"Oriente/Occidente"
L'inerzia del senso comune - come quella di molte
discipline che non intendono discutere i presupposti su cui pretendono di
fondarsi - usa il concetto di 'Occidente' con un'inconsapevole leggerezza
teorica che produce, tuttavia, pesanti conseguenze pratiche.
Anche volendo trattare la faccenda soltanto in termini di banali evidenze,
emergono chiaramente alcuni punti incontrovertibili:
-
Il concetto di 'Occidente' non è mai esistito - né
esiste oggi - separatamente da quello di 'Oriente' anche in base alle
connotazioni che sembrano più sicure, quelle geografiche: come per gli
antichi Greci l'Oriente era la Persia, la quale, invece, era Occidente per
i Cinesi, così oggi la California è Far West per gli europei, ma è Oriente
per i Giapponesi e gli asiatici in genere.
-
Anche dal punto di vista culturale i confini tra
Oriente e Occidente non sono mai stati né sono ora assolutamente certi e
fissi: per esempio l'India, considerata dai più 'Oriente' a tutti gli
effetti, diede i natali ad una lingua, il sanscrito, che esercitò influssi
profondi e duraturi su quasi tutte le lingue europee; e il Cristianesimo,
oggi considerato a ragione una delle radici della civiltà europea, fu
considerato dai Romani come una delle tante religioni orientali.
-
Pur dando per scontati confini certi - sia geografici
che culturali - tra Oriente e Occidente, vi sono stati e tuttora vi sono,
molti Occidenti e molti Orienti: quello che viene considerato 'Oriente' si
è infatti formato col contributo di almeno tre grandi civiltà tra loro
diverse: quella indiana, quella cinese e quella coreana, senza tener conto
di molte altre civiltà 'minori' come quella thai, viet, khmer, tibetana,
etc. Parimenti, ciò che viene chiamato 'Occidente' si è formato - com'è
noto - grazie all'apporto della civiltà greco-romana, di quella
giudaico-cristiana e di quella islamica, ciascuna delle quali, tra
l'altro, si è articolata al proprio interno in numerose forme e direzioni.
Non solo: è altrettanto noto che anche altre civiltà 'minori' hanno
contribuito a tale formazione, da quella celtica a quella anglosassone, a
quella slava.
-
I confini sia geografici che culturali tra Oriente e
Occidente, pur ammettendo che siano accertabili, non possono mai essere
considerati definitivi, dato che la loro determinazione dipende da una
serie di fattori storici, politici, economici e linguistici, tutti
caratterizzati da una loro intrinseca e complessa pluralità di dinamiche.
Si pensi a questo riguardo alla secolare questione relativa all'esatta
collocazione della Russia - e, più in generale, dei popoli slavi - vista
da alcuni come prodotto della civiltà orientale, da altri come parte
integrante di quella europea, ovvero ritenuta da altri ancora come
civiltà-ponte tra Oriente e Occidente.
Ricordati questi punti che segnalano alcuni aspetti del
tutto ovvi - ma troppo spesso non ritenuti tali -, rimane, comunque, oggi
come ieri, il problema di come affrontare in termini filosofici il rapporto
tra ciò che, pur con diverse sfumature e precauzioni, assumiamo come
'Occidente' e ciò che assumiamo come 'Oriente'. La filosofia comparata ha
tentato a più riprese di individuare i caratteri specifici dei diversi modi
di pensiero propri di questi due diversi ambiti, ma con risultati assai
deludenti, aggiungendo una gran quantità di stereotipi a quelli già
esistenti[1].
Più seri ed interessanti si sono dimostrati alcuni
approcci delineati dagli studi antropologici, in quanto si sono posti due
problemi reali, radicalmente filosofici, che stanno al fondo di ogni
confronto (compreso, quindi, anche quello tra Oriente e Occidente): quale
natura e quale dinamica caratterizzano la formazione del concetto di
identità? E quale dovrebbe essere il corretto rapporto tra identità diverse?[2]
Ora, tentando di andare alla radice filosofica di questi
due problemi, si può procedere seguendo due modi fondamentali: 1) quello di
una rapida escursione alla ricerca di alcuni 'luoghi alti' della storia del
pensiero - sia orientale che occidentale - nei quali sia stato affrontato
esplicitamente il tema dell'identità e della differenza; 2) quello di un'
ulteriore riflessione su tale tema a partire dai risultati ricavati da
questa 'escursione'.
Logiche identitarie
Occidente
Risulta evidente anche da una semplice analisi degli
aspetti più elementari della conoscenza che, per potersi rappresentare il
fatto che una cosa, un'idea o una persona è proprio quella e non un'altra, è
necessario confrontarla almeno con un'altra. Nella tradizione del pensiero
occidentale questo fatto cominciò ad essere intuito chiaramente
dall''oscuro' Eraclito, ma venne per la prima volta tradotto in termini
rigorosamente filosofici da Platone alla fine del Sofista, quando dimostrò
che, per la definizione di qualcosa, l'essere 'diverso' (éteron) è
necessario tanto quanto l'essere identico: "La questione è quella del
non-essere, così come noi l'abbiamo delineata; e chi vuole interloquire su
questo punto, o riuscirà con i suoi argomenti a farci persuasi che siamo
fuori strada, oppure, se non ci riesce, deve rassegnarsi ad ammettere quello
che diciamo noi. E cioè, primo: vi è partecipazione reciproca tra i generi;
secondo: l'essere e il diverso si estendono a tutti i generi e partecipano
l'uno dell'altro; terzo: il diverso partecipa dunque dell'essere; quarto:
pur con tale partecipazione non è il genere stesso cui partecipa, ma un
genere diverso; quinto: ed essendo diverso dall'essere è nel modo più certo
e necessario non-essere"[3].
L'intrinseca correlazione tra identità e diversità venne
poi ulteriormente approfondita, com'è noto, da Hegel: "Questo principio
(d'identità) nella sua espressione positiva di A = A non è anzitutto altro
che l'espressione della vuota tautologia.(...) Così è la vuota identità, cui
restano attaccati quelli che la pigliano come tale per qualcosa di vero, e
sempre mettono avanti che l' identità non è la diversità, ma che identità e
diversità son diverse. Costoro non vedono che appunto qui dicon già che l'
identità è un diverso; poiché dicono che l'identità sia diversa dalla
diversità. In quanto si deve in pari tempo conceder questo come natura
dell'identità, in ciò sta che non già estrinsecamente, ma in lei, nella sua
natura, l' identità consiste nell'esser diversa.(...). La verità è completa
solo nell'unità dell'identità colla diversità (...). Il negativo considerato
per sé di fronte al positivo è l' esser posto come riflesso nella
ineguaglianza con sé, il negativo come negativo. Ma il negativo è appunto il
disuguale, in non essere di un altro (...). Nella riflessione escludente se
stessa che è stata considerata, ciascuno, tanto il positivo quanto il
negativo, toglie nella sua indipendenza se stesso. Ciascuno è assolutamente
il passare o, meglio il suo proprio trasportarsi nel suo opposto. Questo
incessante sparire dei contrapposti in loro stessi è la prossima unità che
viene ad essere mediante la contraddizione (...). Il positivo e il negativo
costituiscono l'esser posto della indipendenza; la negazione loro per opera
di loro stessi toglie l' esser posto dell'indipendenza. Questo è quel che
veramente nella contraddizione cade giù (zugrunde geht) (...). Il padre è l'
altro del figlio, e il figlio l' altro del padre, e ciascuno è soltanto come
questo altro dell'altro (...). Gli opposti in tanto contengono la
contraddizione, in quanto sotto il medesimo riguardo si riferiscono l'uno
all'altro negativamente ossia si tolgono reciprocamente e son fra loro
indifferenti. Le cose finite nella loro indifferente molteplicità consistono
quindi in generale nell'esser contraddittorie in se stesse, nell'esser rotte
in sé e nel tornare al loro fondamento"[4].
Oriente
Se queste osservazioni di Hegel costituiscono la più
significativa tra le rare vette a cui è giunta la riflessione occidentale
sul tema dell'identità e della differenza[5],
nelle civiltà orientali considerazioni dal contenuto assai simile risultano
molto più numerose e diffuse, specialmente nell'ambito di quegli orizzonti
di pensiero che più intensamente hanno subìto l'influsso del Taoismo e del
Buddhismo[6]: in tali ambiti la relazione tra
identità e differenza è stata sempre vista in modo forte, radicale, per cui
qualcosa è considerata essere quello che è non solo perché è in rapporto con
qualcos'altro, ma perché è costituita, fin dalla sua origine, da
qualcos'altro: un albero viene inteso essere un albero non solo in quanto
diverso dall'aria che lo circonda, dall'acqua che lo bagna, dal sole che lo
riscalda, dalla terra che lo nutre, ma anche e soprattutto in quanto
costituito, prodotto, formato da queste 'cose' diverse da sé. Con ciò non si
disconosce il fatto che l'albero in questione sia, certamente, un
determinato albero, ma si riconosce nel contempo che esso è determinato da
una serie - virtualmente infinita - di fattori condizionanti. In termini
metafisici occidentali questo equivale a dire che ciò che una cosa è dipende
dalla totalità delle cose ad essa correlate. Questo insistere sulla
determinatezza dei particolari in una prospettiva relazionistica[7]
non è pleonastico: spesso, infatti, si ritiene che una simile prospettiva
conduca ad affermare un vuoto indeterminismo in cui andrebbe perduta la
specificità di ogni singolo elemento: è da precisare invece che, ogni
determinazione non 'si scioglie' nell'indeterminato, ma, al contrario, 'si
coagula' in base all'azione di altre - virtualmente infinite -
determinazioni. Ricorrendo ad un esempio geometrico, si può raffigurare
ciascuna determinazione con un punto, inteso però non come segno isolato ed
autonomo, ma come luogo di incrocio di infinite rette. La tradizione
buddhista ha elaborato al riguardo l'immagine della 'rete di gioielli' in
grado di rappresentare in modo estremamente efficace questa prospettiva di 'relazionismo
dinamico': in tale rete ciascun gioiello risplende non grazie ad una
propria, intrinseca, luminosità, ma in virtù della sua capacità di
riflettere la luminosità di tutti gli altri gioielli[8].
Alla base dell'idea centrale che sostiene tale immagine vi è una
testimonianza assai significativa, contenuta in una scrittura canonica:
"- Ananda, tra gli elementi interconnessi
che hanno fatto sì che la ciotola esista, vedi dell'acqua?
- Certo, signore. Il vasaio ha avuto bisogno di acqua per impastare
l'argilla e modellare la ciotola.
- Dunque, l'esistenza della ciotola dipende dall'esistenza dell'acqua.
Inoltre, Ananda, vedi l'elemento fuoco?
- Certo, signore. E' stato necessario il fuoco per cuocere l'argilla, dunque
vedo in essa fuoco e calore.
- Che altro vedi?
- Vedo aria, senza la quale il fuoco non si sarebbe acceso e il vasaio non
avrebbe respirato. Vedo il vasaio e l'abilità delle sue mani. Vedo il forno
e la legna che l'ha alimentato. Vedo gli alberi che hanno fornito la legna.
Vedo la pioggia, il sole e la terra che hanno fatto crescere gli alberi.
Signore vedo migliaia di elementi interconnessi che hanno concorso alla
formazione di questa ciotola."[9]
Anche in un classico del Taoismo filosofico viene
esposta, in modo più formale, la medesima idea per cui ogni identità
determinata va intesa in quanto prodotta grazie all'apporto di altre,
diverse, identità: "Invero ogni essere è altro da sé, e ogni essere è se
stesso. Questa verità non la si vede a partire dall'altro, ma si comprende
partendo da se stessi. Così è stato detto: l'altro proviene dal se stesso,
ma se stesso dipende anche dall'altro"[10].
Oltre l'opposizione: la pratica
comparativa
In seguito a questa rapida 'escursione', emerge a caratteri netti una
'logica' dell'identità come relazione mediante la quale può essere
affrontato anche il problema del nesso Oriente-Occidente nella misura in cui
venga considerato come una forma particolare del rapporto generale tra
identità diverse. In base a tale 'logica' si ottengono alcune acquisizioni
basilari: 1) i termini di una relazione non risultano mai indipendenti dalla
relazione stessa; 2) i termini di una relazione e la relazione non risultano
mai indipendenti rispetto al soggetto che li considera, e, viceversa, tale
soggetto non risulta indipendente rispetto ai termini della relazione e alla
relazione stessa; 3) i termini della relazione, la relazione e il soggetto
risultano appartenere tutti ad uno stesso 'campo' problematico, determinato
dalla loro interazione[11]. In altre parole,
con la relazione Oriente-Occidente si evidenziano - in misura maggiore[12]
rispetto a quanto accade con altri tipi di relazione - due fatti:
innanzitutto, che i termini della relazione non sono per nulla materiali
inerti che si offrono come dati ad un soggetto imperturbabile, del tutto
disinteressato e neutrale, che dovrebbe essere in grado di osservare 'dall'alto'
e di porre a confronto pensieri provenienti da diversi luoghi e tempi come
se fossero oggetti ad esso affatto estranei[13];
in secondo luogo, che il soggetto, in apparenza solo 'sovrintendente' di
tali pensieri, risulta in realtà coinvolto da alcune motivazioni cruciali
che li hanno prodotti. 'Coinvolto' non in senso formale, ma sostanziale -
come avveniva nel dialogo socratico - per cui l'interesse del soggetto non è
tanto quello di raccogliere e catalogare analogie e differenze, ma quello di
considerare attive e attualmente decisive per la propria vita le risposte
fornite da quei pensieri ad alcuni problemi di fondo. In questa prospettiva,
quindi, il soggetto non 'assume' semplicemente la relazione
Oriente-Occidente, ma ne viene radicalmente implicato. Ricorrendo ad
immagini tratte dalla geometria e dalla fisica, si può dire che il soggetto
che compara pensieri d'Oriente e d'Occidente non è raffigurabile come il
vertice statico di un triangolo alla cui base vi sono due (o più) oggetti
che egli compara, ma come uno dei 'poli' dinamici di uno stesso 'campo'
problematico, dove l'altro polo è rappresentato dall'oggetto dell'indagine e
della riflessione costituito dalla relazione tra pensieri di diversa
provenienza. Questo 'campo' che rende possibile l'esistenza dei due 'poli' e
il loro reciproco interagire coincide con lo spazio impossibilitato a
chiudersi dalla forza dei problemi. D'altra parte, come un campo magnetico
non esiste senza i suoi poli, così lo spazio prodotto dai problemi non
esiste indipendentemente né dal polo soggettivo rappresentato da chi
domanda, né dal polo oggettivo costituito dal nesso tra le risposte date, in
tempi e luoghi diversi, da altri soggetti. Ciò significa che, come il
soggetto comparante viene condizionato dall'attività della comparazione
perché i termini comparati - proprio grazie alla comparazione -
'sprigionano' risposte inedite ai problemi posti, così i termini comparati
vengono modificati dall'attività comparativa del soggetto, in quanto
rispondono alle sue domande.
Si può allora dire che, mentre la filosofia comparata
come disciplina erudita pretende che il soggetto che compara sia esterno e
indifferente ai termini comparati, la filosofia come comparazione sa che una
simile dinamica, benché praticabile, è affatto astratta, dato che il
soggetto della comparazione può giungere a profondità di comprensione tanto
maggiori quanto più si lascia implicare dai problemi che sono attivi
all'origine dei termini comparati. In questo quadro non si dà una situazione
statica in cui il soggetto equivale ad una costante rispetto a due (o più)
variabili rappresentate dai termini della comparazione, ma si produce una
dinamica a tre variabili interdipendenti che si condizionano, cioè, a
vicenda. Da un lato, infatti, l'impulso a comparare, ovvero a pensare, non
parte solo dal soggetto, come se esso esistesse indipendentemente dagli
oggetti da comparare, ma viene stimolato anche dai contenuti degli oggetti
della comparazione, siano essi costituiti da un solo pensiero, o da sistemi
di pensiero, o da intere tradizioni di pensiero; d'altra parte, gli oggetti
comparati esistono solo in virtù e in forza di un soggetto che li compara.
Quindi: sia il soggetto sia gli oggetti della comparazione esistono solo in
rapporto e in ragione di uno spazio problematico che invita alla
comparazione; tuttavia, a sua volta, questo spazio può esserci solo per un
soggetto che lo attraversa e per oggetti che lo determinano.
In questa direzione appare evidente non solo che è
impraticabile una comparazione 'positivistica' illusa di poter contare su di
un tertium super partes, ma anche che tutti i tentativi di voler dimostrare
- per ossessione eurocentrica (come avviene in Hegel) - la superiorità del
pensiero occidentale su quello orientale, o all'opposto - per alienazione
esotica (come accade con Guénon) - la superiorità di quello orientale su
quello occidentale, risulterebbero illegittimi, in quanto prodotti da un
particolare e, quindi parziale, punto di vista che pretende tuttavia di
valere in modo assoluto, al punto da poter stabilire una graduatoria in cui
incasellare le diverse forme di pensiero. Atteggiamento legittimo appare,
invece, quello che, pur partendo da un particolare punto di vista, si mostra
consapevole del fatto che ogni punto di vista - compreso, quindi, il proprio
- è prodotto da un incessante - e, quindi, mai definitivo - confronto con
altri punti di vista[14].
Non è allora superfluo ribadire che il metodo
comparativo, ancor prima di esercitarsi nel confronto tra diversi sistemi di
pensiero, ovvero tra pensieri appartenenti a diversi ambiti storici e
culturali, si rivela essere metodo filosofico per eccellenza. Il metodo
comparativo - il quale esprime le proprie potenzialità in maniera
particolarmente intensa nel confronto tra Oriente e Occidente - appare
infatti come metodo del pensare, non di un particolare modo di pensare:
infatti, nel momento stesso in cui si effettua un qualsiasi tipo di
ragionamento, anche ai livelli più elementari, si stabiliscono rapporti tra
concetti. Non a caso i Greci designavano con uno stesso verbo, léghein, le
attività di scegliere, legare, discorrere e ragionare: pensare e parlare,
infatti, sono attività che implicano connessioni; ma, per connettere, è
prima necessario scegliere gli elementi delle connessioni, ossia concetti e
parole; ma, per scegliere alcuni elementi, è necessario compararli con altri
elementi. L'attività del comparare è dunque alla radice del pensare stesso.
Questa attività comparativa si spinge ai massimi livelli di intensità là
dove le differenze - a partire da quelle linguistiche - appaiono maggiori,
ossia nel confronto tra filosofie occidentali e pensieri orientali. In tal
senso e a questi livelli la relazione Oriente-Occidente, in quanto 'modo'
particolarmente forte della relazione in generale, si mostra e si pone come
modo fondamentale per l'esercizio del pensiero che non sopporta né limiti né
confini.
[Giangiorgio
Pasqualotto]
[1]
Abbiamo considerato criticamente alcuni di questi risultati in G.
Pasqualotto, Introduzione a Aa. Vv., Simplègadi. Percorsi del pensiero tra
Occidente e Oriente, Padova, Esedra 2002, pp. 7-41; e in Id., East & West.
Identità e dialogo interculturale, Venezia Marsilio 2003, pp. 39-61.
[2] Cfr. Cfr. C. Geertz, Interpretazione
di culture, tr., Bologna, il Mulino 1988; F. Affergan, Esotismo e alterità,
tr., Milano, Mursia 1990; F. Remotti, Contro l'identità, Bari, Laterza 1996;
M. Kilani, L'invenzione dell'altro, tr., Bari, Dedalo 1997; U. Fabietti,
Antropologia culturale, Bari, Laterza 1999; J. Clifford, I frutti puri
impazziscono, tr., Torino, Bollati Boringhieri 1999; J. L. Amselle,
Connessioni. Antropologia dell'universalità delle culture, tr., Torino,
Bollati Boringhieri 2001. Si vedano, inoltre, alcune recenti acquisizioni
nel campo dell'epistemologia genetica che parlano di "interfecondità senza
limitazioni" (L. Cavalli Sforza, Geni, popoli, lingue, Milano, Adelphi 1996,
p. 65) .
[3] Platone, Sofista, 259 a-b (tr. it di
M.Vitali, Milano, Bompiani 1992, p. 133). Sulla scia di queste acquisizioni
platoniche sembra muoversi anche Plotino quando sostiene che "Tutte le parti
esistono dunque le une per le altre" (Plotino, Enneadi, VI, 7, 3, 20 (tr. it
di G. Faggin, Milano, Rusconi 1992, p.1215).
[4] Hegel, Scienza della logica, Libro II°, Sez.
I, Cap. II°, Nota II (tr. it. di A. Moni e C. Cesa, Bari, Laterza 1968, Vol.
II, pp. 459-494).
[5] Ci sembra che le riflessioni su tema
dell'identità e della differenza elaborate da Hegel non siano state in
seguito invalidate o superate né da Deleuze con Differenza e ripetizione,
(tr. it. di G. Guglielmi , Bologna, il Mulino 1971). né, tantomeno, da
Heidegger con Identità e differenza (tr. it. di U. Ugazio, "aut aut"
187-188, 1982, pp. 2-37).
[6] Ma si potrebbe ricordare a tale proposito
anche Confucio e il Confucianesimo in quanto considerano l'individuo
determinato in modo essenziale da cinque relazioni (wu lun), quelle tra
genitore e figlio, tra marito e moglie, tra fratello maggiore e fratello
minore, tra sovrano e suddito, e tra amici). E' interessante ricordare che
anche il pensiero africano - in particolare quello delle etnie Peul e
Bambara - ha elaborato un concetto complesso di personalità, quello di maaya
ossia 'persone nella persona' o 'persona ricettacolo' (cfr. A. Hampaté Ba,
Aspetti della civiltà africana, tr. Bologna, Emi 1975).
[7] In realtà non sarebbe corretto usare
l'aggettivo 'relazionistico' perché questo sembra suggerire l'idea che la
relazione sia un 'assoluto' esistente di per sé, indipendentemente dai
termini relazionati, cosa evidentemente assurda.
[8] Cfr.Avatamsaka Sutra (cfr. The Flower
Ornament Scripture , a cura di Th. Cleary, Boston, Shambala Publ. 1993);
un'importante rielaborazione delle tesi presenti in quest' opera si ha nel
Trattato sul leone d'oro di Fazang, (cfr. tr. a cura di S. Zacchetti,
Padova, Esedra 2001). Su questi temi cfr. H. F. Cook, Hua-yen Buddhism: The
Jewel Net of Indra, Park, The Pennsylvania State University Press 1977; Liu
Ming-wood, The Teaching of Fa-tsang: An Examination of Buddhist Metaphysics,
Los Angeles, University of California Press, 1979; Th. Cleary, Entry into
the Inconceivable: An Introduction to Hua-yen Buddhism, Honolulu, University
of Hawaii Press 1983; R. M. Gimello - P. N. Gregory, Studies in Ch'an and
Hua-yen, Honolulu, University of Hawaii Press 1983; A. Forte, Tang China and
Beyond, Kyoto, Scuola di studi sull'Asia orientale 1988, pp. 35-83; I. Hamar,
The Doctrine of Perfect Teaching in Ch'eng-Kuan's Introduction to his
Commentary on the 'Hua-yan-ching', in "Journal of The Center of Buddhist
Studies", 3, 1998, pp. 331-349.
[9]Samyutta Nikaya, XXXV, 84 (tr. di Thich
Nath Hanh, La vita di Siddharta il Buddha, Roma, Ubaldini 1992, p. 302).. I
fondamenti della dottrina buddhista relativi all'interrelazione universale
sono costituiti dalla teoria dell'anatta (sulla quale ci siamo soffermati in
G. Pasqualotto, Illuminismo e illuminazione, Roma, Donzelli 1997); e dalla
teoria del paticcasamuppada (sulla quale ci siamo soffermati in G.
Pasqualotto, Il Buddhismo, Milano, B. Mondadori 2003, Cap. 3).
[10]Zhuang zi, tr. di Liou Kia-hway, Milano,
Adelphi, 1982, p. 23. Questo rapporto di implicazione reciproca tra identità
ed alterità emerge chiaramente anche dall'altro testo fondamentale del
taoismo filosofico (dao jia): cfr. Tao Te Ching, Cap. II, v. 7: "Essere e
non essere si danno nascita fra loro" (tr. it. di F. Tomassini, Torino, Utet
1977, p. 42). Abbiamo sviluppato alcune implicazioni filosofiche di questa
relazione reciproca in G. Pasqualotto, Il Tao della filosofia, Milano, Il
Saggiatore 1995.
[11]Anche a questo riguardo risulta
determinante e decisivo l'apporto teoretico di Hegel, in quanto distingue
tra Beziehung, rapporto estrinseco, semplice accostamento di termini
diversi; e Verhältnis, relazione intrinseca, costitutiva di ogni identità e
del suo dileguarsi (cfr. F. Chiereghin, Dialettica dell'assoluto e ontologia
della soggettività in Hegel, Trento, Verifiche 1980, p. 350). Sul tema della
relazione in Hegel cfr. G. R Bacchin, L'immediato e la sua negazione,
Perugia, Grafica 1967, Id., Anypotheton, Roma, Bulzoni 1975, p. 40; Id.,
Classicità e originarietà della metafisica, Milano, Angeli 1997, pp.
312-314, ma soprattutto A. Stella, Il concetto di 'relazione' nella 'Scienza
della logica' di Hegel, Milano, Guerini 1994. Sia le critiche di Gentile che
quelle di Severino alla dialettica hegeliana non invalidano questo decisivo
apporto di Hegel alla riflessione sul tema della relazione (cfr. V. Vitiello,
Topologia del moderno, Genova, Marietti 1992 e F. Berto, La dialettica della
struttura originaria, Padova, Il Poligrafo 2003). Quanto Hegel sia decisivo
per comprendere il senso e le funzioni della relazione si può ricavare anche
dal confronto con Leibniz (cfr. L. Cortella, Autocritica del moderno. Saggi
su Hegel, Padova, Il Poligrafo 2002, pp. 160-173), con Russell (cfr. F.
Perelda, Hegel e Russell, Padova, Il Poligrafo 2003) e da quello,
strettamente logico, con il tema dell'alterità (cfr. A. Bellan, La logica e
il suo 'altro', Padova, Il Poligrafo 2002). Al concetto hegeliano di
Verhältniss non può invece essere completamente assimilato quello di
relazione elaborato da Bradley (cfr. F. H. Bradley, Apparenza e realtà, tr.
di D. Sacchi, Milano, Rusconi 1984 e M. A. Bonfantini, L'esistenza della
realtà, Milano, Bompiani 1976), in quanto si limita a descrivere stati di
cose, perdendo in tal modo il carattere dinamico costantemente evidenziato,
invece, dalla riflessione hegeliana.
[12]Il senso di questo 'in misura maggiore'
si evince da alcuni testi fondamentali di F. Jullien, Processo o creazione,
tr. it., Parma, Pratiche 1991; Id., Pensare un altrove: la Cina, in "Iride",
24, 1998, pp. 239-249, ma anche da Id., La propension des choses, Paris,
Seuil 1992; Id., Éloge de la fadeur, Paris, Picquier 1991; Id., Figures de
l'immanence, Paris, Grasset 1993; Id., Le détour et l'accés, Paris, Grasset
1995; Id., Fonder la Morale, Paris, Grasset 1995; Id., Traité de l'efficacité
, Paris, Grasset 1997; Id. Le sage est sans idée ou l'autre de la
philosophie, Paris, Seuil 1998.
[13]In questa illusione oggettivistica era
caduto Masson Oursel, considerato il fondatore della filosofia comparata
come disciplina 'scientifica' (cfr. H. Masson Oursel, La philosophie
comparée, Paris, Alcan 1923).
[14]Un possibile superamento di una logica
centrata su presupposti parziali è quello 'polilogico' indicato da F. M.
Wimmer, Interculturelle Philosophie, Wien, Passagen 1990.
|
|