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Henri Le Saux (Abhishiktananda, 1910-1973) (Mistica cristiana e sentiero Advaita: Lo Yoga della presenza di Dio in fondo al cuore) “Il cristiano, che è penetrato fino alle sorgenti più profonde del proprio essere, dove scopre la sua unità misteriosa con Dio, è al pari dei suoi fratelli indù, seguaci dell’advaita (non dualità), ma nel medesimo istante ultimo in cui si dischiude l’eternità, egli riconosce che è nato dal Padre nel Figlio Unigenito.[1]”………………. “Yoga è unione tra l’uomo e Dio, non dualità. Prendere coscienza della presenza di Dio in noi vuol dire immergersi nella pace, nelle profondità da cui sgorga la vita nella sua pienezza, e da cui si può attingere conforto e gioia: la beatitudine che gli indiani chiamano Ananda, è quella dello Spirito, “il grande Consolatore”, il dolce Ospite dell’anima”[2].
L’ insegnamento di Henri Le Saux, monaco benedettino, conosciuto in India con il nome di Abhisiktànanda (la gioia dell’unto), è incentrato sullo “Yoga della presenza”, presenza a sé e presenza a Dio. Egli stesso, soleva ripetere: “I veri guru cercano dapprima di far realizzare il grande silenzio nell’anima dei loro discepoli, poi di insegnare alla coscienza a concentrarsi su se stessa riconducendola incessantemente all’attimo presente e alla sorgente stessa di tutte le attività dello Spirito, fondamento della preghiera. Questa infatti non è soltanto supplica, lode, invocazione, ma anche silenzio, attenzione, apertura al mistero della vita divina che è unità e non dualità, o relazione trinitaria, come insegna il cristianesimo”. Henri Le Saux lasciò la Bretagna nel 1948, per fondare in India l’Asram cristiano contemplativo di Santivanan (Bosco della pace), insieme al sacerdote Julies Monchanin. Nella pace di questo luogo, assorto nella meditazione delle Upanishad, scopre la mistica Advaita, il sentiero indù della non dualità. Scopre che sia l’esperienza trinitaria cristiana che quella advaita si arricchiscono reciprocamente e dimorano realmente l’una nell’altra. Pur restando fedele al Cristo, egli si convinse dell’autenticità dell’ “esperienza advaitica”e dell’ espressione di questa nella vita di rinunzia del monachesimo indù (Sannyasa), “Il sannyasa è essenzialmente acosmico, come è stato anche il monachesimo cristiano delle origini”[3]. Illuminato nello spirito dall’incontro con due grandi maestri indù: Ramana Maharschi e Gnanananda, Le Saux divenne monaco itinerante (Sannyasin). prendendo il nome di Abhishikleshvarananda. Nel 1968, dopo l’arrivo all’Asram del monaco benedettino inglese Beda Griffith, Le Saux si consacrò alla contemplazione dell’Assoluto. Si ritirò prima su Aruncala e poi sull’Himalaya, percependo, nella profonda sorgente della sua coscienza, l’intimo mistero dell’uomo e di Dio. Il problema costante, che ritorna in tutti i suoi scritti, è quello di giungere alla non-dualità, alla relazione Io-Tu, del Padre e del Figlio. Quest’esperienza interiore della vita in Dio gli costò molto dolore a causa dell’ apparente inconciliabilità delle due tradizioni religiose, il cristianesimo della Chiesa cattolica e l’Advaita delle Upanishad. “Perché non abbandonare tutto e vivere immerso nella pace sovrana dell’advaita? Il fatto è che il cristianesimo grida che l’ advaita non è compatibile con esso. …Questi legami che non ho il diritto, o forse il coraggio di spezzare, sono la mia angoscia e uccidono il mio corpo”[4] Dom Henri Le Saux morì nel 1973, nell’ospedale di Indore, in seguito ad un attacco cardiaco. “Tutta la sua vita è stata un cammino verso l’altra Sponda. L’altra Sponda, non è che un altro modo di chiamare Dio”[5].
LA MANIFESTAZIONE DELLO SPIRITO
La manifestazione dello Spirito è il culmine della manifestazione di sé compiuta da Dio nella storia umana. Soltanto in essa il Padre rivela pienamente la sua gloria, e soltanto in essa la gloria del Figlio è fatta conoscere ai suoi (Gv 16,14). “È bene per voi che io me ne vada”, disse Gesù ai discepoli (Gv 16,7): questa era infatti la condizione per la venuta dello Spirito e la rivelazione della gloria. Lo Spirito è l’ “Unzione” che insegna ogni cosa (1 Gv 2,27). Egli vi farà conoscere nell’intimo del vostro essere ciò che ancora non potete comprendere (Gv 16,12). Egli vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto (14,26). Vi guiderà alla verità tutta intera (16,13), finché potrete comprendere il significato più profondo delle mie parole. Egli vi farà conoscere la mia gloria (16,14), che ricevo dal Padre e ho dato a voi (17,22-24). Tutto quello che il Padre possiede è mio (16,15), e tutte le cose che il Padre mi ha dato, io le ho date a voi, compreso il potere di diventare figli di Dio (17, 7-8; 1,12), il diritto di chiamare Dio “Padre” (Mt 6,9), come faccio io. L’amore stesso del quale si amano il Padre e il Figlio (Gv 17,26), l’unità che c’è fra il Padre e il Figlio (17,21), anche ciò Gesù comunicò ai suoi: egli dà lo Spirito, il mistero della non dualità del Padre e del Figlio, l’Amore donato con pienezza dal Padre al Figlio e dal Figlio a tutti coloro che il Padre gli ha affidato. Proprio in questo dono di sé, in questo comunicare all’altro tutto ciò che si ha o si è , in questa uscita senza ritorno da sé si manifesta realmente lo Spirito: è lo stesso mistero della comunione che costituisce la vita e l’essere del Padre e del Figlio. La vita di Dio è infatti Comunione; l’Essere è essenzialmente Comunione. Comunicare significa “essere passato” nell’altro, aver lasciato se stesso, e in questo “passaggio” stesso ritrovarsi veramente; vuol dire riconoscersi nell’altro, aver riscoperto il proprio sé autentico, “l´io” al fondo dell’altro. Dando se stesso, Gesù dà lo Spirito, immette per sempre l’uomo nella vita di Dio, lo fa essere. (Tradizione Indù e Mistero Trinitario, op. cit. pp.129-130) IL MISTERO DI GESÙ
(…) Gesù è il mistero che mi fonda, che mi genera, mi origina nella sorgente, nell’abisso senza fondo – il cosidetto mistero del Padre , che mi espande in tutto ciò che è. Lo Spirito, il Pneuma, l’Antaratman, il Sarvantaratman (il SÉ interiore a tutto), diffuso in ogni cosa, mi fa perduto in una estensione, in una fonte-azione che mi riduce all’infinito, per farmi infine essere identico allo zero…
LA PUREZZA DI GESÙ
Gesù era puro, perfettamente puro; in Lui non vi era nessuna traccia di egocentrismo, d’egotismo. “Chi di voi mi dichiarerà colpevole di peccato?”. Tutto trasparente al Padre, questa la via sicura e unica per andare da Lui. Se non ci fosse tale completa purezza, súddhamàtra, come ci si saprebbe impuri? Si trascorre il tempo a insegnare cosidette verità teologiche o dogmatiche su Gesù. La cui formulazione – in ogni caso – è dipendente strettamente da un certo ambiente mitico e da sistemi filosofici essenzialmente relativi. Gesù, il Sí, l’Amen. Egli non nasconde. La sua trasparenza è il suo amore. L’induismo non ha nessuna figura di tale purezza. Gesù fa confrontare l’uomo, ciascun uomo, sia con se stesso sia con Dio, poiché nella sua trasparenza Gesù è contemporaneamente entrambi. Quella purezza di Gesù. “Siate come dei bambini”. È nella limpidità di Gesù che si ha accesso al Padre, al fondo di sé, a sé. Gesù è il cammino verso Sé, per ognuno. Gesù è questa immagine che emerge dal più profondo di me e si eleva nella mia coscienza. …Ma, quando il Brahman della vittoria si rese visibile, i deva, Indra e gli altri non lo riconobbero e domandarono: “Che cos’è questo strano essere?[8] (KenaU III, 2). (Ib., op. cit., 15 marzo 1967, p. 356-357)
IL TUO MISTERO È LO STESSO MISTERO DI DIO
Cerca Dio finché lo troverai al di là di tutti i pensieri di lui e di tutti i sentimenti di lui. (…) E per cercare Dio cerca te, anche te stesso, al di là del soggetto di cui hai coscienza che percepisce, che sente, che pensa, al di là del soggetto che ha coscienza di percepire, di sentire di pensare se stesso. Finché avrai ancora coscienza di te, non avrai realizzato te stesso. Tu sei lontano da te come Dio è lontano da te, Dio è tanto vicino a te quanto tu sei vicino a te stesso, Dio è tanto lontano da te dentro di te quanto egli è lontano da te fuori di te. (…) Il cielo di Dio è al di là di tutti i cieli che l’uomo può raggiungere con i sensi o con la ragione. Il mistero che tu porti in te è al di là di tutte le galassie che può esplorare il tuo spirito. Dio ti è anche trascendente sia quando lo guardi al di dentro sia quando lo guardi al di fuori. E altrettanto inaccessibile. E tu stesso sei tanto inaccessibile a te stesso quanto lo è Dio al di dentro di te è inaccessibile a te. Poiché il tuo mistero è lo stesso mistero di Dio. Ed esso stesso un mistero più profondo di Dio che il mistero di Dio in se stesso, la povera ragione balbetterà. L’immanenza divina è ai confini estremi della Trascedenza. E l’aparabrahman, l’Immanente, è in realtà conseguito soltanto nel cuore stesso del parabrahman (il trascendente). (Ib., op. cit., p.189-190)
L’inconoscibilità di Dio
L’ inconoscibilità di Dio, che ci rivela la Bibbia non è un fatto di logica, ma di fede: È un mistero. Nessuna scoperta filosofica della trascendenza divina ci può far penetrare nella sua “notte” con altrettanta sicurezza della rivelazione biblica del Dio nascosto. (…) (Tradizione Indù e Mistero…op. cit., p. 23)
La presenza dello spirito
Lo spirito non si fa sentire se non a chi umilmente si siede e ascolta in silenzio. ( Dalla lettera pubblicata nel Quaderno nr.1 del Centro interreligioso H. Le Saux, p. 34)
LA PREGHIERA DEL NOME
L’equivalente più prossimo fra i cristiani dello Japa indù[9]è la tradizione esicasta della “preghiera di Gesù”. Può trattarsi di una semplice ripetizione del nome di Gesù oppure di una formula più complessa che contiene il santo Nome. La formula maggiormente in uso è: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”. (…) Pregare per essere perdonati si rapporta al mistero di Dio nel suo punto più alto e inaccessibile. Talora anche l’indù prega per avere perdono e assistenza divina. (…) Ma, in termini cristiani, una volta che sia stata realizzata la Presenza di Dio, chi potrebbe essere capace di pensare a sé e di occuparsi di sé, a cospetto dell’Altissimo? ….
La Preghiera del Nome di Dio ha diversi gradi. Quelli più comunemente indicati, dalla tradizione russa e dal vicino oriente, si riferiscono “al luogo” – così si usa dire- in cui la preghiera viene proferita: labbra, spirito e cuore. Nessuno di questi “luoghi” si esclude. All’inizio è sulle labbra e sulla lingua che l’aspirante pone il nome di Dio, come nella comunione si riceve il santo Corpo di Cristo. (…) La recitazione del Nome di Gesù darà frutto da sé, a tempo debito. Per il momento, l’essenziale è proferire il santo Nome con rispetto e con un sincero desiderio di ottenere la grazia di Dio. Nel grado successivo le labbra restano chiuse. È nello spirito, fisicamente e simbolicamente nella testa, che avviene la recitazione. La preghiera è divenuta pura attenzione dello spirito al Nome ripetuto incessantemente.(…) Lo spirito è concentrato, ma senza tensioni, fisso ma senza sforzo. Per aiutarsi, soprattutto agli inizi, all’aspirante (soprattutto in India) viene consigliato di fissare l’attenzione sulle lettere del mantra. (…) Il grado superiore si raggiunge quando la preghiera, o piuttosto il Nome, viene posto nel cuore. A questo punto non si ha più nessun movimento, la preghiera si è stabilita ora nel cuore stesso dell’essere. (…) Da qui essa si irradia dappertutto. Il Nome ha trovato il suo vero luogo. Il segno è tornato alla realtà da cui era proceduto. Ora non esiste più in nessuna altra parte dell’anima, altro desiderio se non del Signore, della sua gloria da contemplare, del suo gaudio da condividere. (…) (“Èveil à soi, éveil a Dieu”, trad. it. Risveglio a sé, risveglio a Dio, op. cit., sintesi dalle pp. 131-133) [1] Initiation à la spiritualitè…, p. 63 [2] C. Conio, p. 10 [3] Initiation à la spiritualitè…, p.180. [4] Cf. La Montè…17.2.1956 [5] Initiation á la spiritualité des Upanishads, p. 11. [6] Edizione italiana: Diario Spirituale, op. cit. [7] La montè au fond du coeur, OIEL, Paris 1986. [8] Leggermente adattato dal testo originale. [9] La recitazione continua di un mantra.
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