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Il perdono nel Cristianesimo e nel Buddismo: la
ricerca di una equivalenza omeomorfica (G.I.)
«Vi chiedo perdono, perché vi parlerò del perdono. La nostra ipotesi è che un
perdono genuino sia nella sua quiddità un atto “apofatico”, in cui l’individuo
stesso deve sfumare come “io” agente.»
Queste sono le prime righe del mio lavoro: le ritengo molto esplicative e danno
una giusta prospettiva al lettore.
Questa ricerca, da un certo punto di vista, ha avuto un momento di fallimento
quando mi resi conto che il perdono che avrei voluto trovare esplicitato nel
Buddismo, non c’è; ma è stato il Buddismo stesso e la sua ermeneutica a
indicarmi una via grazie alla quale ho potuto far emergere l’autenticità del
perdono; autenticità che è al di là del Cristianesimo e del Buddismo.
Mi sono soffermato sulla specificità semantica del perdono comparandolo con la
“scusa”, in seguito ho provato ad analizzarlo in rapporto a ciò che esso
“affronta”, cioè in rapporto al male.
Nel terzo capitolo mi immergo nel nucleo stesso del mio lavoro e quindi mi
concentro sul significato del perdono, rispettivamente nel Cristianesimo e nel
Buddismo.
L’ultimo capitolo è dedicato ad una comparazione di due passi classici delle
religioni oggetto della ricerca: la parabola del figliol prodigo e,
comparativamente, una parabola del Sutra
del Loto.
La conclusione che si può trarre è che un lavoro di comparazione che abbia come
suo fine la ricerca di una perfetta sovrapponibilità di determinati concetti è
destinata a fallire.
Mentre, se si penetra il senso che il Buddismo sta manifestando in Occidente,
senza legarlo alla sua provenienza orientale e senza volerlo innestare in una
cultura che non gli appartiene, si potranno scoprire ciò che Panikkar definisce
“equivalenti omeomorfici”.
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