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Nelle sue riflessioni intorno alla domanda metafisica fondamentale («perché vi è, in generale, l’essere, e non il nulla») c’è un passaggio in cui Heidegger muove una pesante critica all’ingenua impostazione logica dell’indagine scientifica in quanto si tratta di un’impostazione non discussa che poggia già «su una determinata e particolare risposta alla domanda sull’essente», ciò che pone nell’impossibilità «anche solo di comprendere, in generale, la domanda circa l’essente, e tanto più nell’impossibilità di svilupparla realmente e di pervenire a una risposta»[1]. In questo passaggio di Heidegger è racchiusa tutta la critica novecentesca che, sulla scorta di Nietzsche, la filosofia occidentale ha mosso nei confronti della sua storia ed in particolare dell’impostazione metafisica di fondo che è pervenuta al razionalismo tecnico e alla cibernetica come culmine della rappresentazione positivistica del mondo[2]. Una critica che ha percorso tutto il Novecento e che, se ha trovato tra i “continentali” il suo originario sviluppo, anche tra gli “analitici” ha infine spinto a considerazioni analoghe. Questa messa in questione dei fondamenti stessi della metafisica occidentale ha poi trovato il suo sviluppo nel post-strutturalismo francese e negli studi sul post-colonialismo, i quali, a partire dalla filosofia del sospetto sorta con Nietzsche, Freud e Marx, hanno via via allargato la crepa fino a mostrare l’abisso di una crisi ben più strutturale dell’intero impianto fallologocentrico della filosofia europea, imponendo un profondo ripensamento delle fondamenta stesse del razionalismo occidentale – avvertite a questo punto come dogmi indiscussi – che non può non passare attraverso un confronto approfondito e consapevole con le filosofie non occidentali[3] (ciò che è possibile solo nella misura in cui si riconosce ad esse, in primo luogo, il pieno valore di filosofie). «Non si può capire quella che viene definita “filosofia europea” senza includere il contesto extraeuropeo», scrive Holenstein[4], che di recente ha pubblicato unAtlante di filosofia con il dichiarato intento di proporre una lettura non eurocentrica della storia – e della geografia – della filosofia. In quel passaggio chiave dell’Introduzione alla metafisica, Heidegger oppone significativamente alla logica positivistica e reificante delle scienze della natura una diversa prospettiva, che si direbbe a-logica e che avvicina la verità della filosofia a quella della poesia: Chi vuole davvero parlare del nulla deve necessariamente rinunciare all’atteggiamento scientifico. Ma ciò costituisce una grossa disgrazia solo fintantoché sussiste l’opinione che il pensiero scientifico sia il solo vero e autentico pensiero rigoroso e che esso possa e debba venir assunto come criterio unico anche del pensiero filosofico. È in realtà vero il contrario. Ogni pensiero scientifico è solo una forma derivata, e con ciò stesso irrigidita, del pensiero filosofico. La filosofia non nasce dalla scienza né grazie alla scienza. La filosofia non si lascia mai coordinare con le scienze. Essa è loro piuttosto sovraordinata, e ciò non solo da un punto di vista logico o relativamente a un piano sistematico delle scienze. La filosofia si trova in tutt’altra zona e in tutt’altro grado dell’esistenza spirituale. Solo la poesia appartiene al medesimo ordine della filosofia e del suo modo di pensare. Ma il poetare e il pensare non sono a loro volta identici. Parlare del nulla, seguita a essere, comunque, per la scienza, un orrore e un’assurdità. Può farlo, al contrario, oltre che il filosofo, il poeta: e questo non per via di un minor rigore che, secondo l’opinione comune, è dato riscontrare nella poesia, ma perché nella poesia (s’intende solo nella più autentica e più grande), sussiste, nei confronti di tutto ciò che è puramente scientifico, un’essenziale superiorità dello spirito. In virtù di tale superiorità il poeta parla sempre come se per la prima volta egli esprimesse e interpellasse l’essente. Nel poetare del poeta come nel pensare del pensatore vengono ad aprirsi così grandi spazi che ogni singola cosa: un albero, una montagna, una casa, un grido d’uccello, vi perde completamente il proprio carattere insignificante e abituale.[5]
Per quanto apparentemente aleatorio ed irrazionale, o arbitrario, il dire della filosofia, come della poesia, mostra qui un rigore che trascende la logica nel rispetto della cosa rimessa alla sua verità, di contro all’epistemologia reificante e dominatrice che mostra, dietro al logocentrismo, la logica del potere, ovvero la tecnologia pro-vocatrice. È in opposizione a questa pro-vocazione tecno-logica che è necessario far valere una forma d’e-vocazione aletheiologica, propria, nella sua essenza più intima, di ogni filosofia, sottesa alla cultura più profonda di ogni civiltà. Da qui, dunque, la necessità (una necessità tutta occidentale, forse), di aprire l’orizzonte eurocentrico della filosofia onde scardinare, per così dire, il pensiero unico installatosi con pervicacia nella cultura scientifica e di conseguenza il razionalismo che fa della ragione calcolante l’unica voce, ancorché monocorde, che possa prendere parola. E da tempo, ormai, il pensiero occidentale, ed europeoin primis, è alla ricerca di un dialogo costante con le culture altre, a partire dagli orientalismi ottocenteschi, quasi in un tentativo di fuga, si direbbe, da sé o, nei casi più genuini, in un tentativo di trovare appunto nell’incontro con l’altro da sé come una linfa che possa rivivificare la civiltà europea sclerotizzata dal razionalismo scientista. Ma, sotto questo riguardo, il senso di un dialogo filosofico interculturale, non può essere quello di raccogliere “perle di saggezza” in un colloquio incessante con le culture esotiche, appiattite tutte, nella globalizzazione del sapere, ad un corollario letterario del turismo. Piuttosto, ciò che dovrebbe interessare la filosofia, è un confronto critico ben più profondo che metta in questione alla radice l’occidentalizzazione spietata del mondo[6]. Come spunto di riflessione, si può partire allora da un passaggio di Suzuki, divulgatore dello zen in Occidente, che, in uno dei primi e più significativi momenti di questo confronto critico interculturale[7], espresse una radicale critica del razionalismo tecnico occidentale, proprio a partire da una riflessione inerente il linguaggio poetico. Egli cita un haiku di Basho[8]:
Yoku mireba La traduzione suona:
Quando io guardo attentamente Spiega Suzuki che il tono della poesia è assolutamente dimesso, senza particolari slanci poetici, se si eccettua il kana finale, che in giapponese è una particella che indica un certo sentimento di ammirazione, un elogio, una passione, insomma qualcosa che noi esprimiamo di solito con un punto esclamativo. Questo punto esclamativo, ovviamente, dà il senso a tutta la poesia. Suzuki avverte che è molto difficile spiegare ad un occidentale il sentimento che sprigiona da questohaiku[10]: Basho, egli dice, quando scoprì questa «pianticella nascosta, quasi disprezzabile, fiorente presso la vecchia siepe in rovina lungo la remota via campestre, con tanta innocenza, con tanta umiltà, senza alcun desiderio d’essere notata da nessuno», quando la vide con attenzione, fu mosso da sincera ammirazione e si rese conto di quanto fosse tenera, «quanto piena di divina gloria». «Il poeta», continua Suzuki, «può leggere in ogni petalo il mistero abissale della vita o dell’essere». Il nazuna è un fiore modesto, assolutamente inappariscente, come una margherita sul ciglio di una strada. Pure, «quando la mente si schiuda alla poesia, al misticismo o alla religione, noi sentiamo, come già Basho, che perfino in ogni filo d’erba incolta vi è qualcosa che realmente trascende ogni abbietta, ogni venale passione umana, qualcosa che ci innalza in un regno il cui splendore è pari a quello del Paradiso Terrestre. Non è qui questione di grandezza. In questo senso il poeta giapponese ha un suo particolare talento, che svela quanto di grande vi sia nelle piccole cose, che trascende ogni misurazione quantitativa»[11]. Fin qui l’Oriente, dice Suzuki, e passa ad un esempio di poesia occidentale. Tennyson:
Flower in the crannied wall,
(Fiore che spunti dal muro screpolato,
Suzuki sottolinea le differenze tra le due poesie, di per sé alquanto evidenti. In primo luogo egli nota come Tennyson sradichi la pianticella dal suo luogo, «la radice e tutto», incurante quindi della vita del fiore stesso: egli è mosso unicamente da un desiderio di curiosità, completamente assente in Basho, che si limita alla contemplazione, nella quale tutto il mistero del nazuna si rivela per quello che è, senza alcun bisogno di verbalizzazioni o spiegazioni. La vita si dà, così, interamente, nell’atto stesso dello stare in essa. Al contrario Tennyson, dice Suzuki, «è tutto intelletto, tipico della mentalità occidentale; è un avvocato della dottrina del Logos. Deve dire qualcosa, deve astrarre o intellettualizzare la sua concreta esperienza. Deve procedere oltre il dominio del sentimento in quello dell’intelletto e assoggettare la vita e la passione ad una serie di analisi per dar soddisfazione allo spirito indagatore dell’Occidente». Fortunatamente, è ovvio, l’Occidente è molto più complesso e ricco di quanto non appaia agli occhi di Suzuki. Fortunatamente, né la poesia, né tanto meno la mentalità occidentale, si esauriscono in Tennyson, e certo quanto sarebbe stato diverso il paragone fatto da Suzuki se avesse scelto come termini Basho (tra i più grandi poeti del Giappone) e Dante. Del resto, non tutti i giapponesi sono in grado di scrivere poesie come quelle di Basho, e anche tra i loro haiku, ci si potrebbe chiedere quanti raggiungano i livelli di un ungarettiano «m’illumino d’immenso» o dell’«assenza, più acuta presenza» di Attilio Bertolucci. E tuttavia non è un male ascoltare cosa, nelle parole di Suzuki, viene rimproverato agli occidentali, abituati a strappare, radici e tutto, intere culture, a giudicarle, vivisezionarle, imponendo ovunque la razionalità e il mito del progresso tecno-scientifico. Scrive Suzuki:
L’approccio Zen consiste nel penetrare direttamente entro l’oggetto in sé e nel guardarlo, per così dire, dall’interno. Conoscere il fiore è diventare il fiore, essere il fiore, fiorire come il fiore, e godere tanto della luce del sole quanto dell’acqua piovana. Quando questo si dia, il fiore mi parla e io conosco tutti i suoi segreti, tutte le sue gioie, tutte le sue pene; che è quanto dire tutta la vita che freme nel suo intimo. Ma non basta: di pari passo con la “conoscenza” del fiore io comprendo tutti i segreti dell’universo, il quale include tutti i segreti del mio Io, che tanto a lungo per tutta la vita ha eluso il mio inseguimento, poiché io ho scisso me stesso in una dualità, l’inseguitore e l’inseguito, l’oggetto e l’ombra. Nessuna meraviglia che non sia mai riuscito ad afferrare il mio Io, e che così spossante sia stata una tal partita! […] Mentre il metodo scientifico uccide, assassina l’oggetto e mediante la dissezione del cadavere, e di nuovo poi la ricomposizione delle parti, si sforza di riprodurre l’originario corpo vivente, ciò che è invero assolutamente impossibile, il metodo Zen prende la vita così come è vissuta, in luogo di farla a pezzi e tentare poi di restaurarla mediante l’intellezione, o incollarne di nuovo insieme i pezzi staccati per via di astrazione.[12]
Ecco dunque riproporsi la dicotomia tra un approccio logico-scientifico ed uno filosofico-poetico, o Zen, secondo la prospettiva di Suzuki. Ma allora qui l’Occidente è chiamato in causa come l’Abendland entro cui si è consumata la parabola della metafisica, come quel nichilismo che la stessa filosofia occidentale – almeno da Nietzsche in poi – ha preso a decostruire. Per comprendere lo Zen non si può pretendere di “tradurlo” nei termini di un’intellettualizzazione – una simile operazione sarebbe come strappare un fiore alla radice per studiarlo in laboratorio. Piuttosto, lo Zen stesso si lascia vedere solo più attraverso aneddoti, brevi parabole, koan. Suzuki riporta diversi di questi aneddoti. Altri sono ricordati da Fromm, come il seguente dialogo tra un maestro e un monaco:
«Hai tu mai fatto un qualche sforzo per disciplinarti alla verità?».
Secondo Fromm, in queste parole è possibile scorgere la condizione dell’uomo medio, «costantemente irretito in un mondo di fantasie» e tanto più oggi, «quando quasi ognuno vede, sente, prova e gusta piuttosto con atti di pensiero che con quelle facoltà interiori, che possono vedere, sentire, provare, gustare». La condizione dell’uomo moderno, proprio in quanto interamente condizionata dall’intellezione, è la condizione di un sognatore che vive nelle sue proiezioni ed elucubrazioni[13]. Così, un maestro Zen racconta: «Prima che io fossi illuminato, i fiumi erano fiumi e le montagne erano montagne. Quando ebbe inizio per me l’illuminazione, i fiumi non erano più fiumi e le montagne non erano più montagne. Ora, dopo l’illuminazione, i fiumi tornarono di nuovo ad esser fiumi e le montagne montagne»[14]. In altre parole, scopo dello Zen è quel processo di consapevolezza che Fromm individua al cuore della psicoanalisi e che mira ad «esser consapevole della propria realtà, come di quella del mondo, nella più profonda pienezza e senza veli»[15]. Attraverso questi, pur esigui, esempi, lo Zen si mostra subito come una dottrina sorprendentemente “nietzscheana”, e proprio in questo suo appello ad essere «buoni amici delle cose prossime», in questo superamento del dualismo e della frattura tra mondo vero e mondo apparente. L’intelletto, quando voglia cogliere il reale, non fa altro che incatenare l’uomo a questa platonica caverna di ombre astratte, che rinviano solo, ma non coincidono, alla realtà delle cose.
Benessere è aver conseguito il pieno sviluppo della ragione: ragione non già nel senso di un mero giudizio intellettuale, ma in quello dell’afferrare la verità “lasciando che le cose siano” (per usare le parole di Heidegger) così come sono. Benessere è possibile soltanto a quel livello in cui si sia superato il proprio narcisismo; a quel livello in cui si sia aperti, rispondenti, sensibili, lucidi, vuoti (nel senso dello Zen). Benessere significa essere pienamente correlati all’uomo e alla natura sul piano affettivo, significa superare l’isolamento e l’alienazione, pervenire all’esperienza della comunione con tutto ciò che esiste, e tuttavia, nel contempo, sperimentare me stesso come quell’entità separata che io sono, come l’in-dividuo. Benessere significa essere pienamente nati, diventare in atto, quel che si è in potenza; significa avere completa disponibilità alla gioia e al dolore, o per dirla in modo diverso, ridestarsi dal torpore in cui vive la gran massa degli uomini ed essere completamente svegli. Ma se significa tutto ciò, significa anche essere creativi, vale a dire reagire e rispondere a me stesso e agli altri, a tutto ciò che esiste ‒ reagire e rispondere alla realtà di ognuno e di ogni cosa, così come quello e questa sono, al modo dell’uomo reale e totale, quale io sono.[16]
Al cuore dello Zen, in fondo, non vi è che questa esigenza, espressa in altre parole e in altri tempi in Occidente. Il satori, l’illuminazione Zen, non esprime altro che questo: «vedere la realtà così com’è»[17]. Tornare all’apparire delle cose stesse, si direbbe. Non è un caso che tra le correnti di pensiero europee del Novecento, la fenomenologia husserliana sia tra quelle che maggiormente hanno suscitato interesse in Oriente, particolarmente per quella riflessione che sulla scorta dell’impostazione fenomenologica è possibile avviare in senso critico nei riguardi dell’approccio conoscitivo occidentale[18]. Ancor più significativo è che il fondatore della scuola di Kyoto, Nishida, muovesse a Husserl critiche che, nella sostanza, sono molto vicine a quelle di Heidegger. Nishida metteva in questione tre punti, in particolare, della fenomenologia husserliana: il soggettivismo (ed in particolare il fatto che l’esperienza fosse sempre riferibile ad una persona individuale); la differenza, indiscussa in Husserl, tra soggetto e oggetto; ed il fatto che sentimento, desiderio e volere sono considerati solo come diversi gradi di complessità della noesi. Allo stesso modo Heidegger (il quale, come è noto, pur mantenendo la sua riflessione sempre ancorata alla tradizione filosofica europea, non fu tuttavia ignaro di classici orientali come il Lao-zi) sin da Essere e tempo aveva maturato una critica nei confronti della fenomenologia husserliana che lo avrebbe portato ad interrogarsi direttamente sulla questione fondamentale della metafisica: la Seinsfrage. Ciò a cui pure perviene Nishida, con la domanda circa il Jitsuzai (Vero Essere, Esistenza Effettiva)[19]. Shizuteru Ueda, nella sua trattazione del buddhismo zen in chiave fenomenologica, e della dialettica tra essere e nulla presente in quella tradizione, afferma:
Il nulla si annuncia in modo radicale almeno due volte nella storia europea dello spirito, ossia nel nichilismo radicale di Nietzsche e nella “irruzione nel nulla della deità” in Eckhart. Il buddhismo zen scorge nel nulla di Eckhart una possibile dissoluzione del nulla del nichilismo, al quale manca l’ultima risposta al “perché?”. Esso scorge nel senza-perché della vita in Eckhart un possibile oltrepassamento del senza-perché del nichilismo. Il buddhismo zen scorge nell’abbandono mediante il nulla un possibile superamento dell’abbandonarsi al nulla.[20]
È, questo, un passaggio fondamentale per una riflessione critica sulla cultura occidentale e per una comprensione dei problemi che si vengono ad affrontare all’incrocio filosofico tra le due culture. A partire da questo spunto di Ueda è possibile sollevare almeno due ordini di considerazioni: in primo luogo, il riferimento alla mistica eckhartiana in chiave zen è di cruciale importanza per gettare uno sguardo più genuino (se si vuole laico) ad un filone del pensiero occidentale troppo spesso considerato come spurio, se non minore. In questo contesto, la fenomenologia, che altrove è utilizzata in chiave analitica per sviluppare una retorica inerente alla logica e alla filosofia della mente, oppure in chiave psico-sociologica per offrire un modello comportamentale, acquista una profondità tale da aprire un orizzonte interpretativo sulla domanda fondamentale circa l’Essere e tale da sfociare nella mistica. Ciò che fu appunto il passo cruciale di Heidegger nei riguardi della fenomenologia husserliana. Quando Ueda afferma: «In un radicale compimento della teologia negativa si dice in Eckhart: “Dio è un nulla”. Ciò significa: Dio è (Dio è l’essere stesso), e precisamente in quanto un nulla per l’uomo»[21], si intravede appunto tutto lo sfondo dal quale Heidegger mosse la sua Seinsfrage, a partire cioè proprio dalla mistica medievale letta in chiave fenomenologica. «Credo di avere percepito troppo fortemente […] quanti valori il Medioevo cattolico porti con sé, e noi siamo ancora molto lontani da una sua vera valorizzazione», scrisse Heidegger nella lettera del 9 gennaio 1919 a Engelbert Krebs nel prendere le distanze dal sistema istituzionale cattolico[22]. Il secondo ordine di considerazione sorge a partire dal riferimento di Ueda al nichilismo radicale di Nietzsche, il secondo momento, cronologicamente parlando, in cui «il nulla si annuncia in modo radicale» nella storia del pensiero europeo. La morte di Dio compie così la parabola del nichilismo europeo, secondo la lettura heideggeriana di Nietzsche e della storia della metafisica occidentale. Ueda non si sofferma su Nietzsche e tuttavia suggerisce un particolare taglio interpretativo che offre una lettura interessante sulla dialettica del doppio nichilismo presente nell’analisi nietzscheana[23]: il nichilismo attivo diventa allora un radicale immergersi nel nulla che costituisce lo sfondo ontologico di Dio (Eckhart) ovvero dell’Essere (Heidegger) ovvero ancora un «Oblio completo del bue e del pastore»[24], per usare le parole di Ueda (zen), a fronte dell’oblio dell’Essere, che è il nichilismo passivo, incapace di gettare uno sguardo autentico nell’abisso, trovando piuttosto rifugio nella quotidiana insensatezza dell’affaccendarsi utilitaristico (Heidegger), cioè nel perdersi tra le mille incombenze e preoccupazioni dell’io individuale (zen). Sotto questo riguardo si vede bene che le differenze tra Oriente e Occidente sono spesso solo ciò che vi vede lo sguardo del curioso, laddove una riflessione anche solo meno superficiale vi scorgerebbe non già un’intima uguaglianza, come pure si rischierebbe facilmente di concludere, ma differenze di tutt’altra natura, che riguardano piuttosto la diversa struttura del domandare. Anne Cheng, nella sua introduzione alla Storia del pensiero cinese, sottolinea come tale pensiero non avverta mai «l’esigenza di esplicitare né il problema, né il soggetto, né l’oggetto», dal momento che «non si preoccupa di scoprire una qualsivoglia verità di ordine teoretico»: piuttosto, «in virtù della peculiare essenza della sua scrittura, il pensiero cinese si inscrive nella realtà invece di sovrapporsi»[25]. Questa differenza del domandare è proprio ciò che va conservato e custodito come prezioso, in un’attenzione dell’ascolto che preservi da facili commistioni e confusioni di voce, evitando la monotonia della piatta indistinzione. Per questa via è forse possibile cogliere una diversa sfumatura nel coro sussiegoso dell’umanismo universalista e della chiacchiera quotidiana globalizzata: una sfumatura che invita a riflettere sulla sostanziale differenza che passa tra nichilismo attivo e passivo, ovvero tra l’oblio dell’Essere – tecnica, metafisica – e l’oblio dell’io, il superamento di sé, ‒ l’illuminazione? Sarà forse possibile scorgere, allora, «nell’abbandono mediante il nulla un possibile superamento dell’abbandonarsi al nulla»? Per tornare allo haiku di Basho, forse ciò su cui punta il dito l’analisi di Suzuki non è semplicemente una differenza tra una cultura (occidentale) razionalista ed una (orientale) mistica ma tra due istanze compresenti in misura maggiore o minore all’interno di una stessa cultura, e forse all’interno di uno stesso uomo, che devono trovare, volta per volta, un difficile equilibrio. Forse l’Occidente ha perduto da tempo un tale equilibrio, col prevalere del razionalismo tecnico, del capitalismo, dell’individualismo (e forse, con l’imporsi a livello planetario dello stile di vita occidentale, lo stanno perdendo via via anche le altre civiltà, a cominciare proprio da quella estremo-orientale). Ecco, allora, il senso più profondo che può avere, per l’Occidente, un confronto critico con il pensiero extraeuropeo, e nella fattispecie con quello orientale: la ricerca di un’indicazione per ripensare le proprie fondamenta e tentare un domandare che non pro-vochi solo la realtà per dominarla ma che piuttosto in essa vi si reinscriva come nella propria casa-madre.
[1] M. Heidegger, Einführung in die Metaphysik, Tübingen, Bohr, 1966, trad. it. di G. Masi, Introduzione alla metafisica, Milano, Mursia, 1990, p. 36. [2] Cfr. anche la riflessione sulla cibernetica che M. Heidegger svolge neiZollikoner Seminare. Protokolle-Gespräche-Briefe, hrsg. von M. Boss, Frankfurt a./M., V. Klostermann, 1987, trad. it. a cura di E. Mazzarella e A. Giugliano,Seminari di Zollikon. Protocolli seminariali-Colloqui-Lettere, Napoli, Guida, 1991; oltre che in Zur Frage nach der Bestimmung der Sache des Denkens, St. Gallen, Erker, 1984, trad. it. a cura di A. Fabris, Filosofia e cibernetica, Pisa, ETS, 1988. Cfr. inoltre, per un approfondimento su queste questioni: M. Heim, The Metaphysics of Virtual Reality, New York-Oxford, Oxford University Press, 1993. [3] Per uno sguardo di insieme su queste prospettive critiche cfr. R.J.C. Young,White Mitologies. Writing History and the West, 2004, trad. it. di A. Perri e M. Bilardello, Mitologie bianche. La scrittura della storia e l’Occidente, Meltemi, Roma 2007. [4] E. Holenstein, Philosophie-Atlas. Orte und Wege des Denkens, Zürich, Ammann, 2004, trad. it. di M. Guerra, Atlante di filosofia. Luoghi e percorsi del pensiero, Einaudi, Torino 2009, p. 84. [5] M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, cit., pp. 36 s. [6] Per un inquadramento storico-sistematico delle tematiche filosofiche dell’interculturalità cfr. G. Cacciatore, L’interculturalità e le nuove dimensioni del sapere filosofico e delle sue pratiche (http://www.easy-network.net/pdf/24cacciatore.pdf); G. Cacciatore e G. D’Anna, Interculturalità. Tra etica e politica, Roma, Carocci, 2010; Aa.Vv., Interculturalità. Religione e teologia politica, a cura di G. Cacciatore e R. Diana, Napoli, Guida, 2010. [7] E. Fromm, D. Suzuki, E. De Martino, Zen Buddhism and Psychoanalysis, New York, Harper & Brothers, 1960, trad. it. di P. La Malfa, Psicoanalisi e Buddhismo Zen, Roma, Astrolabio, 1968. [8] Ivi, pp. 11. [9] Il nazuna, che nel testo di Suzuki non viene tradotto, è la Capsella, o “Borsapastore” (Capsella bursa-pastoris), una pianta erbacea della famiglia delleBrassicaceae. [10] In verità, come ha sottolineato T. Ogawa in A Short Study of Japanese RENGA: The Trans-Subjective Creation of Poetic Atmosphere, in Annalecta Husserliana, vol. CIX, a cura di A.-T. Timieniecka, Springer 2011, Basho non ha mai scrittohaiku, che sono un genere di poesia moderno: piuttosto egli partecipava a moltirenga (poesia a catena scritta in collaborazione con altri poeti, i renju). Lo haikucome lo conosciamo oggi è stato formalizzato da Masaoka Shiki nel XIX secolo. In precedenza, era invece d’abitudine isolare gli hokku (la prima strofa di un renga)più belli per farne delle raccolte. Molti esempi del genere sono offerti proprio dalle maggiori raccolte di Basho. Cfr. Aa.Vv., Renku. Il castello a due porte, Roma, Empirìa, 1997, pp. 7-14. Su Basho: L. Origlia, Postfazione, in M. Basho, Piccolo manoscritto nella bisaccia, Milano, SE, 2006. Sugli haiku in generale cfr., a titolo introduttivo, l’ampia raccolta a cura di I. Starace, Il grande libro degli haiku, Roma, Castelvecchi, 2005. [11] E. Fromm, D. Suzuki, E. De Martino, op. cit., p. 12. [12] Ivi, p. 21. [13] Ivi, pp. 124 s. [14] Ibid. [15] Ivi, p. 137. [16] Ibid. [17] Ivi, p. 136. Per un approfondimento del buddhismo zen cfr. C. Meyers Owens,Buddhismo zen, in Aa.Vv., Psicologie transpersonali, vol. I, a cura di Ch. T. Tart, trad. it. di P. Chiesa e A. Leonetti, Latina, Crisalide, 1994, pp. 223-267; P. Filippani-Ronconi, Il buddhismo, Roma, Newton Compton, 1994; T. Deshimaru, Il vero zen, trad. it. di G. Alberti, Milano, SE, 1993; id., Lo zen e le arti marziali, trad. it. di F. Guareschi, Milano, SE, 1995; id., La tazza e il bastone. Storie zen narrate dal maestro Taisen Deshimaru, trad. it. di I. Farinelli, Milano, SE, 2003. [18] Cfr. E. Husserl, L’idea di Europa. Cinque saggi sul rinnovamento, ed. it. a cura di C. Sinigaglia, Milano, R. Cortina, 1999, in cui sono raccolti gli articoli scritti da Husserl per “Kaizo” negli anni ’20. [19] Su Nishida cfr. T. Ogawa, The Kyoto School of Philosophy and Phenomenology, in Aa.Vv., Annalecta Husserliana, vol. VIII, Dordrecht, Reidel, 1978, pp. 207-221. [20] Sh. Ueda, Fenomenologia del sé nella prospettiva del buddhismo zen, in id.,Zen e filosofia, ed. it. a cura di C. Querci e C. Saviani, Palermo, L’Epos, 2006, pp. 234 s. [21] Ivi, p. 236. [22] Cit. in F. Volpi, Vita e opere, in Aa.Vv., Guida a Heidegger, a cura di F. Volpi, Roma-Bari, Laterza, 2008, p. 12. [23] Sul nichilismo, in Nietzsche e in generale, cfr. F. Volpi, Il nichilismo, Roma-Bari, Laterza, 2004 (in particolare pp. 39-61 e 83-107), nonché K. Nishitani,Dialettica del nichilismo, ed. it. a cura di C. Saviani, Palermo, L’Epos, 2008. Ovviamente, relativamente a tali questioni, resta fondamentale M. Heidegger,Nietzsche, Pfullingen, G. Neske, 1961, ed. it. a cura di F. Volpi, Nietzsche, Milano, Adelphi, 1994; in particolare il saggio ivi contenuto Il nichilismo europeo. [24] Sh. Ueda, op. cit., p. 236. [25] A. Cheng, Histoire de la pensée Chinoise, Paris, Seuil, 1997; trad. it. di A. Crisma, Storia del pensiero cinese, Torino, Einaudi, 2000, vol. I, p. 15.
Da: www.aikidoedintorni.com/il-nazuna-di-basho-e-il-fiore-di-tennyson/
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