"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
Tsujimura Kōichi (n. 1922), pensatore della Scuola di Kyōto,
è stato allievo, per la filosofia, di Tanabe Hajime e
Nishitani Keiji all’Università di Kyōto e, per la pratica
zen, di Hisamatsu Hōseki Shin-ichi e Ōtsu Rekidō Daizōkutsu.
Tsujimura è lo studioso che più ha
approfondito il tema delle affinità tra il pensiero di Heidegger
e il Buddhismo zen.
Nel periodo 1956-58 studiò a Friburgo presso Heidegger, che lo
considerò un «eccellente filosofo».a A conclusione di un
seminario condotto da Heidegger sulla Wissenschaft der Logik di
Hegel, nel 1957 aveva tenuto una conferenza sul tema Vom Nichts
im Zen;b in collaborazione con Hartmut Buchner, un altro allievo
di Heidegger, nello stesso periodo aveva tradotto in tedesco la
classica storia chan della ricerca del bue.c Nel 1969, per il
proprio ottantesimo compleanno Heidegger invitò Tsujimura a
tenere a Meßkirch il discorso ufficiale che qui presentiamo;
accludendo il relativo volumetto, Heidegger scrisse il 16-8-1970
a M. Boss: «La conferenza del Giapponese è molto istruttiva»d.
Tsujimura ha tradotto in giapponese i seguenti testi di
Heidegger: Aus der Erfahrung des Denkens (Shii no Keiken yori,
1960); Der Feldweg (No no Michi, 1960); Hebel – der Hausfreund (Hēberu
– Ie no Tomo, 1960); Der Satz vom Grund (Konkyoritsu, 1962);
Gelassenheit (Hōge, 1963); Kants These über das Sein (U ni
tsuite no Kanto no Tēze, 1964); Sein und Zeit (U to Toki, 1967);
Zur Frage nach der Bestimmung der Sache des Denkens (Shii no
Shimei no Koto to subeki Kotogara o sadameru koto e no Toi ni
yosete, 1968); Zur Sache des Denkens (Shii no Kotogara e, 1973);
Wegmarken (Dōhyō, 1985).
Inoltre, di Tsujimura sono apparsi in tedesco i seguenti saggi
su Heidegger: Zeugnis, in Martin Heidegger im Gespräch (hrsg. v.
R. Wisser), Freiburg-München 1970, pp. 27-29; Andenken eines
Japaners, in Dem Andenken Martin Heideggers. Zum 26. Mai 1976,
Frankfurt a. M. 1977, pp. 60-61; Die Seinsfrage und absolutes
Nichts - Erwachen. In memoriam Martin Heidegger, in Transzendenz
und Immanenz. Philosophie und Theologie in der veränderten Welt
(hrsg. v. D. Papenfuss und J. Söring), Stuttgart 1977, pp.
289-301; Eine Bemerkung zu Heideggers ‘Aus der Erfahrung des
Denkens’, in Nachdenken über Heidegger, hg. von Ute Guzzoni,
Hildesheim 1980, pp. 275-286; Zur Bedeutung von Heideggers
“übergänglichem Denken” für die gegenwärtige Welt, in Wirkungen
Heideggers ‘Neue Hefte für Philosophie’, 23, Göttingen 1984, pp.
46-58; Die Wahrheit des Seins und das absolute Nichts, in Die
Philosophie der Kyōto-Schule. Texte und Einführung (hrsg. v. R.
Ōhashi), Freiburg-München 1990, pp. 441-454.
Illustre Professor Heidegger,
Illustre Signora Heidegger,
Gentilissimo Sindaco Schühle,
Signore e signori,
È un grande onore, non solo per me ma per la filosofia giapponese, poter tenere
un discorso per l’ottantesimo compleanno del nostro grande pensatore. Perciò
ringrazio di cuore le persone che hanno organizzato questa cerimonia.
Il motivo per cui l’onorato compito è stato affidato a me, un ignoto giapponese,
consiste probabilmente nel fatto che io, un allievo giapponese di Heidegger, se
così posso dire, vengo da lontano. Dietro questo venire da lontano, però, corre
una via piuttosto lunga, lungo la quale molti giapponesi hanno tentato, e oggi
tentano sempre di più, di giungere in prossimità del luogo nel quale soggiorna [sich
aufhält] il pensiero del nostro maestro. Mi si lasci allora ricordare brevemente
alcuni importanti predecessori su questa via.
Era il 1921 l’anno in cui per la prima volta un giapponese studiò presso il
nostro pensatore durante la docenza a Friburgo. Il suo nome è Tokuryū Yamanouchi,
più tardi fondatore dell’Istituto di Filosofia greca presso l’Università di
Kyōto. Un anno dopo, nel 1922, arrivò a Friburgo il mio maestro Hajime Tanabe.
Egli fu, per quanto io sappia, il primo a scoprire l’importanza del pensiero
heideggeriano; non solo in Giappone, ma forse nel mondo intero. Nel suo saggio
del 1924, Neue Wendung der Phänomenologie - Heideggers Phänomenologie des
Lebens1, si può già ravvisare una prima versione di Sein und Zeit. Tanabe ha
proseguito il suo dialogo con il pensiero di Heidegger fino alla morte, avvenuta
nel 1962, ed è rimasto il pensatore più significativo del Giappone. Nei suoi
ultimi anni, mi disse una volta: «Heidegger, a mio parere, è l’unico pensatore
dopo Hegel». Poi, a Marburgo arrivò da Heidegger il barone Shūzō Kuki. A lui noi
giapponesi dobbiamo la prima affidabile delucidazione di Sein und Zeit.
Purtroppo, morì troppo presto, nel 1941. Nell’inquieto periodo degli anni
trenta, il mio maestro e predecessore alla cattedra dell’Università di Kyōto,
Keiji Nishitani, frequentò a Friburgo le lezioni di Heidegger su Nietzsche.
Grazie alla profonda interpretazione di Nishitani diventò per noi accessibile il
tardo pensiero di Heidegger, ad esempio quello espresso nel saggio su Der
Ursprung des Kunstwerkes. Egli appartiene oggi, a mio parere, alla cerchia di
coloro che nel modo più profondo comprendono il pensiero di Heidegger. Già da
mezzo secolo, vi è così anche da noi in Giappone, in particolare all’Università
di Kyōto, una continua assimilazione e trasmissione del pensiero heideggeriano.
E così, anche a nome del mio maestro e predecessore ora ricordato, esprimo qui
la nostra venerazione e la nostra riconoscenza al professor Heidegger.
La lunga via prima accennata indica che il pensiero di Heidegger mantiene
secondo noi un rapporto particolarmente importante con la filosofia giapponese.
Di qui il titolo di questo discorso di festeggiamento, che da parte nostra
vorrebbe essere un discorso di ringraziamento.
Per tentare di descrivere questo rapporto, dobbiamo partire innanzitutto da una
definizione e da una difficoltà costitutiva [Wesensnot] della filosofia
giapponese. Se si considera la filosofia giapponese nel senso della filosofia in
Giappone, allora anche là vi sono quasi tutti gli indirizzi della filosofia
contemporanea. Essendo stati importati quasi tutti dall’Europa e dall’America,
essi non costituiscono per noi un pensiero autoctono. Ma se intendiamo per
“filosofia giapponese” quello sforzo di pensiero che non trae origine dal luogo
[Ort] della filosofia occidental-europea, bensì sgorga dal fondo sorgivo della
nostra propria tradizione spirituale, allora tale filosofia è qualcosa di molto
raro. Vorrei qui di seguito intendere la “filosofia giapponese” in quest’ultimo
senso; e questa filosofia vive un’essenziale difficoltà [wesentlichen Not].
Noi giapponesi, fin dall’antichità, siamo in un certo senso degli uomini
naturali. Vale a dire che non vogliamo in alcun modo signoreggiare sulla natura,
mentre invece vorremmo vivere e morire quanto più è possibile in un modo
conforme alla natura. Un comune giapponese disse ai suoi dal letto di morte:
“Sto per morire. Come le foglie cadono in autunno.” E un maestro zen, per così
dire il progenitore della mia personale pratica zen, prossimo a morire rifiutò
un’iniezione e disse: “Perché prolungare la vita con una tale forzatura?” Invece
di prendere il farmaco, bevve un sorso del suo vino di riso preferito e morì in
pace [gelassen]. Se ben cosiderato, qui si avverte un contrasto stridente tra la
tradizione spirituale antico-giapponese e una vita determinata dalla tradizione
spirituale europea e dalla scienza e tecnica europee. In breve, vivere e morire
secondo natura: questo era, per così dire, un ideale per l’antica saggezza
giapponese.
Questo naturalmente non significa che noi giapponesi non abbiamo volontà, ma che
al fondo della volontà regna la natura. La volontà è nata in prima ed ultima
istanza dalla natura e sparirà nella natura, la quale però si sottrae ad ogni
oggettivazione scientifica, pur rimanendo dappertutto presente. Natura in
giapponese si dice shizen o jinen, “esser così come è da sé”; in breve, “esser
sé” e “esser vero”. Perciò “natura” nel giapponese antico era sinonimo di
libertà e verità. Questa concezione della natura è stata approfondita attraverso
la “visione della transitorietà e della vacuità” di tutte le cose, propria del
buddhismo.
Per mettere in luce la costitutiva difficoltà [Wesensnot] della filosofia
giapponese nel senso già detto, volgiamo ora brevemente lo sguardo verso l’altro
aspetto della questione. A partire dall’europeizzazione del Giappone, iniziata
circa cento anni fa, abbiamo introdotto con tutte le forze la cultura e la
civiltà europee in quasi tutte le sfere della nostra vita. L’europeizzazione è
stata per noi una necessità storica, onde poter conservare la nostra
indipendenza nel mondo attuale, vale a dire nell’ambito di potenza [Machtbereich]
determinato dalla volontà. Ma, nel contempo, in essa vi è il pericolo di
smarrire la nostra peculiare essenza, prima accennata. Per scongiurarlo, l’europeizzazione
del Giappone è avvenuta grosso modo senza un’intrinseca connessione con la
nostra tradizione spirituale. Da allora abbiamo dovuto subire nel più profondo
del nostro esserci una grave scissione, quella tra il nostro modo di vivere e
pensare, conforme alla natura, e la maniera occidentale di vivere e pensare,
determinata dalla volontà, che siamo stati costretti ad accettare. Questa
scissione rimane per lo più eufemisticamente velata e tuttavia visibile in una
formula nata allora, “spirito giapponese e tecnica europea”. Per tale “abilità”
si intendono innanzitutto la scienza e la tecnica moderne. La scissione persiste
ancora oggi nella nostra vita quotidiana. Noi “giapponesi europeizzati” dobbiamo
condurre più o meno una doppia vita.
Riportare in qualche modo ad un’unità originaria questa scissione dovrebbe
essere, a mio parere, il vero compito di una filosofia giapponese. Tuttavia, a
prescindere da pochi tentativi, non le è ancora riuscito. Grosso modo, la
filosofia giapponese è anch’essa rimasta nella stessa non mediata scissione,
“spirito giapponese e tecnica europea”, e lo è in una misura ancora maggiore. I
vari indirizzi della filosofia europea, che dalla seconda metà del secolo scorso
abbiamo tentato di trapiantare nel nostro Paese, non hanno potuto mettere radici
nel nostro terreno; mentre, invece, sono stati quasi tutti semplicemente imitati
come una moda o, al massimo, impiegati in un ambito limitato, come scienza e
tecnica, al servizio della nostra vita sociale. Così, già il nome “filosofia
giapponese” è un segno della sua originaria difficoltà costitutiva [Wesensnot].
Questa difficoltà proviene, da una parte, dal fatto che noi abbiamo accolto la
filosofia europea senza un sostanziale confronto critico con il fondo sorgivo
della nostra tradizione spirituale; dall’altra, dal fatto che i maggiori
indirizzi filosofici non ci hanno permesso di toccare e di scuotere proprio quel
fondo sorgivo della nostra vita spirituale.
Ma con il pensiero di Heidegger si tratta di tutt’altro. Ciò che grazie al suo
pensiero diventa degno di domanda [fragwürdig] è quel che noi già siamo e quel
che di noi viene già in qualche modo compreso in una maniera non oggettiva; e
che perciò nella scienza e nella filosofia rimane costantemente omesso, saltato
[übersprungen]. A me sembra che la cosa in questione nel pensiero [die Sache des
Denkens] di Heidegger conservi sempre questo carattere. Perciò, la cosa in
questione nel suo pensiero si sottrae nella sua verità, non appena la si voglia
semplicemente rappresentare, cogliere e sapere. E perciò il suo pensiero, per
principio, rimane inimitabile. La cosa in questione più importante nel suo
pensiero, accennata forse con la parola greco-antica alētheia (non-latenza),
potrebbe essere esperita, in uno sguardo retrospettivo alla filosofia
occidentale, e cioè alla metafisica, come un fondo nascosto della metafisica
stessa. Così, la cosa stessa in questione, propria del nostro pensatore, ha
dovuto richiedere un mutamento del pensiero – ossia il mutamento del pensiero
filosofico in “un altro pensiero”. Solo grazie a questo altro pensiero, ossia al
“passo indietro [Schritt zurück] dalla filosofia”, è stato “propriamente” scorto
il “proprio” del pensiero filosofico, ossia dell’essenza [Wesen] del mondo
occidentale e della sua umanità. Questo è un evento [Ereignis] inaudito. In
questo senso, noi giapponesi vediamo nel pensiero di Heidegger uno scorger-si
del “proprio” dell’umanità occidentale e del suo mondo.
In considerazione di questo pensiero, anche noi giapponesi dovemmo
necessariamente essere di nuovo gettati [zurückgeworfen] sul terreno dimenticato
della nostra tradizione spirituale. Se posso qui riportare qualcosa di
personale, subito dopo il primo incontro con Sein und Zeit, ancora nel periodo
liceale, io sentii che almeno per noi giapponesi l’unico possibile accesso ad
una reale comprensione di quest’opera di pensiero fosse nascosto nella nostra
tradizione del buddhismo zen. Poiché il buddhismo zen non è altro che un intuire
[Durchblicken] quel che noi stessi siamo. In vista di tale intuire, dobbiamo
rinunciare al rappresentare, produrre, riprodurre, disporre, operare, fare e
volere, in breve all’intera coscienza e alla sua attività, e ritornare su tale
via al suo fondo sorgivo. Così dice anche uno dei più grandi maestri zen: «Devi
innanzitutto imparare (...) il passo indietro [Schritt zurück]» (Dōgen, Fukan
zazenji).
E tuttavia, cos’ha a che fare il pensiero di Heidegger con il buddhismo zen?
Forse nulla, da parte di questo pensiero che è un pensiero del tutto
indipendente. Ma, da parte nostra, abbiamo moltissimo a che fare con questo
pensiero. Qui dobbiamo limitarci a menzionare solo qualcosa del notevole
rapporto tra il pensiero di Heidegger e il nostro buddhismo zen: a proposito
dell’«albero in fiore», di cui una volta ha parlato Heidegger2.
Lì, l’albero è in fiore. Heidegger così parla di questa semplice cosa: «Stiamo
davanti ad un albero in fiore - e l’albero sta davanti a noi». Chiunque può
dirlo. Poi, Heidegger descrive così questa situazione: «Ci poniamo di fronte ad
un albero, davanti ad esso, e l’albero ci si presenta [davanti a noi]». Già
appare la singolarità del suo pensiero: abitualmente, in tedesco si dice “noi ci
(= a noi, dativo) rappresentiamo [stellen uns … vor] un albero”; Heidegger dice
invece «(Noi) ci (= noi, accusativo) poniamo di fronte [stellen uns … gegenüber]
ad un albero, davanti ad esso». Cosa accade in questa descrizione? Forse
nient’altro che lo sparire del “noi” come soggetto che rappresenta e, nel
contempo, dell’“albero” come oggetto rappresentato.
Da Descartes in poi, pensare significa sempre: io penso, ossia io rappresento a
me. Che io penso, Descartes lo intende a partire da ciò: io penso. Cogito
significa “cogito me cogitare”. Da ciò deriva la filosofia dell’Idealismo
trascendentale e il principio schopenhaueriano, “il mondo è la mia
rappresentazione”. Al contrario, Heidegger descrive la situazione nel modo
esposto prima. La situazione, in cui noi stiamo davanti ad un albero in fiore e
l’albero sta davanti a noi, il nostro pensatore non la pensa o vede più a
partire dall’“io penso”, bensì dal “ci” [»Da«], dove sta l’albero, che è il
suolo «dove viviamo e moriamo». Nella sua descrizione, noi siamo «saltati
lontano dal consueto campo [Bereich] delle scienze e anche (...) della
filosofia». Di fronte alla semplice cosa che lì l’albero è in fiore, noi, come
soggetto che rappresenta, e l’albero, come oggetto rappresentato, non possiamo
che sparire in un altro “rappresentare”. Altrimenti nemmeno potremmo realmente
guardare l’albero lì in fiore. Il buddhismo zen caratterizza questa situazione,
ad esempio, in questo modo: «L’asino guarda nel pozzo e il pozzo nell’asino.
L’uccello guarda il fiore e il fiore guarda l’uccello».
Questo altro “rap-presentare” [»Vor-stellen«], in cui l’albero si presenta [sich
vorstellt] e l’uomo si pone [sich stellt] di fronte all’albero, potremmo forse
indicarlo come un rappresentare abbandonato [gelassenes]; al contrario, l’“io mi
[= a me, dativo] rappresento” può essere definito per così dire un rappresentare
volitivo [willentliches]. Noi dobbiamo saltare [springen] da questo a quello.
Heidegger parla così di questo salto [Sprung]: dobbiamo dapprima «saltare sul
suolo dove viviamo e moriamo», cioè «dove propriamente stiamo». Solo attraverso
questo singolare salto, viene aperto un campo [Bereich], nel quale «l’albero e
noi siamo». In questo campo, denominato «contrata» [Gegnet], l’albero ci si
presenta davanti, come quello che è, e noi ci poniamo, così come siamo, di
fronte all’albero in fiore. E tuttavia, questo campo è quello nel quale fin
dall’inizio noi abitiamo e l’albero sta.
Vorrei ora riportare dal buddhismo zen un esempio abbastanza adeguato. È un
famosissimo kōan, un problema zen. Una volta, un monaco chiese al maestro
Chao-Chou: «Perché il primo patriarca Bodhidharma è venuto in Cina?». E
Chao-Chou rispose: «Cipresso nel giardino». Il monaco chiese di nuovo: «Maestro,
ti prego, non ricorrere ad un oggetto!» Chao-Chou disse: «Non ricorro ad un
oggetto.» Allora il monaco chiese ancora: «Perché il primo patriarca Bodhidharma
è venuto in Cina?». Chao-Chou rispose: «Cipresso nel giardino».
Si comprende da sé che il primo patriarca dall’India sia venuto in Cina per
trasmettere la verità buddhista. Perciò la domanda del monaco vuol dire: «Qual è
la prima e ultima verità buddhista?». La risposta di Chao-Chou suona
semplicemente: «Cipresso nel giardino». Questa risposta illumina come un lampo,
che con un solo colpo stende al suolo la domanda insieme al monaco che la pone
e, nel contempo, fa balenare nuda e cruda la verità richiesta. Con una tale
risposta, il monaco dovrebbe improvvisamente saltare [springen] sul suolo sul
quale egli e il cipresso già sono. Ma il lampo non colpisce il monaco. Egli non
bada alla risposta stessa di Chao-Chou, bensì al suo riferimento, il cipresso
nel giardino come oggetto rappresentato. Per cui deve pregare: «Non indicare (la
verità), ricorrendo ad un oggetto». Poiché fin dall’inizio il maestro Chao-Chou
non l’ha indicata ricorrendo ad un oggetto, la sua risposta alla domanda
riproposta suona esattamente come prima. Ma il monaco non arriva al salto, cioè
al risveglio. Rimane ancora legato al rappresentare, al vedere e al pensare
oggettivanti.
Aggiungerei che Chao-Chou avrebbe potuto anche non dare la risposta «Cipresso
nel giardino». Laddove l’albero è, così come è, e noi siamo, così come siamo, là
è [west] la verità buddhista, che proprio per questo non ha più bisogno di
essere indicata espressamente come verità buddhista. Il primo patriarca avrebbe
potuto non arrivare in Cina da un mare pieno di pericoli; tuttavia, dovette
venire; tuttavia, Chao-Chou dovette espressamente dire: «Cipresso nel giardino»;
tuttavia, Heidegger deve pensare, domandare ed espressamente dire, ad esempio:
«Dobbiamo dapprima saltare sul suolo dove viviamo e moriamo». Perché è
necessario questo “tuttavia”? Poiché dobbiamo dapprima saltare sul suolo dove
viviamo e moriamo; poiché, nell’oblio del suolo che calpestiamo, noi erriamo in
ogni momento di qua e di là. Perfino la risposta di Chao-Chou, «cipresso nel
giardino», può farci errare. Noi dobbiamo rendere superflua tale risposta.
In breve, tra l’heideggeriano “singolare salto” e il nostro “non abbiamo bisogno
e tuttavia...” vi è a mio avviso un rapporto profondamente nascosto. Heidegger
chiede: «Che cosa succede quando l’albero si presenta a noi e noi ci poniamo di
fronte all’albero?» Con lui si potrebbe forse rispondere: «La contrada [Gegend]
(o piuttosto la contrata) raccoglie, sebbene nulla avvenga, ogni cosa nel suo
rapporto ad ogni altra, facendola permanere nell’acquietarsi in se stessa».3
Questa contrata è, nella nostra prospettiva, il “campo del Buddha” [»Bereich des
Buddha«], cioè il campo della verità. Se il maestro zen giapponese Dōgen avesse
ascoltato la domanda di Heidegger, avrebbe forse risposto così: «Nell’attimo in
cui un vecchio susino fiorisce, nel suo fiorire avviene [ereignet sich] il
mondo» (Shōbōgenzō, cap. Baika).
Alla fine dell’esempio dell’albero in fiore, Heidegger ha ammonito e richiesto:
«Finalmente si tratta, prima di ogni altra cosa, di non lasciar cadere l’albero
in fiore, ma di lasciarlo stare là dov’è»4. In un altro contesto, ma in fondo
nello stesso senso, anche nello zen siamo ammoniti dal kōan del cipresso nel
giardino: «Non abbattere, non spezzare quell’albero lussureggiante; nella sua
fresca ombra riposano gli uomini».
Potremmo ora, ricordando ciò che è stato detto, riassumere forse nel modo
seguente: il pensiero di Heidegger e il buddhismo zen concordano almeno nello
stendere al suolo il pensiero rappresentativo. Il campo della verità, che ne è
aperto, indica in entrambi un’affinità non ancora sufficientemente chiarita, ma
molto intima. Tuttavia, mentre il buddhismo zen non arriva ancora a chiarire,
pensando, il campo della verità (ovvero della non-verità) nei suoi tratti
essenziali, il pensiero di Heidegger tenta incessantemente di mettere in luce i
tratti essenziali della alētheia (non-latenza). Questa differenza ci fa scorgere
una lacuna nel buddhismo zen, almeno nella sua forma tradizionale. Ciò che manca
al buddhismo zen tradizionale è un epocale pensiero e messa in questione del
mondo. Su questa questione del mondo noi dobbiamo risolutamente imparare ed
apprendere dal pensiero di Heidegger; in particolare dalla sua inaudita nozione
di “installazione” [»Gestell«] come essenza della tecnica. Altrimenti, lo stesso
buddhismo zen potrebbe diventare un albero secco. Altrimenti, nessuna via
potrebbe essere percorsa dallo zen verso una possibile filosofia giapponese.
Stasera c’è una festa. Il nostro anziano grande pensatore è tornato al paese.
Per festeggiare il suo ritorno al paese [Heimkunft], vorrei chiudere questo
discorso di festeggiamento e ringraziamento con una nostra antica poesia:
«Torniamo al paese! Verso Sud, Nord, Est ed Ovest. Nel fondo della notte,
guardiamo insieme la neve sulla rupe dai mille strati».
Martin Heidegger
Discorso di ringraziamento*
In questi giorni ripenso spesso alla festa così ben riuscita del mio
settantesimo compleanno. Mi sembra oggi, eppure dista un decennio. In questo
breve lasso di tempo, il mondo senza pace ha subìto rapide trasformazioni. La
più antica attesa, certo già fragile, che il patrio della patria [das
Heimatliche der Heimat] possa essere ancora immediatamente salvato, non possiamo
più nutrirla. Appropriate, parlano le parole che nel 1946 scrissi ad un amico
francese: “La spaesatezza [Heimatlosigkeit] è il destino mondiale”.1 L’uomo
moderno sta per stabilirsi in questa spaesatezza.
Ma questa spaesatezza si nasconde dietro un fenomeno che il mio amico Tsujimura
già indicava e che io sinteticamente chiamo “civiltà mondiale”; da un secolo
essa ha fatto irruzione anche in Giappone. “Civiltà mondiale” vuol dire oggi
predominio delle scienze della natura, predominio e preminenza dell’economia,
della politica, della tecnica. Tutto il resto non è neanche una sovrastruttura [Überbau],
ma solo una fragile impalcatura [Nebenbau].
Noi stiamo in questa civiltà mondiale. Con essa deve confrontarsi il pensiero.
Questa civiltà mondiale ha intanto assoggettato la Terra intera. Perciò, signor
Tsujimura, la nostra difficoltà [Not] è la Sua. Ella ha preteso un bel po’ dai
cittadini di Meßkirch e anche da me, tentando di rendere comprensibile il
buddhismo zen con qualche esempio. Non posso qui entrare nel merito; vorrei,
però, ricordare un fatto che forse Le è noto. Nel 1929, come successore del mio
maestro Husserl a Friburgo, tenni la mia prolusione dal titolo Was ist
Metaphysik?. In questa lezione, il discorso riguardava il nulla; ho tentato di
mostrare che l’essere, a differenza di ogni ente, non è un ente e che in questo
senso è un niente. La filosofia tedesca e anche quella straniera tacciarono
questo discorso di nichilismo. L’anno successivo, nel 1930, un giovane
giapponese di nome Yuasa, proprio dell’età e dell’aspetto di Suo figlio,
tradusse in giapponese questa lezione, che aveva ascoltato frequentando il primo
semestre. Egli comprese quel che la lezione voleva dire. Questo basti come
risposta al Suo discorso. La ringrazio e La prego di salutare gli amici
giapponesi e innanzitutto il Suo diretto maestro, del quale Lei è successore, il
professor Nishitani, e di custodire con me il ricordo del suo maestro, il
professor Tanabe, che nel 1922, quando io stesso ero ancora un principiante,
venne a Friburgo, dove cercai di avvicinarlo ai caratteri fondamentali e ai
metodi del pensiero fenomenologico. Egli divenne il pensatore più significativo
del Giappone ed è morto in solitudine; verosimilmente in quel modo che Ella
prima tratteggiava.
* K. Tsujimura, Martin Heideggers Denken und die japanische Philosophie.
Festrede zum 26. September 1969, in Ansprachen zum 80. Geburtstag am 26.
September 1969 in Meßkirch (hg. von der Stadt Meßkirch), Meßkirch 1970, pp.
9-19; ora in Japan und Heidegger (hrsg. von H. Buchner), Sigmaringen 1989, pp.
159-165. La presente traduzione italiana è stata pubblicata in «Sophia», n.1,
1999.
a Cfr. H. A. Fischer-Barnicol, Spiegelungen - Vermittlungen, in Erinnerung an
Martin Heidegger (hg. v. G. Neske), Pfullingen 1977, p. 102.
b Il testo della conferenza è in «Il Pensiero», V, 1, 1960, pp. 5-16 (tr. it. di
A. Guzzoni, Del nulla nello Zen, ivi, pp. 133-143).
c Der Ochs und sein Hirte, erläutert von Meister Daizohkutsu R. Ohtsu, Stuttgart
(1958) 1995.
d M. Heidegger, Zollikoner Seminare, hr. v. B. Boss, Frankfurt a. M. 1987, p.
359 (tr. it. di A. Giugliano, Seminari di Zollikon, Napoli 1991, p. 403).
1 Ora in Japan und Heidegger, cit., pp. 89-108.
2 M. Heidegger, Was heißt Denken?, Tübingen 1954, p. 16 e sgg.; tr. it., Che
cosa significa pensare?, I, Milano 1978, p. 59 e sgg.
3 M. Heidegger, Gelassenheit, Pfullingen 1977, p. 39; tr.it., L’abbandono,
Genova 1983, p. 54.
4 M. Heidegger, Was heiß Denken?, cit., p. 18; tr. it., Che cosa significa
pensare?, cit., p. 61.
* M. Heidegger, Ansprachen zum 80. Geburtstag am 26. September 1969 in Meßkirch
(hg. von der Stadt Meßkirch), Meßkirch 1970, pp. 33-35; ora in Japan und
Heidegger (hrsg. von H. Buchner), Sigmaringen 1989, p. 166.
1 M. Heidegger, Über den Humanismus, Frankfurt a.M. 1949, p. 27; ora, in forma
modificata, in Id., Gesamtausgabe: Bd. 9: Wegmarken, Frankfurt a. M. 1976, p.
339; tr. it., Lettera sull’‘umanismo’, in Id., Segnavia, Milano 1987, p. 292.