Giangiorgio
Pasqualotto insegna Storia della filosofia all'Università di Padova e
da 20 anni si occupa di pensiero orientale. Autore di diversi saggi sull'arte
e la cultura orientale ha publicato tra gli altri “Yohaku: forme di ascesi
nell'esperienza estetica orientale”, “Simplegadi: percorsi del pensiero tra
oriente e occidente” e “Il tao della filosofia”.
Prof. Pasqualotto,
vorremmo interrogarci con lei su alcuni dei temi della contemporaneità
cercando di capire se e come il dialogo e il confronto tra la tradizione
orientale e la cultura filosofica e scientifica europea possa portare un
contributo sostanziale al nostro vivere quotidiano.
D.Il secolo appena
trascorso è stato da più parti definito come il secolo del nulla proprio
perché da Nietzsche in poi, la filosofia occidentale si è confrontata per la
prima volta con l'impossibilità di dare ragione dell'esistenza dell'uomo e del
mondo. La crisi delle meta-narrazioni, delle ideologie e delle dottrine
fideistiche che si è ingenerata dal II dopoguerra ad oggi, secondo lei ha
trovato soluzioni o risposte nella riflessione filosofica contemporanea?
P. L’impressione è che la cultura contemporanea si definisca in
sostanza post-moderna, cioè come riflessione sul mondo dopo la morte di Dio,
dove ‘morte di Dio’ non significa solo la fine di vecchie forme di teologia,
ma morte o eclisse di valori e di principi, anche di carattere laico. Non
soltanto la morte di alcune forme di religione, ma la morte delle
rappresentazioni dell’uomo che hanno come punto comune e come centro quei
valori forti che potevano essere la religione o la libertà. In questo senso la
filosofia contemporanea in gran parte si autodefinisce post-moderna intendendo
con questa definizione una riflessione su come sia possibile vivere e
sopravvivere in assenza di questi punti di riferimento precisi, forti,
condivisi dalla maggior parte delle persone. Di fronte a questo ci sono
naturalmente delle difficoltà, nel senso che non è facile trovare queste fonti
di sopravvivenza e personalmente penso che all’interno di questa ricerca
diretta a trovare modi di sopravvivenza dopo la morte di Dio ci sia anche
questa diffusa moda delle ricerche che hanno l’oriente come meta. Questo,
naturalmente, comporta altri problemi, perché noi, andando ad Oriente,
troviamo solo risposte diversamente forti, cioè non troviamo, per lo più,
pensieri critici.
D: In sintesi possiamo
dire quindi che soluzioni e risposte nella filosofia contemporanea non se ne
trovano, perché la filosofia non ne vuole dare.
P: Non perché la filosofia non ne vuole dare, ma perché è consapevole
che non è più possibile darne. La riflessione della filosofia contemporanea è
proprio questa. Infatti, dopo Nietzsche, la filosofia è giunta al punto di
dire che non è più possibile dare risposte metafisiche forti. Anche in una
delle più grandi costruzioni filosofiche contemporanee come quella di
Heidegger, il fatto che egli dica che è necessario ritornare a pensare
l’essere prima della metafisica - cioè a ripensarla in maniera completamente
diversa da come è stata pensata da Parmenide a Nietzsche - o è una risposta
debole, nel senso che questo concetto di Essere è vago, non riesce ad essere
codificato, denominato, strutturato; oppure rischia di essere una ennesima
riproposizione di un pensiero forte. Quindi anche la risposta di Heidegger non
è una risposta definitiva. Anzi, secondo me anche Heidegger appartiene al
periodo della morte di Dio, nel senso che dicevamo prima, cioè al periodo in
cui si verifica la morte delle grandi possibilità di rappresentazione.
Peraltro la cultura contemporanea è ricca anche di voci ‘forti’: in Italia la
voce più importante è quella di Severino, il quale propone un pensiero anche
troppo ‘forte’, un pensiero che ritorna a Parmenide, riprendendolo nella sua
tesi fondamentale secondo cui “l’essere è e che il non essere non è”;
attraverso questa tesi Severino rilegge la modernità, e, in particolare, legge
tutto il problema della tecnica in maniera critica.
D: Puo’ bastare, la ringrazio. Sempre sul tema della morte di Dio, a suo
parere la tradizione orientale aveva già frequentato questo luogo di confine
della filosofia? Cioè, si è confrontata con questo problema?
P: Non si è confrontata con questo problema perché, secondo me,
questo problema non ce l’aveva. Bisogna però distinguere tra diverse
tradizioni orientali. L’India del Brahamanesimo, dei Veda, delle Upanishad è
completamente diversa (anche se possiamo trovare delle piccole analogie) dal
pensiero cinese. Nel pensiero cinese, il problema di Dio come l’abbiamo avuto
noi per 2500 anni non l’ha mai avuto. Il problema della trascendenza nel senso
forte, monoteistico e personalistico, che ha attraversato il Cristianesimo e
poi l’Islam, la Cina non l’ha mai avuto. Possiamo parlare di spiritualità,
possiamo parlare anche di divino, ma di un ‘divino’ diffuso nella natura,
nella potenza degli esseri.. Ma una posizione di trascendenza forte, da cui si
intende dipenda la creazione del mondo, questa non è mai esistita. Su questo
tema c'è un bellissimo libro di François Jullien di qualche anno fa, “Processo
o Creazione” (1991, Edizioni Pratiche), dove l'autore mette in
contrapposizione da un lato proprio la rappresentazione cinese del mondo e
dell’esistenza , che è all’insegna dell’idea di un processo che non ha né
inizio né fine, un processo di continue trasformazioni; e, dall'altro, il
principio della creazione, che implica un movimento che invece parte da un
punto, cioè dall’atto creativo di Dio, e finisce in un punto costituito dal
giudizio universale. Questa è una vera e propria differenza non facilmente
sormontabile. Quindi il problema della morte di Dio l’Oriente, e in
particolare l’Estremo Oriente, non l’ha mai avuto.
L’India lo ha avuto in qualche maniera, ma in una maniera assai diversa.
Voglio dire, molto rapidamente, che il grande pensiero metafisico Indiano, il
Brahmanesimo, prima del Buddhismo, ha risolto il problema della divinità in
maniera molto chiara, ricorrendo all’idea di Atman / Brahman come Assoluto
neutro e infinito, che, in quanto infinito, può manifestarsi in infiniti modi;
ergo: anche in infiniti Dei. In questo senso il pensiero Indiano classico è
riuscito a conciliare monoteismo e politeismo.
D: Sì, però in questo
modo non ha dato ragione dell’esistenza. Forse non si è posta neanche il
problema.
P: No, all’interno del Brahamanesimo si sono formulate varie teologie
che hanno affrontato il problema dell’esistenza. Anzi, nei Veda qualsiasi
azione umana, banale o importante, è sacralizzata in modo da dare un senso
preciso ad ogni azione umana. In particolare, nelle “Leggi di Manu” voi vedete
previsti sacrifici per ciascun atto della vita quotidiana che viene sottoposta
così ad una sacralizzazione estrema di cui noi forse non abbiamo mai avuto
memoria. (Forse solo con l’ebraismo e la sua tradizione talmudica abbiamo
avuto qualcosa di simile). Nel suo modo di dare una ragione all’esistenza in
senso religioso forte il Brahamanesimo sicuramente non ha eguali, anzi, a
volte appare quasi soffocante, perché non c’è azione o gesto che sfugga a
questo senso di sacralità.
D: Certo, questa
dottrina riconduce tutto a un principio, ma il perché di questo principio non
viene posto in questione.
P: Beh, l’impostazione tradizionale non solo indiana, ma anche
metafisica occidentale, direbbe che questa domanda che tu poni è una domanda
antropocentrica, che tende ad una presunzione antropocentrica, e che dimentica
il fatto che c’è prima l’essere e poi ci sei tu che interroghi l’essere. La
tua domanda è perfettamente in linea con la filosofia moderna, cioè con le
questioni e le soluzioni poste prima da Cartesio e poi da Hegel . Dopo quest’ultimo
sarà Feuerbach a radicalizzare la soluzione in direzione immanente, laddove
sostiene che non è Dio che crea l’uomo, ma sono gli uomini che creano gli Dei
(li creano nel senso che producono importanti racconti in base ai loro
bisogni).
D: A questo punto le
chiederei: in che modo le vie esperienziali orientali possono contribuire ad
affrontare la crisi dei valori e quindi la morte di Dio oggi per noi? E più
precisamente, in che modo un contronto con il Buddhismo o con le tradizioni
indiane e cinesi può aiutarci a vivere e affrontare la crisi delle
meta-narrazioni?
P: Io penso che questo sia possibile, anzi forse questa è l’unica
cosa possibile ma non nei termini in cui eravamo abituati. Cioè non è più
possibile ripristinare forme di antiche certezze. Per esempio, il Buddhismo ha
delle possibilità di risposte enormi, ma sicuramente non sono di ordine
metafisico. Sono di ordine pratico, esperienziale, basate soprattutto
sull’esperienza della meditazione; oppure, detta in maniera ancor più
semplicistica, ha enormi possibilità di analisi e di terapia psicologica. Il
Dalai Lama diceva, ancora nel 1974, che il Buddhismo in occidente avrà un
ruolo rivoluzionario perché può donare enormi tesori in termini di psicologia,
di analisi psicologica, di analisi dei comportamenti e soprattutto di analisi
e terapia delle emozioni, cosa di cui noi ci siamo occupati ben poco o che
abbiamo interpretato in maniera meccanicistica, facendo gli esperimenti in
modo comportamentistico, meccanicistico.
Tra le tante cose che il Buddhismo può darci un posto di rilievo è occupato
certamente da una considerazione del problema etico che porta ad un’etica
radicalmente diversa da quella occidentale. Inoltre può aiutarci ad affrontare
il problema ecologico, nel senso indicato dalla massima “proteggendo me stesso
proteggo gli altri, e proteggendo gli altri proteggo me stesso". Ciò significa
una cosa molto semplice (da formulare): l’uomo, se vuole sopravvivere e vivere
meglio, deve far sopravvivere e vivere meglio gli altri esseri e l'ambiente
che lo ospita, e, viceversa per far sopravvivere e vivere meglio gli altri e
il proprio ambiente, è necessario che egli stia bene con se stesso. C’e’
quindi una simbiosi reciproca tra il singolo individuo, gli altri individui, e
l’ambiente. Ecco, queste sono le tre cose fondamentali su cui il Buddhismo può
dirci oggi qualcosa dotato di senso, qualcosa di ‘sensato’: l’etica, la
psicologia e l’ecologia. Sicuramente, però, non sono risposte in termini
metafisici.
D: Quindi secondo lei la
differenza in questo caso la fa l’esperienza?
P: Sì
D: Non è più metafisica,
né più solo pura teoresi.
P: Sì, al centro viene posta l’esperienza analitica, introspettiva,
che tradizionalmente tutte le scuole buddhiste, dal Buddha in poi, hanno
sostenuto essere praticabile attraverso la meditazione. La pratica della
meditazione diventa centrale, perché è attraverso la meditazione che si fa
esperienza della struttura e delle qualità essenziale della realtà tutta, sia
interna che esterna. ‘Meditazione’ non in senso occidentale, come
speculazione-su, riflessione-su qualcosa, ma come attenzione a qualsiasi
fenomeno, da quello più vicino a ciascuno (la respirazione) fino a quelli più
astratti come i concetti di senza-spazio e di senza-tempo, passando per
l’attenzione alle emozioni, agli stati interiori e alle azioni. E’ quindi
meditazione anche su cose banali, e tuttavia, attraverso questo esercizio
all’attenzione, si può raggiungere una chiarezza tale che ci permette di
risolvere molti dei problemi posti dalla nostra vita quotidiana...
D: E' possibile
rintracciare nell’arte contemporanea, la testimonianza del disagio, della
crisi che è nata dalla morte di Dio?
P: Sì, in tutta l’arte contemporanea. Dalla nascita delle cosiddette
avanguardie, da Duchamp in poi. Ma in pittura si potrebbe partire
dall’impressionismo, dallo sconvolgimento della prospettiva e della
rappresentazione realistica. Direi che tutta l’arte contemporanea è una
testimonianza di una perdita del centro, o, come diceva Sedlmayr, di una
perdita della luce, di un polo focale. Detto questo, il ventaglio delle
avanguardie è enorme. Nel senso che, se voi prendete i tentativi di Malevic,
di Kandinskij e di Klee, trovate che sono tre tentativi di dare risposte a
questa assenza. Per certi aspetti, per esempio in Kandinskij quando parla
dello spirituale nell’arte, sembra che voglia ritornare ad una prospettiva
metafisica. Credo che qui ci possa essere una vicinanza tra alcune grandi
esperienze dell’arte contemporanea con il discorso che facevamo anche oggi del
senza forma [N.d.r. Pasqualotto qui si riferisce alla conferenza tenuta nello
stesso giorno su “Arte e ascesi in oriente”]. Cioè: attraverso le forme e i
colori riuscire ad indicare qual è la fonte, il fondamento di tutte le forme e
di tutti i colori. Mi riferisco soprattutto al Malevic del suo quadrato
“Quadrato bianco”, oppure allo spirituale nell’arte di cui parla Kandinskij:
l’arte povrebbe indicare ciò da cui provengono le sue rappresentazioni. Questo
sarebbe un modo (assai vicino alla mistica) di indicare il non
rappresentabile, nella consapevolezza che ad esso si può soltanto alludere,
non lo si può descrivere compiutamente. Quindi ci potrebbe essere uno
spirituale nell’arte dopo la morte di Dio, da riscoprire in modi assai diversi
da quelli tradizionali, teologici o metafisici.
D: La globalizzazione da
alcuni viene anche definita europeizzazione o americanizzazione, volendo con
questo esprimere la fortissima influenza che il nostro modello di vita sta
esercitando in India, in Cina, in Sud America, in Giappone. E’ possibile che
anche il resto del mondo stia per vivere il confronto con il nulla e la crisi
conseguente in cui noi già ci troviamo da tempo? E, l’arte orientale, visto
che gli artisti sono comunque un po’ i profeti della società, esprime già
questo disagio?
P: Devo rispondere purtroppo di sì. Ovviamente è un sì condizionato,
nel senso che tutto è sempre possibile. Però a me sembra di capire, da vari
indizi, che l’occidentalizzazione (sia essa europea o americana) sta divorando
rapidamente pezzi di intere civiltà, soprattutto in Asia e Africa. A mio
avviso l’Oriente nel giro di cinquant’anni non esisterà più, almeno quell’Oriente
tradizionale che abbiamo studiato e fin troppo amato. Ovvero rimarrà nei
musei, in alcune riserve come quelle degli indiani d’America. Uno dei segnali
più recenti e drammatici è stato dato dal suicidio rituale di Mishima che si
uccide perché capisce che un intero mondo non è più comprensibile e vivibile
all’interno di una prospettiva dettata dall’americanismo. Questo avveniva
quarant’anni fa . In questi quarant’anni abbiamo avuto un’accelerazione
spaventosa di tali processi di occidentalizzazione guidata dall’american way
of life. Tuttavia, siccome le cose sono sempre piu’ complesse di come noi ce
le rappresentiamo, può anche essere che queste nuove forme di globalizzazione
innestino anche riflessi condizionati contrari. Per esempio: Il Giappone negli
ultimi vent’anni ha riscoperto in maniera massiccia e ha riorganizzato molti
settori delle sue arti tradizionali come quella della cerimonia del tè e
quella del bonsai: queste arti sono state spesso trivializzate, ma nello
stesso tempo, sono state diffuse in maniera massiccia, per cui le giovani
generazioni di giapponesi hanno potuto recuperare - e certe volte conoscere
per la prima volta – importanti tradizioni del loro paese. E questo magari
ascoltando amici americani o europei che ne parlavano entusiasti.
D: Sì, certo. Andiamo sulla questione del dialogo interculturale. Possiamo
dire che oggi non è piu’ solo un tema accademico ma fa parte della nostra vita
quotidiana per vari fenomeni che conosciamo bene come l’immigrazione , la
globalizzazione, le questioni di politica internazionali, che spingono un po’
tutti a una rilettura della nostra concezione dell’altro, del diverso
culturalmente e in senso ampio. La filosofia occidentale ha messo a punto
degli strumenti per ripensare questa relazione con l’altro?
P: No. In realtà questo tema è sicuramente un tema filosofico, perché
secondo me tutti i problemi, tutti i temi sono filosofici. Però da un punto di
vista disciplinare, accademico, istituzionale, la filosofia non se lo è mai
posto in modo preciso. Oggi facevo l’esempio appunto di Eraclito e Platone e
Hegel [N.d.r. anche qui si fa riferimento alla conferenza della mattina su
"Arte e ascesi in oriente"], però forse soltanto Hegel ha affrontato la
tematica dell’identità e della diversità in senso forte, anche se sempre in
senso molto generale, formale, logico. Prova ne sia che quando Hegel deve
parlare di altri popoli (per esempio nelle “Lezioni di filosofia della
storia”) dice cose terribili, ai limiti di un razzismo folle e senza freni.
Ciò nonostante, nella “Scienza della logica” dimostra in modo
incontrovertibile che l’identità dipende dalla diversità, e cioè che
l'identità in sé e per sé non esiste. Ritengo che questa acquisizione sia una
delle massime conquiste filosofiche che l’antropologia ha invece ottenuto ‘sul
campo’, per via sperimentale. L’antropologia, infatti, fin dalle sue origini è
stata costretta a porsi il cruciale problema dell’identità: quando noi
dobbiamo conoscere l’altro, cosa facciamo? Come ci rapportiamo? Credo che i
filosofi dovrebbero leggere più libri di antropologia, anche se questa, per
ragioni ‘disciplinari’, eccede nell’ossequio ai “dati di fatto”. Sarebbe
sensato riprendere in mano Levy Strauss, e poi venire avanti, fino agli
attuali dibattiti sullo straniero, sul diverso, etc. Uno dei pochi filosofi
che si è cimentato in modo sistematico con questi temi è Waldenfels che ha
scritto una poderosa “Fenomenologia dello straniero”.
D: Il dialogo con la
tradizione orientale potrebbe contribuire a questo tipo di mancanza della
filosofia occidentale?
P: Sì. Credo che il lavoro che Francois Jullien sta conducendo a
Parigi sia fondamentale, anche se molti sinologi, da una parte, e storici
della filosofia, dall’altra, esprimono non poche riserve. Il suo ragionamento
in base al quale dobbiamo conoscere la Cina proprio perché essa costituisce il
nostro ‘altro’ più altro, più lontano, più diverso, è fondamentale perché ci
dice che la nostra identità può costruirsi solo in maniera critica, ossia
esponendosi a modi di pensiero il confronto con i quali ci costringe a
rivedere i nostri, come a proposito dell’esempio già fatto circa la diversità
dei concetti di ‘processo’ e di ‘creazione’. Lo stesso vale per il concetto di
‘efficacia’: noi lo intendiamo in una prospettiva lineare che parte da un
punto (l’intenzione) e arriva ad un altro (il risultato); loro affrontano il
problema in termini completamente diversi considerando l’efficacia come il
modo migliore per trovare nella realtà la via che conduce a buon esito
un’impresa. Non si tratta di un’imposizione nostra sulla realtà, ma si tratta
di diventare capaci di ‘leggere’ nella realtà quegli indizi che ci possano
condurre alla soluzione migliore così come si apprende dall’’'I Ching’, e come
viene ben illustrato in un testo, tradotto di recente, di Jullien (“Trattato
dell’efficacia” Einaudi, 2004) .
D: Non è in modo tecnico
dunque che si intende l'efficacia.
P: Sì, quella occidentale si fonda su una fede quasi cieca nella
tecnica, anche quando tratta di politica o di strategie militari. Questo
esporsi al diverso, di cui parla Jullien, comporta la necessità di ripensare
alla valenza, al valore e al significato delle nostre stesse categorie. E
quindi in questo senso il dialogo tra oriente e occidente diventa
fondamentale, direi quasi necessario.
D: Concludiamo con
un’ultima domanda che forse ha un po’ meno pretese. Le trasformazioni sociali
ed economiche degli ultimi sessant’anni, in buona parte determinate dal
progresso tecnologico, hanno accentuato l’assenza di riferimento condiviso- è
il discorso che abbiamo fatto fino ad ora- quindi l’assenza di una certezza
sulla quale fondare una morale, un progetto di vita comune, a livello
microsociale e macrosociale. Lei pensa che i giovani cerchino una risposta a
queste domande, o comunque alla complessità del mondo, quando pensano di
studiare filosofia? E l’università è in grado di dare queste risposte?
P: Non posso essere nella mente di tutti gli studenti, ma che in gran
parte pensino di venire a fare filosofia per dare risposte alla loro vita è
sicuramente vero: è sempre stato così e sarà sempre così. Che l’università sia
in grado di fornire queste risposte, credo proprio di no. Però devo anche dire
che nessun altro è in grado di dare risposte, anche se pretende di darle.
Diciamo che nella migliore delle ipotesi l’università può dare molti strumenti
perché poi gli studenti possano trovare da soli delle risposte. Se
l’Università volesse fare di più vorrebbe dire che tenderebbe pericolosamente
a diventare Chiesa. E di Chiese ce ne sono già troppe.