in quiete
Il Sito di Gianfranco Bertagni

 

"La conoscenza di Dio non si può ottenere cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano la trovano"
(Bayazid al-Bistami)

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Acqua nell'acqua. Prove tecniche di narrazione
(Federico Battistutta)


 

1. Quanto segue non vuol essere altro che il racconto di un’esperienza, il tentativo di riportare la narrazione a quel ‘dire io’ che, per quanto sfuggente o imprendibile, costituisce il punto di partenza (o meglio il riferimento) di qualsiasi sincero parlare. Anche quando si entra nel campo delle cose religiose. Dirò di un cammino che si dice laico e religioso. Per fare questo è bene però condividere il significato dei termini in questione, al fine di evitare, non comprendendo bene di cosa si stia parlando, fraintendimenti o patologie comunicative. Provare a dire cos’è questa ‘e’, questa congiunzione coordinativa che connette sintatticamente le due parole: laico ‘e’ religioso, appunto.

Per forza di cose si seguirà un approccio non esplicitamente teorico, non si astrarrà cioè dal generale per definire il particulare. Al contrario si renderà testimonianza, sarà una specie di audizione pubblica, per quello che possono valere le testimonianze. Come dice Montaigne nell’esordio dei suoi Essais: “Ainsi, lecteur, je suis moy-mêsme la matière de mon livre”, rammentando poco oltre che egli non ambiva a dipingere l’essere ma il passaggio.  Si adopererà quindi il genere autobiografico, nella consapevolezza guardinga del pericolo sempre presente di inciampare nella volgarità che caratterizza tanto autobiografismo, con descrizioni e incisi privi di interesse se non per lo scrivente, e con una sequenzialità all’interno della quale si casca sempre in piedi, nella certezza che i conti tornano comunque e nella più o meno velata celebrazione di se stessi. Detto questo, si può solo partire da sé e da lì camminare, osservare, riflettere e - se proprio è il caso - provare a dire; le argomentazioni e il linguaggio che qui si adoperano desidererebbero tanto rimanere sommessi e pudichi o poco più. (Prendendo in prestito altrui parole: “noi non si afferma in modo assoluto ch’esse siano vere, inquantoché diciamo che si possono annullare da sé stesse, circoscrivendo sé stesse insieme con le cose di cui si dicono; così le medicine purganti, non solo cacciano dal corpo gli umori, ma anche sé medesime espellono insieme con gli umori”, Sesto Empirico).

 

2. Laico e religioso, si diceva. A bene vedere simile distinzione presenta un vizio d’accesso, poiché trae valore solamente all’interno di una visione ecclesiastica della realtà; così come un’altra possibile distinzione, quella tra civili e militari, è comprensibile dal punto di vista di un ufficiale di stato maggiore, ma non agli occhi della maggioranza dei lettori di queste pagine. Ora, prima di creare due categorie volte a separare, c’è un aspetto che accomuna tanto i religiosi (ordinati, id est il clero) come i laici: siamo tutti esseri umani che, nell’arco di tempo che ci è concesso, viviamo e possiamo provare a interrogarci sulla vita che ci fa vivere, prima ancora di distinguerci come laici o religiosi.

Qualcuno potrebbe aggiungere: se un religioso si interroga sul senso del proprio essere religioso è per certi versi una fatto scontato. In fondo di che dovrebbe occuparsi, se non di ciò, un religioso? Un religioso si interroga di questioni religiose, appunto, come un medico di salute e malattia, un commerciante di merci o un banchiere di soldi. E’ un dato talmente semplice coincidente con la tautologia.

Non è invece tautologico il discorso se un religioso si interroga sul cammino religioso senza dare per scontata l’appartenenza a questa o quella confessione, a questo o quell’ordine, ma solamente mettendo in gioco la propria nuda umanità, il semplice fatto di esistere. Come credo di fare anch’io, che vivo i piaceri e gli affanni di chi tiene famiglia e lavoro. L’essere religioso, allora, diventa un aspetto della natura umana, prima ancora di avanzare una questione di ordinazione o di appartenenza. Meglio: l’essere ordinato è una delle possibili declinazioni dell’essere religioso, come per altri lo è indossare la veste laica. (In una forma più concisa o seriosa è dire che l’uomo è anche homo religiosus).

Che è un po’ come chiedere: dove passa la distinzione tra credenti e non credenti? Sarebbe una scorciatoia ritenere che passi attraverso l’appartenenza ad una confessione religiosa: uno crede di credere, l’altro crede di non credere: ma in cosa crediamo veramente? Provo per un attimo ad osservare da vicino il significato della parola ‘credente’. Prima di essere sostantivo è un verbo, cioè la parte più variabile e dinamica del discorso, sottoposta a continui cambiamenti, di modi, di tempi e di persona. (Allo stesso maniera parlare di ‘essere’ come sostantivo significa ingessarlo, ridurlo a cosa, a stato, per quanto si cerchi poi teoreticamente di galvanizzarne il significato; invece ‘essere’ è sempre essere transeunte, transitivo). ‘Credente’ come verbo è participio presente, quindi vivo, attuale. Credente è colui che intende rinnovare giorno per giorno il rapporto con la vita, o almeno ci prova. Se invece do per scontato ciò che dovrebbe costituire la fonte dell’esistere non sono più un credente, letteralmente, ma declino al passato il mio rapporto con la vita, l’ho già archiviato, è uno stato di cose, sono un ‘creduto’. In fondo, fede è anche domandarmi quale participio sono.

 

3. Se questa è la cornice all’interno della quale intendo abbozzare una riflessione, prima di procedere, ne faccio la prova, la sottopongo a verifica. Verificandola in prima persona. Mi domando allora: io sto compiendo un cammino religioso? Dico questo non per autocriticarmi o blandirmi con falsa modestia circa il valore di ciò che faccio. Voglio interrogarmi per davvero proprio sul senso dell’aggettivo qualificativo ‘religioso’. Ripeto: è religioso il mio cammino? Cosa lo qualifica come tale? E’ solo questione di autocomprensione circoscritta all’ambito del proprio foro interiore? Oppure riguarda la frequentazione più o meno assidua a celebrazioni, cerimonie, pratiche, ritiri, ecc.? O lo studio solerte di libri sacri e ispirati? E’ tutto ciò messo assieme o nulla di ciò? Prima dov’ero, allora? O invece - mi domando - c’è un camminare che non è il collegamento tra due punti dati (con la mira puntata alla meta, la santità, l’estasi, l’illuminazione, il samadhi, la mukti, il satori, il nirvana), ma un attraversare (per - currere, ‘correre attraverso’), un andare comunissimo nella vita, indistinguibile da quello compiuto da qualsiasi essere umano, il quale conduce la sua vita finché non muore? Non è proprio dentro questo semplice camminare la possibilità di cogliere lo sfondo religioso, capace di scoprirsi universale, abbracciando ogni essere umano? Altrimenti, seguendo la direzione opposta del discorso si potrebbe esaurire subito la riflessione dicendo che tutto quello che c’è da fare è collocarci all’interno di una confessione religiosa (non viviamo del resto in un vivace periodo di sollecitazioni interculturali e interreligiose?), e poiché, grosso modo, i religiosi ordinati vivono in maniera più determinata tale collocazione, tutto quello verso cui tendere è che i laici prendano i voti, realizzando in questo modo l’armonia mundi, l’ordine del creato. Per alcuni questo sarebbe un sogno, per altri un incubo, comunque sia è un paradosso.

Addenda. Mi rendo conto che c’è un modo di procedere nella riflessione che involontariamente incapsula in scomparti predefiniti quanto si sta dicendo nel tentativo di chiamare le cose con il loro nome, ma allo stesso tempo il discorso ne esce cristallizzato, irrigidito: questo è religioso, quello non lo è, ecc. L'altra componente che vuole evidenziare l’aspetto dinamico e cangiante del reale, rischia però il pericolo di cadere nella genericità: ogni cosa è religiosa, ma se ogni cosa è religiosa, nessuna lo è.

Per evitare le attrazioni e i pericoli latenti da entrambe le sponde posso fare una cosa: devo dire cos’è questo ‘religioso’ di cui da un po’ sto parlando, vedendo poi se il significato che attribuisco io al termine corrisponde in qualche maniera a quelli che ne danno altri, religiosi e non. Non è questione da poco: sono fortemente convinto che proprio qui stia il nucleo di quel dialogo religioso che viene prima di un dialogo tra le religioni, e di cui fra l’altro si occupa questa piccola rivista.

E’ vero però che seguendo il metodo autobiografico l’unica cosa di cui sono autorizzato a parlare è me stesso perché solo me stesso conosco (meglio: presumo di conoscere) con adeguata cognizione. Nello stesso tempo non ha senso parlare di me come di un essere separato, tagliato dalla totalità della vita, bensì so bene che posso solamente percepirmi come un’espressione della vita che si manifesta in un certo arco di tempo, in relazione a numerose altre forme che sarebbe semplicemente folle provare ad enumerare.

Entro allora nel vivo della testimonianza. C’è una dato che mi connota in una forma evidente e immediatamente percepibile da chi mi vede e conosce: mi trovo nel mezzo del cammin di mia vita. Dietro questo dato anagrafico, di una banalità sconcertante, c’è tutta un’esperienza viva e vissuta, a discapito di qualsivoglia descrizione si desideri fornire. C’è altresì la consapevolezza di aver attraversato, per bene che possa andare, una discreta metà della propria esistenza. C’è, infine, la consapevolezza della finitezza del mio esistere (più esplicitamente: della mia mortalità). Questo insieme di cose, vissute intensamente nel corpo come nel pensiero, mi porta a dire che c’è una sola domanda e questa riguarda il semplice fatto di esistere. E’ ciò che mi dice, ad esempio, l’episodio cruciale nel racconto della vita di Buddha Śākyamuni, dell’incontro con la realtà dell’invecchiamento, della malattia e della morte (cfr. Aśvaghosa, Buddhacarita). Non che prima, ad esempio da ragazzo, ignorassi simili domande, ma ora me le pongo in modo affatto diverso e mi è difficile non farlo. E le risposte a questa domanda che ricevo dai vari ambiti dell’indagine umana (la medicina, la psicologia, la politica, ecc.) appaiono al mio sguardo inadatti. Non metto in dubbio la loro utilità nei domini che gli sono propri, semplicemente non toccano la domanda a cui facevo sopra cenno.    

A tale interrogativo le millenarie tradizioni religiose rispondono rilanciando una nuova domanda. Tu cosa sei? - dicono - Sei la goccia d’acqua o l’acqua della goccia? La goccia d’acqua sparisce, ma l’acqua della goccia no. Noi non siamo altro che gocce che cadono nel mare infinito della divinità e in questo modo ce ne andiamo. La maturazione, allora, è avere tempo per scoprire la nostra natura di acqua.

Questa risposta, che io ho forse fin troppo sintetizzato, può essere di soccorso nell’accostarmi al significato della termine ‘religioso’ riferito al camminare nella vita. Mi accorgo che la prima metà della vita l’ho dedicata, come fanno quasi tutti del resto, a costruire - attraverso ipotesi, tentativi, prove e parecchi errori - un’identità personale, a dare una fisionomia precisa all’essere goccia; la seconda metà la sto dedicando (anche ma non solo) a preparami a prendere congedo da questa identità nella condizione paradossale (qui è il problema) di sentire di essere al contempo e acqua e goccia. Che io debba prima o poi abbandonare tutto ciò che ho accumulato (e non solo la ‘roba’ materiale: ce n’è anche, tanta, di immateriale) è un fatto incontrovertibile, che piaccia o meno.

Addenda. Ciò detto, aggiungo che la rappresentazione dell’acqua e della goccia sopradescritte non mi convince appieno. E’, in fondo, una rappresentazione troppo bella, oleografica, tutto pare scorrere via liscio. Come allegoria è buona, ma la mia vita non è un’allegoria. E poi: perché questo voler antropomorfizzare anche l’acqua? E ancora: tali immagini non producono come risultato una durezza e un irrigidimento delle tensioni e delle screziature simboliche al punto da insidiare la natura stessa della fluidità di questo elemento naturale. In fondo le immagini che l’acqua può suscitare non possono avere la durevolezza e la costanza delle immagini fornite dalla terra, dai metalli e dai solidi. “Senza sostanza essa penetra in ciò che non ha interstizi.” (Tao tê ching). Forse, viene da pensare, c’è proprio bisogno di una nuova mitologia e di un nuovo linguaggio. Nell’attesa leggo e ascolto le risonanza di quest’altra rappresentazione, forse meno rassicurante, di fronte alla quale per sentirla fino in fondo mi devo tuffare, così come facciamo con la vita, tutti i giorni, anche se non ce ne accorgiamo o vorremmo in certi casi restare spettatori: “Non si tratta qui di studiare l’acqua secondo il punto di vista di un uomo né secondo quello del cielo; ma si tratta di guardare l’acqua nell’acqua, perché quest’acqua fa esercizio e prova dell’acqua. La ricerca consiste nel fare in modo che l’acqua esprima l’acqua” (Dōgen, Sutra Sansuikyo).

 

4. Apertis verbis: ora, la religione mi serve a questo. Dico ciò in termini provocatori. Tante volte sento dire che la pratica religiosa non serve a niente: non ad accumulare meriti, premi, ecc. Tutto questo è vero e personalmente detesto il buonismo che talvolta si annida in chi dichiara di praticare un sentiero religioso, autocollocandosi in una posizione particolare. Un detto extracanonico di Gesù così dice: “Se digiunate, attirerete su di voi il peccato, se pregate, vi condannerete da soli, se fate l’elemosina, farete del male al vostro spirito” (Vangelo di Tommaso). Non mi reputo in nulla migliore o peggiore di chi di cose religiose non vuole avere a che fare. Non traggo alcun vantaggio personale a fare un cammino religioso, indubbiamente, ma mi serve, questo sì, per dare lievito all’esistenza mia e a ciò che mi circonda. In una parola, per vivere, per sentirmi radicato con la pienezza della vita, nel bene come nel male: è la vita che dà senso alla vita.

Potremmo dire: “C’è una pratica religiosa che viene prima di ogni pratica religiosa”. Oppure: “C’è un volto religioso che viene prima di qualsiasi volto religioso”. Mi interrogo sulla natura di questo ‘prima’: separa distinguendoli due campi ben definiti, quello ‘profano’ (“ciò che sta fuori dal tempio”) da quello ‘sacro’ delle religioni, dando una volta tanto il primato alla prosa della vita quotidiana rispetto l’aura numinosa che ammanta le religioni? O quel ‘prima’ non è altro che lo sfondo soggiacente a ciò che chiamiamo vita laica e vita religiosa (volendo ostinatamente persistere in tale distinzione)?

C’è una frase, a prima vista cruda, del maestro contemporaneo zen Kodo Sawaki che mi ha colpito molto in proposito poiché dice con chiarezza di quel ‘prima’: “Ognuno immerge sé stesso nella sua propria vita e vive (…) In realtà la vita dell’essere umano non differisce da quella delle rondini: i maschi procurano il cibo e le femmine covano le uova”. Certo, la natura dell’essere rondine non è la natura dell’essere umano, e sarebbe ingenua romanticheria immaginarsi che l’uomo possegga una naturalità del genere. Ma è vero anche che entrambi sono immersi in un’unica grande natura, a cui vi partecipano in forme differenti. Non siamo divisi, né divisibili da quell’unica natura, anche se non possiamo affermare con questo che non vi sia differenza fra il nostro aspetto umano e quello delle altre creature.

Per quello che ci è dato sapere secondo la nostra prospettiva umana, noi, a differenza delle rondini, manifestiamo una natura complessa, non definita, costitutivamente aperta, la quale contempla fra le più diverse possibilità anche quella di rinnegare l’immersione in quella vasta natura che costituisce la fonte e l’origine (coloro “che mai non fur vivi”, li chiama Dante nell’Inferno). Ma questa apertura, pur variamente modulata e declinata, alla fine realizza la fedeltà a sé stessa solo nel vivere la vita, immersi nelle relazioni con chi ci è vicino e con l’ambiente che ci circonda. Allora la vita è questo: procurarsi il cibo, covare le uova e poco altro. Perché è questo che la vita nella sua essenzialità mi chiede, nella vocazione (religiosa, c’è bisogno di dirlo?) ad essere semplicemente uomini e donne, vale a dire esseri creati a immagine e somiglianza di Dio (Genesi 1, 26), non nella distinzione tra laici o religiosi, perché abbiamo un volto prima di indossare questi abiti, i quali dovremo nel punto definitivo della nostra esistenza deporli senza possibilità di ricorso. Fare quello che c’è da fare perché è da fare e basta. Ripeto: l’unica vera aspirazione che posso avere nelle vita è quella di immergermi nella vita, facendo la mia parte nella maniera più intensa e sincera che mi è possibile.

Allora, o la religione mi aiuta a ricollegarmi a tutto questo o sto perdendo il mio tempo, riducendo la religione a oppio dei popoli o a sospiro della creatura oppressa. Non è che noi abbiamo poco tempo, è che ne perdiamo molto, ricordava in proposito Seneca (nel De brevitate vitae). Perderlo poi baloccandosi con pratiche religiose mi sembra davvero lo spreco peggiore.

Questo è ciò che chiamo dialogo religioso con la vita. Preferisco questa espressione, più laconica - ‘dialogo religioso’ - a quella di ‘dialogo interreligioso’ oggi in voga, o a quella più ricercata di ‘dialogo intrareligioso’ che vuole mettere in luce l’interiorità della ricerca. Qui, lo ripeto, dialogo religioso non delimita un campo - quello delle religioni, per l’appunto -, rispetto ad altri settori: che ne so, quello politico, quello economico, quello artistico, ecc. L’attributo ‘religioso’ vuole indicare quel rapporto con la vita tale da manifestare la sua natura intima. E’ il dialogo ad essere religioso, indipendentemente dall’ambito in cui mi trovo o di cui mi occupo, mentre spesso non si considera proprio questo elemento primario: il dialogo prima ancora di riguardare due (o più) tradizioni religiose è dialogo che parte e coinvolge la totalità della propria esperienza e sensibilità proprio nei confronti della vita. Di più: a un certo punto dire dialogo rischia di essere restrittivo: è semplicemente vita che vive, quella che ci sostiene e ci mantiene, che fa vivere e fa morire.

 

Da “La Stella del Mattino”, laboratorio per il dialogo religioso, n. 4, ottobre/dicembre 2005

www.lastelladelmattino.org/rivista Per ogni contatto: redazione@lastelladelmattino.org.

 

 

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