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Il monaco di Bangkok (L’incontro di Heidegger con Maha Mani) (a cura di Carlo Saviani)
Si
presenta qui un brano del capitolo che nella sua appassionata e dettagliata
biografia di Martin Heidegger (Auf
einen Stern zugehen. Begegnungen mit Martin Heidegger 1929 bis 1976,
Societäts-Verlag, Frankfurt a. M. 1983, pp. 179-191), Heinrich Wiegand Petzet
dedica ai rapporti tra il pensatore tedesco e la cultura estremo-orientale. Per
un’introduzione storica e teoretica a questo tema si rimanda a Carlo Saviani, L’Oriente
di Heidegger, il melangolo, Genova 1998.
[…]
Io ho vissuto in modo diretto ed indimenticabile il contatto di Martin Heidegger
con l’essenza dell’Oriente. Ciò accadde in occasione della visita che gli
fece a Friburgo un monaco buddhista venuto dalla Tailandia. Ci fu un colloquio,
organizzato dal Südwestfunk, tra
filosofo e monaco. È stata una delle rarissime occasioni in cui Heidegger
(controvoglia, perché in fondo contro le sue interiori convinzioni) si sia
esposto a questa forma di accesso al pubblico. Attraverso la registrazione e la
trasmissione dagli studi televisivi di Baden-Baden, la visita fu divulgata. Ma
quel che rimase ignoto fu, molto più importante, il colloquio di Friburgo.
L’incontro
si divise in due parti: l’ora messa in onda dalla televisione a Baden-Baden e
il precedente colloquio tenuto per più ore nella casa a Zähringen, in stretta
riservatezza. Solo perché quest’ultimo era andato così inaspettatamente
bene, Heidegger accolse la richiesta fatta dal monaco di un altro colloquio,
questa volta ripreso dalla telecamera, per una registrazione destinata
innanzitutto ai buddhisti tailandesi. Ma la ripetizione, con domande e risposte
testualmente prefissate, risultò, come quasi sempre in tali casi, solo uno
sbiadito riflesso del primo, spontaneo colloquio che si era svolto senza previ
accordi. In entrambe le occasioni fui presente, su richiesta di Heidegger. Così,
durante un breve tè in un hotel di Baden-Baden prima della registrazione
televisiva, anch’io ascoltai parlare il monaco, stupito per le moltissime
impressioni ricevute in Occidente, proprio per quel che gli era stato mostrato
con orgoglio come delle ‘conquiste’. Ricordo in particolare la sua amarezza
per gli ‘alloggi-deposito’, che si sono costruiti in Germania per anziani e
bambini, per disfarsene. Come i bambini appartengono alla cerchia della famiglia
(e non dei ‘giardini d’infanzia’), così vale anche per gli anziani, alla
cui vita vissuta si dovrebbe rispetto e dalla cui esperienza i giovani
dovrebbero trarre profitto. Anche da loro a Bangkok c’era una ‘casa di
riposo’, ma vuota, perché nessuno voleva e poteva ‘scansare’ gli anziani,
senza tirarsi addosso il disprezzo altrui. Che differenza!
Bikkhu
Maha Mani, sui trent’anni, figlio di un contadino tailandese, influente
monaco del più antico dei templi di Bangkok, docente di filosofia e
psicologia nella locale Università buddhista, luminare della sua scuola
conventuale e importante punto di riferimento per le più alte personalità
spirituali dell’Oriente, era stato incaricato dalla Radio del suo Paese di
realizzare trasmissioni sui suoi insegnamenti, fra le quali la richiestissima
‘ora di luce del Buddha’. Per conoscere meglio l’attuale vita occidentale,
Maha Mani era stato inviato in Europa. Egli affrontò i fenomeni dell’èra
tecnologica e delle sue problematiche con totale disinvoltura, convinto che la
tecnologia dovesse condurre ad un vita migliore, a patto di servirsene con
misura e di non lasciarsene asservire. Interpretava la televisione come un
invito all’élite di ogni Paese a rivolgersi a quanta più gente possibile.
Solo in Europa gli apparve chiaro che nella magia esercitata da questo medium
domini anche un pericolo.
I
commenti del monaco, i suoi brevi colloqui durante il viaggio con lavoratori,
propri connazionali, studiosi, ecclesiastici e funzionari sono stati allora
commercializzati come una delle solite ‘trasmissioni culturali’. Ma,
malgrado l’interesse che il monaco provava per le fabbriche e le istituzioni
che gli venivano mostrate, in fondo era solo per
un incontro che era venuto in Germania. Voleva conoscere il
filosofo che secondo la sua opinione aveva pensato e detto tra tutti i
contemporanei le cose più profonde a proposito della tecnica. E costui era
Martin Heidegger.
Mi
sono sfuggiti i dettagli dell’accordo che Heidegger aveva preso con l’ente
radio-televisivo, una volta superate molte difficoltà per un colloquio
televisivo. Il fatto che comunque si mise a disposizione era senza dubbio
ascrivibile solo alla sua antica propensione per il mondo spirituale
dell’Oriente. Io stesso rimasi alquanto stupito, quando seppi dell’accordo
con Baden-Baden. Comunque, Heidegger volle prima conoscere il monaco e
accordarsi con lui su quel che bisognava dire davanti alla telecamera. Questo
colloquio di Friburgo ebbe luogo un pomeriggio a Zähringen. Con un rispettoso
inchino, Heidegger accolse il suo ospite sulla soglia dello studio. Sicuramente
la signora Elfride aveva preparato un piccolo rinfresco, un tè, ma non ricordo
se il monaco prese qualcosa. Osservava solo l’uomo di fronte al quale ora
stava seduto, dal quale l’aereo lo aveva portato attraversando mezzo mondo. Si
notò subito che questa visita fosse il culmine e il motivo principale del suo
viaggio. Qui segue il resoconto del colloquio, redatto la sera stessa.
Il monaco indossa una semplice toga di lino, color rosa (che, si dice,
denota il rango più alto del suo ordine monastico). Questa ricorda la toga
dell’antichità, ugualmente rivolta all’indietro sulla spalla destra.
Cammina a piedi nudi, in leggerissimi sandali aperti, che lasciano liberi piede
e malleolo; i piedi sono minuti quanto le mani dalle delicate dita. Quando le
muove dalla loro posizione di riposo, formano gesti densi di significato, ma
privi di pathos, per nulla studiati. Talvolta, la mimica si eleva ad una grande
forza espressiva, ma ciò avviene solo due o tre volte durante l’intero
colloquio. Indimenticabile un piccolo movimento: l’indice destro si muove
orizzontalmente verso l’esterno a partire dalla coda dell’occhio destro. Una
leggerissima ruga appare sulla fronte quando la resa dell’interprete non è
del tutto comprensibile.
Il
colloquio non è mai condotto ad alta voce, neanche nei momenti più intensi in
cui Heidegger arriva quasi ad agitarsi. La voce del monaco rimane insieme
moderata, chiara e piena di gentilezza. Non rivela nulla dell’emozione che,
come risulta da alcune parole verso la fine, invade anche il monaco. Egli ha
atteso quest’ora come il culmine del suo viaggio.
Il
colloquio inizia in modo completamente diverso da come potrebbe iniziarne uno
con un visitatore europeo o americano. Questi formulerebbe subito le sue
domande, rivolgendosi ad Heidegger press’a poco così: “Cosa pensa del
rapporto tra religione e umanità?” (Così fu formulato in un primo tempo il
tema nel Südwestfunk per la
trasmissione rifiutata da Heidegger.)
Il
monaco invece tace. All’ingresso dello studio i suoi occhi hanno squadrato lo
spazio senza stupore, ma neanche curiosità. Neanche il rotolo cinese appeso
dietro la sedia gli strappa una parola. Quale occasione d’incontro sarebbe
stato, secondo la nostra concezione, quel detto di Lao-tzu! E invece egli tace.
Poiché la prima parola spetta al maestro.
Heidegger
e l’accompagnatore del monaco scambiano qualche parola sul modo e la durata di
questo soggiorno. Poiché il monaco non comprende queste frasi in tedesco e mi
guarda in attesa, dopo una pausa gli dico: “Il professore ha appena saputo che
Lei ha già girato un po’ nel nostro Paese e che compie questa visita alla
fine del viaggio”.
Heidegger,
notando che il monaco aspetta una sua parola, gli dice che è certo che il suo
visitatore sia venuto con qualche domanda; al che, l’accompagnatore risponde
di sì, che sono dodici. Lo traduco al monaco, che mi guarda sorridendo e poi si
rivolge ad Heidegger: “No, quindici!” Ridiamo.
Ora
Heidegger prende il filo del discorso e pone la prima domanda, che subito
determina il livello del colloquio. Chiede dell’atteggiamento che il monaco e
il suo popolo in Tailandia assumono nei confronti della moderna tecnica europea:
cosa pensano sia la cosa caratterizzante ed essenziale in questo fenomeno. Il
monaco risponde che non comprende bene la domanda, che a lui interessa solo che
questa cosa sia ‘buona ‘ o no. E aggiunge: “Noi non diciamo mai di no ad
una cosa fin dall’inizio!”
E
Heidegger chiede cosa intenda allora per ‘buono’, se il suo ospite ed egli
stesso intendano la stessa cosa. Già all’inizio, la comprensione diventa
difficile; il traghetto della lingua inglese di parola in parola fa capire
chiaramente quanto sia poco capace, una volta superate le cose più banali.
D’altra parte, il monaco avverte molto bene che qui non c’è posto per le
banalità; spiacente, scuote sempre la testa e mormora che in inglese non
saprebbe trovare nessuna parola sufficiente per quel che vuole chiedere o dire.
Saltando
per il momento la sua prima domanda (sarà poi ripresa in un’altra forma),
Heidegger continua con un’altra: come stanno le cose riguardo al rapporto tra
il pensiero orientale e quello occidentale? Il monaco risponde di vedervi
chiaramente un contrasto decisivo. In cosa consisterebbe?
Heidegger
ritiene che la questione sia chi faccia da mediatore. Dice di essere spesso in
sintonia con Lao-tzu, ma di conoscerlo solo attraverso i traduttori tedeschi, ad
esempio Richard Wilhelm; che, però, l’Oriente ci arriva anche in un’altra
forma. Come arrivano, chiede, le nozioni del pensiero occidentale in Oriente? Il
monaco risponde che ciò accade attraverso libri in inglese; che anche quel che
egli stesso sa di Heidegger gli è pervenuto, accanto a molta oralità,
attraverso pubblicazioni in inglese. Con aria preoccupata, Heidegger dubita che
così la cosa decisiva possa essere tradotta, poiché proprio la lingua inglese
sarebbe assolutamente non filosofica, come il monaco stesso ha poco prima
accennato. Meno filosofica del francese, in cui per esempio si sarebbe potuto
creare un nuovo termine per ciò che
egli intende per ‘essere’.
Il
monaco è d’accordo. Poi chiede cosa sia decisivo nel pensiero di Heidegger,
se sia proprio questo essere, che
differenzia così tanto la sua filosofia da quella di tutti gli altri pensatori
europei. Heidegger risponde di sì: si tratta della questione dell’essere,
dimenticata in Occidente da quasi un millennio e mezzo. (Nel colloquio
televisivo di Baden-Baden, il filosofo lo spiegò di nuovo, dicendo che la
riflessione sulla storia del pensiero occidentale gli aveva mostrato che nel
frattempo questa questione non era stata mai posta. Essa è importante poiché
nel pensiero dell’Occidente l’essere dell’uomo è determinato dal fatto
che questi consiste ed esiste nel rapporto con l’essere, corrispondendo
all’essere; cioè l’uomo è, in quanto corrisponde, è quell’ente
che ha linguaggio. A Heidegger sembra che nell’Occidente, a differenza
della dottrina buddhista, venga posta un’essenziale differenza tra l’uomo e
gli altri esseri viventi, piante ed animali. “L’uomo è caratterizzato dal
fatto che sta in un consapevole rapporto con l’essere”. La questione
dell’essere, finora nascostasi all’uomo, deve ora esser posta per ottenere
insieme una risposta alla domanda su che cosa e chi l’uomo sia.)
Il
monaco ascolta con molta attenzione. Tuttavia gli rimane ancora non chiaro cosa
Heidegger intenda propriamente con ‘essere’.
Allora,
per successive approssimazioni, si tenta di chiarire in cosa si manifesti
l’insufficienza del termine inglese ‘the
Being’. Di una tazza da tè, cerco di dimostrare che si tratta sì di
qualcosa di ‘essente’, ma che in nessuna parte vi può essere colto che cosa
lascia essere l’essente, lo rende
un essente e lo fa apparire in quanto
qualcosa. Heidegger integra tutto questo, osservando che per un occidentale
‘essere’ significa ‘presenzialità’ [Anwesenheit].
Si mostra, però, anche qui che un termine inglese come Presence,
assolutamente non basta ad esprimere tutto ciò che An-wesenheit
significa.
Il monaco registra tutto con molta attenzione, frapponendo un paio di
brevi domande. Si avverte, però, che aspetta ancora qualcos’altro.
Approfitto
di una piccola pausa per rivolgermi al monaco e chiedergli se non sia il caso
che egli d’ora in poi avanzi domande diverse, per non partire solo
dall’Occidente e magari arenarvisi. Allora il monaco mi guarda sorridendo e,
accennando ad Heidegger, dice di aver già posto un’intera serie di tali
domande e di aver ottenuto risposta. Più tardi, Heidegger mi disse: “Lei
aveva completamente ragione con la Sua richiesta; poiché però questi uomini
non numerano mai, non l’abbiamo per
nulla notato, dato che un europeo direbbe ‘per prima cosa’, ‘poi’, ‘in
terzo luogo’ ecc. Ma qui non si dà una ‘sequenza logica’, bensì tutto
viene dall’unico centro”.
Il
monaco riprende il colloquio e chiede in quale senso la tecnica, con la quale
Heidegger intende qualcosa di più e di ben più antico che le macchine, sia
diventata un pericolo per il pensiero dell’europeo.
Heidegger
risponde con una esposizione dell’essenza del carattere europeo, cioè la
scienza occidentale, che in ogni suo ambito particolare è già tecnica. Questa
scienza, che si pone dappertutto tra
l’uomo e ciò che da lui è richiesto, sottrae il terreno all’autentica
domanda del pensiero. Poiché nella scienza si considera sempre solo ciò che è
calcolabile - mentre il pensiero è lontano da ogni calcolo e le sue risposte
non offrono ‘dati’, nel senso delle scienze ...
Il
monaco chiede se ci sia una connessione tra la tecnologia moderna e la
filosofia. Heidegger risponde che sì, c’è una connessione essenziale. Ciò
è dato innanzitutto dal fatto che la tecnica moderna è scaturita dalla
filosofia; dalla filosofia moderna, che per la prima volta ha enunciato il
principio secondo il quale solo ciò che io conosco in modo chiaro e distinto,
cioè con certezza matematica, è reale. È celebre la frase di un fisico
tedesco, Max Planck, che dice: “Reale è solo ciò che è misurabile”.
Questa concezione, secondo la quale la realtà è accessibile agli uomini solo
in quanto misurabile nel senso fisico-matematico, determina l’intera fisica e
l’intera tecnica. E in quanto questa idea fu concepita dapprima dal fondatore
della filosofia moderna, Descartes, risulta del tutto chiara la connessione tra
la tecnica moderna ed il pensiero filosofico.
Nel
prosieguo del colloquio friburghese diventa chiaro che è la separazione tra
soggetto ed oggetto, solidificatasi una volta per tutte nella scienza e che
appare incontestabile, ad impedire l’autentico sviluppo del pensiero. Anche
chi fosse solo sfiorato dal pensiero essenziale ricadrebbe necessariamente
sempre di nuovo nella scissione, che insieme fa apparire scisso l’uomo
occidentale. Noi, Heidegger sottolinea ripetutamente, non siamo veramente
liberi, ma siamo in una prigione che per tutta la vita ci portiamo in giro.
Tutto il suo lavoro di una vita intera, dice, ha riguardato la liberazione da
questa prigione; ma è una lotta contro il predominio di due millenni, a partire
da Platone. Il peso della storia è presente in ogni processo di pensiero. È
proprio questa storia, però, a separarci dal pensiero orientale.
Quando
Heidegger ha taciuto, il monaco dice con molta calma: “Noi non conosciamo
storia. Ci sono solo transiti nel mondo”.
Ancora
una volta, Heidegger sottolinea con forza che questo punto, cioè la differenza
di atteggiamento nei riguardi del mondo, rende impossibile un semplice confronto
di ‘tesi’ filosofiche tra Occidente ed Oriente. Ci si renderebbe colpevoli
di una falsificazione. Poiché i presupposti sono diversi.
Il
monaco ascolta attentamente, quando più oltre il discorso cade sul fatto che le
diverse espressioni della religione e i loro dogmi hanno contribuito ad
ingrandire queste opposizioni. La frattura diventa tanto più visibile per il
fatto che risulta che non c’è in Oriente qualcosa di anche solo
approssimativamente comparabile con la ‘fede’. Il monaco pone ora
marcatamente una domanda, che riporto per la sua importanza centrale:
“Heidegger ritiene più importante erigere un nuovo sistema di pensiero o
potrebbe porre l’accento sulla necessità della religione?”
Dopo
la traduzione in tedesco, propongo ad Heidegger che prima eviti tutto ciò che
è inteso per ‘sistema’. Allora egli dice che in lui non c’è nessun ‘sistema’,
che per lui conta solo la possibilità di seguire e condividere il cammino di
pensiero e che la sola cosa importante è ‘essere-in-cammino’.
Il
monaco mostra un pieno accordo. Poi ripete le due parti della sua domanda.
E
Heidegger chiede con decisione, quasi con passione, cosa il monaco intenda per
religione: dogmi e dottrine o ciò che riguarda la loro origine? (Rivolgendosi a
me, dice: “Lei ora dovrebbe tentare di chiarire la differenza tra
cristianesimo e cristicità”; cosa che risulta difficile.) Ma è un’altra
spiegazione superflua, poiché il monaco dice molto semplicemente che per
religione non intende altro che le dottrine dei fondatori.
Allora
Heidegger, eccitato e molto determinato, replica rivolto a me: “Gli dica che
io una sola cosa ritengo decisiva, seguire le parole del fondatore. Questo solo,
né i sistemi né le dottrine e i dogmi sono importanti. Religione è Imitazione
[Nachfolge]”.
Il
pensatore e il monaco si guardano a lungo in silenzio. Pensiamo tutti alla
stessa cosa: Buddha e Cristo? È il primo momento culmine del colloquio.
Un
momento dopo, di nuovo rilassato, Heidegger mi prega di ripetere ancora una
volta che è stato l’oblìo dell’essere, quella ‘separazione’ e quella
‘prigione’, ad aver chiuso a noi occidentali la sfera del Sacro. (Poiché Holy
è ancora facilmente fraintendibile, nella traduzione si è tentato di partire
dalla parola das
Heile, che tuttavia può esser resa comprensibile solo attraverso molteplici
parafrasi e l’inclusione del concetto di ‘armonia’). “Senza il Sacro,
restiamo senza contatto con il Divino. Senza il tocco del divino, manca
l’esperienza del dio.” E questo, dice, qui nessuno lo comprende.
Il
monaco, che ha guardato con continua attenzione Heidegger, gli dice con calore
(e Heidegger lo comprende senza traduzione): “Venga nel nostro Paese. La
capiranno tutti”. Per un lungo istante si fa silenzio nella stanza.
Heidegger
riprende la questione se sia necessario descrivere una nuova via del pensiero o
se bisogna dare più forte rilievo a ciò che finora è stato annunciato dalla
religione. Egli crede di aver già chiarito in che senso pensa sia necessaria
una nuova via del pensiero: innanzitutto, perché a partire dalla religione la
questione dell’uomo non può esser posta; e poi perché il rapporto
occidentale con la totalità del mondo oggi non è più trasparente, ma confuso.
Per le diverse direzioni della fede della Chiesa, per la filosofia, per la
scienza e per la singolare situazione per cui oggi, nel mondo moderno, si
considera la scienza stessa come una sorta di religione. Il compito oggi posto
al pensiero è nuovo, nel senso che si richiede un metodo [Methode]
totalmente nuovo del pensiero.
Questo
metodo (come Heidegger espose dopo a Baden-Baden) potrebbe essere realizzato
solo nel dialogo immediato da uomo a uomo e attraverso un esercizio per così
dire del ‘vedere nel pensiero’. Questo tipo di pensiero è realizzabile per
il momento solo per pochi uomini, ma potrebbe essere comunicato indirettamente
agli altri uomini attraverso i diversi ambiti dell’educazione. “Le do un
esempio: da noi oggi ognuno può operare con un apparecchio radiofonico o un
televisore, senza sapere quali leggi fisiche ci siano dietro e quali metodi
siano necessari per la ricerca di tali leggi. Metodi che in fondo nel loro vero
contenuto oggi comprendono forse solo quattro o cinque fisici. Tale
è anche al momento la situazione del pensiero. Tale pensiero è forse
così difficile che solo pochi uomini potrebbero esservi educati.”
Allorché
Heidegger lascia per un momento la stanza per andare a prendere un libro
(sebbene il monaco abbia detto che più tardi leggerà volentieri, ma che per
ora non vuole badare a libri: “è così ‘fresco’ parlare con Heidegger!”),
il monaco si rivolge a me: “È un ottimo colloquio! Perché allora il
professore non vuole che arrivi agli altri uomini?” Mi chiede se potrei dirgli
di tenerlo di nuovo in televisione. Così potrebbe
mostrare Heidegger alla sua gente. “Da noi lo si onora molto. Ma qui ho
parlato per strada con molte persone ed ho chiesto cosa pensassero di Heidegger.
Nessuno conosceva questo nome. Perché? Da noi si conosce e si onora il nome dei
sapienti. Ho chiesto anche ad intellettuali, più informati. Ma questo non
importa.”
Heidegger
ritorna in quel momento. Il monaco prende gentilmente il libro offertogli, legge
con attenzione la frase (in inglese) che gli dovrebbe chiarire qualcosa e poi
dice di nuovo direttamente ad Heidegger che sicuramente egli (Heidegger)
ha pensato moltissimo a tutto ciò che riguarda la tecnica (con uno sguardo alla
scrivania, dice: “Ne sono anzi sicurissimo”); ma chiede perché si tenga
riservato e non adoperi strumenti per parlare alla gente semplice? Egli stesso e
i suoi fratelli lo farebbero spesso in Tailandia. Chiede se Heidegger sia così
sicuro di pensare che in ogni essere umano ci sia la disposizione a sviluppare
la capacità umana per il pensiero.
Nella
sua replica (qui integrata dopo la registrazione di Baden-Baden), Heidegger si
ricollega a ciò che ha già detto: affermando che al momento solo pochi uomini
potrebbero apprendere il nuovo pensiero, dice, potrebbe facilmente aver
provocato un fraintendimento, come se questi uomini fossero uomini predestinati.
“In realtà ogni uomo, in quanto essere pensante, può praticare questo
pensiero. Ma nel nostro sistema educativo e secondo la nostra storia, solo pochi
uomini sono capaci di acquisire le condizioni di questo pensiero”. L’attività
del pensiero, della quale parla Maha Mani, nel nostro mondo occidentale è
seppellita, ricoperta dalle dottrine sia filosofiche che religiose. “Noi
abbiamo troppa cultura!” Purtroppo, continua, siamo messi in quella prigione,
cosicché per il singolo risulta molto difficile riuscire ad attraversarla.
Ma
è vero, come si dice, che Heidegger sta bene anche nella sua cittadina e che là
parla alla sua gente?
Risponde
di sì, che parla più volentieri a questa, è vero. E il monaco: e se allora
anche gli altri fossero la sua gente? Perché si deve sempre sentire:
“Heidegger! Sì, è però così grande, nessun uomo può capirlo!”, quando
invece in fondo è semplicissimo, se solo lo si ascolta rettamente ... Perché
allora non va ‘tra la gente’?
Heidegger
è visibilmente colpito. Cerca di spiegare che ciò è dovuto a quello sviluppo
del pensiero, prima variamente accennato: la tara prima descritta comporta il
fatto che gli uomini hanno perso la schiettezza del semplice ascoltare (e stare
ad ascoltare); se parlasse per esempio a cattolici, il cattolicesimo come tale
costituirebbe già un ostacolo. Sempre ad esclusione del singolo, che invece
sarebbe improvvisamente colpito ... Anche i migliori teologi, cattolici o
protestanti, prendono da ciò che egli dice sempre solo ciò che a loro va bene,
senza voler vedere il tutto.
Il
monaco ritiene che forse sono importanti proprio questi singoli e che essi sono
dovunque. Ma Heidegger ribatte che li potrebbe raggiungere solo nel colloquio,
non attraverso il medium tecnologico. Qui intervengo io con un’osservazione:
anche nel rivolgersi attraverso conferenze e discorsi, gli è continuamente
accaduto di raggiungere singolarmente un altro - e cito me stesso come esempio.
E poi scrive anche.
Heidegger
sorride. Vuole aggiungere che gli è stato continuamente detto che chi
lo ha ascoltato una volta continua ad ascoltarlo
anche quando lo legge - egli sarebbe
così anche allora presente ... Qui interviene il monaco: egli stesso finora ha
letto poco di Heidegger, altro ne ha sentito dire; e tuttavia lo ha avuto per
guida per tutta l’Europa!
Ma
Heidegger insiste fermamente sul fatto che il mezzo televisivo non è un mezzo
genuino; ciò che vi è detto rimane nel disimpegnato, decade nel travisamento
...
Il monaco non insiste e pone un’ultima decisiva domanda: che cosa,
superando la tara e il pregiudizio, potrebbe ristabilire l’unità al di là
della ‘frattura’? Al che Heidegger risponde che l’unico modo che può
aprire la via è l’abbandono [Gelassenheit]
alle cose e l’apertura al mistero.
Si
riprende il tema, prima solo sfiorato, della religione e del suo fallimento
nell’attuale situazione mondiale. Maha Mani chiede se si debbano ‘abolire’
religione e filosofia,
dato che durante un’esistenza millenaria non hanno saputo portare gli uomini a
vivere in pace gli uni con gli altri. Heidegger respinge decisamente. Dice:
“Non si deve e non si può abolire il pensiero e la fede se in una lunga
storia non hanno raggiunto ciò a cui aspiravano; e non si può perciò abolire
questo pensiero e la fede, se l’essere dell’uomo è finito: l’uomo nel suo
essere è costretto a sempre nuovi tentativi! Proprio nell’epoca attuale posso
pensare che la meditazione su che cosa e chi sia l’uomo è necessaria; oggi,
quando c’è il pericolo che l’uomo sia del tutto consegnato alla tecnica e
da un giorno all’altro sia reso una macchina pilotata.”
Il
monaco, al quale visibilmente interessa la condotta pratica e l’armonia tra
gli uomini, pone ancora una domanda in questa direzione. Heidegger, però, in
base alla nostra complessiva situazione storica e alla divisione degli uomini in
diverse religioni, in diverse filosofie, in diversi rapporti nei confronti della
scienza, dice di non vedere un comune terreno d’incontro spirituale per
comunicare in modo immediato e semplice.
“Noi
dobbiamo, credo, prendere in considerazione una grande differenza esistente tra
un Paese europeo con la sua storia e un Paese come quello in cui Lei ha la sua
patria”. La generalizzata autodeterminazione degli uomini, che è necessaria,
è, secondo lui, resa più difficile dal fatto che oggi non solo in Germania, ma
ovunque in Europa non esiste alcun chiaro, comune, semplice rapporto con la
realtà e con noi stessi. Questa è la grande carenza in cui sta il mondo
occidentale e insieme una ragione della confusione di opinioni nei diversi
ambiti ...
Heidegger
aveva parlato di ‘abbandono’, di ‘apertura al mistero’. Così, alla fine
si parla
dell’essenza della meditazione [Meditation]:
cosa significa per l’uomo orientale? Il monaco risponde del tutto
semplicemente: “Raccogliersi”. E spiega: quanto più l’uomo, senza sforzo
di volontà, si raccoglie, tanto più dis-fa [ent-werde]
se stesso. L’‘io’ si estingue. Alla fine, vi è solo il niente. Il niente,
tuttavia, non è ‘nulla’, ma proprio tutt’altro: la pienezza [die
Fülle]. Nessuno può nominarlo. Ma è, niente e tutto, la piena
realizzazione [Erfüllung]. Heidegger
ha compreso e dice: “Questo è ciò che io, per tutta la mia vita, ho sempre
detto.”
Ancora
una volta il monaco ripete: “Venga nella nostra terra. Noi La comprendiamo”.
Heidegger
è molto scosso. Chiude il colloquio con le parole (rivolte a me): “Le dica
che tutta la mia fama nel mondo non significherebbe per me nulla, se io non
fossi compreso e trovassi comprensione. Di questo non solo sono grato, ma in
questo colloquio ne ho avuto una conferma, quale raramente mi è toccata.”
Entrambi
si alzano e si guardano a lungo. Poi il monaco si inchina profondamente e va
via. Il colloquio è durato più di due ore e si è fatto notte.
Solo lentamente si scioglie la tensione. Gli Heidegger mi pregano di
restare a cena. Prima, devo mostrare alla Signora Elfride dove si trova Bangkok
su di un vecchio atlante scolastico. Poi vengono in luce molte piccole
osservazioni. Heidegger ed io conveniamo sul fatto che il volto del monaco ha
una purezza infantile, tra l’animale e lo spirituale, ma mostrata senza ‘infantilità’,
poiché vi è la più profonda consapevolezza. E che attraverso il viso diventa
visibile la santità di tutta la persona. Meravigliosi i profondi occhi che, a
differenza dei giapponesi, guardano dritto negli occhi. Nessun dualismo tra
spirito e sensi. La serietà, ma anche la serena allegria: questo resta
indimenticabile.
D’altra
parte, Heidegger ha sentito fortemente che uomini come il monaco non avvertono
neanche ciò che significa realmente l’apparato tecnico che noi usiamo. Essi
lo prendono e lo usano come un martello o un ago. Tanto poco sono impressionati
dalla tecnica occidentale, altrettanto poco sanno cosa accade nella ‘In-stallazione’[Ge-Stell]. Doveva aver ragione. Circa un anno dopo l’incontro con il monaco (o forse di più?), un giorno mi chiamò: aveva da parteciparmi qualcosa di triste. “Il monaco col quale ebbi quel bel colloquio ha abbandonato il suo Ordine e ha assunto un lavoro in una società televisiva americana.”
Da: http://www.storiadellereligioni.it/saviani.htm
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