstein, Ludwig. 1982. Osservazioni sui colori. Einaudi, Torino. Wittgenstein, Ludwig. 1983. Libro blu e Libro marrone. Einaudi, Torino. Wittgenstein, Ludwig. 1986. Zettel. Einaudi, Torino. Wittgenstein, Ludwig. 1989. Tractatus Logico-philosophicus. Einaudi,
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