"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
Abbiamo incontrato il sinologo François Jullien
in occasione della sua lectio magistralis al Festival della Filosofia di Modena,
dove ha ripreso il tema di uno dei suoi più famosi libri “Elogio dell’Insapore”,
per rispondere alle sollecitazioni degli organizzatori sul tema dei sensi e sul
significato dell’esperienza.
Jullien è stato accolto da un pubblico numeroso nella Chiesa Auditorium della
Fondazione Collegio San Carlo dove per 45 minuti ha dissertato sottilmente sulle
accezioni della parola senso tra antica grecia e pensiero cinese, sino a
evidenziare il tema dell’insapore come ritrarsi dei sensi. Il ritrarsi
dall’oggetto sensibile, lo svuotamento dei sensi – dice Jullien- è celebrato in
Cina dove è questa peculiare esperienza che percorre tutta la cultura e
l’estetica svuotando l’uomo per lasciare posto al reale. In qualche modo il
pensiero cinese si pone all’opposto della nostra cultura contemporanea, sempre
alla ricerca di un riempimento dell’individuo attraverso l’acquisto e il consumo
di merci, oggi divenuto un mezzo della produzione non più un fine.
È già in questa paradossale elegia dell’insapore, del vuoto, dell’indefinito e
dell’inafferrabile che si palesa lo straniamento tipico della filosofia di
Jullien che ha fatto della sua dislocazione nel pensiero e nella lingua cinesi
una strategia filosofica. La Cina è infatti il luogo più lontano dalla nostra
cultura in cui -secondo Jullien- il filosofo si può davvero liberare dal
non-detto, dal non-pensato ma pre-giudicato che caratterizza ogni cultura e
ancora di più una cultura come la nostra, troppo imbevuta di ellenismo e di
logocentrismo per poter pensare adeguatamente la propria alterità.
Siamo andati a intervistarlo proprio per cercare di approfondire la natura di
questo straniamento culturale e fino a dove esso possa condurre.
I temi toccati sono sostanzialmente tre:
1.le condizioni di possibilità di un’operazione di straniamento –
intese come quel terreno di esperienza non culturalmente caratterizzata al quale
si possono rifare tutte le culture come nucleo originario dell’esperienza
cosciente, l’evento della comprensione e non l’atto razionale o linguistico
2.la relazione tra il vuoto cinese e il nulla esistenziale del
pensiero heideggeriano
3.la soggettività imperante nella metafisica e il pensiero cinese che
si caratterizza per la sua presunta assenza del soggetto.
D: Per cominciare vorrei chiederle una piccola
presentazione del suo lavoro e delle motivazioni che l’hanno spinta a cercare
questa dislocazione, questo straniamento nel pensiero cinese, considerando come
premessa generale che cercare di entrare in un’altra cultura presupponga una
distanza, una capacità critica e di distacco dalla propria.
R: Capisco la sua premessa ma non ne sono sicuro. E’ possibile che ci si
rivolga alla Cina, alla cultura cinese per fuggire la propria cultura d’origine,
ma assolutamente non è il mio caso. Semplicemente credo che sia il cammino
stesso del filosofo cercare l’ “Altro” del proprio pensiero. Ogni sorta di
filosofo fa questo, non è vero? Filosofare è rischiare, ed è cercare un pensiero
“altro”. Credo sia la definizione stessa della filosofia, di pensare altrimenti;
in Francia Deleuze e molti altri l’hanno detto: filosofare è pensare altrimenti.
Semplicemente: quali sono le condizioni di possibilità di questo “altro”? Come
pensare altrimenti?
D: Infatti, è questa la motivazione di cui le chiedevo. Continui pure.
R: Mi è sembrato che, fintanto che si resta nell’ambito europeo, fintanto
che si resta nell’ambito di qualcosa che chiama la storia della filosofia
“storia di famiglia”, questo “altro” si trovasse inizialmente contenuto, o
limitato. Dunque la mia scelta della Cina è una scelta di un’alterità più
radicale possibile, perché la Cina offre oggettivamente, storicamente,
condizioni di esteriorità radicale, in confronto alla lingua e alla storia
europea. Dunque agli inizi c’era una sorta di esteriorità, non già di
differenza, bensì di esteriorità, che è stata chiamata “eterotopia”, la quale ha
creato delle condizioni, diciamo, di esteriorità radicale e allo stesso tempo ha
fatto sì che qualcosa di sperimentale circolasse fra i pensieri cinese ed
europeo. Ciò che intendevo sottolineare poco fa è che è un limite molto forte
credere che si conosca la propria cultura. Non conosco la cultura europea.
Tuttavia ho fatto studi classici, Latino, Greco, ecc…, ma voglio dire, si
conosce la propria cultura come si sta a casa propria, attraverso i propri
scudieri.
Dunque la domanda che mi porrei è: come leggere i testi greci? Come leggerli non
soltanto in ciò che dicono, ma anche in ciò che non dicono, non soltanto per ciò
su cui li si interroga, ma che per ciò su cui non li si interroga…
Dunque pensare di avere una propria cultura… non ci credo; certo, ho le mie
familiarità, le mie abitudini, ma se si parla di “conoscenza” è un’altra cosa.
Dunque mi sembra che non si possieda la propria cultura: a questo proposito ci
si muove sempre tra una sorta di familiarità, prossimità ed estraneità. Ciò che
ho scelto è di radicalizzare questa situazione. Quindi, come ho detto
rapidamente poco fa: non è la Cina in sé a spaesare il pensiero, tramite la sua
lingua, la sua cultura, il suo pensiero ma il fatto che occupandosi del pensiero
cinese si reintroduce un’estraneità che per me non è “la Cina”, ma lo sguardo
obliquo sul pensiero che nasce riflessivamente dall’estraneità in cui la Cina è
.
La domanda è: come si può risalire al proprio pensiero? O come rimetterlo in
discussione?
Parlo di strategie, di trucchi, perché c’è un avversario, un avversario
invincibile che è il non-pensato. Di fronte ad esso, di fronte al pregiudizio
ovviamente non è possibile servirsi di un metodo. Io sono un amante del
pregiudizio cartesiano, di ciò che si chiama il pre-inteso, il pre-nozionato, il
pre-questionato, il pre-categorizzato. E quindi in questo caso non si tratta di
metodo, ma di trucchi e strategie.
D: La sua è una scelta strategica, dunque…
Jullien: Esatto.
D:Un modo per far fronte al problema dell’estraneità stessa…?
R: Sì, per fare questo non potendo fare questo. Non si può fare questo
sul non-pensato. Il pensiero è proprio ciò su cui non è possibile farlo. Non è
come l’errore: con l’errore posso farlo, ma non sul non-pensato. Per questo non
posso avere un metodo. Non posso che avere strategie. E’ impossibile non tornare
alla questione classica cartesiana, quella del pregiudizio e del metodo. Perché
ragazzi, sul pre-giudizio è possibile ricorrere ad un metodo. Ma sul
pre-sentito, sul pre-nozionato, ciò che è l’implicito del pensiero, beh,
Cartesio non considera che egli stesso pensa in Francese-Latino! Pensa “in
lingua”. Ma il cogito è Latino, e questo implica un sacco di cose! Quindi egli
si occupa del pre-giudizio, ma non pensa il pre-nozionato, il pre-categorizzato,
il pre-questionato; qui non c’è metodo, ma solo strategia.
Ma tornerei un attimo su ciò che ho detto prima, perché sia più chiaro.
Limitarsi a dire che filosofare è pensare altrimenti è banale; la domanda è,
come trovare i mezzi per pensare altrimenti? Mi sono accorto, in proposito, che
la decostruzione degli anni Sessanta, e in qualche modo Heidegger e Derrida con
la loro filosofia hanno alimentato, in qualche modo “bloccava”: nel momento in
cui, nel contesto europeo, si è tentato di prendere le distanze dalla metafisica
greca, in qualche modo ci si è dovuti appoggiare, posare il dorso sulla
tradizione biblica. Hegel, Heidegger e Derrida e altri, voglio dire ci si
riaddossa senza nemmeno accorgersene a qualcosa che rappresenta un’altra
sorgente rispetto a quella greca, qualcosa che non è più “metafisica” perché ha
a che fare con il messaggio, con la Rivelazione. La scelta della Cina mi
permetteva di uscire da questa sorta di movimento oscillatorio fra Atene e
Gerusalemme, e di accedere ad altre parole dell’Origine che non fossero
costrette fra il Logos o Yavéh, uscire dalla dialettica fra Socrate e Abramo.
D: Penso che ciò che sta dicendo possa chiarire un punto. Ciò che
intendevo dire prima è che nel dialogo fra due culture presupposto necessario
sia la possibilità di avere una “terra di nessuno”… Quando vogliamo entrare in
un’altra cultura, come penso Lei abbia fatto, dobbiamo viverla dall’interno:
imparare la lingua cinese, studiare i testi e quindi fare esperienza su di noi
della lingua e della comprensione e dopo qualche tempo, qualche sforzo, possiamo
dire che l’abbiamo compresa…almeno in parte, o quanto meno possiamo dirne
qualcosa che risulta comprensibile.
Jullien: Sì, ma questo presuppone che la cultura sia qualcosa che “si possiede”.
Ma in realtà io non ho “capito” la cultura. Voglio dire che la cultura non è un
bene, come non è un dato oggettivabile: è un processo, ma non c’è un solo
momento in cui io mi dica “Va bene, ho capito qualcosa della cultura cinese”: è
sempre possibile approfondire il discorso, lo studio… Nel corso della mia vita
non ho mai smesso di studiare, di lavorare… è un processo infinito!
D: Ma questo tentativo, questo percorso del comprendere appartiene a una
cultura? Non appartiene? E’ cinese? E’ greco? O forse si può dire che è il
centro dell’uomo?
R: Una cosa di cui diffido un po’ è questa sorta di “metafisica della
cultura, o dell’intercultura”. Voglio dire, una sorta di ideologia, di
metafisica interculturale: qual è il punto in comune delle culture, ecc. Il
sentimento che ho è di lavorare con una lingua, che è la mia. La mia lingua è
ramificata: c’è il Francese, ma anche l’Italiano, il Latino… Abito qualcosa che
è la lingua. Questa lingua naturalmente veicola del “culturale” stratificato,
quindi non omogeneo. Ma non è perché sono in una lingua che mi trovo in una
cultura. No. C’è prima di tutto la parola, di una lingua che è quella e non
un’altra, questa lingua si ramifica, veicola diciamo degli strati molto diversi,
quindi il suo lato culturale è composito. Nella lingua materna c’è appartenenza:
è la mia lingua, e non la mia cultura. Quindi io lavoro tra due lingue: tento di
pormi nel piccolo spazio fra queste due lingue – che non per forza significa
porsi fra le due culture –; ciò che posso osservare a partire da questo è una
serie di configurazioni teoriche ma che sono sempre soggetti al mio domandare,
quindi segnate da scelte che dipendono necessariamente da me, dalla mia
ideologia, dalle letture che faccio, non è vuoto a perdere. Dunque, in breve,
c’è una proprietà che è la lingua, la mia lingua materna, apprendo altre lingue,
ma sono sempre in una sorta di “composto”. Con la Cina ho scelto le polarità
opposte tra culture. Per quanto riguarda l’insapore in Cina, è interessante
notare che in Europa l’insapore è negativo: cucina insipida, tempo insipido ecc.
Ma se cerco attentamente nella mia cultura grazie allo sguardo cinese mi rendo
conto che, talvolta, come in Verlaine nella cultura francese, c’è qualcosa di
insapore; dunque ci sono in Verlaine effetti di designificazione, ciò che chiama
“romanzo senza parole”, qualcosa di molto simile all’insapore cinese.
D: Mi chiedevo, a proposito di questo, come mai Le interessa l’insapore:
se è vero che si tratta di “qualcosa privo di gusto”, che genere di sapore trova
nell’insapore?
R: Normalmente qui in Europa si considera l’insapore come qualcosa di
deludente, che non ha gusto, appunto; la cosa interessante è che in Cina questo
è assolutamente comune: in Lao Tzu compare il “gustare il non-sapore”. Pensiamo
alla visione religiosa europea: Cristo è “sale del mondo”, dà sapore alla Terra.
Ciò che m’interessava era sapere che è davvero possibile “gustare ciò che non ha
sapore” nella devozione, sapere cos’è ciò che non ha sapore affermato, bensì
discreto, non stabilito, guidato, ordinato, quindi non conseguente: l’insapore è
il sapore del non-conseguente. Come in Verlaine: quando si legge Verlaine è
chiaro che il senso non è più imposto, c’è un’apertura del senso, ma Verlaine è
dire senza dire…
D: E’ un non-giudizio…?
R: No, è indeterminazione. In Europa si parla molto di determinazione e
indeterminazione; è riferimento senza riferimento, come Verlaine: “un romanzo
senza parole”. Quindi qualcosa di non-costringente, libertà non nel senso
politico europeo, ma di non asservimento al senso. Non direi che si tratta di
un’apertura del senso, ma piuttosto Verlaine si trova in prossimità della
“de-significazione”: non si sa più di cosa si tratta, se significa o se non
significa… si chiama “vago”. Tale ricerca poetica si allontana dal Logos
europeo, ma si avvicina alla Cina, grazie alla quale ho imparato ad apprezzare
la poesia post-baudelairiana; e in effetti, se certi testi cinesi siano
filosofici o poetici… non ne ho idea! Questa netta distinzione è una sorta di
schizofrenia europea.
D: Vorrei tentare di capire se nella Sua lettura di questo pensiero
“altro” ci sia qualcosa che risuona anche nel pensiero heideggeriano: faccio
riferimento al “Colloquio con un Giapponese” in “In cammino verso il
linguaggio”, dove Heidegger dice di aver trovato almeno due punti di contatto
forti. Uno è l’identità (dice proprio che è lo stesso) tra il Nulla di cui parla
in “Cos’è metafisica?” e il Vuoto, il Ku giapponese; l’altro invece si mostra
nel momento in cui parlano della corrispondenza tra la parola che dice
dell’essenza del linguaggio in Giapponese (koto ba) e il rapporto ermeneutico
tra l’Uomo e la Differenza ontologica. Rapporto ermeneutico che viene inteso
come “l’annunciare”, il portare nel linguaggio che si abita il messaggio della
differenza ontologica. Questa corrispondenza si può rintracciare anche nel
pensiero cinese o è qualcosa che resta limitato a questo dialogo tra Heidegger e
il pensiero giapponese, che viene poi portata avanti anche la scuola di Kyoto e
quindi con Nishitani e oggi in parte ripresa…?
R: Comincio col raccontarvi un piccolo aneddoto: Heidegger nel ’43 aveva
intrapreso la traduzione con un cinese del testo taoista di Lao Tzu. E si era
fermato. Si era fermato perché si era reso conto che stava diventando Tedesco!
Si rese conto che tradurre qualcosa in atmosfera europea poteva anche essere
tradurre bene, ma non era più Cinese!
Tornando al dialogo con il Giapponese di “In cammino verso il linguaggio”,
sappiamo che c’è un’altra versione redatta dal giapponese e ci si può rendere
conto che non è una trascrizione reale, ma lì H. ha reso liberamente la sintesi
degli incontri avuti con gli studiosi giapponesi che frequentava negli anni ’50.
La“differenza ontologica” non si dice in Cinese: è un’espressione heideggeriana.
H ha reinterpretato nei termini ontologici europei qualcosa preesistente che
ricordava il Vuoto. Ma il Vuoto non è il Niente! Assolutamente no! Per quanto ne
so si tratta del vuoto fisico… Perché il Niente è in relazione all’Essere, e il
Non-essere e l’Essere, la Menzogna, l’Apparenza fanno parte della metafisica
europea. Il Vuoto cinese o giapponese non si sovrappone. Assolutamente no. È il
vuoto del vuoto del vaso che permette di contenere, un vuoto operativo. Si
tratta piuttosto di un processo, di una visione assolutamente non ontologica.
Dunque ciò che Heidegger non ha fatto… lui sembra reinterpretare in termini
ontologici, quindi europei, qualcosa che ha individuato e che lo ha intrigato
nel discorso giapponese, ma non c’è lavoro in Heidegger, non c’è lavoro! Sì, ci
sono domande, se ne può discutere, ma non comincia assolutamente a lavorare per
fare in modo che il Vuoto orientale e la questione dell’Essere in qualche modo
si incontrino. Bisogna lavorare, imparare la lingua, il Cinese o il Giapponese,
lavorare la lingua: la propria e l’altra. Lavoro significa “operare”…
D: E per Lei è possibile fino in fondo?
R: Sì, è possibile, ma il lavoro è necessario.
D: Cert Heidegger non conosceva il Giapponese, ma diversi allievi di
Nishida hanno studiato con lui…
R: Ideologicamente erano molto vicini… Quindi c’era anche una fantasia
ideologica che li legava… Il Reich tedesco era vicino all’Impero giapponese… Dal
lato giapponese c’è stato un sogno filosofico (un gruppo di studenti partirono
per Heidelberg, ecc…). E credo che ci sia stata una convergenza ideologica che
fece in modo che ciascuno trovasse nell’altro un modo per uscire dalla propria
razionalità. Qualcosa di molto equivoco. Ma penso che non ci sia stato un lavoro
sulla lingua: c’è stato una sorta di incontro ideologico.
D: Può anche darsi ma sull’intendimento del Niente in “Che cos’è
metafisica?”-perché è proprio quello a cui si riferisce nel colloquio con il
Giapponese e inoltre ne parla esclusivamente lì, ecco, questo intendimento del
Nulla, come lo descrive Heidegger, pare essere un’esperienza…
ovvero lui dice che nell’Angoscia esistenziale tutto vacilla ed è come se,
nell’esperienza d’Esserci, tutto venisse rivestito di qualcosa che va al di là
del senso e del non-senso…
R: Sono d’accordo. E’ la ragione per cui Heidegger ne parla. Si tratta di
un’esperienza al limite della sua comprensione, di dis-apprendimento della sua
lingua. Certamente è un’esperienza. Detto questo, devo precisare che quello era
un periodo in cui il pensiero europeo cominciava a sentire la possibilità di
un’altra lingua, e dunque tutto ciò che era pre-ontologico, originario… credo
ci sia stata una risorsa forte che ha spinto Heidegger a intendere questo, che è
intendere senza intendere, ma non c’è conoscenza prodotta, non è operativo. E’
un evento importante ciò che dice in quel testo, ma non fa che fornire le
condizioni di lavoro, per avanzare: apre, ma allo stesso tempo chiude. Apre su
un’inquietudine che sa esprimere attraverso la parola; trova effettivamente
qualcosa nel linguaggio, ma non ha niente grazie al quale cominciare a lavorare
concretamente.
Dunque è un bel testo, ma che denota al contempo intelligenza ed impotenza.
D: E’ qui che si inserisce il discorso della pratica, dell’operatività…
R: Ma il problema non è trovare il modo di mettere in opera questa
domanda: è che non possiamo metterla in pratica! E’ per questo che dico che
Heidegger apre e chiude allo stesso tempo. Il problema con Heidegger è che, dal
momento che si perde la propria lingua, non si può più parlare di “differenza
ontologica”. Dunque nel mio caso, imparando il Cinese, non sento che la mia sia
un prolungamento dell’esperienza di Heidegger: è un’altra esperienza. Tutto
questo riconoscendo che quella heideggeriana è espressa molto bene: mi fa segno,
mi parla. Ma diciamo che non sono nel prolungamento quest’esperienza. Una
pratica non è possibile.
D: Non pensa che la fenomenologia o la meditazione possa essere uno
strumento, una pratica per mettere in opera questa esperienza?
R: E’ un po’ come ho detto poco fa: la fenomenologia può fare segno,
accennare; al contempo, la fenomenologia non ha prodotto niente, infatti nel
momento in cui parlo in lingua cinese o giapponese sono privato di tutti questi
strumenti fenomenologici. In Giappone molti Giapponesi sono fenomenologi, ma
quando lo sono parlano la lingua occidentale, parlano, in “Fenomenologo”, non
più in Giapponese. Credo che il problema sia che la fenomenologia apre
l’intelligenza, porta in prossimità, ma detto questo è tutt’altra cosa
cominciare a imparare un’altra lingua e quindi di trovarsi privi degli strumenti
storici e fenomenologici consueti. La risposta alla Sua domanda potrebbe essere
l’Epoché: certo, l’Epoché è l’Universo, ma al contempo è una questione molto
europea; c’è il problema del cogito, della conoscenza, del soggetto ecc… non ha
niente a che fare con la questione dell’insapore! Dunque il problema è
sbarazzarsi radicalmente non solo del proprio pensiero, ma anche degli strumenti
attraverso i quali pensavamo. E’ una differenza che Heidegger non ha colto: per
questo dico che si tratta di un’altra esperienza.
Heidegger descrive un’esperienza effettiva, puramente europea. Apre una nuova
visione, dalla quale parte la sua filosofia. Nel suo lavoro dell’originario, è
rimasto nella sua lingua. La sua non è assolutamente l’esperienza di un’altra
lingua. Non ha cominciato a studiarla quindi non la immagina, perché ciò che
ogni studente di Cinese sperimenta è questo: quando voglio chiedere “Cos’è
questo?” in Cinese devo dire “Cos’è Est e Ovest?”. Trovo che sia
destabilizzante! Questo dice infinitamente più di tutto ciò che Heidegger ha
scritto sulla parola. Perché per dire una cosa pongo una relazione, dico “Est
Ovest”, mentre per noi “cosa” è “causa”, “sogno”, ecc… Dunque qui ci troviamo di
fronte a qualcosa di inimmaginabile, di precedente al concettuale. Dunque,
l’esperienza heideggeriana è bella, e io non voglio assolutamente toglierle
nulla; semplicemente non è l’esperienza di cui io parlo, perché Heidegger non ha
mai affrontato un’altra lingua. E per dire “paesaggio”: da “paese”, “paesaggio”
(“pays”, “paysage”); in Tedesco, “Land”, “Landschaft”; in Inglese “land”,
“landscape”… Per noi il paesaggio è la nostra percezione del paese. Come si dice
“paesaggio” in Cinese? “Le montagne e le acque”, “L’Alto e il Basso”,
“L’Immobile e il Mobile”… E’ molto più destabilizzante, inimmaginabile, poiché
niente, nella mia cultura, mi spingerebbe a pensare che per il paesaggio io
possa dire “Le montagne e le acque”, che non ci sia una relazione, una
bipolarità, ma qualcosa che esula dal rapporto “soggetto-oggetto”.
D: Nel Suo libro parla di questo “sdoppiamento della metafisica”, in
contrapposizione all’unico piano del pensiero cinese: questo risulta un po’
difficile, secondo me, perché noi sovrapponiamo, mettiamo assieme la coppia
“idea-cosa” con quella di “significato-significante” nel linguaggio. Questo
“dédoublement de la méthaphysique” è difficile da capire perché sovrapponiamo
idea e cosa , significato e significante nel linguaggio, e soprattutto perché il
linguaggio è sempre una relazione tra un soggetto e un oggetto, come diceva
prima. Allora la domanda è, forse, i Cinesi non hanno presente la relazione
“soggetto e oggetto”? Cioè, per loro non c’è questa relazione nel farsi del
linguaggio? Quindi, com’è possibile sviluppare un linguaggio senza questa
differenza di piano tra significato e significante?
R: Dire qualcosa è significare qualcosa. Se si pensa al lògos, ci si
accorgerà che è un dire su qualcosa: c’è un oggetto del dire. Leghein ti vuol
dire semainein ti, dire qualcosa, Logos e semanticos: dire è significare, sono
equivalenti. Ma questa è una scelta teorica. La Cina, al contrario, pensa il
parlare, senza che il parlare sia parlare di qualche cosa. Non c’è oggetto
interno a “parlare”. E dunque il significato non è assolutamente visto come
prolungamento di questo atto di significare. Ora, ciò è molto potente. Se poi si
osserva la lingua cinese scritta, all’inizio c’è un tratto, un semplice tratto;
ciò che è interessante nella lingua cinese è che l’orale non è lo scritto e
viceversa. In Greco, in Latino non c’è nulla di tutto questo. Sapete che le
lingue possono essere fonetiche o ideografiche: l’utilizzo del linguaggio
ideografico in Cina ha fatto sì che lo scritto non fosse solamente il “doppio”
dell’oralità. Questo cambia rapidamente le domande saussuriane; se si dà credito
a questo appare evidente che lo statuto scritto in Cina si differenzia da quello
europeo: all’inizio è un tratto, come dicevamo, e un tratto può essere anche un
elemento pittorico, oltre che di scrittura. Dunque il rapporto
“significante-significato” è effettivamente differente innanzitutto perché è
“altro” il rapporto “scritto-orale”. Ed è utile ricordare che ci sono lingue
scritte e lingue solamente orali. Per rispondere anche brevemente alla Sua
domanda, per ottenere una lingua simile dovremmo rifarci a elementi culturali
come quelli elencati. Ma vorrei dire ancora qualcosa al riguardo: un esempio
molto semplice è che in Cinese si hanno pochi fonemi, quindi lo stesso fonema
pronunciato con diversa intonazione corrisponde a molte parole diverse. Per
farsi capire a volte è necessario tracciare l’ideogramma sul palmo della propria
mano. Dunque il rapporto scritto-orale è molto diverso, perché di fatto si pensa
nella lingua scritta indipendentemente da quella orale. Penso a Saussure che
aveva detto che il rapporto significato-significante è molto complicato come
configurazione. Dunque in Cinese si hanno pochi fonemi, una differenziazione
tonale, quattro toni, che però non è ancora sufficiente, perché anche il tono
talvolta è lo stesso per molte parole; il rapporto grafico-parlato vede dunque
nello grafico una configurazione sostitutiva indipendente. Per tornare alla Sua
domanda, direi che si può riassumere chiedendosi se il rapporto
significante-significato è pertinente a tutto il problema… non lo so. Il
Cinese…è una lingua e certo in un paese ci sono cose che sono al di fuori della
lingua… Ciò che è certo è che il Cinese non va pensato a partire da questo,
perché il rapporto significante-significato non si trova in Saussure, ma presso
gli Stoici: semainein all’attivo o al passivo e c’è qualcosa che è un pensiero
del segno che troviamo per primo presso gli Stoici. mentre la lingua cinese è
una lingua che non distingue l’attivo dal passivo. Essendo in una visione di
flusso, di processo in divenire, non c’è l’attivo o il passivo: ci sono forme
che possono evocarle, ma non c’è una forma per il passivo e una forma per
l’attivo, bensì, un processo.
D: Mi soffermerei sull’assenza del soggetto, sulla questione che, nella
metafisica, sempre s’impone un soggetto. C’è sempre la questione del soggetto,
il quale si mette di fronte all’oggetto; tale questione per noi è fondamentale
nella metafisica e si impone anche nella fenomenologia, dove il fenomeno appare
al soggetto. I Greci non la pensavano così: l’apparire non era apparire a un
soggetto, ma era l’apparire…l’apparire anche del soggetto…
Ecco, quando in Heidegger leggiamo “pensare i Greci più grecamente”, con questo
vogliamo mettere in questione, quindi pensare, l’apparire, il fatto che qualcosa
appare. E dunque questa questione va al di là del soggetto o quantomeno pone
questa necessità, e in questo è possibile evidenziare un piano sul quale anche
l’esperienza della fadeur, del Madhyamika, della Shunyata si incontrano?
R: Per cominciare parto dal fondo: Vuoto e Shunyata sono due cose molto
diverse perché c’è della metafisica nella Shunyata, c’è del niente, mentre il
vuoto del vaso non ha assolutamente uno statuto filosofico. In origine c’è stato
un qui pro quo nel Buddhismo cinese, riguardante la confusione fra l’idea di
vuoto fisico cinese e la Shunyata di matrice indiana, che ha a che fare con la
metafisica. E’ vero che i Greci pensavano in termini di “mondo”, quindi il
soggetto non è il soggetto, e c’è questa esperienza originaria e favolosa di
un’epoca prima del soggetto, una sorta di emergenza che ha alimentato il sogno
heideggeriano. Ciò che lui dice porta al fainomenai, fainestai e tutto ciò che
questo mostra per quanto riguarda la questione dell’essere è pensato in Greco,
influenzato da tutto ciò che articola la lingua greca. Pensate ora al Cinese,
che non coniuga e non declina: non ha il participio presente, non ha tempi, non
ci sono “io parlo, tu parli, egli parla…”. Ciò che mi interessa del mondo cinese
è questo pensiero dell’apparire, apparire nel senso di evento sorgente, o di
apparenza. Pensare in termini non ontologici è molto difficile, perché dal
momento in cui penso in termini europei sono già immerso nelle sue tematiche,
anche se faccio di tutto per liberarmene, perché sono determinato dal
non-pensato. Ciò che si può provare a fare, tornando al pensiero cinese, è
disfarsi di tutto ciò, d’allontanarsi da tutte le nostre aspettative teoriche
greche, tutti i giochi di opposizione, di installazione, perché non è attraverso
questo elementi che la parola cinese si esprime. Può accadere che la lettura di
Confucio non dica nulla, se effettuata attraverso queste aspettative. Per questo
è utile imparare i testi a memoria, memorizzarli prima di leggerli o
commentarli. Per questo è importante vivere lo spaesamento in modo non
riduttivo, a partire dalla propria cultura.
Intervista a cura di: Domenico Canzoniero
con la collaborazione di: Linda Altomonte e Chiara Teneggi
Traduzione di: Linda Altomonte