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Oriente e Occidente.
L'identità in questione

Giangiorgio Pasqualotto

 

"Oriente/Occidente"

L'inerzia del senso comune - come quella di molte discipline che non intendono discutere i presupposti su cui pretendono di fondarsi - usa il concetto di 'Occidente' con un'inconsapevole leggerezza teorica che produce, tuttavia, pesanti conseguenze pratiche.
Anche volendo trattare la faccenda soltanto in termini di banali evidenze, emergono chiaramente alcuni punti incontrovertibili:

  • Il concetto di 'Occidente' non è mai esistito - né esiste oggi - separatamente da quello di 'Oriente' anche in base alle connotazioni che sembrano più sicure, quelle geografiche: come per gli antichi Greci l'Oriente era la Persia, la quale, invece, era Occidente per i Cinesi, così oggi la California è Far West per gli europei, ma è Oriente per i Giapponesi e gli asiatici in genere.

  • Anche dal punto di vista culturale i confini tra Oriente e Occidente non sono mai stati né sono ora assolutamente certi e fissi: per esempio l'India, considerata dai più 'Oriente' a tutti gli effetti, diede i natali ad una lingua, il sanscrito, che esercitò influssi profondi e duraturi su quasi tutte le lingue europee; e il Cristianesimo, oggi considerato a ragione una delle radici della civiltà europea, fu considerato dai Romani come una delle tante religioni orientali.

  • Pur dando per scontati confini certi - sia geografici che culturali - tra Oriente e Occidente, vi sono stati e tuttora vi sono, molti Occidenti e molti Orienti: quello che viene considerato 'Oriente' si è infatti formato col contributo di almeno tre grandi civiltà tra loro diverse: quella indiana, quella cinese e quella coreana, senza tener conto di molte altre civiltà 'minori' come quella thai, viet, khmer, tibetana, etc. Parimenti, ciò che viene chiamato 'Occidente' si è formato - com'è noto - grazie all'apporto della civiltà greco-romana, di quella giudaico-cristiana e di quella islamica, ciascuna delle quali, tra l'altro, si è articolata al proprio interno in numerose forme e direzioni. Non solo: è altrettanto noto che anche altre civiltà 'minori' hanno contribuito a tale formazione, da quella celtica a quella anglosassone, a quella slava.

  • I confini sia geografici che culturali tra Oriente e Occidente, pur ammettendo che siano accertabili, non possono mai essere considerati definitivi, dato che la loro determinazione dipende da una serie di fattori storici, politici, economici e linguistici, tutti caratterizzati da una loro intrinseca e complessa pluralità di dinamiche. Si pensi a questo riguardo alla secolare questione relativa all'esatta collocazione della Russia - e, più in generale, dei popoli slavi - vista da alcuni come prodotto della civiltà orientale, da altri come parte integrante di quella europea, ovvero ritenuta da altri ancora come civiltà-ponte tra Oriente e Occidente.

Ricordati questi punti che segnalano alcuni aspetti del tutto ovvi - ma troppo spesso non ritenuti tali -, rimane, comunque, oggi come ieri, il problema di come affrontare in termini filosofici il rapporto tra ciò che, pur con diverse sfumature e precauzioni, assumiamo come 'Occidente' e ciò che assumiamo come 'Oriente'. La filosofia comparata ha tentato a più riprese di individuare i caratteri specifici dei diversi modi di pensiero propri di questi due diversi ambiti, ma con risultati assai deludenti, aggiungendo una gran quantità di stereotipi a quelli già esistenti[1].

Più seri ed interessanti si sono dimostrati alcuni approcci delineati dagli studi antropologici, in quanto si sono posti due problemi reali, radicalmente filosofici, che stanno al fondo di ogni confronto (compreso, quindi, anche quello tra Oriente e Occidente): quale natura e quale dinamica caratterizzano la formazione del concetto di identità? E quale dovrebbe essere il corretto rapporto tra identità diverse?[2]

Ora, tentando di andare alla radice filosofica di questi due problemi, si può procedere seguendo due modi fondamentali: 1) quello di una rapida escursione alla ricerca di alcuni 'luoghi alti' della storia del pensiero - sia orientale che occidentale - nei quali sia stato affrontato esplicitamente il tema dell'identità e della differenza; 2) quello di un' ulteriore riflessione su tale tema a partire dai risultati ricavati da questa 'escursione'.

Logiche identitarie

Occidente

Risulta evidente anche da una semplice analisi degli aspetti più elementari della conoscenza che, per potersi rappresentare il fatto che una cosa, un'idea o una persona è proprio quella e non un'altra, è necessario confrontarla almeno con un'altra. Nella tradizione del pensiero occidentale questo fatto cominciò ad essere intuito chiaramente dall''oscuro' Eraclito, ma venne per la prima volta tradotto in termini rigorosamente filosofici da Platone alla fine del Sofista, quando dimostrò che, per la definizione di qualcosa, l'essere 'diverso' (éteron) è necessario tanto quanto l'essere identico: "La questione è quella del non-essere, così come noi l'abbiamo delineata; e chi vuole interloquire su questo punto, o riuscirà con i suoi argomenti a farci persuasi che siamo fuori strada, oppure, se non ci riesce, deve rassegnarsi ad ammettere quello che diciamo noi. E cioè, primo: vi è partecipazione reciproca tra i generi; secondo: l'essere e il diverso si estendono a tutti i generi e partecipano l'uno dell'altro; terzo: il diverso partecipa dunque dell'essere; quarto: pur con tale partecipazione non è il genere stesso cui partecipa, ma un genere diverso; quinto: ed essendo diverso dall'essere è nel modo più certo e necessario non-essere"[3].

L'intrinseca correlazione tra identità e diversità venne poi ulteriormente approfondita, com'è noto, da Hegel: "Questo principio (d'identità) nella sua espressione positiva di A = A non è anzitutto altro che l'espressione della vuota tautologia.(...) Così è la vuota identità, cui restano attaccati quelli che la pigliano come tale per qualcosa di vero, e sempre mettono avanti che l' identità non è la diversità, ma che identità e diversità son diverse. Costoro non vedono che appunto qui dicon già che l' identità è un diverso; poiché dicono che l'identità sia diversa dalla diversità. In quanto si deve in pari tempo conceder questo come natura dell'identità, in ciò sta che non già estrinsecamente, ma in lei, nella sua natura, l' identità consiste nell'esser diversa.(...). La verità è completa solo nell'unità dell'identità colla diversità (...). Il negativo considerato per sé di fronte al positivo è l' esser posto come riflesso nella ineguaglianza con sé, il negativo come negativo. Ma il negativo è appunto il disuguale, in non essere di un altro (...). Nella riflessione escludente se stessa che è stata considerata, ciascuno, tanto il positivo quanto il negativo, toglie nella sua indipendenza se stesso. Ciascuno è assolutamente il passare o, meglio il suo proprio trasportarsi nel suo opposto. Questo incessante sparire dei contrapposti in loro stessi è la prossima unità che viene ad essere mediante la contraddizione (...). Il positivo e il negativo costituiscono l'esser posto della indipendenza; la negazione loro per opera di loro stessi toglie l' esser posto dell'indipendenza. Questo è quel che veramente nella contraddizione cade giù (zugrunde geht) (...). Il padre è l' altro del figlio, e il figlio l' altro del padre, e ciascuno è soltanto come questo altro dell'altro (...). Gli opposti in tanto contengono la contraddizione, in quanto sotto il medesimo riguardo si riferiscono l'uno all'altro negativamente ossia si tolgono reciprocamente e son fra loro indifferenti. Le cose finite nella loro indifferente molteplicità consistono quindi in generale nell'esser contraddittorie in se stesse, nell'esser rotte in sé e nel tornare al loro fondamento"[4].

Oriente

Se queste osservazioni di Hegel costituiscono la più significativa tra le rare vette a cui è giunta la riflessione occidentale sul tema dell'identità e della differenza[5], nelle civiltà orientali considerazioni dal contenuto assai simile risultano molto più numerose e diffuse, specialmente nell'ambito di quegli orizzonti di pensiero che più intensamente hanno subìto l'influsso del Taoismo e del Buddhismo[6]: in tali ambiti la relazione tra identità e differenza è stata sempre vista in modo forte, radicale, per cui qualcosa è considerata essere quello che è non solo perché è in rapporto con qualcos'altro, ma perché è costituita, fin dalla sua origine, da qualcos'altro: un albero viene inteso essere un albero non solo in quanto diverso dall'aria che lo circonda, dall'acqua che lo bagna, dal sole che lo riscalda, dalla terra che lo nutre, ma anche e soprattutto in quanto costituito, prodotto, formato da queste 'cose' diverse da sé. Con ciò non si disconosce il fatto che l'albero in questione sia, certamente, un determinato albero, ma si riconosce nel contempo che esso è determinato da una serie - virtualmente infinita - di fattori condizionanti. In termini metafisici occidentali questo equivale a dire che ciò che una cosa è dipende dalla totalità delle cose ad essa correlate. Questo insistere sulla determinatezza dei particolari in una prospettiva relazionistica[7] non è pleonastico: spesso, infatti, si ritiene che una simile prospettiva conduca ad affermare un vuoto indeterminismo in cui andrebbe perduta la specificità di ogni singolo elemento: è da precisare invece che, ogni determinazione non 'si scioglie' nell'indeterminato, ma, al contrario, 'si coagula' in base all'azione di altre - virtualmente infinite - determinazioni. Ricorrendo ad un esempio geometrico, si può raffigurare ciascuna determinazione con un punto, inteso però non come segno isolato ed autonomo, ma come luogo di incrocio di infinite rette. La tradizione buddhista ha elaborato al riguardo l'immagine della 'rete di gioielli' in grado di rappresentare in modo estremamente efficace questa prospettiva di 'relazionismo dinamico': in tale rete ciascun gioiello risplende non grazie ad una propria, intrinseca, luminosità, ma in virtù della sua capacità di riflettere la luminosità di tutti gli altri gioielli[8]. Alla base dell'idea centrale che sostiene tale immagine vi è una testimonianza assai significativa, contenuta in una scrittura canonica:

"- Ananda, tra gli elementi interconnessi che hanno fatto sì che la ciotola esista, vedi dell'acqua?
- Certo, signore. Il vasaio ha avuto bisogno di acqua per impastare l'argilla e modellare la ciotola.
- Dunque, l'esistenza della ciotola dipende dall'esistenza dell'acqua. Inoltre, Ananda, vedi l'elemento fuoco?
- Certo, signore. E' stato necessario il fuoco per cuocere l'argilla, dunque vedo in essa fuoco e calore.
- Che altro vedi?
- Vedo aria, senza la quale il fuoco non si sarebbe acceso e il vasaio non avrebbe respirato. Vedo il vasaio e l'abilità delle sue mani. Vedo il forno e la legna che l'ha alimentato. Vedo gli alberi che hanno fornito la legna. Vedo la pioggia, il sole e la terra che hanno fatto crescere gli alberi. Signore vedo migliaia di elementi interconnessi che hanno concorso alla formazione di questa ciotola."[9]

Anche in un classico del Taoismo filosofico viene esposta, in modo più formale, la medesima idea per cui ogni identità determinata va intesa in quanto prodotta grazie all'apporto di altre, diverse, identità: "Invero ogni essere è altro da sé, e ogni essere è se stesso. Questa verità non la si vede a partire dall'altro, ma si comprende partendo da se stessi. Così è stato detto: l'altro proviene dal se stesso, ma se stesso dipende anche dall'altro"[10].

Oltre l'opposizione: la pratica comparativa


In seguito a questa rapida 'escursione', emerge a caratteri netti una 'logica' dell'identità come relazione mediante la quale può essere affrontato anche il problema del nesso Oriente-Occidente nella misura in cui venga considerato come una forma particolare del rapporto generale tra identità diverse. In base a tale 'logica' si ottengono alcune acquisizioni basilari: 1) i termini di una relazione non risultano mai indipendenti dalla relazione stessa; 2) i termini di una relazione e la relazione non risultano mai indipendenti rispetto al soggetto che li considera, e, viceversa, tale soggetto non risulta indipendente rispetto ai termini della relazione e alla relazione stessa; 3) i termini della relazione, la relazione e il soggetto risultano appartenere tutti ad uno stesso 'campo' problematico, determinato dalla loro interazione[11]. In altre parole, con la relazione Oriente-Occidente si evidenziano - in misura maggiore[12] rispetto a quanto accade con altri tipi di relazione - due fatti: innanzitutto, che i termini della relazione non sono per nulla materiali inerti che si offrono come dati ad un soggetto imperturbabile, del tutto disinteressato e neutrale, che dovrebbe essere in grado di osservare 'dall'alto' e di porre a confronto pensieri provenienti da diversi luoghi e tempi come se fossero oggetti ad esso affatto estranei[13]; in secondo luogo, che il soggetto, in apparenza solo 'sovrintendente' di tali pensieri, risulta in realtà coinvolto da alcune motivazioni cruciali che li hanno prodotti. 'Coinvolto' non in senso formale, ma sostanziale - come avveniva nel dialogo socratico - per cui l'interesse del soggetto non è tanto quello di raccogliere e catalogare analogie e differenze, ma quello di considerare attive e attualmente decisive per la propria vita le risposte fornite da quei pensieri ad alcuni problemi di fondo. In questa prospettiva, quindi, il soggetto non 'assume' semplicemente la relazione Oriente-Occidente, ma ne viene radicalmente implicato. Ricorrendo ad immagini tratte dalla geometria e dalla fisica, si può dire che il soggetto che compara pensieri d'Oriente e d'Occidente non è raffigurabile come il vertice statico di un triangolo alla cui base vi sono due (o più) oggetti che egli compara, ma come uno dei 'poli' dinamici di uno stesso 'campo' problematico, dove l'altro polo è rappresentato dall'oggetto dell'indagine e della riflessione costituito dalla relazione tra pensieri di diversa provenienza. Questo 'campo' che rende possibile l'esistenza dei due 'poli' e il loro reciproco interagire coincide con lo spazio impossibilitato a chiudersi dalla forza dei problemi. D'altra parte, come un campo magnetico non esiste senza i suoi poli, così lo spazio prodotto dai problemi non esiste indipendentemente né dal polo soggettivo rappresentato da chi domanda, né dal polo oggettivo costituito dal nesso tra le risposte date, in tempi e luoghi diversi, da altri soggetti. Ciò significa che, come il soggetto comparante viene condizionato dall'attività della comparazione perché i termini comparati - proprio grazie alla comparazione - 'sprigionano' risposte inedite ai problemi posti, così i termini comparati vengono modificati dall'attività comparativa del soggetto, in quanto rispondono alle sue domande.

Si può allora dire che, mentre la filosofia comparata come disciplina erudita pretende che il soggetto che compara sia esterno e indifferente ai termini comparati, la filosofia come comparazione sa che una simile dinamica, benché praticabile, è affatto astratta, dato che il soggetto della comparazione può giungere a profondità di comprensione tanto maggiori quanto più si lascia implicare dai problemi che sono attivi all'origine dei termini comparati. In questo quadro non si dà una situazione statica in cui il soggetto equivale ad una costante rispetto a due (o più) variabili rappresentate dai termini della comparazione, ma si produce una dinamica a tre variabili interdipendenti che si condizionano, cioè, a vicenda. Da un lato, infatti, l'impulso a comparare, ovvero a pensare, non parte solo dal soggetto, come se esso esistesse indipendentemente dagli oggetti da comparare, ma viene stimolato anche dai contenuti degli oggetti della comparazione, siano essi costituiti da un solo pensiero, o da sistemi di pensiero, o da intere tradizioni di pensiero; d'altra parte, gli oggetti comparati esistono solo in virtù e in forza di un soggetto che li compara. Quindi: sia il soggetto sia gli oggetti della comparazione esistono solo in rapporto e in ragione di uno spazio problematico che invita alla comparazione; tuttavia, a sua volta, questo spazio può esserci solo per un soggetto che lo attraversa e per oggetti che lo determinano.

In questa direzione appare evidente non solo che è impraticabile una comparazione 'positivistica' illusa di poter contare su di un tertium super partes, ma anche che tutti i tentativi di voler dimostrare - per ossessione eurocentrica (come avviene in Hegel) - la superiorità del pensiero occidentale su quello orientale, o all'opposto - per alienazione esotica (come accade con Guénon) - la superiorità di quello orientale su quello occidentale, risulterebbero illegittimi, in quanto prodotti da un particolare e, quindi parziale, punto di vista che pretende tuttavia di valere in modo assoluto, al punto da poter stabilire una graduatoria in cui incasellare le diverse forme di pensiero. Atteggiamento legittimo appare, invece, quello che, pur partendo da un particolare punto di vista, si mostra consapevole del fatto che ogni punto di vista - compreso, quindi, il proprio - è prodotto da un incessante - e, quindi, mai definitivo - confronto con altri punti di vista[14].

Non è allora superfluo ribadire che il metodo comparativo, ancor prima di esercitarsi nel confronto tra diversi sistemi di pensiero, ovvero tra pensieri appartenenti a diversi ambiti storici e culturali, si rivela essere metodo filosofico per eccellenza. Il metodo comparativo - il quale esprime le proprie potenzialità in maniera particolarmente intensa nel confronto tra Oriente e Occidente - appare infatti come metodo del pensare, non di un particolare modo di pensare: infatti, nel momento stesso in cui si effettua un qualsiasi tipo di ragionamento, anche ai livelli più elementari, si stabiliscono rapporti tra concetti. Non a caso i Greci designavano con uno stesso verbo, léghein, le attività di scegliere, legare, discorrere e ragionare: pensare e parlare, infatti, sono attività che implicano connessioni; ma, per connettere, è prima necessario scegliere gli elementi delle connessioni, ossia concetti e parole; ma, per scegliere alcuni elementi, è necessario compararli con altri elementi. L'attività del comparare è dunque alla radice del pensare stesso. Questa attività comparativa si spinge ai massimi livelli di intensità là dove le differenze - a partire da quelle linguistiche - appaiono maggiori, ossia nel confronto tra filosofie occidentali e pensieri orientali. In tal senso e a questi livelli la relazione Oriente-Occidente, in quanto 'modo' particolarmente forte della relazione in generale, si mostra e si pone come modo fondamentale per l'esercizio del pensiero che non sopporta né limiti né confini.


 

[Giangiorgio Pasqualotto]


[1] Abbiamo considerato criticamente alcuni di questi risultati in G. Pasqualotto, Introduzione a Aa. Vv., Simplègadi. Percorsi del pensiero tra Occidente e Oriente, Padova, Esedra 2002, pp. 7-41; e in Id., East & West. Identità e dialogo interculturale, Venezia Marsilio 2003, pp. 39-61.
[2] Cfr. Cfr. C. Geertz, Interpretazione di culture, tr., Bologna, il Mulino 1988; F. Affergan, Esotismo e alterità, tr., Milano, Mursia 1990; F. Remotti, Contro l'identità, Bari, Laterza 1996; M. Kilani, L'invenzione dell'altro, tr., Bari, Dedalo 1997; U. Fabietti, Antropologia culturale, Bari, Laterza 1999; J. Clifford, I frutti puri impazziscono, tr., Torino, Bollati Boringhieri 1999; J. L. Amselle, Connessioni. Antropologia dell'universalità delle culture, tr., Torino, Bollati Boringhieri 2001. Si vedano, inoltre, alcune recenti acquisizioni nel campo dell'epistemologia genetica che parlano di "interfecondità senza limitazioni" (L. Cavalli Sforza, Geni, popoli, lingue, Milano, Adelphi 1996, p. 65) .
[3] Platone, Sofista, 259 a-b (tr. it di M.Vitali, Milano, Bompiani 1992, p. 133). Sulla scia di queste acquisizioni platoniche sembra muoversi anche Plotino quando sostiene che "Tutte le parti esistono dunque le une per le altre" (Plotino, Enneadi, VI, 7, 3, 20 (tr. it di G. Faggin, Milano, Rusconi 1992, p.1215).
[4] Hegel, Scienza della logica, Libro II°, Sez. I, Cap. II°, Nota II (tr. it. di A. Moni e C. Cesa, Bari, Laterza 1968, Vol. II, pp. 459-494).
[5] Ci sembra che le riflessioni su tema dell'identità e della differenza elaborate da Hegel non siano state in seguito invalidate o superate né da Deleuze con Differenza e ripetizione, (tr. it. di G. Guglielmi , Bologna, il Mulino 1971). né, tantomeno, da Heidegger con Identità e differenza (tr. it. di U. Ugazio, "aut aut" 187-188, 1982, pp. 2-37).
[6] Ma si potrebbe ricordare a tale proposito anche Confucio e il Confucianesimo in quanto considerano l'individuo determinato in modo essenziale da cinque relazioni (wu lun), quelle tra genitore e figlio, tra marito e moglie, tra fratello maggiore e fratello minore, tra sovrano e suddito, e tra amici). E' interessante ricordare che anche il pensiero africano - in particolare quello delle etnie Peul e Bambara - ha elaborato un concetto complesso di personalità, quello di maaya ossia 'persone nella persona' o 'persona ricettacolo' (cfr. A. Hampaté Ba, Aspetti della civiltà africana, tr. Bologna, Emi 1975).
[7] In realtà non sarebbe corretto usare l'aggettivo 'relazionistico' perché questo sembra suggerire l'idea che la relazione sia un 'assoluto' esistente di per sé, indipendentemente dai termini relazionati, cosa evidentemente assurda.
[8] Cfr.Avatamsaka Sutra (cfr. The Flower Ornament Scripture , a cura di Th. Cleary, Boston, Shambala Publ. 1993); un'importante rielaborazione delle tesi presenti in quest' opera si ha nel Trattato sul leone d'oro di Fazang, (cfr. tr. a cura di S. Zacchetti, Padova, Esedra 2001). Su questi temi cfr. H. F. Cook, Hua-yen Buddhism: The Jewel Net of Indra, Park, The Pennsylvania State University Press 1977; Liu Ming-wood, The Teaching of Fa-tsang: An Examination of Buddhist Metaphysics, Los Angeles, University of California Press, 1979; Th. Cleary, Entry into the Inconceivable: An Introduction to Hua-yen Buddhism, Honolulu, University of Hawaii Press 1983; R. M. Gimello - P. N. Gregory, Studies in Ch'an and Hua-yen, Honolulu, University of Hawaii Press 1983; A. Forte, Tang China and Beyond, Kyoto, Scuola di studi sull'Asia orientale 1988, pp. 35-83; I. Hamar, The Doctrine of Perfect Teaching in Ch'eng-Kuan's Introduction to his Commentary on the 'Hua-yan-ching', in "Journal of The Center of Buddhist Studies", 3, 1998, pp. 331-349.
[9]Samyutta Nikaya, XXXV, 84 (tr. di Thich Nath Hanh, La vita di Siddharta il Buddha, Roma, Ubaldini 1992, p. 302).. I fondamenti della dottrina buddhista relativi all'interrelazione universale sono costituiti dalla teoria dell'anatta (sulla quale ci siamo soffermati in G. Pasqualotto, Illuminismo e illuminazione, Roma, Donzelli 1997); e dalla teoria del paticcasamuppada (sulla quale ci siamo soffermati in G. Pasqualotto, Il Buddhismo, Milano, B. Mondadori 2003, Cap. 3).
[10]Zhuang zi, tr. di Liou Kia-hway, Milano, Adelphi, 1982, p. 23. Questo rapporto di implicazione reciproca tra identità ed alterità emerge chiaramente anche dall'altro testo fondamentale del taoismo filosofico (dao jia): cfr. Tao Te Ching, Cap. II, v. 7: "Essere e non essere si danno nascita fra loro" (tr. it. di F. Tomassini, Torino, Utet 1977, p. 42). Abbiamo sviluppato alcune implicazioni filosofiche di questa relazione reciproca in G. Pasqualotto, Il Tao della filosofia, Milano, Il Saggiatore 1995.
[11]Anche a questo riguardo risulta determinante e decisivo l'apporto teoretico di Hegel, in quanto distingue tra Beziehung, rapporto estrinseco, semplice accostamento di termini diversi; e Verhältnis, relazione intrinseca, costitutiva di ogni identità e del suo dileguarsi (cfr. F. Chiereghin, Dialettica dell'assoluto e ontologia della soggettività in Hegel, Trento, Verifiche 1980, p. 350). Sul tema della relazione in Hegel cfr. G. R Bacchin, L'immediato e la sua negazione, Perugia, Grafica 1967, Id., Anypotheton, Roma, Bulzoni 1975, p. 40; Id., Classicità e originarietà della metafisica, Milano, Angeli 1997, pp. 312-314, ma soprattutto A. Stella, Il concetto di 'relazione' nella 'Scienza della logica' di Hegel, Milano, Guerini 1994. Sia le critiche di Gentile che quelle di Severino alla dialettica hegeliana non invalidano questo decisivo apporto di Hegel alla riflessione sul tema della relazione (cfr. V. Vitiello, Topologia del moderno, Genova, Marietti 1992 e F. Berto, La dialettica della struttura originaria, Padova, Il Poligrafo 2003). Quanto Hegel sia decisivo per comprendere il senso e le funzioni della relazione si può ricavare anche dal confronto con Leibniz (cfr. L. Cortella, Autocritica del moderno. Saggi su Hegel, Padova, Il Poligrafo 2002, pp. 160-173), con Russell (cfr. F. Perelda, Hegel e Russell, Padova, Il Poligrafo 2003) e da quello, strettamente logico, con il tema dell'alterità (cfr. A. Bellan, La logica e il suo 'altro', Padova, Il Poligrafo 2002). Al concetto hegeliano di Verhältniss non può invece essere completamente assimilato quello di relazione elaborato da Bradley (cfr. F. H. Bradley, Apparenza e realtà, tr. di D. Sacchi, Milano, Rusconi 1984 e M. A. Bonfantini, L'esistenza della realtà, Milano, Bompiani 1976), in quanto si limita a descrivere stati di cose, perdendo in tal modo il carattere dinamico costantemente evidenziato, invece, dalla riflessione hegeliana.
[12]Il senso di questo 'in misura maggiore' si evince da alcuni testi fondamentali di F. Jullien, Processo o creazione, tr. it., Parma, Pratiche 1991; Id., Pensare un altrove: la Cina, in "Iride", 24, 1998, pp. 239-249, ma anche da Id., La propension des choses, Paris, Seuil 1992; Id., Éloge de la fadeur, Paris, Picquier 1991; Id., Figures de l'immanence, Paris, Grasset 1993; Id., Le détour et l'accés, Paris, Grasset 1995; Id., Fonder la Morale, Paris, Grasset 1995; Id., Traité de l'efficacité , Paris, Grasset 1997; Id. Le sage est sans idée ou l'autre de la philosophie, Paris, Seuil 1998.
[13]In questa illusione oggettivistica era caduto Masson Oursel, considerato il fondatore della filosofia comparata come disciplina 'scientifica' (cfr. H. Masson Oursel, La philosophie comparée, Paris, Alcan 1923).
[14]Un possibile superamento di una logica centrata su presupposti parziali è quello 'polilogico' indicato da F. M. Wimmer, Interculturelle Philosophie, Wien, Passagen 1990.
 

 

Da: http://www.atopiaonline.de/eyedentity/pasqualo.htm

 

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