"La conoscenza di Dio non si può ottenere
cercandola; tuttavia solo coloro che la cercano
la trovano" (Bayazid al-Bistami)
"Chi non cerca è addormentato, chi cerca è un
accattone"
(Yun Men)
Riflessioni sul pensiero di Heidegger e
sull’Oriente
«Il varco è qui?»
E. Montale, Le occasioni
“Ogni grande cosa può avere solo un
grande inizio. Il suo inizio è sempre la cosa più grande” , così si esprime
Heidegger nell’Einführung in die Metaphysik riferendosi esplicitamente alla
filosofia greca degli albori. Filosofia che dà inizio alla tradizione del
pensiero occidentale, proprio per il fatto che essa è nella sua essenza greca.
Questo significa che “la filosofia è, quanto all’origine della sua essenza,
di tale natura che per dispiegarsi ha fatto innanzitutto appello al mondo greco
e di esso si è valsa” . Ma per Heidegger lo sfolgorante inizio ben presto
impallidisce e lascia il campo libero alla mistificazione metafisico-teologica
dell’essere. La storia della filosofia occidentale diventa così la vicenda
della dimenticanza del senso dell’essere inizialmente intravisto dal più
antico e aurorale pensiero greco. Non per questo la storia della filosofia è un
susseguirsi di insuccessi: si deve piuttosto ammettere che gli sviluppi e le
conquiste più preziose del filosofare si muovono all’interno di questa
comprensione inautentica dell’essere. È questa la storia della metafisica
heideggerianamente intesa, che parte da Platone per giungere fino a Nietzsche
compreso. La metafisica greca ha portato alla luce la dimora in cui abita
l’Occidente e questa dimora ha dato il proprio senso a tutto ciò che in essa
si è andato compiendo. Per Heidegger la metafisica è l’essenza del
nichilismo, cioè essa è l’interesse per l’ente, l’apparire stesso della
totalità dell’ente, in quanto dimenticanza della verità dell’essere. Sulla
base di tale dimenticanza, la metafisica lo identifica all’ente, lo riduce ad
esso.
Ma come abbiamo avuto modo di dire, il senso dell’essere è stato intravisto
agli albori del pensiero greco. Volgiamoci quindi verso quei pensatori che hanno
visto per primi il volto della verità e ne hanno colto la fisionomia, che hanno
saputo dire l’essere senza cadere nell’oblio della differenza con cui
inzia il destino stesso dell’essere.
Pensare agli albori del pensiero greco significa per noi pensare al “detto di
Anassimandro”, come la parola più antica giunta fino a noi. Ma facendo nostro
l’interrogativo di Heidegger, “è possibile che a distanza di due millenni e
mezzo in linea storico-cronologico, le parole di Anassimandro abbiano ancora
qualcosa da dirci?” Cosa possono ancora dirci queste parole che hanno
perso i loro salvaguardanti? Come è possibile che noi a distanza di così tanti
anni possiamo ancora lasciar dire al detto ciò che esso voleva dire? Se davvero
il detto è il più antico che ci sia stato tramandato, lo possiamo pensare coma
la prima espressione del pensiero occidentale “solo a patto di concepire
l’essenza dell’Occidente a partire da ciò di cui il frammento parla” .
Questa parola di Anassimandro, prima parola della filosofia, dice, nella
traduzione del Diels: “Ma là donde le cose hanno il loro sorgere, si volge
anche il loro venir meno, secondo la necessità; esse pagano reciprocamente la
pena e il fio per la loro malvagità” . Il detto di Anassimandro appartiene
sicuramente all’aurora del primo mattino della terra della sera,
dell’Occidente. Ma in questa aurora già si cela e si raccoglie il destino
ultimo della storia dell’essere. Questo detto, che è il detto del pensiero,
come lo possiamo tradurlo e come possiamo tradurci senza cadere nell’arbitrio
e nella violenza? Il pensiero per Heidegger è poetare, e il pensiero
dell’essere è il modo originario del poetare. Di conseguenza ogni poetare è
nel suo fondamento pensare. L’essenza poetante del pensare per Heidegger
"salvaguarda il dominio della verità dell’essere" . Date queste
premesse, chiediamoci ancora una volta cosa dica il detto. Nella traduzione
letterale che ne dà Heidegger, il detto dice:
“Ma da ciò da cui per le cose è la generazione, sorge anche la
dissoluzione verso di esso, secondo il necessario; esse si rendono infatti
reciprocamente giustizia e ammenda per l’ingiustizia, secondo l’ordine del
tempo”.
L’interpretazione comune dice che il detto parla di sorgere e tramontare delle
cose: sorgere e tramontare tornano là dove hanno visto la loro nascita. Ma per
una comprensione più originaria occorre che noi pensiamo grecamente il pensiero
dei Greci. Greco significa, come continuamente Heidegger ci fa notare,
“l’inizio del destino secondo cui l’essere stesso si illumina
nell’ente” e cioè “l’essere si sottrae in se stesso mentre si scopre
nell’ente” . Così il non-essere-nascosto dell’ente oscura la luce
dell’essere. Ciò significa che l’essere si sottrae in se stesso mentre si
scopre nell’ente. Questo ostinato mantenersi in se stesso è la maniera
aurorale del suo scoprimento. Tornando al detto di Anssimandro, possiamo dire
che esso parla di ciò che venendo alla generazione, perviene al
non-nascondimento, alla verità, e che giunto qui, se ne ritrae e scompare.
Questo suo venire al non-nascondimento, noi lo possiamo chiamare
“soggiornare”, e il soggiornare non è altro che questo passaggio tra il
venire e l’andare, tra il generare e il tramontare. L’essente-presente,
secondo le parole di Heidegger, è ciò che è via via. Allora nel detto di
Anassimandro si fa parola l’essente-presente. Questa espressione “designa ciò
che, non ancora espresso, è l’inespresso del pensiero e l’inspresso in ogni
pensiero. La parola designa ciò che d’allora in poi, espresso o no, pretenderà
per sé tutto il pensiero occidentale” .
All’aurora del pensiero, “essere” significa propriamente essere-presente,
e il pensiero è solo il pensiero dell’essere. Infatti, il detto di
Anassimandro nomina l’esser-presente dell’essente-presente (to kreon), e
questa parola è il nome più antico in cui il pensiero conduce a farsi parola
l’essere dell’ente. Il successivo oblio dell’essere in favore dell’ente,
è ciò che chiamiamo oblio della differenza. La prima parola dell’essere, to
kreon, dice invece questa differenza, e non appiatisce l’essere-presente
sull’essente-presente. Essa illumina piuttosto questa differenza e fa si che
“l’esser-presente pervenga alla parola come questa relazione” . Con
l’inizio di Anassimandro, con Parmenide e Eraclito in seguito, si fa presente
a noi la concezione, certo filtrata da Heidegger, che i greci avevano
dell’essere. Ora, l’essere si schiude a essi come Physis, e la Physis è
nella sua essenza apparire, un apparire che conduce all’evidenza. Per il
semplice fatto che l’essente come tale è, esso si colloca e permane nel
non-nascondiemento: nell’aletheia. Secondo quanto sempre Heidegger ci insegna,
i greci concepivano l’essenza di questa aletheia, verità, unicamente in
accordo con quello che è per essi l’essenza dell’essere, la physis. Così
la verità intesa appunto come non-nascondimento, aletheia, non è qualcosa che
si aggiunga semplicemente all’essere. Anzi, la verità appartiene
all’essenza stessa dell’essere.
La svolta fondamentale, nella quale si farà presente nella sua imponente veste
l’oblio dell’essere, avviene nel mutamento dell’essenza della verità.
Questa svolta è presa in considerazione negli scritti degli anni trenta, quando
Heidegger concepirà saggi quali Vom Wesen der Warheit (1930) e Platons Lehre
von der Warheit (1931-32). Nel saggio del 1930 Heidegger conclude dicendo: “La
risposta alla questione dell’essenza della verità è il dire di una svolta
entro la storia dell’essere. Poiché all’essere appartiene un velarsi
diradante, esso appare inizialmente alla luce di un sottrarsi che vela. Il nome
di questa radura è aletheia” . E` la verità intesa come dis-velamento che ci
fa soggiornare nei pressi dell’essere. E` in questa radura aurorale che la
metafisica è ancora impensata. Con questa concezione della verità
dell’essere siamo ancora là dove il pensiero si aggira attorno ai suoi inizi,
senza aver ancora smarrito la via del ritorno. Ritorno inteso come quella
“direzione verso quella località (la dimenticanza dell’essere) dalla quale
la metafisica ha ricevuto e continua ad avere la sua provenienza” .
Nel saggio successivo del 1931-32, Heidegger compie un passo ulteriore prendendo
in considerazione il mito platonico della caverna. Infatti secondo Heidegger il
“mito dell caverna” tratta dell’essenza della verità in quanto esso ci
conduce alla dottrina platonica della verità. Il “mito” ci apre lo sguardo
su un mutamento dell’essenza della verità. Da una parte il “mito” narra
una storia che riguarda i passaggi da un soggiorno all’altro, e che le
differenze tra questo soggiorni si fondano sulla diversità dello svelamento. La
verità significa allora, come già abbiamo detto, ciò che è strappato a una
velatezza. Come Heidegger ci illustra “solo l’essenza della verità, pensata
come agli inzi della grecità nel senso dell’aletheia, solo la svelatezza
riferita al velato ha un riferimento essenziale all’immagine della caverna
dove il giorno non penetra” . Nonostante ciò al posto della svelatezza come
essenza della verità, qui, nel “mito”, si fa avanti un’altra essenza
della verità. Infatti la svelatezza “viene considerata solo in relazione al
modo in cui rende accessibile nella sua evidenza ciò che appare, e visibile ciò
che così si mostra (idea). [...] La riflessione vera e propria ha di mira
l’idea” . Così facendo la svelatezza come essenza della verità viene
subordinata all’idea, o come scrive lucidamente Heidegger: “l’aletheia
cade sotto il giogo dell’idea” . Da questo primato dell’idea sull’aletheia
nasce dunque il mutamento fondamentale dell’essenza della verità. La verità
d’ora innanzi non consisterà più nella svelatezza, bensì essa diventerà
correttezza. Come ci fa notare Heidegger da questo mutamento ne consegue anche
un cambiamento del luogo della verità.
Questo mutamento dell’essenza della verità, ormai intesa come correttezza del
rappresentare, risulterà determinante per tutta la storia del pensiero
occidentale. Infatti a partire da Platone il pensiero dell’essere dell’ente
diventa filosofia, questo perchè “è un guardare in alto vero le idee. Ma la
filosofia che inizia solo con Platone, ha d’ora in poi il carattere di quella
che più tardi sarà chiamata metafisica” . Questa storia della metafisica che
ha visto la sua nascita con il mutamento platonico della verità, non è
qualcosa di passato e dimenticato. Anzi, essa è un presente storico che con
Nietzsche ha iniziato il suo incondizionato compimento. La storia della
filosofia occidentale, perché così ora si chiama il pensiero che pensa
l’essere, è dunque la vicenda della dimenticanza del senso dell’essere a
favore dell’ente, in quanto il fatto decisivo consiste non già nel fatto che
la physis sia stata caratterizzata come idea, ma che l’idea si pone come
l’interpretazione unica e determinante dell’essere. Questo passaggio
“dell’essere dalla physis all’idea realizza esso stesso una delle
direttive essenziali secondo cui si attua la storia dell’Occidente, e non solo
la storia della sua arte” . Ma, per fare nostra la domanda di Heidegger, che
cos’è metafisica? Una della risposte più immediate l’abbiamo in Einleitung
zu “Was ist Metaphysik?” del 1949, dove Heidegger scrive: “Essa (la
metafisica) interroga l’ente in quanto ente e si attiene all’ente senza
volgersi all’essere in quanto essere” . Con questo dire, Heidegger ci invita
a riflettere sul fatto che la filosofia, in quanto metafisica, non si raccoglie
più sul suo fondamento. Anzi, essa se ne allontana sempre più. Per questo
motivo, come vedremo in seguito, occorre ritornare al pensiero greco arcaico.
Ritornare non già indietro verso il passato, bensì ritornare nel fondamento
del nostro mondo. Infatti il pensiero greco aurorale non è ciò che è iniziale
in virtù del fatto di essere storicamente il primo. Lo è piuttosto in quanto
ha posto il FONDAMENTO per l’avvenire della verità in occidente. Facciamo una
breve ma significatica anticipazione. Secondo quanto afferma Heidegger, il
termine eracliteo logos nomina l’essere. Ma essendo il logos “ciò che giace
davanti” è al tempo stesso “ciò su cui qualcosa d’altro giace e
riposa [...] Il logos nomina il fondamento” . Questo significa che essere e
fondamento si coappartengono. Inseguito Heidegger conclude dicendo che la tesi
del fondamento “non è una tesi metafisica, bensì una tesi pensata in modo
conforme al destino dell’essere” . Questa citazione ci fa comprendere come
inizialmente, secondo il destino dell’essere, l’essere si esprime come
fondamento e si destina in quanto logos e cioè nell’essenza del fondamento.
Quindi, nonostante io corra il rischio di essere troppo ripetitivo, seguendo
questa meditazione, noi non pensiamo più l’essere a partire dall’ente, ma
lo pensiamo in quanto essere, in quanto fondamento.
Ma facciamo un passo in dietro e riflettiamo sulla storia della metafisica
giunta al suo compimento, senza per ora pensare ad un eventuale oltrepassamento.
Secondo Heidegger, la filosofia giunge con Nietzsche alla sua fine, al suo
compimento. Fine che non implica e non significa in alcun modo la fine del
pensiero, come il titolo della sua conferenza La fine della filosofia e il
compito del pensiero ci invita a pensare. Ma che cosa significa fine e
compimento? La filosofia in quale luogo trova la sua fine? Per poter rispondere
a tali gravose domande, per certi versi inquietanti, Heidegger si rivolge al
pensiero di Nietzsche dopo aver colto in Platone il primo passo dell’oblio. Ciò
che ci porponiamo è dunque una breve riflessione sulla filosofia di Nietzsche,
filosofia che vede se stessa sotto l’inquietante segno del nichilismo.
Nietzsche utilizza il nome “nichilismo” per indicare il movimento storico da
lui riconosciuto per la prima volta, ma che domina già i secoli precedenti e
che darà l’impronta al prossimo. Egli riassume in modo breve e conciso la
propria interpretazione con l’espressione “Dio è morto”. La prima volta
che incontriamo la sentenza è nel volume terzo dell’opera Die fröhliche
Wissenschaft, comparsa nel 1882. Qui, secondo quanto ci indica Heidegger
“incomincia il movimento di Nietzsche verso l’elaborazione della sua
posizione metafisica fondamentale” . Il nichilismo con la morte di Dio è
allora quel processo storico attraverso il quale il "sovrasensibile"
perde quella forza reale, diviene caduco. Di conseguenza, come Heidegger ci fa
notare con la sua particolare forza, “l’ente perde il suo valore e il suo
senso” . Il nichilismo è dunque la storia dell’ente stesso tramite il quale
la morte del Dio cristiano, lentamente ma inesorabilmente viene alla luce. E`
proprio con la parola Dio che si designa il mondo delle idee e degli ideali,
quello stesso mondo che da Platone in poi verrà designato come il mondo vero.
Quindi, la metafisica intesa come la storia della filosofia occidentale, intesa
come platonismo, è alla sua fine: Dio è infatti morto.
Questa anti-metafisica di Nietzsche però, “in quanto semplice capovilgimento
della metafisica, è un irretimento nella metafisica stessa” . Ma cosa
significa “nichilismo”? A questa domanda Nietzsche risponde: che i valori
supremi si svalutano. Ma questo venir meno dei valori supremi non è altro che
una liberazione dai valori finora validi. Essa è una preparazione alla
trasvalutazione di tutti i valori. Questa è la fase che viene denominata come
nichilismo compiuto o classico. Ma come ci fa notare Heidegger, “poiché i
valori supremi precedenti dominavano il sensibile dall’altezza del
sovrasensibile, e poiché la metafisica era l’ordine di questo dominio, con la
posizione del nuovo principio si pone in atto il rovesciamento di ogni
metafisica. Nietzsche assume questo rovesciamento come un oltrepassamento della
metafisica” . Ma come già sappiamo, Nietzsche non riesce ad andare oltre alla
metafisica. Non basta rovesciare i valori supremi per poter pensare di essere
riusciti ad andare oltre. La filosofia di Nietzsche si presenta a noi allora
come un "semplice" rovesciamento della posizione che era di Platone, o
meglio ancora, la filosofia di Nietzsche non è altro che un platonismo
rovesciato. Nonostante ciò, Nietzsche ha intravisto la necessità di superare
questo oblio, oblio che fa dell’essere un nihil.
Ma perchè è necessario un oltrepassamento della metafisica? Forse perché alla
metafisica durante tutta la sua storia ormai millenaria, resta nascosta la verità
dell’essere. Forse perchè essa non pensa all’essere nella sua verità e la
verità non come svelatezza e la svelatezza non nella sua essenza. Forse perché
noi siamo alla fine, alla fine di questo inizio. E questo significa che
“stiamo sulla linea che separa la fine e il suo decorso, che forse durerà
ancora per secoli, dall’altro inizio, che può essere solo un attimo, ma che
richiede per essere preparato quella pazienza di tanto gli ottimisti quanto i
pessimisti non sono mai stati all’altezza” .
Ma se con superamento della metafisica si intende il recupero del fondamento su
cui la metafisica stessa si posa ma che essa ha dimenticato, allora il pensiero
deve per forza rivolgersi, come sottolinea Otto Pöggeler, “al non pensato di
ciò che è pensato metafisicamente” . Questo superamento si rivolge dunque
all’essenza della metafisica. Perciò, come abbiamo cercato di chiarire, “il
pensiero per corrispondere al superamento della metafisica, deve prima chiarire
l’essenza della metafisica” .
Dobbiamo allora meditare sul primo inizio del pensiero occidentale perché siamo
alla sua fine. L’inizio è quello che si spinge anticipatamente
nell’avvenire, che quindi il ritorno all’inizio potrebbe essere un balzo
preliminare, anzi il vero e proprio balzo preliminare nell’avvenire. Ma, poiché
il carattere d’inizio è stato dimenticato e sepolto, deve essere un ALTRO
INIZIO a portare di nuovo allo scoprimento il fondamento su cui la metafisica si
posa. Il superamento della metafisica chiama dunque il pensiero in un richiamo
più iniziale. Ritornare. Ma ritornare significa avviarsi lungo quella
direzione, avviarsi verso quella località della dimenticanza dell’essere
dalla quale la metafisica ha ricevuto a continua ad avere la sua provenienza. E`
perciò necessario che “il pensare e il poetare ritornino là dove sono sempre
già stati, senza aver mai ancora costruito. Solo costruendo possiamo preparare
il dimorare in quella località. [...] Esso deve accontentarsi di costruire il
cammino che riconduce nella località del superamento della metafisica e che fa
passare ciò che per destino è assegnato a un oltrepassamento del nichilismo”
.
In questa citazione si può leggere il grande bisogno del pensiero di
riconquistare il primo cominciamento del pensiero occidentale nel suo carattere
propriamente iniziale. Carattere che può essere riassunto con
l’interpretazione della verità come aletheia. Il primo inizio, sfociante
nella metafisica, esige di essere fondato nella sua dimenticata inizialità, e
diviene così il passaggio verso un altro inizio. Così la “grandezza della
fine consiste non solo nell’essenzialità della chiusura delle grandi
possibilità, ma anche nella forza che prepara al passaggio a qualcosa di
totalmente altro” . Il pensiero in quanto pensiero indica che la sua Via è la
via del ritorno. Ma verso dove? Dov’è l’altro inizio? Secondo
l’interpretazione classica, l’altro inizio giace là dove è nata la
metafisica stessa. Sulle sue stessa fondamenta. L’altro inizio è allora il
passo-indietro, quello Schritt zurück nell’essenza della metafisica che
avanza certo nel nuovo domandare, poiché il nuovo inizio è il nuovo inizio del
pensiero. Tesi forse suffragata dal dire poetante di Hölderlin:
«Wo aber Gefahr ist, wächst
das Rettende auch».
Il pensiero greco arcaico, a cui Heidegger sembra rivolgersi, rimane ancora ciò
che è massimamente degno di essere pensato, così da permette al pensiero
giunto alla sua fine di trovare il suo nuovo cammino. Sembra dunque che quel
passo-indietro necessario per poter andare oltre, sia sempre stato pensato come
un ritorno ai presocratici. Trovare cioè nel pensiero aurorale di Anassimandro,
Parmenide, Eraclito quei cenni che additano a una nuova via che non sia quello
tradizionale su cui si erano avviati Platone e Aristotele, compromettendo sin
dall’inizio della storia del pensiero occidentale la comprensione autentica
dell’essere. Heidegger sembra allora rivolgere al pensiero greco arcaico una
nuova domanda. Questo poiché il domandare “fa sorgere a se stesso il proprio
fondamento, lo realizza nel salto. Un tale salto capace di prodursi come
fondamento lo chiamiamo un salto originario” . Ma ottiene egli una risposta a
tale domanda? Heidegger stesso ammette che “resta ancora indeciso se quel che
noi domandiamo e come lo domandiamo sia la domanda che si sono posti i greci.
Solo di questo si tratta. Ora, però, vediamo che i Greci [...] non si sono,
tuttavia, interrogati proprio sull’aletheia stessa e sulla sua essenza” .
Ma in generale come Pöggeler si chiede, “è legittima la tesi secondo cui
l’inizio deve sempre essere quanto vi è, in una grande cosa, di più grande,
contenendo quindi in sé tutto quello che viene dopo?” .
Il dubbio di Pöggeler sembra legittimo. Infatti l’esigenza di un nuovo inizio
che sembra oggi imporsi, si è irretita in una vacua e continua ri-petizione
della domanda fondamentale della filosofia. Sembra quasi che il ritorno al
pensiero aurorale possa permetterci di trovare l’altro inizio rispetto alla
scena filosofica tradizionale. Ma provare a pensare diversamente l’essere,
piuttosto che il nulla, cioè cercare d’addentrarci nell’ anders denken, non
deve per forza portare a confrontarci con i presocratici. O meglio il nostro
continuo misurarci con i pensatori greci arcaici non porta con sicurezza verso
l’altro inizio. Piuttosto quello che deve cambiare è proprio il modo di
pensare. Se da una parte è vero che l’altro inizio giace probabilmente
nell’altro inizio del pensiero e se da sempre l’altro inizio è stato
pensato come un ritorno alle origini, cioè avanzare in quel passo-indietro come
ritorno ai presocratici, è anche vero che non si è ancora iniziato a pensare
diversamente. Questo anders denken è per Heidegger quello che egli definisce
come rammemorante. In Der Satz vom Grund, Heidegger ci invita ad un mutamento
del nostro modo di pensare, e un tale mutamento lo otteniamo soltanto prendendo
un cammino e costruendoci una via che ci conduca in prossimità alla cosa stessa
del pensiero. “Tutto sta nel cammino” . Questo significa che tutto ciò che
cerchiamo, interrogandoci, si mostra sempre e soltanto cammin facendo. Ma per
giungere sul cammino dobbiamo saltare. Non è infatti possibile un passaggio
graduale. E` necessario il salto. “...il salto si riappropria in modo nuovo
dell’ambito da cui spiccare il balzo, e se ne riappropria, in verità, non
solo incidentalmente, ma necessariamente . Il salto è un salto che per essenza
guarda all’indietro” . Per questo il salto non lascia dietro di sé ciò da
cui esso balza via. Anzi, esso se ne appropria in modo più originario. Così il
pensiero, nel salto, diviene pensiero rammemorante. La necessità di questo
salto si fa impellente, poiché “il salto conduce il pensiero fuori
dall’ambito della tesi del fondamento quale principio supremo riferito
all’ente e lo porta in un dire che parla dell’essere in quanto tale” . Ma
c’è ancora da notare come il salto rimanga tale solo in quanto esso è
rammemorante. Rammemorare significa “pensare a fondo ciò che è ancora
impensato nel già stato, come ciò che è da-pensare” .
In un incontro che Heidegger tenne nel 1972 con il pensatore cinese Chang
Chung-yuan, egli ammise che la nuova via del pensiero si concentrasse sullo
sviluppo del pensiero della Lichtung. Per raggiungere tale pensiero, Heidegger
tramite i suoi ultimi passi nel cammino del pensiero, ci indica la necessità di
un pensiero meditante. Meditazione significa per Heidegger il tranquillo
abbandono a ciò che è degno di essere pensato. Attraverso una meditazione così
intesa, “noi perveniamo propriamente là dove [...] già da molto soggiornamo”
. Per poter soggiornare in questo pensiero, occorre quel passo a ritroso che ci
porta nel luogo dove essere e esserci si coappartengono. Inoltre, per
sperimentare questa coappartenenza dobbiamo entrare nell’evento
dell’appropriazione (Ereignis). Infatti se ora un oltrapassamento si fa
necessario, “esso concerne quel pensiero, che si impegna espressamente nell’Ereignis
al fine di dirlo a partire da esso e in vista di esso” .
Ora siamo di fronte al salto del pensiero, dove il pericolo della perdita
dell’orientamento si fa più grande: volgiamo il nostro sguardo verso oriente
(Morgen-Land), verso il pensiero orientale, pensato quale pensiero altro. Non ci
prefiggiamo uno sguardo totalizzante sul tutto il pensiero (compito per altro
pressoché impossibile), bensì volgiamo la nostra attenzione su un particolare
momento della storia del pensiero orientale. Con questo nostro interessamento ad
un evento particolare della storia-altra, vogliamo semplicemente, senza troppe
pretese, mostrare l’altro inizio che il pensiero orientale ha saputo
riconoscere e che ha saputo darsi. Occorre subito precisare che il mio intento
non consiste nel proporre l’altro inizio cercato da Heidegger e in generale da
tutta la filosofia contemporanea, nel pensiero orientale. Sarebbe questa
un’ingenuità imperdonabile. Il percorso che sto per intraprendere, vuole
semplicemente mostrare come l’altro inizio, come fondamento di un nuovo
pensiero, sia possibile, e che quindi l’interesse di Heidegger nei confronti
dell’oriente, ampiamente dimostrato dalla prima parte di questa tesi, consista
anche in questo sguardo verso il pensiero orientale come la tradizione di
pensiero che è stata in grado di dare una nuova svolta nella propria indagine.
L’evento che prendiamo in considerazione, come momento epocale, si riassume in
questa domanda:
«Perché Bodhidharma è partito per l’Oriente?».
Con Bodhidharma si intende il fondatore del Buddhismo-Zen, che nel 526 dopo
Cristo, partito dall’India giunse in Cina, e più precisamente a Canton. Egli
era il ventottesimo Patriarca indiano dopo lo storico Buddha. La sua partenza
dall’India e la sua venuta in Cina, avvenuta appunto nel 526 d.C. comporta
l’inizio storico del Buddhismo-Zen. Certo, questo avvenimento resta avvolto
ancora in un alone mitico. Di certo si sa che il debutto dello Zen (ch’an) fu
assai difficoltoso. Ci volle più di un secolo prima che lo Zen si imponesse,
continuamente osteggiato dai buddhisti tradizionali. Inoltre occorre dire che i
cinesi non erano assolutamente preparati ad accogliere un tale insegnamento così
rivoluzionario e a volte così rivoltante per loro. Ma la domanda ancora si
impone: qual è il senso della sua venuta? Il mito vuole che Bodhidharma disse
al momento della sua venuta:
“Lo scopo originario del mio venire in questo paese
E` stato il trasmetter la Legge per la salvazione dei confusi;
Un fiore dai cinque petali si è dischiuso,
E i frutti verranno da sé”.
Ma ancora la domanda si fa presente. Questa domanda si interroga sul senso di
questo inizio storico, sul senso dello Zen stesso, sebbene lo Zen sia al di
sopra delle relazioni storico-temporali. Come scrive Oshima, “Bodhidharma lebt
oder kann zum Leben erweckt werden insofern, als wir nach dem Sinn seines
Kommens vom Westen her fragen” . Ma tornare sempre a chiedersi e a
interrogarsi significa per lo Zen tornare al punto di partenza. In questo
domandare dello Zen sul senso stesso dello Zen, quindi, per quanto abbiamo
appena affermato, in questo continuo ritornare al punto di partenza, ricorda
certo il domandare della filosofia stessa, quando “il cammino nella direzione
di ciò che è degno di essere domandato non è un’avventura, ma un ritorno in
patria” .
Quando un monaco chiese al maestro Johshu (778-892): “Perché Bodhidharma è
partito per l’Oriente?”, il maestro rispose: “La quercia in giardino”.
Questa risposta funge da Koan, come tema di meditazione. (Da un punto di vista
tecnico, il koan assegnato al non iniziato ha la funzione di far morire la mente
calcolatrice. L’intento supremo è andare al di là dei limiti
dell’intelletto. Il koan resiste ad ogni tentativo di soluzione compiuto in
condizioni facili. Ma, una volta risolto, il koan viene spesso paragonato ad un
mattone usato per bussare alla porta: quando la porta si apre, il mattone viene
gettato via).
Ma che tipo di risposta è “la quercia in giardino”? E` essa innanzitutto
una risposta? Dobbiamo piuttosto dire che la corrispondenza necessaria di
domanda e risposta viene a cadere. Se volgiamo ora lo sguardo per un istante
soltanto in Der Sartz vom Grund, troviamo una strana e inattesa corrispondenza
tra questo domandare del buddhismo Zen e l’argomentare di Heidegger. Infatti a
pagina 77, Heidegger prende in considerazione un detto di Silesio:
«La rosa è senza perché; fiorisce poiché fiorisce,
di sé non gliene cale, non chiede d’esser vista».
Secondo quanto chiarisce Heidegger, la rosa è senza perché. Infatti nel
“perché” noi ci allontaniamo dal fondamento, dall’essere. E` invece
presente il “poiché”. In esso “ci abbandoniamo alla cosa fondata;
affidiamo la cosa a se stessa e al modo in cui il fondamento, dandole
fondamento, lascia semplicemente essere la cosa che é” . Sembra dunque che
Heidegger ci inviti ad adottare questo modo di pensare che è quello che poc’anzi
abbiamo chiamato “meditante”. Letto “buddhisticamente”, questo detto di
Silesio ripreso da Heidegger potrebbe quasi fungere da Koan, ed esso avvicina
sempre più la nuova via di pensiero di Heidegger a quella orientale, senza per
forza essere ancora la stessa via.
Noi in questa breve indagine, non vogliamo addentrarci sul senso della domanda e
della risposta . Comunque, quando questa domanda “perché Bodhidharma è
partito per l’oriente” viene posta, colui che interroga intende penetrare
nel significato interiore dell’insegnamento di Bodhidharma, che si ritiene
trasmesso spiritualmente ai suoi successori. Ma la domanda vuole indagare
soprattutto su quale sia il messaggio del primo maestro Zen, ossia qual è
l’essenza del Buddhismo così come la intendeva il primo patriarca del
Buddhismo Zen . Ma ciò che ci interessa maggiormente è notare come con la
venuta storica di Bodhidharma si dia inizio all’altro inizio del pensiero.
L’altro inizio che da subito ci fa soggiornare nei pressi della verità, poiché
la venuta di Bodhidharma, qualsiasi sia la risposta possibile, simboleggia la
verità del buddhismo Zen. L’altro inizio si impone ed è, come risponde
Suzuki alla domanda, “inevitabile” . In questo evento particolare della
storia del pensiero orientale è interessante notare alcuni punti.
Secondo Heidegger, la tradizione indiana è da annoverare nella tradizione
metafisica, non perché essa faccia sua la nostra storia occidentale , bensì il
linguaggio indiano antico (sanscrito) è una lingua indo-europea e quindi, un
pensiero nato da un linguaggio indo-europeo, non può non essere irretito nella
metafisica. Per questo motivo, Heidegger non si interessò mai a questa
tradizione di pensiero, in quanto, seppur diversa dalla nostra tradizione, essa
è comunque nella sua essenza metafisica . Eppure Bodhidharma in quanto
ventottesimo Patriarca indiano, era egli stesso immerso nel pensiero
tradizionale buddhista. Anzi, egli era il depositario di questa tradizione.
Nonostante ciò, con la sua venuta in Oriente, attraverso il suo viaggio verso
l’Oriente, egli dà inizio al Buddhismo-Zen, cioè a un pensiero altro
rispetto alla tradizione. Con la sua partenza egli rende possibile l’altro
inizio. Infatti, come scrive Suzuki, “...ecco che interviene lo Zen, a far
daccapo tabula rasa, a dichiarare l’inutilità di questi sottoprodotti, a
proclamare la dottrina del satori” . Per i nostri intenti, in questo capitolo,
non ci interessa sapere “come” è stato possibile quest’altro inizio, per
altro come ha scritto Suzuki, inevitabile. Per noi è importante constatare che
quest’altro inizio si è dato. L’interesse di Heidegger per l’Oriente, e
in particolare in questo caso per il Buddhismo-Zen, sta a mio modo di vedere
anche in questo tratto fondamentale della storia del pensiero Buddhista.
Infatti, egli non si interessò mai alla tradizione di pensiero iniziata dal
Buddha storico, in quanto, come ho già avuto modo di spiegare, l’insegnamento
del Buddha rientrava comunque all’interno di ciò che possiamo definire
metafisico. L’interesse per l’Oriente è stato invece destato in Heidegger
proprio dal Buddhismo-Zen. Con questo non voglio sicuramente affermare che
l’altro inizio del pensiero occidentale debba essere pensato buddhisticamente.
Sarebbe ingenuo da parte nostra pensare a una simile interpretazione. Ciò che
in questo capitolo mi premeva dire o comunque accennare, e che funge inoltre da
ipotesi del mio intero lavoro, è che Heidegger durante tutta la sua attività
pubblica ha sempre volto il suo sguardo parallelamente verso l’Oriente non per
plagiare il pensiero Orientale, e quindi per cercare nell’altro pensiero
l’altro inizio, bensì perché un confronto (che è durato per l’intero arco
della sua attività) con altre tradizioni di pensiero potesse in qualche modo
aiutarlo nella sua indagine e nel suo proseguio del cammino. Quando infatti
Heidegger afferma, leggendo testi di Suzuki che quello che Suzuki ha scritto non
è altro che quello che da sempre lui avrebbe voluto dire, significa che,
nonostante l’oggetto delle loro indagine fosse diverso, il pensiero è
comunque in cammino, sia in Oriente che in Occidente. La questione fondamentale
che ora si impone è se Occidente e Oriente siano sulla Via della stessa
esperienza dell’essere. In questo interrogativo si gioca quello che Nishida
mette in scena, cioè la possibilità di una Cultura mondiale.